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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: FEDERICO SORRENTINOPresidente ORONZO DE MASIConsigliere LIBERATO PAOLITTOConsigliere MILENA BALSAMOConsigliere FRANCESCA PICARDIConsigliere-Rel. Oggetto: TRIBUTI ALTRI Ud.17/05/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 18475/2020 R.G. proposto da: INOX VILLA SRL, elettivamente domiciliata in ROMA CIRCONVALLAZIONE CLODIA 36, presso lo studio dell’avvocato VAVALA' RAFFAELE MARIO (VVLRFL55D26I639J), rappresentato e difeso dall'avvocato COPPOLA DANIELA (CPPDNL69D55F205Z) -ricorrente- contro AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587), che la rappresenta e difende -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. LOMBARDIA n. 4185/2019 depositata il 24/10/2019, udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 17/05/2024 dal Consigliere FRANCESCA PICARDI. FATTI DI CAUSA 1. Inox Villa s.r.l. ha impugnato l'avviso di liquidazione emesso dall’Agenzia delle Entrate con riferimento al decreto ingiuntivo del Tribunale di Monza, n. 5316 del 2014, deducendo l’illegittimità della doppia imposizione, in quanto le fatture poste a fondamento del decreto ingiuntivo erano già state assoggettate ad i.v.a., e la carenza di motivazione dell’atto impugnato. 2.Il ricorso è stato accolto in primo grado. Nella sentenza di primo grado si legge che «le fatture .. rappresentano l’unica documentazione commerciale necessaria ai fini processuali, senza che vi sia enunciazione di alcun rapporto» e «che l’atto impugnato si appalesa illegittimo anche sotto il profilo del vizio di motivazione». 3. All’esito dell’appello dell’Agenzia delle Entrate, la sentenza di primo grado è stata riformata. Nella sentenza di appello, previo rigetto dell’eccezione di inammissibilità, si conclude «quando sia enunciato che le fatture derivano da operazioni di fornitura di merci soggette ad i.v.a., operazioni negoziali da registrare in caso di uso ai sensi degli artt. 22 e 40 del d.P.R. n. 131 del 1986, anche tale enunciazione deve essere tassata». 4. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, la contribuente. 5. Si è costituita con controricorso l’Agenzia delle Entrate, che ha eccepito la tardività del ricorso e ne ha chiesto, comunque, il rigetto del ricorso. 6. La contribuente ha depositato istanza di rimessione in termini, allegando di aver avviato il procedimento di notificazione del ricorso per cassazione prima della scadenza del termine, ma di non essere riuscita a completarlo per le modalità organizzative dell’ente destinatario, che, a causa dell’emergenza sanitaria, ha disposto la chiusura dell’ufficio e lo svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti da casa. 5. Risultano depositate la memoria della contribuente e le conclusioni scritte della Procura Generale, che ha chiesto rigettarsi il ricorso. 8.La causa è stata trattata e decisa all’udienza pubblica del 17 maggio 2024. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.La contribuente ha dedotto: 1) la violazione e falsa applicazione, ai sensi all'art. 360, primo comma 1, n. 3, cod.proc.civ., degli artt. 22 e 40 del d.P.R. n. 131 del 1986, atteso che il concetto di enunciazione non si esaurisce nella allegazione, quale antefatto, della generica esistenza di un rapporto giuridico, sotteso alle fatture commerciali poste a fondamento del decreto ingiuntivo e che una diversa conclusione non può basarsi sulla circolare n. 34/E del 2001 dell’Agenzia, che non è un atto normativo; 2) l’omesso esame, ai sensi all'art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ., di un fatto decisivo per il giudizio e, cioè, della carenza di motivazione dell’atto impositivo, che non consente di comprendere la quantificazione della somma pretesa – fatto dedotto in primo grado ed oggetto di un motivo del ricorso introduttivo accolto, ma di cui il giudice di appello non ha tenuto conto, nonostante la censura di appello sul punto. 2. In primo luogo la ricorrente va rimessa in termini, ai sensi dell’art. 155 cod.proc.civ. Difatti, le circostanze di fatto allegate e non contestate dalla controricorrente, oltre che confermate dalla documentazione relativa al procedimento di notificazione, hanno determinato la sua decadenza dall’impugnazione per causa ad essa non imputabile. Più precisamente il primo procedimento di notificazione (tempestivamente avviato ed immediatamente rinnovato) non si è positivamente concluso in conseguenza della chiusura al pubblico degli uffici dell’Agenzia delle Entrate, destinataria dell’atto, in considerazione dell’emergenza sanitaria del 2020. Non è, tuttavia, necessaria la concessione di un termine per rinnovare la notifica, essendosi concluso positivamente il secondo procedimento di notificazione immediatamente avviato dalla ricorrente ed essendosi, difatti, costituita la controricorrente. 3. In ordine al primo motivo, avente ad oggetto l’imposta di registro sul rapporto sottostante al decreto ingiuntivo, occorre premettere che la mera enunciazione di un atto soggetto a registrazione in caso d'uso in altro atto registrato, pur non configurandosi, di per sé, come ipotesi di uso ai sensi dell'art. 6 del d.P.R. n. 131 del 1986, ne comporta l'assoggettamento ad imposta a prescindere dall'uso, ai sensi del successivo art. 22 (così Cass., Sez. 5, 29 gennaio 2024, n. 2684, che ha confermato la decisione impugnata, secondo cui andava assoggettato ad imposta il contratto di prestazione d'opera richiamato in un decreto ingiuntivo, pur non costituendo ipotesi di uso del predetto). Va, però, precisato che, per potersi configurare l’enunciazione, è necessario che nell'atto sottoposto a registrazione vi sia espresso richiamo al negozio posto in essere, sia che si tratti di atto scritto o di contratto verbale, con specifica menzione di tutti gli elementi costitutivi di esso che servono ad identificarne la natura ed il contenuto in modo tale che lo stesso potrebbe essere registrato come atto a sé stante. Pertanto, la tassazione per enunciazione non può operare se nell'atto soggetto a registrazione siano menzionate circostanze dalle quali possa solo dedursi che esiste tra le parti il rapporto giuridico non denunciato, essendo sempre necessario che le circostanze enunciate siano idonee di per sé stesse, e, cioè, senza necessità di ricorrere ad elementi non contenuti nell'atto, a dare certezza di quel rapporto giuridico. Nel caso di specie, il giudice di merito ha accertato l’avvenuta enunciazione, precisando che dal decreto ingiuntivo risulta che le fatture derivano da un rapporto di fornitura di merci, i cui elementi sono specificati, sicché il motivo non merita accoglimento e deve essere rigettato. Solo per completezza deve sottolinearsi che l’accertamento di fatto effettuato dal giudice di merito non può essere rimesso in discussione in sede di legittimità e che sul punto non è stata formulata alcuna doglianza riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ. 4. Il secondo motivo di ricorso, formulato ai sensi all’art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ., deve essere riqualificato e ricondotto nell’ambito applicativo dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., visto che denuncia l’omessa motivazione della sentenza impugnata in ordine all’accoglimento (implicito) del motivo di appello formulato dall’Agenzia relativamente alla motivazione dell’atto impositivo. In proposito occorre ribadire che il ricorso, che denunci l’apparente o omessa motivazione, in violazione dell'art. 132 cod.proc.civ., non può essere accolto qualora la questione giuridica sottesa sia comunque da disattendere, non essendovi motivo per cui un tale principio, formulato rispetto al caso di omesso esame di un motivo di appello, e fondato sui principi di economia e ragionevole durata del processo, non debba trovare applicazione anche rispetto al caso, del tutto assimilabile, in cui la motivazione resa dal giudice dell'appello sia, rispetto ad un dato motivo, sostanzialmente apparente, ma suscettibile di essere corretta ai sensi dell'art. 384 cod.proc.civ. (Cass., Sez. L., 1° marzo 2019, n. 6145). La censura deve essere, pertanto, rigettata in applicazione dell’orientamento di questa Corte, secondo cui, in tema di imposta di registro su atti giudiziari, l'obbligo di motivazione dell'avviso di liquidazione, gravante sull'Amministrazione, è assolto con l'indicazione della data e del numero della sentenza civile o del decreto ingiuntivo, senza necessità di allegazione dell'atto, purché i riferimenti forniti lo rendano agevolmente individuabile, e conseguentemente conoscibile senza la necessità di un'attività di ricerca complessa, realizzandosi in tal caso un adeguato bilanciamento tra le esigenze di economia dell'azione amministrativa ed il pieno esercizio del diritto di difesa del contribuente (Cass., Sez. 5, 7 aprile 2022, n. 11283). 5.In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del presente giudizio devono essere integralmente compensate, in considerazione delle specifiche circostanze del caso concreto e del rigetto dell’eccezione pregiudiziale di rito di tardività del ricorso. P.Q.M. La Corte: rigetta il ricorso; dichiara integralmente compensate le spese di questo giudizio; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13. Così deciso in Roma, il 17/05/2024. Il Consigliere estensore Il Presidente FRANCESCA PICARDI FEDERICO SORRENTINO

  • REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto LUCIO NAPOLITANO Presidente LUCIANO CIAFARDINI Consigliere RICCARDO ROSETTI Consigliere UP – 09/05/2024 FEDERICO LUME Consigliere ROSANNA ANGARANO Consigliere rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 28141/2016 R.G. proposto da: FARMA CARMINE PETRONE S.R.L. E FIN POSILLIPO S.P.A. rappresentate e difese dall’Avv. Michele di Fiore ed elettivamente domiciliate presso l’indirizzo pec di quest’ultimo micheledifiore@ avvocatinapoli.legalmail.it – ricorrenti – contro AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato che la rappresenta e difende, – controricorrente – IRAP IRES AVVISO ACCERTAMENTO 2 avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. CAMPANIA n. 6891/2016, depositata il 15 luglio 2016. udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 9 maggio 2024 dal Consigliere Rosanna Angarano; dato atto che il Sostituto Procuratore Generale ha chiesto il rigetto dei primi tre motivi di ricorso e l’accoglimento del quarto. sentiti l’Avv. Michele Di Fiore per i ricorrenti e l’Avv. dello Stato Eva Ferretti per l’Agenzia delle entrate. FATTI DI CAUSA 1. La Farma Carmine Petrone s.r.l. e la Fin Posillipo s.p.a., nelle rispettive qualità di consolidata e consolidante, ricorrono nei confronti dell’Agenzia delle entrate, che resiste con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe. Con quest’ultima la C.t.r. ha rigettato l’appello delle contribuenti avverso la sentenza della C.t.p. di Napoli che, a propria volta, aveva rigettato il ricorso avverso l’avviso di accertamento con il quale, per l’anno di imposta 2008, l’Ufficio aveva recuperato a tassazione un maggiore imponibile. 2. L’Ufficio, con una prima ripresa, riteneva che gli importi erogati per liberalità alla associazione con personalità giuridica «Zia Agnesina», riconducibile alla famiglia Petrone, cui facevano pure capo la società erogante e la sua consolidante, non potessero essere dedotti ai sensi dell’art. 100, comma 2, lett. a) t.u.i.r., in quanto la beneficiaria, di fatto, non svolgeva, né aveva mai svolto, l’attività di assistenza sociale e sanitaria prevista nello Statuto.; con una seconda ripresa, riteneva non deducibili i costi di manutenzione sostenuti su un immobile di proprietà di terzi e detenuto in locazione dalla Farma Carmine Petrone s.r.l. RAGIONI DELLA DECISIONE 3 1. Con il primo motivo (§. 2) le società ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 101, comma 2, lett. a) t.u.i.r. Censurano la sentenza impugnata per aver negato la deducibilità delle erogazioni liberali in favore dell’Associazione «zia Agensina» sul presupposto che quest’ultima avesse utilizzato le somme ricevute per investimenti in strumenti finanziari ed in quanto la somma erogata non era stata effettivamente destinata all’attività solidale. Osservano che il reimpiego delle somme (per la parte eccedente il 12 per cento destinato all’attività solidaristica) in strumenti finanziari non può essere considerato esercizio di ulteriore attività in quanto funzionale a salvaguardarne il valore in attesa dell’utilizzo e valutabile come mera attività di gestione ed amministrazione del patrimonio, non idonea ad integrare un’attività commerciale. Aggiungono che l’utilizzo solo del 12 per cento delle liberalità per lo scopo solidaristico, pure accertato, è circostanza irrilevante in quanto la disposizione non prevede un termine, né l’impiego integrale dei contributi ricevuti. 2. Con il secondo motivo (§ 3) denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 36 d.gs. 29 dicembre 1992, n. 546 e la nullità della sentenza per motivazione apparente e, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 101, comma 2, lett. a) t.u.i.r. Criticano la sentenza impugnata per avere «implicitamente» aderito alla tesi dell’Ufficio secondo la quale le erogazioni ricevute dalla beneficiaria avrebbero dovuto essere impiegate «per intero e subito» e muovono due diverse censure. Con la prima assumono la carenza di motivazione perché resa in forma implicita. In via subordinata osservano che la norma richiamata non richiede un termine entro il quale il beneficiario deve impiegare i contributi ricevuti e non condiziona la deducibilità ad una valutazione 4 quantitativa del raggiungimento delle finalità istituzionali, occorrendo solo che il beneficiario svolga «esclusivamente» l’attività solidaristica; censurano, quindi, la sentenza impugnata per aver ritenuto non sufficiente l’impiego parziale (nella misura del 12 per cento dei contributi ricevuti) a soddisfare il requisito di cui all’art. 100 cit. 3. Con il terzo motivo (§ 4) denunciano in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. In premessa osservano che la statuizione con la quale la C.t.p. aveva affermato l’esistenza di una commistione di interessi tra erogante e beneficiaria ed aveva sostenuto che l’Associazione fosse stata utilizzata dalla famiglia Petrone, cui erano entrambe riconducibili, al fine di abusare del diritto alla deduzione degli oneri, andrebbe valutata alla stregua di obiter dictum; ciononostante, per l’ipotesi subordinata in cui, invece, si ritenesse che detta affermazione fosse espressione di una seconda ratio decidendi, censurano la sentenza impugnata per non essersi pronunciata sul vizio di ultra-petizione, già proposto con l’appello, e motivato in ragione del fatto che si trattava di argomento non speso dall’Ufficio. 4. Con il quarto motivo (§ 5) denunciano, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 109, comma 5, t.u.i.r. Censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la deducibilità delle quote di ammortamento delle spese di ristrutturazione dell’immobile tratto in locazione sul presupposto che, beneficiandone solo il locatore, mancherebbe l’inerenza, la quale ultima, invece, presupporrebbe che i miglioramenti siano eseguiti su immobili destinati all’esercizio di un’attività destinata a produrre utili. Assumono che tale distinzione non è presente nell’art. 109 t.u.i.r. per il quale rileva il solo collegamento funzionale tra spese ed attività 5 che dà luogo ai ricavi e che, diversamente opinando, la norma dovrebbe ritenersi incostituzionale. 5. Va preliminarmente esaminata la prima censura di cui al secondo motivo in quanto con la medesima si denuncia un error in procedendo, ravvisato nella parvenza della motivazione per mero rinvio alla tesi dell’Ufficio; detto vizio, infatti, ove esistente, determinerebbe la nullità della sentenza. La censura è infondata. 5.1. La C.t.r. ha ritenuto, con riferimento alla prima ripresa fiscale, che non sussistevano le condizioni per la deduzione in quanto l’ente beneficiario, costituito nel 1998 dalla famiglia Petrone, non aveva effettivamente destinato le somme erogate all’attività sociale, stante le modalità di utilizzazione di queste ultime. Ha rilevato, infatti, che dal controllo effettuato era risultato che l’Associazione aveva investito la liquidità raccolta in strumenti finanziari; che le spese istituzionali coprivano meno del 12 per cento di quanto incassato nell’anno; che, data la commistione di interessi tra erogante e beneficiario, entrambi facenti capo alla famiglia Petrone, le scelte di gestione delle somme ricevute erano sostanzialmente riconducibili al soggetto erogante. Ha aggiunto che la ratio dell’agevolazione risiedeva nel principio di sussidiarietà e che la deduzione era vincolata all’affettivo beneficio sociale di natura solidaristica. 5.2. La ratio decidendi, così come sopra sintetizzata,sottesa alla statuizione di indeducibilità, non soltanto non risulta esposta in modo implicito, ma nemmeno riproducendo pedissequamente atti dell’Amministrazione. Per altro, questa Corte, a Sezioni Unite, ha anche chiarito che nel processo tributario, così come in quello civile, non può ritenersi nulla la sentenza che esponga le ragioni della decisione limitandosi a riprodurre il contenuto di un atto di parte, eventualmente senza nulla aggiungere ad esso, qualora le ragioni della decisione 6 siano, in ogni caso, attribuibili all'organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d'imparzialità del giudice, al quale non è imposta l'originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, tanto più che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato. Si è precisato, infatti, che una volta assunta la decisione ed individuate le ragioni, giuridiche e di fatto, che la sostengono, deve riconoscersi al giudice la possibilità di esporle nel modo che egli reputi più idoneo - purché in lingua italiana, succintamente ed in maniera chiara, univoca ed esaustiva - perciò anche (se lo ritiene) attraverso le «voci» dei soggetti che hanno partecipato al processo (parti, periti). E può farlo sia richiamando i relativi atti sia direttamente riportandoli (in tutto o in parte) nella sentenza. (Cass. Sez. U. 16/01/2015, n. 642). 6. Il primo motivo e la seconda censura di cui al secondo motivo sono infondati. 6.1. La deducibilità delle erogazioni liberali, ai sensi dell'art. 100, comma 2, lett. a), t.u.i.r., è condizionata, oltre a requisito soggettivo del beneficiario, che deve essere una persona giudica, anche al requisito oggettivo dell’attività svolta da quest’ultimo il quale deve perseguire «esclusivamente» finalità comprese fra quelle indicate nel precedente comma 1, tra le quali, per quanto di rilievo, finalità di assistenza sociale e sanitaria. Tale previsione, come già chiarito da questa Corte, si giustifica in relazione al principio di sussidiarietà, c.d. orizzontale, e costituisce una deroga al principio di inerenza, rendendo deducibili dal reddito di impresa elargizioni, in via di principio, redditualmente non rilevanti. L’elenco degli oneri di utilità sociale deducibili è tassativo atteso che l’art. 100, comma 4, t.u.i.r. stabilisce che le erogazione diverse da 7 quelle di cui ai precedenti commi (e diverse da quelle di cui all’art. 95 comma 1 t.u.i.r. che non rileva nella fattispecie in esame) non sono ammesse in deduzione. Il riconoscimento statutario dell'esclusività del fine costituisce requisito formale necessario, ma non sufficiente, dovendo trovare riscontro nell'effettiva attività svolta dalla beneficiato atteso il carattere eccezionale delle disposizioni derogatorie e la natura della finalità solidaristica, a cui può essere assegnato rilievo solo se sia concreta e non si traduca in una mera enunciazione (Cass. 02/08/2017, n. 19192 e Cass. 12/05/2017 n. 11872 entrambe rese nei confronti delle società contribuenti con riferimento agli anni di imposta 2004 e 2005). Trattandosi di norma agevolativa, l’onere della prova spetta al contribuente che, ai sensi dell'art. 2697 cod. civ., ha l'onere di dimostrare, in seguito alla contestazione dell'Ufficio, i fatti che palesino il raggiungimento dello scopo sotteso all’agevolazione, ovverosia l'effettiva realizzazione dell'intento dichiarato, perché tale intento rappresenta un elemento costitutivo per il conseguimento del beneficio fiscale richiesto (Cass. 24/06/2011, n. 13954). Sebbene la norma non richieda una corrispondenza immediata e diretta tra l’elargizione liberale e l’impiego di una delle finalità di cui all’art. 100, comma 1, t.u.i.r., occorre, tuttavia, che la destinataria svolga concretamente un’attività ivi riconducibile avvalendosi delle erogazioni ricevute. In sintesi, affinché le erogazioni liberali di cui all’art. 100, comma 2, lett. a) t.u.i.r. siano deducibili, occorre, non soltanto il riconoscimento statutario dell'esclusività del fine, ma anche l’effettivo svolgimento di attività funzionale alla sua realizzazione. 6.2. La C.t.r. si è attenuta a questi principi in quanto, dopo aver rilevato che l’Associazione beneficiaria aveva destinato i capitali raccolti solo in via irrisoria alla realizzazione delle finalità sociali, 8 reinvestendone la gran parte in strumenti finanziari, ha escluso che dette modalità fossero rispettose del dettato di cui all’art. 100 t.u.i.r. in quanto incompatibili con l’effettiva destinazione all’attività sociale. 6.3. Vanno disattese, pertanto, le considerazioni dei ricorrenti secondo il quale la norma in esame non imporrebbe né un limite quantitativo di utilizzo delle elargizioni né un termine né, tanto meno, imporrebbe all’erogante di controllare l’utilizzo delle somme da parte del beneficiario. Gli argomenti non colgono la ratio della sentenza impugnata che, in una valutazione complessiva dell’attività svolta dalla beneficiaria, sin dalla sua istituzione risalente al 1998, ha escluso che quest’ultima svolgesse concretamente quella per la quale era stata costituita. Il riferimento al dato temporale, alle risorse, minime, impiegate per i fini statutari, all’impiego massiccio delle elargizioni in investimenti finanziari, non può essere inteso nel senso che la C.t.r. abbia posto dei limiti per il perseguimento del fine, non previsti dalla norma: piuttosto, si tratta di argomenti evidentemente volti a corroborare l’assunto secondo il quale l’Associazione non svolgeva, e non aveva mai svolto, l’attività di utilità sociale in ragione della quale si giustificava la deduzione del reddito. Inoltre, le censure di parte contribuente sollecitano una rivalutazione del ragionamento decisorio che ha portato il giudice del merito ad escludere che la beneficiaria avesse concretamente svolto l’attività sociale di cui allo statuto. Così facendo, parte ricorrente, pur deducendo apparentemente, una violazione di norme di legge, mira, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass. 04/07/ 2017, n. 8758). Oggetto del giudizio che si vorrebbe demandare a questa Corte non è l’analisi e l’applicazione delle norme, bensì l’apprezzamento delle 9 prove, rimesso alla valutazione del giudice di merito (Cass. 13/05/2022, n. 17744, Cass. 05/02/ 2019, n. 3340; Cass. 14/01/2019, n. 640; Cass. 13/10/ 2017, n. 24155; Cass. 04/04/2013, n. 8315). Quanto poi, alla tesi del contribuente secondo cui la C.t.r. avrebbe posto a carico del beneficiante un onere di controllo dell’attività del beneficiato, basti osservare che è la stessa disposizione dell’art. 100 t.u.i.r. a prevedere il requisito oggettivo in capo a quest’ultimo. 7. Il terzo motivo è inammissibile. La ricorrente assume che il giudice del primo grado, nell’escludere la deduzione ravvisando la fattispecie dell’elusione fiscale, abbia reso un obiter dictum; che, tuttavia, ove l’affermazione possa essere valutata alla stregua di ratio decidendi, la sentenza della C.t.r. sarebbe viziata per non aver scrutinato il motivo di appello con il quale si era dedotto che la C.t.p. era andata ultrapetita. Il motivo, tuttavia, censura una statuizione della sentenza di primo grado che, con specifico riferimento alla ricostruzione di una fattispecie elusiva, non risulta riprodotta nella sentenza di secondo grado con la quale, invece, il ricorrente non si confronta. 8. Il quarto motivo è fondato. 8.1. Le Sezioni Unite della Corte sono intervenute sulla questione della detrazione dell’Iva con riguardo a lavori di manutenzione o ristrutturazione su immobili di terzi e condotti in locazione ed hanno affermato che deve «riconoscersi il diritto alla detrazione Iva per lavori di ristrutturazione o manutenzione anche in ipotesi di immobili di proprietà di terzi, purché sia presente un nesso di strumentalità con l'attività d'impresa o professionale, anche se quest'ultima [...] non abbia poi potuto concretamente esercitarsi» (Cass. Sez. U. 10/05/2018 n. 11533). Le medesime considerazioni, tuttavia, sono valide anche ai fini delle imposte dirette, dovendosi considerare unitario – per la sua derivazione 10 dalla nozione di reddito d'impresa – il principio di inerenza dei costi. Pertanto, l'esercente attività d'impresa o professionale può dedurre dai redditi d'impresa i costi occorsi per i lavori di ristrutturazione o manutenzione di un immobile condotto in locazione, anche se si tratta di un bene di proprietà di terzi, purché sussista il requisito dell'inerenza, avente valenza qualitativa, e quindi da intendersi come nesso di strumentalità, anche solo potenziale, tra il bene e l'attività svolta (Cass. 27/09/2018, n. 23278). 8.2. La C.t.r., nell’escludere l’inerenza dei costi all’attività di impresa nell’ipotesi di immobili detenuti in locazione, assumendo che in tal caso l’unico beneficiario sarebbe il locatore, non si è attenuta a questi principi. 9. In conclusione, va accolto il quarto motivo di ricorso, rigettati il primo ed il secondo e dichiarato inammissibile il terzo; la sentenza impugnata va cassata quanto al motivo accolto con rinvio alla Commissione tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, che si pronuncerà anche sulle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il quarto motivo ricorso, disattesi gli ulteriori; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, alla quale demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, 9 maggio 2024. Il Consigliere est. Il Presidente (Rosanna Angarano) (Lucio Napolitano)

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2357 del 2024, proposto da: Co. Consorzio Ge. In., in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pa. Ce., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; contro Comune di Caserta, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pa. Ma., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; nei confronti Sa. - Se. per l'a. S.r.l., in liquidazione, non costituita in giudizio; per l'annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sezione sesta, n. 1272/2024. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Caserta; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 105, comma 2 e 87, comma 3, cod. proc. amm.; Relatore il Cons. Laura Marzano; Uditi, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, l'avvocato Pa. Ce. e l'avvocato Ma. Me. in sostituzione dell'avvocato Pa. Ma.; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Co., Consorzio Ge. In. in liquidazione (per brevità "Consorzio"), ha impugnato la sentenza n. 1272 del 26 febbraio 2024 con cui il Tar Campania, sezione VIII, ha dichiarato il difetto di giurisdizione sul ricorso, integrato da motivi aggiunti, proposto per l'annullamento dell'ordinanza del comune di Caserta n. 54542 del 3 maggio 2023 di sgombero e rilascio del compendio immobiliare denominato "parcheggio interrato di Piazza (omissis)" ubicato in Caserta, al Viale (omissis) e della nota n. 61752 del 19 maggio 2023 a firma del dirigente ing. Lu. Vi.. Il Comune appellato si è costituito nel presente grado di giudizio eccependo l'inammissibilità dell'appello. Alla camera di consiglio del 28 maggio 2024, sentiti i difensori presenti, la causa è stata trattenuta in decisione. Devono essere tratteggiati i fatti di causa. 2. Il Consorzio, costituito nel 1990, a seguito di procedura ad evidenza pubblica si è aggiudicato il servizio di progettazione, costruzione e successiva gestione - in regime di concessione - dell'infrastruttura di parcheggio sotterraneo attualmente ubicata sotto il piazzale del museo Reggia di Caserta. Il comune di Caserta, nella qualità di ente procedente, avendo adottato i provvedimenti volti a regolare i rapporti e le obbligazioni tra le parti, affermava di avere disponibilità dei luoghi e di essere titolare del potere di definirne la destinazione e l'utilizzo. L'amministrazione comunale, infatti, promuoveva e ratificava ogni iniziativa relativa all'utilizzo e alla destinazione ad uso pubblico del bene. In virtù di tanto, la società realizzava l'infrastruttura e ne avviava la gestione, proseguita negli anni fino ad oggi. Nello specifico, la vicenda ha avuto il seguente svolgimento. Con delibere CIPE del 3 agosto 1988 e 29 marzo 1990 venivano stanziati i fondi relativi alla realizzazione dei progetti per due parcheggi sotterranei da ubicare in via (omissis) ed in piazza (omissis) a Caserta. Con successiva delibera del Consiglio comunale n. 106 del 18 ottobre 1990, integrata con delibera di Giunta n. 807 del 21 giugno 1991, l'amministrazione decideva di unificare i due parcheggi e deliberava di affidare la realizzazione del Piano parcheggi e viabilità connessa all'Associazione te. d'I. costituita dalla società It. spa (subentrata all'I. spa, entrambi soggetti interamente pubblici) e dal Consorzio CO.: in esecuzione delle menzionate delibere il comune di Caserta, con atto notarile n. 76636 del 10 ottobre 1991, stipulava apposita convenzione con la suddetta ATI. Con convenzione n. 197/90, stipulata il 13 marzo 1992 tra il comune di Caserta e l'Agenzia per la promozione dello sviluppo del mezzogiorno, veniva finanziato il progetto per la realizzazione del parcheggio sotterraneo sito in Caserta, alla piazza (omissis). In particolare, in tale atto il comune di Caserta assicurava, sotto la propria responsabilità, che "per l'esecuzione dell'opera come risultante dal progetto esecutivo non sussistevano impedimenti di sorta per l'espletamento di tutti gli adempimenti di legge e regolamentari per consensi, autorizzazioni, permessi, pareri di qualunque Autorità, di Enti o di terzi comunque in causa per le opere di che trattasi". Nella stessa convenzione era previsto, all'art. 2, che "il Concessionario provvederà in primo luogo alla realizzazione ed alla successiva gestione del parcheggio ubicato in Piazza (omissis), quale risulta dall'unificazione dei precedenti progetti di due distinti parcheggi in Piazza (omissis) e Via (omissis) ai sensi della predetta delibera consiliare del 18 ottobre 1990, n. 106". Ancora prima del completamento delle opere il comune aveva richiesto al Consorzio di avviare le attività di gestione del parcheggio ed aveva riconosciuto in favore di quest'ultimo il diritto al rimborso di alcuni oneri conseguenti alla gestione in perdita dello stesso. Nell'attesa della sottoscrizione degli atti aggiuntivi alla convenzione di concessione, su espressa richiesta del comune, nel 2001, veniva avviata la gestione provvisoria del parcheggio. L'amministrazione comunale, tuttavia, non provvedeva a stipulare gli atti aggiuntivi previsti dall'atto di concessione, né si adoperava per costituire il diritto di superficie previsto in convenzione, talché il Consorzio - viste le difficoltà finanziarie causate dai ritardati pagamenti da parte del comune - era costretto a sospendere la gestione del parcheggio. Il comune di Caserta richiedeva però immediatamente la riattivazione del servizio, ritenendo "assolutamente necessario che tutte le attività connesse alla gestione del parcheggio non vengano interrotte". In particolare, con nota del 28 aprile 2008, il comune rappresentava al consorzio appellante che "data la complessità del rapporto e le notevoli implicazioni che la gestione del parcheggio comporta nel sistema della mobilità cittadina appare non opportuno prevedere la sua chiusura". A seguito di numerosi solleciti volti a compulsare la costituzione del diritto di superficie, con Protocollo di intesa del 21 luglio 2009, il comune di Caserta e il Demanio si impegnavano ad effettuare una permuta di edifici ed aree delle loro rispettive proprietà : tra i beni oggetto dell'accordo figuravano anche cui l'area denominata "campetti antistanti la Reggia" e il "sottostante parcheggio interrato a due piani", che venivano inclusi tra i beni demaniali da trasferire all'ente locale. Solo in quel momento emergeva, dunque, che il comune di Caserta, fin dagli anni '90, aveva compiuto atti di disposizione di un suolo di proprietà del demanio statale e che, in assenza di un trasferimento da parte dello Stato, il comune mai avrebbe potuto legittimamente costituire il diritto di superficie in favore del concessionario, né adottare una serie di provvedimenti relativi alla definizione dei rapporti con il concessionario. In data 5 giugno 2012, il comune di Caserta trasmetteva al concessionario una nota con cui l'Agenzia del demanio aveva richiesto al comune "la riconsegna del menzionato complesso demaniale libero di persone e cose". Con successivo provvedimento prot. n. 61463 del 31 luglio 2012, il comune di Caserta disponeva "di annullare l'atto di concessione della gestione del parcheggio; di dichiarare che tale atto è comunque nullo per le ragioni sopra indicate; di dichiarare risolta e comunque priva di validità e di effetti, per le ragioni di cui in premessa, la convenzione del 1991; in ogni caso, per le ragioni indicate nel paragrafo sugli inadempimenti e sulle violazioni del Consorzio Co., di dichiarare la decadenza della concessione di gestione e della convenzione accessiva; di ordinare al Consorzio Co. di liberare il parcheggio sotterraneo di piazza (omissis) e di restituirlo al Comune di Caserta entro 60 giorni dalla notifica e comunicazione del presente provvedimento; di riservarsi ogni determinazione in ordine ai rapporti patrimoniali con il Consorzio Co. all'esito di una più approfondita verifica anche in ordine allo stato del parcheggio al momento della sua restituzione". In sintesi, l'Agenzia del demanio, in qualità di proprietaria dei suoli, chiedeva la riconsegna dell'immobile; viceversa, il comune ne chiedeva la restituzione in proprio favore. Di fatto, nella vigenza del rapporto concessorio con il comune di Caserta e stante la confusione circa la proprietà del bene alla luce del Protocollo di intesa del 2009, il concessionario non avrebbe potuto retrocedere l'infrastruttura ad un ente terzo, pena la violazione degli obblighi contrattualmente assunti con la convenzione stipulata nel 1991. La situazione restava invariata sino al 2017, allorquando - nella pendenza di alcuni giudizi - l'Agenzia del demanio dava parere favorevole al trasferimento della proprietà in favore del comune di Caserta, che dava atto dell'acquisizione del bene al proprio patrimonio con delibera consiliare del 12 luglio 2017, n. 71. Poco dopo, con delibera del Consiglio comunale n. 24 del 17 aprile 2018, il comune di Caserta approvava il "Piano delle Alienazioni e delle Valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile non strumentali all'esercizio delle funzioni istituzionali", inserendo tra gli immobili suscettibili di alienazione l'infrastruttura adibita a parcheggio ed oggetto del provvedimento per cui è causa. La pendenza del contezioso in ordine alla legittimità dell'annullamento in autotutela dell'atto di concessione - conclusosi solo nell'anno 2021 - e l'incertezza sulla validità o meno degli impegni contrattuali assunti, hanno impedito al concessionario (ma anche al comune) di assumere determinazioni in ordine al rilascio dell'infrastruttura, perdurando la vigenza degli impegni contrattuali - la cui nullità è stata accertata in via definitiva solo nel 2021 - che imponevano la prosecuzione nella gestione per ragioni di interesse pubblico. Il comune, peraltro, dall'avvenuta adozione del menzionato provvedimento di annullamento in autotutela del 2012 fino alla notifica dell'ordinanza di sgombero oggetto del presente giudizio - dunque per oltre 10 anni - ha consentito la prosecuzione della gestione dell'infrastruttura, pur avendo annullato l'atto concessorio. Il provvedimento di annullamento in autotutela veniva impugnato innanzi al Tar Campania il quale accertava che l'amministrazione comunale di Caserta non aveva titolo per disporre delle aree in questione e che pertanto tali beni erano insuscettibili di formare oggetto di atti di disposizione materiale e giuridica da parte del comune stesso: pertanto con sentenza n. 2661 del 14 maggio 2014, il Tar respingeva il ricorso e affermava, tra l'altro che "le obbligazioni assunte dal Comune concedente in ordine alla costituzione di un diritto di superficie, indispensabile per la costruzione e la successiva gestione del parcheggio, hanno geneticamente un oggetto giuridicamente impossibile, attesa la natura demaniale dell'immobile, non rientrante nella disponibilità dell'ente comunale. Pertanto, la relativa convenzione risulta affetta da nullità per impossibilità dell'oggetto, in base agli artt. 1418 e 1346 c.c." e osservava che "il comportamento delle amministrazioni dello Stato nel corso degli anni, pur manifestando la conoscenza dell'iniziativa fin dalla sua origine, palesa una tollerante inerzia per le iniziative del Comune e, tutt'al più, la disponibilità ad esplorare possibili soluzioni, senza tuttavia mai pervenire all'adozione di atti definitivi dai quali sia possibile evincere una manifestazione espressa di volontà equipollente ad una cessione o concessione dell'area in questione". In sintesi, il Tar Campania affermava la legittimità del provvedimento di annullamento in autotutela stante la indisponibilità del bene oggetto di convenzione e accertava che tale circostanza era ben nota a tutte le amministrazioni resistenti fin dal momento della stipula della convenzione con il concessionario. La sentenza veniva sostanzialmente confermata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 5231 del 24 luglio 2019, ancorché con motivazione parzialmente diversa da quella del primo giudice. Ulteriore conferma della statuizione avveniva a seguito di ricorso per cassazione, concluso con ordinanza di rigetto n. 36595/2021. In definitiva, all'esito dell'intero contenzioso, veniva accertato che il comune non aveva disponibilità delle aree oggetto di affidamento in concessione e che pertanto la progettazione, costruzione e gestione del parcheggio era avvenuta, ab origine, sine titulo. A seguito della cessazione del rapporto concessorio e fino all'adozione dell'ordinanza impugnata nel primo grado di giudizio, il comune di Caserta non ha assunto determinazioni chiare in ordine alla natura e all'uso cui intende destinare il bene. Il parcheggio, infatti, è stato inserito tra gli immobili suscettibili di alienazione e facenti parte del patrimonio disponibile non strumentale all'esercizio di funzioni istituzionali. Il nuovo Piano delle alienazioni e valorizzazioni adottato nel mese di gennaio 2022 e relativo al triennio 2022-2024 ha poi qualificato il bene come suscettibile di valorizzazione. L'infrastruttura, in seguito, è stata sottoposta a procedura esecutiva da parte della società Sa. in liquidazione, che vantava crediti nei confronti del comune per un ammontare complessivo di circa 43 milioni di euro ed aveva pertanto individuato nell'area in questione il bene da sottoporre ad esecuzione forzata. Il relativo pignoramento immobiliare veniva regolarmente trascritto nel mese di gennaio 2023, per poi cessare i propri effetti in conseguenza dell'adempimento parziale da parte Comune. Tali essendo gli antefatti, con ordinanza dirigenziale n. 5454 del 3 maggio 2023 il comune di Caserta premesso che "è interesse dell'ente comunale rientrare nel possesso e nella disponibilità del parcheggio interrato nell'area sottostante Piazza (omissis), bene immobile che il Comune intende valorizzare mantenendone in ogni caso l'uso pubblico" ed osservato che "l'articolo 283 comma 2 del codice civile, nel disciplinare la condizione giuridica del demanio pubblico stabilisce che spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del patrimonio dello stesso, e che essa alla facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso" ed ancora che "l'autotutela patrimoniale delle amministrazioni pubbliche è esercitabile nei confronti dei beni appartenenti anche al demanio e al patrimonio indisponibile dell'ente comunale per effetto del combinato disposto degli articoli 826 comma 3 e 828 (...) la facoltà di autotutela esecutiva amministrativa per rientrare nel possesso della disponibilità del bene", ha ordinato al Consorzio il rilascio dell'area denominata "Parcheggio interrato di piazza Carlo 12 III", ubicato in Caserta, viale (omissis) intimando "di lasciare entro 15 giorni il compendio immobiliare libero da cose e/o persone al fine di consentirne il pieno e libero utilizzo da parte del Comune di Caserta per le proprie finalità pubbliche". Infine avvertiva che, decorso inutilmente il termine di 15 giorni dalla data della notifica del provvedimento, l'amministrazione avrebbe proceduto all'esecuzione forzata con l'ausilio della forza pubblica. Ancora, in data 8 maggio 2023, la società Sa., stante il perdurante inadempimento del comune di Caserta, provvedeva a notificare un nuovo pignoramento per la parte residua del credito: la procedura esecutiva veniva poi rinnovata con notifica del precetto e pignoramento del 29 febbraio 2024. 3. Con il ricorso introduttivo del giudizio incardinato innanzi al Tar Campania l'appellante, nella qualità di gestore di fatto del parcheggio interrato sito in Caserta, alla piazza (omissis) di Borbone, ha impugnato l'ordinanza dirigenziale di sgombero adottata dal comune di Caserta in data 3 maggio 2023, n. 5454, chiedendone l'annullamento. Tra i motivi di ricorso deduceva l'illegittimità del provvedimento in quanto, a suo dire, il potere di polizia demaniale sarebbe stato esercitato su un bene immobile facente parte del patrimonio disponibile dell'amministrazione: sarebbe mancato pertanto il presupposto per l'esercizio del potere autoritativo. Osservava che la natura disponibile del bene si evincerebbe dagli atti di pianificazione delle risorse, adottati dall'amministrazione comunale, che ha inserito il cespite nel Piano delle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare, sicché sarebbe provato che l'immobile in questione ha natura di bene disponibile e non strumentale all'esercizio delle funzioni. Con ordinanza n. 902 del 25 maggio 2023, il Tar accoglieva la domanda cautelare rilevando che, "ad un primo sommario esame, sembra sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo, non essendo in contestazione il difetto di attribuzione in capo al Comune quanto, piuttosto, il non corretto esercizio, in relazione ai presupposti di fatto, del potere in concreto esercitato"; e che "sembra fondata la censura con la quale parte ricorrente lamenta che, a fronte di un bene appartenente al patrimonio disponibile del Comune (come sembrerebbe evincersi dall'inclusione dello stesso nel Piano delle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile di cui alla delibera di G.C. n. 14 del 28 gennaio 2022 e, prima ancora, alla delibera di C.C. n. 24/2018 - cfr. art. 58, comma 2 del d.l. n. 112/2008), l'attivazione del potere di autotutela esecutiva ex art. 823, comma 2 c.c. non era consentita". Il comune di Caserta, nel costituirsi in giudizio in primo grado, ha depositato l'atto, adottato il 19 maggio 2023 dal dirigente dell'ente locale ing. Vi., in cui si afferma che "da verifiche effettuate è emerso che l'impianto denominato Piazza (omissis) è inserito nell'inventario come beni immobili di uso pubblico per natura o destinazione e pertanto lo stesso non ricade nei beni immobili patrimoniali disponibili". L'atto richiama, sul punto, la delibera di Giunta comunale n. 183/2019, successivamente impugnata con ricorso per motivi aggiunti. Con la sentenza n. 1272 del 26 febbraio 2024 il Tar ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, individuando quale giudice munito di giurisdizione quello ordinario: la motivazione si fonda sul richiamo dell'ordinanza regolatoria delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 255 del 4 gennaio 2024. 4. L'appello è affidato a due motivi. Con il primo motivo si deduce error in iudicando in relazione alla declinatoria di giurisdizione. In sintesi l'appellante fa presente che uno dei motivi di ricorso investiva l'illegittimità del provvedimento impugnato per carenza dei presupposti per l'esercizio del potere: si trattava, infatti, di un provvedimento emanato dall'amministrazione comunale nell'esercizio del potere autoritativo di polizia demaniale su un bene facente parte del patrimonio disponibile e che a fronte di un siffatto provvedimento, il destinatario dell'atto non può che assumere una posizione giuridica di interesse legittimo. Quindi lamenta che, nella sentenza, il Tar avrebbe declinato la giurisdizione richiamando un precedente delle sezioni unite della Corte di Cassazione, che avrebbe deciso una fattispecie del tutto diversa da quella in esame. Nel caso di specie infatti non sarebbe possibile affermare che il provvedimento impugnato sia stato adottato dall'amministrazione nella gestione di un rapporto iure privatorum, né potrebbe esservi ricondotto in via esegetica qualificandolo, a posteriori, come mera "diffida". In definitiva ritiene che il provvedimento impugnato in primo grado si configuri come atto autoritativo illegittimo, in quanto viziato per carenza di potere in concreto, con conseguente radicamento della giurisdizione amministrativa. Con il secondo motivo sono riproposti i motivi formulati in primo grado. 5. L'appello è fondato. La narrazione dei fatti di causa si è resa necessaria per perimetrare l'oggetto del presente giudizio e per chiarire quale sia l'origine del provvedimento impugnato in primo grado. L'ordinanza dell'11 maggio 2023, adottata dal dirigente del comune di Caserta, rappresenta l'atto conclusivo di un rapporto concessorio che, essendo stato dichiarato nullo dal giudice amministrativo, impone al comune di rientrare nella disponibilità del bene concesso. Osserva il Collegio che, nel caso di specie, il comune non ha agito in posizione paritetica con il concessionario bensì esercitando poteri chiaramente autoritativi: la differenza tra la vicenda esaminata dalle sezioni unite e la fattispecie in esame è, peraltro, agevolmente ricavabile proprio dall'ordinanza richiamata dal Tar, di cui si dirà nel prosieguo. Dal provvedimento impugnato in primo grado risulta testualmente che lo stesso è stato adottato ai sensi dell'art. 823, comma 2, del codice civile, il quale nel disciplinare la condizione giuridica del demanio pubblico stabilisce che "spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che ne fanno parte del demanio pubblico. Essa ha la facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso, regolati dal presente codice". Richiamata e trascritta la suddetta norma il dirigente prosegue ricordando: "che l'autotutela patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche è esercitabile nei confronti di beni appartenenti anche al patrimonio indisponibile dell'ente comunale per effetto del combinato disposto degli artt. 826, comma 3, e 828 c.c."; che "nella fattispecie, ricorre la facoltà di autotutela esecutiva amministrativa per rientrare nel possesso della disponibilità del bene sopra citato"; che "l'art. 21ter, comma 1, della legge n. 241/90, prevede che "nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l'adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell'esecuzione da parte del soggetto obbligato. Qualora l'interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all'esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge"". Dunque il dirigente ha inteso spendere il potere di autotutela esecutiva sul presupposto, affermato nel provvedimento, che il bene di cui è ordinato lo sgombero appartenga al patrimonio indisponibile del comune. La ricorrente, invece, già in primo grado sosteneva che il bene in questione apparterrebbe al patrimonio disponibile del comune, ricavando tale qualificazione dal "Piano delle Alienazioni e delle Valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile non strumentali all'esercizio delle funzioni istituzionali", approvato con delibera del Consiglio comunale n. 24 del 17 aprile 2018, in cui l'infrastruttura adibita a parcheggio ed oggetto del provvedimento per cui è causa risulta inserita tra gli immobili suscettibili di alienazione (detta circostanza è, peraltro, contestata dal comune nelle sue difese, richiamando la delibera di Giunta comunale n. 183 dell'11 novembre 2019 che riporterebbe una diversa collocazione del bene in questione nell'elenco dei beni comunali appartenenti al patrimonio disponibile ed indisponibile dell'Ente), con la necessaria conseguenza dell'impossibilità per il comune di avvalersi dell'autotutela esecutiva, dovendo viceversa, a suo dire, procedere con gli ordinari rimedi civilistici a tutela della proprietà e del possesso. Dunque l'oggetto del giudizio postula un duplice accertamento: quello riguardante la legittimità del potere esercitato in concreto e quello riguardante la natura del bene di che trattasi: se appartenente al patrimonio disponibile, l'autotutela non poteva essere esercitata, se appartenente al patrimonio indisponibile, come affermato nel provvedimento dal dirigente, l'autotutela era ammissibile. Osserva il Collegio che il principio affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione nell'ordinanza n. 255/2024, richiamata dal Tar, è pienamente condiviso dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. tra le tante, sez. VII, 16 aprile 2024, n. 3449; id., 30 aprile 2024, n. 2980), tanto che l'incipit del principio affermato dalle sezioni unite, non riportato dal Tar nel virgolettato, è il seguente: "Costituisce principio acquisito, tanto nella giurisprudenza della Suprema Corte, quanto nella giurisprudenza amministrativa, che il potere di autotutela....". É infatti pacifico, come afferma la citata ordinanza, che il potere di autotutela, attribuito all'amministrazione in relazione ai beni demaniali, è esteso, in virtù del combinato disposto degli artt. 823 e 825 c.c., ai beni del patrimonio indisponibile, mentre resta escluso per la tutela dei beni del patrimonio disponibile, rispetto ai quali l'amministrazione potrà avvalersi solo delle ordinarie azioni a tutela della proprietà e del possesso. Pertanto, in presenza di beni del patrimonio disponibile di proprietà del comune, occupati sine titulo, gli atti posti in essere dall'amministrazione comunale non possono ritenersi riconducibili all'esercizio di un potere autoritativo a tutela di un bene pubblico, quale è quello attribuito dall'art. 823 con riferimento ai beni demaniali e ai beni patrimoniali indisponibili, quanto piuttosto all'esercizio di un potere di autotutela del patrimonio immobiliare, posto in essere iure privatorum. L'affermazione consequenziale contenuta nell'ordinanza in rassegna, secondo cui "Si tratta, in altre parole, di atti di diffida di natura paritetica volti alla tutela della proprietà comunale, a fronte dei quali sussistono posizioni di diritto soggettivo, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario sulle relative controversie", sulla quale il Tar ha fatto acriticamente leva per declinare la giurisdizione, è tuttavia correlata alla fattispecie concreta ivi dedotta in giudizio che, come risulta dalla parte in fatto della stessa ordinanza, riguardava una "azione di manutenzione nel possesso di un fabbricato e di terreni", in relazione ai quali il comune proprietario aveva ordinato "di rimuovere dalle dette particelle... qualsiasi oggetto e bene di proprietà entro 10 giorni dal ricevimento; con avvertenza che decaduto tale termine il Comune di... provvederà a rimuovere la recinzione della particella sopra citata nonché il manufatto esistente" aggiungendo che, in riferimento a tale missiva, il ricorrente aveva dedotto "che l'ordine con essa rivolto non trovava giustificazione nell'esercizio di un potere autoritativo dell'ente, costituendo, pertanto, una molestia al proprio possesso, nel quale chiese di essere mantenuto". Nel caso di specie, invece, è del tutto evidente che non si tratti di azione possessoria bensì di ordinanza di sgombero di un immobile di proprietà pubblica, adottato nell'esercizio di poteri autoritativi. Ciò posto, premesso che l'autorità amministrativa è titolare, in astratto, dei poteri di autotutela esecutiva, come ricordato anche dalle sezioni unite, ciò che discrimina la legittimità dell'uso di tale potere in concreto, è la natura del bene a tutela del quale esso viene esercitato. Nel declinare la giurisdizione il Tar ha compiuto un salto logico, omettendo di accertare proprio la natura del bene di cui è stato ordinato lo sgombero, al fine di verificare "se" quel potere concretamente esercitato, potesse essere esercitato oppure no. In altri termini il primo giudice, che sembrerebbe essersi orientato nel senso di ritenere l'ordinanza impugnata come riferibile ad un bene del patrimonio disponibile, quindi emessa in carenza di potere in concreto, anziché rispondere alla domanda di giustizia formulata dalla parte ricorrente, che sosteneva appunto tale tesi, erroneamente si è spogliato della giurisdizione. Osserva il Collegio che la risposta che, in questo caso, il giudice amministrativo deve dare è se il comune, nel caso di specie, possa esercitare i poteri autoritativi. Se la risposta dovesse essere positiva perché il bene viene fatto rientrare nel patrimonio indisponibile dell'ente, il ricorso (salvo l'esame delle ulteriori censure non scrutinate) andrebbe respinto in quanto, una volta verificato che l'area continua ad essere abusivamente adibita ad uso privato, legittimamente e doverosamente il comune deve attivare il proprio potere di autotutela esecutiva di cui all'art. 823 del codice civile, esercitabile anche a tutela dei beni del patrimonio indisponibile (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30 settembre 2015, n. 4554). Siffatto provvedimento avrebbe natura doverosa e vincolata e non necessiterebbe né della preventiva comparazione con gli interessi del privato occupante, non potendosi giammai ingenerare un affidamento "legittimo" in presenza di una situazione connotata da evidente abusività, né di specifica motivazione, se non quella necessaria a dare atto dell'accertamento dell'abusiva occupazione e nei confronti del quale non è configurabile il vizio di eccesso di potere, perché l'esercizio del potere di autotutela esecutiva si giustifica unicamente in ragione della perdurante occupazione sine titulo del bene pubblico (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 29 gennaio 2024, n. 862). Né, in tal caso, rileverebbe una eventuale iniziale tolleranza in merito all'occupazione del bene (tolleranza tutt'altro che sussistente nel caso di specie) non radicando un simile contegno dell'amministrazione alcuna posizione di diritto o di interesse legittimo in capo all'occupante sine titulo (cfr., per il principio, Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n. 4775). Se, viceversa, la risposta dovesse essere negativa, l'atto impugnato non potrebbe che essere annullato. Soltanto sulla successiva attività che il comune dovesse porre in essere affidandosi (questa volta correttamente) agli ordinari rimedi civilistici, mediante azioni petitorie o possessorie, si radicherebbe correttamente la giurisdizione del giudice ordinario: si tratta, tuttavia, di attività che, nel caso di specie, non risulta ancora posta in essere e che, esula, quindi dal thema decidendum. A maggior chiarimento di quale sia l'accertamento che il giudice deve compiere, valga richiamare una recente pronuncia (Cons. Stato, sez. V, 9 febbraio 2024, n. 1337), che ha affrontato il tema della corretta qualificazione del potere esercitato dal comune, in una fattispecie in cui era stato ingiunto lo sgombero di un immobile acquisito al patrimonio pubblico. Nella fattispecie ivi esaminata il Tar aveva accolto il ricorso sull'assorbente rilevo dell'illegittimo ricorso all'autotutela esecutiva con riferimento a un bene del patrimonio disponibile, sicché il comune non avrebbe potuto esercitare poteri autoritativi, ma avrebbe dovuto agire innanzi al giudice ordinario, ricorrendo agli strumenti previsti dalla legge per la tutela della proprietà e del possesso. Il Consiglio di Stato ha innanzitutto sciolto il dubbio sulla giurisdizione con le seguenti argomentazioni: - il provvedimento con il quale l'amministrazione comunale ordina lo sgombero di un immobile abusivamente realizzato, acquisito al patrimonio pubblico a seguito di inottemperanza all'ordine di demolizione, "costituisce esercizio di poteri pubblicistici di repressione dell'abusivismo e conseguentemente la giurisdizione appartiene al Giudice amministrativo" (C.g.a., sez. giur., 20 marzo 2020 n. 194); - l'atto di sgombero dell'immobile abusivo che sia stato acquisito al patrimonio comunale per inottemperanza all'ordine di demolizione notificato al privato - che si inserisce nell'ambito dei provvedimenti repressivi dell'abusivismo ordinariamente di competenza dirigenziale - ha dunque natura provvedimentale e autoritativa, essendo riconducibile all'esercizio di poteri pubblicistici dell'ente locale, il che dà luogo alla potestas iudicandi del giudice amministrativo sulle relative controversie; - a tal riguardo le sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 19889 del 22 settembre 2014, hanno chiarito che: "la giurisdizione in relazione al provvedimento di demolizione (e, per quel che concerne la fattispecie in esame, in relazione a quello "propedeutico" di sgombero) adottato dalla P.A. spetta al giudice amministrativo, e ciò a prescindere dalle ragioni addotte in tale provvedimento - che saranno eventualmente sindacate dinanzi a quel giudice - onde ogni eventuale contestazione circa la spettanza del relativo potere in capo alla Amministrazione che ha adottato il provvedimento ovvero circa le modalità con cui esso è stato esercitato (...) configura questione devoluta al giudice amministrativo"; - la giurisprudenza (cfr. C.g.a., sez. giur. 3 aprile 2018, n. 178), muovendo dalla considerazione per cui l'art. 823 c.c. ammette il ricorso dell'amministrazione all'esercizio dei poteri amministrativi al solo fine di tutelare i beni del demanio pubblico e del patrimonio indisponibile, ha affermato che il potere di autotutela esecutiva presuppone il previo accertamento della natura del compendio immobiliare oggetto di tutela recuperatoria, sicchè "l'Amministrazione può, ove richiesto, adottare solo i rimedi di carattere ordinario. Ipotesi che ricorre nella controversia oggetto dell'appello, non avendo l'immobile di cui si discute i requisiti che ne consentirebbero la qualificazione come bene appartenente al patrimonio indisponibile. Con la conseguenza che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia in ordine all'ordinanza di sgombero di un immobile che si colloca nell'alveo del patrimonio disponibile del comune, essendo stata tale ordinanza emessa in carenza assoluta di potere e, pertanto nulla, con conseguente lesione di diritti soggettivi tutelabili innanzi al giudice ordinario" (C.g.a., 3 aprile 2018, n. 178; anche Cons. Stato, sez. VII, 19 maggio 2023, n. 4987; Cons. Stato, sez. VI, 29 agosto 2019, n. 5934); - non sembra dubitabile che ogni qualvolta in cui l'atto di sgombero costituisca "nient'altro che il terminale esecutivo dei provvedimenti di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale dell'opera abusiva, di per sé dotati, in quanto estrinsecazioni dei poteri di vigilanza e di repressione urbanistico-edilizia sul territorio (cfr. art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001), del connotato dell'esecutorietà, ossia della possibilità di essere portati ad esecuzione coattivamente ad opera della stessa amministrazione e senza l'intermediazione dell'autorità giudiziaria" (Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 2015 n. 316), esso viene a configurarsi a guisa di vero e proprio provvedimento amministrativo, esecutivo di precedenti misure repressive di opere abusive, attratto, come tale, al sistema tipizzato delle sanzioni in materia edilizia, vertendosi in un'ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti in materia urbanistica ed edilizia ai sensi dell'art. 133, lett. f), c.p.a. (cfr. C.g.a., n. 194 del 2020 cit.). Ciò posto, la sentenza ha confermato la decisione del Tar attraverso i seguenti snodi argomentativi: - sebbene, come detto, l'amministrazione possa legittimamente agire seguendo le regole proprie dell'esercizio dei poteri autoritativi di sgombero nell'ambito del procedimento repressivo-ripristinatorio degli abusi edilizi così come tratteggiato dalla disciplina del d.P.R. n. 380 del 2001 al fine di ottenere il rilascio dell'immobile occupato da soggetti privati (il più delle volte gli ex proprietari), onde eseguire concretamente l'immissione in possesso finalizzata alla successiva demolizione dello stesso oppure, a determinate condizioni, al suo utilizzo per fini pubblici, di tanto, però, non vi è alcuna evidenza nell'ordinanza di sgombero impugnata; - se è vero che l'atto di sgombero è certamente strumento idoneo a perseguire il mancato rilascio dei beni, spesso occupati, anche dopo l'acquisizione, dagli stessi soggetti che hanno perpetrato l'illecito edilizio, deve, tuttavia, rilevarsi come il provvedimento impugnato non contenga alcun riferimento all'esercizio dei poteri repressivi in materia edilizia ai sensi dell'art. 31 del d.P.R. 380 del 2001, né cenno alcuno all'abusività dei manufatti o a eventuali ordinanze di demolizione che non risultano nel frattempo neanche adottate (né la difesa dell'amministrazione ha dato prova contraria), avendo il comune soltanto disposto che l'ufficio tecnico avesse cura di provvedere alla loro adozione; - l'ordinanza di sgombero si limita, infatti, a enunciare che sui lotti occupati senza titolo dei ricorrenti in cui è suddiviso il terreno "vi sono dei manufatti edili diversi tra loro per tipologia, forma e utilizzo di materiali costruttivi con annessa strada interpoderale delimitata da due cancelli metallici, uno posizionato in corrispondenza della complanare, l'altra a delimitazione della spiaggia" e a richiamare succintamente alcune risalenti ordinanze con le quali, rispettivamente, si vietò di disporre con atto tra vivi dell'immobile, se ne dispose l'acquisizione di diritto al patrimonio del comune e si ordinò, a suo tempo, lo sgombero dell'area già occupata; ma non contiene il benché minimo riferimento alla commissione di abusi edilizi o indicazione sulla loro concreta consistenza; - solo in sede di giudizio, con le deduzioni processuali contenute negli atti di causa, il comune ha sostenuto che l'impugnata ordinanza di sgombero sia riconducibile ad attività esecutiva del procedimento repressivo e sanzionatorio di illeciti edilizi avviato nel 1992 con l'acquisizione del bene al patrimonio disponibile a seguito del contestato frazionamento per finalità edificatorie, viceversa il provvedimento non contiene alcun riferimento che consenta di ricondurlo all'esercizio dei poteri pubblicistici afferenti alle funzioni di controllo e sanzione in materia edilizia, avendo soltanto ordinato il rilascio del bene disponibile di sua proprietà occupato sine titulo, dichiarando espressamente di agire con lo strumento in parola per far fronte alla "occupazione di immobile di proprietà comunale"; - in assenza di elementi che consentano di configurare l'ordinanza in questione come il terminale esecutivo dei provvedimenti di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale dell'opera abusiva, di per sé dotati, in quanto estrinsecazioni dei poteri di vigilanza e di repressione urbanistico-edilizia sul territorio (cfr. art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001), del connotato dell'esecutorietà, "non resta che ricondurre l'azione intrapresa dal comune, per come concretamente esercitata, ai poteri di autotutela disciplinati dall'art. 823 comma 2 del codice civile"; - "in tal caso, tuttavia, al cospetto di un bene al patrimonio disponibile del comune - quale pacificamente è il terreno oggetto della presente controversia acquisito gratuitamente al patrimonio dell'ente a seguito dell'illegittimo frazionamento per pretese finalità edificatorie contestato ai ricorrenti - il comune non avrebbe potuto esercitare l'autotutela amministrativa per le ragioni correttamente indicate dal primo giudice ma il recupero del bene avrebbe dovuto seguire, invece, le vie contrassegnate dagli strumenti giurisdizionali ordinari, a mezzo delle azioni possessorie o della rei vindicatio civilistica (Cons. Stato, sez. VI, 29 agosto 2019, n. 5934)"; - "i poteri di tutela esecutoria dell'amministrazione in presenza di occupazioni da terzi sono da ritenersi sine titulo quando la pubblica amministrazione agisca in area appartenente al patrimonio disponibile, dove l'esercizio di tale potere autoritativo non trova fondamento: l'autotutela demaniale si collega, infatti, al regime dominicale del bene pubblico, in coerenza con le funzioni amministrative di disciplina, ordinata gestione e uso del bene medesimo e con l'esigenza di "reagire" rispetto a condotte appropriative o usurpative di carattere privato". Quindi la sentenza ha concluso che sussiste una effettiva e comprovata divergenza, nei sensi sopra indicati, fra l'atto di sgombero e la sua funzione tipica, essendo stato il potere esercitato per finalità diverse da quelle enunciate dalla norma di cui all'art. 823 c.c., attributiva dello stesso. Come si evince (anche) dalla decisione innanzi riportata, l'accertamento del giudice, ove si controverta di esercizio dei poteri di autotutela esecutiva, va svolto "in concreto", avendo riguardo alla fattispecie dedotta in giudizio e alle caratteristiche degli atti adottati. In conclusione l'appello è fondato e va accolto. Come noto, laddove sussista la giurisdizione del giudice amministrativo, declinata in primo grado dal Tar, il giudice di secondo grado non può che annullare la sentenza impugnata, senza ulteriore trattazione della causa (cfr. tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 14 ottobre 2010, n. 7510), poiché, nel caso di erronea declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo nella sentenza di primo grado, la causa deve essere rimessa al Tar e da questi decisa, ai sensi dell'art. 105 c.p.a. (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 12 dicembre 2011, n. 6492). Pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio al giudice di primo grado, secondo le modalità di cui all'art. 105, comma 3, del codice del processo amministrativo, non potendo il Consiglio di Stato pronunciarsi nel merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 847). 5. In ragione della particolarità della questione di giurisdizione esaminata, si può disporre l'integrale compensazione tra le parti delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo e annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tar della Campania, dinanzi al quale il giudizio dovrà essere riassunto entro il termine di novanta giorni dalla notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione della presente sentenza. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Ordina che la pubblica amministrazione dia esecuzione alla presente decisione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da: Dott. GALTERIO Donatella - Presidente Dott. SOCCI Angelo Matteo - Relatore Dott. LIBERATI Giovanni Dott. MENGONI Enrico Dott. ZUNICA Fabio ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Na.Da. nato il Omissis avverso la sentenza del 21/11/2022 della CORTE APPELLO di PERUGIA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO MATTEO SOCCI; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUIGI CUOMO che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso. L'avvocato RO.MA., sost. proc., per le PARTI CIVILI, chiede la conferma dell'impugnata sentenza. Deposita conclusioni e nota spese dichiarando che le parti civili sono ammesse al patrocinio a spese dello Stato. L'avvocato BI.FR., in difesa di Na.Da., si riporta al ricorso e ne chiede l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza della Corte di appello di Perugia del 21 novembre 2022, in parziale riforma della decisione del Tribunale di Perugia del 1 luglio 2021, si è dichiarato di non doversi procedere nei confronti di Na.Da. in ordine al reato di cui al capo 1 dell'imputazione (art. 609 bis cod. pen.; commesso il 15 gennaio 2009) per prescrizione ed è stata rideterminata la pena per il residuo reato (art. 609 bis, ultimo comma, cod. pen. commesso nei confronti di Er.Ma.; commesso il 23 aprile 2012) in anni 1 e mesi 8 di reclusione 2. L'imputato ha proposto ricorso in cassazione, per i motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen. 2. 1. Mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in relazione alle valutazioni di attendibilità delle dichiarazioni della parte offesa e ai ritenuti riscontri alle stesse (in ordine alla divisa di colore verde che avrebbe indossato il ricorrente per apparire un medico). Per la donna il ricorrente aveva indossato una divisa di colore verde (con una scritta "Servizio lavanderia"), per farsi scambiare per un medico. Il ricorrente invece esercitava nell'ospedale la professione di infermiere. In querela la donna non aveva riferito del particolare della divisa verde, solo in dibattimento, all'udienza dell'8 ottobre 2019 (dopo circa otto anni dai fatti) riferiva del camice verde. Il contrasto tra quanto dichiarato in querela e quanto riferito in dibattimento è rilevante in termini di valutazione della credibilità delle dichiarazioni della parte offesa. La Corte di appello non motiva sulla concreta possibilità per il ricorrente di procurarsi un camice verde; solo il personale medico ha accesso alle divise di colore verde. Il ricorrente è conosciuto nel reparto di urologia quale infermiere (lavorando ivi dal 2009) e con una divisa verde sarebbe stato notato e sottoposto a sanzioni disciplinari. Il Tribunale aveva indicato le dichiarazioni di Be.Ni. (caposala) e di Ci.Fr. (impiegato) per individuare il tipo di divisa indossato dagli operatori sanitari. Comunque, nessuno dei due testi aveva riferito della possibilità di accedere alle divise verdi da parte dell'imputato. Inoltre, la stessa parte offesa ha indicato sempre il ricorrente quale infermiere e non lo ha mai confuso con il personale medico. 2. 2. Difetto di motivazione sulla ritenuta attendibilità della parte offesa. Per le due sentenze la parte offesa avrebbe sempre raccontato i fatti in maniera dettagliata e costante. Per la sentenza di appello la donna sarebbe credibile anche per il comportamento tenuto immediatamente dopo i fatti di cui all'imputazione (sarebbe andata da una paziente in un'altra camera a piangere per l'accaduto e poi nell'aver riferito tutto alla caposala). Tutti i testi di riferimento, comunque, non sono stati mai escussi nel dibattimento. La sentenza, poi, non affronta nella motivazione le dichiarazioni rese dall'imputato alla caposala sullo svolgimento dei fatti, secondo la sua versione, nonostante la difesa dell'imputato avesse specificamente fatto riferimento alle dichiarazioni rese dall'imputato alla caposala. Inoltre, il ricorrente ha sempre svolto il suo lavoro con estrema professionalità come dichiarato da Be.Ni., caposala. La parte offesa in contraddizione con quanto denunciato con la querela in dibattimento negava l'effettuazione di paleggiamenti in due momenti distinti, come pure l'abbassamento dei pantaloni per toccamenti alle parti intime. Il racconto della donna risulta, quindi, estremamente incerto e contraddittorio tale da inficiare la sua attendibilità. Anche sulla reazione alle invasioni alla sua sfera sessuale la donna si contraddiceva tra quanto dichiarato in querela (non diceva nulla per paura) e quanto riferito, poi, in dibattimento (pensava di potersi fidare del ricorrente). Sulle origini etniche del ricorrente la donna si contraddiceva in quanto indicava il ricorrente come un filippino (le avevano riferito fosse filippino), mentre l'imputato è originario del Guatemala come tutti sapevano nel reparto. Conseguentemente, nessuno avrebbe potuto indicare alla donna l'imputato come un filippino. 2. 2. La parte offesa richiedeva un danno di euro 200.000,00 e il giudice di primo grado le riconosceva solo euro 2.000,00 di danni morali. La donna affermava di aver subito danni rilevanti in quanto dai fatti non avrebbe avuto più rapporti con il suo fidanzato; invece, emergeva dai social che la donna aveva avuto altre relazioni ed anche una gravidanza. Inoltre, aveva anche conseguito un diploma presso l'Istituto d'arte. 2. 3. Difetto di motivazione sulla valenza negativa attribuita dal Tribunale al mancato esame dell'imputato. Il Tribunale valorizzava negativamente l'omesso esame dell'imputato, che rendeva solo spontanee dichiarazioni. Il silenzio è un diritto dell'imputato e non può essere considerato negativamente per l'affermazione della sua responsabilità. Sul punto la decisione impugnata non motiva. 2. 4. Difetto di motivazione sulla valenza probatoria reciproca, ritenuta dal giudice di primo grado, in relazione al racconto delle due parti offese (capo 1 e capo 2 dell'imputazione). La sentenza di primo grado conferiva valore di conferma alle dichiarazioni delle parti offese la loro valutazione reciproca. Anche quest'aspetto era motivo di appello, ma la Corte di appello non motiva. Ha chiesto pertanto l'annullamento della sentenza impugnata. 2. 5. La Procura generale ha depositato richiesta scritta di inammissibilità del ricorso. 2. 6. L'imputato ha depositato memoria nella quale riprende i motivi del ricorso e ne chiede l'accoglimento. CONSIDERATO IN DIRITTO 3. Il ricorso è manifestamente infondato, in quanto i motivi sono generici e ripetitivi dell'appello, senza critiche specifiche di legittimità alle motivazioni della sentenza impugnata. Inoltre, il ricorso, articolato in fatto, valutato nel suo complesso, richiede alla Corte di Cassazione una rivalutazione, non consentita in sede di legittimità. La decisione della Corte di appello (e la sentenza dì primo grado, in doppia conforme) contiene ampia e adeguata motivazione, senza contraddizioni e senza manifeste illogicità, sulla responsabilità del ricorrente, e sulla piena attendibilità della donna, parte offesa. In tema di giudizio di Cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito. (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015 - dep. 27/11/2015, Musso, Rv. 265482). In tema di motivi di ricorso per Cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento. (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015 - dep. 31/03/2015, O., Rv. 262965). In tema di impugnazioni, il vizio di motivazione non può essere utilmente dedotto in Cassazione solo perché il giudice abbia trascurato o disatteso degli elementi di valutazione che, ad avviso della parte, avrebbero dovuto o potuto dar luogo ad una diversa decisione, poiché ciò si tradurrebbe in una rivalutazione del fatto preclusa in sede di legittimità. (Sez. 1, n. 3385 del 09/03/1995 - dep. 28/03/1995, Pischedda ed altri, Rv. 200705). 4. La Corte di appello (e il Giudice di primo grado), come visto, ha con esauriente motivazione, immune da vizi di manifesta illogicità o contraddizioni, dato conto del suo ragionamento che ha portato alla valutazione di attendibilità della parte offesa. Infatti, in tema di reati sessuali, poiché la testimonianza della persona offesa è spesso unica fonte del convincimento del giudice, è essenziale la valutazione circa l'attendibilità del teste; tale giudizio, essendo di tipo fattuale, ossia di merito, in quanto attiene il modo di essere della persona escussa, può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria. (Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006 - dep. 18/12/2006, Agnelli e altro, Rv. 235578). Le dichiarazioni della persona offesa possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. A tal fine è necessario che il giudice indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo così l'individuazione dell'iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata; mentre non ha rilievo, al riguardo, il silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame qualora si tratti di deduzione disattesa dalla motivazione complessivamente considerata, non essendo necessaria l'esplicita confutazione delle specifiche tesi difensive disattese ed essendo, invece, sufficiente una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione implicita di tale deduzione senza lasciare spazio ad una valida alternativa. (Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014 - dep. 14/01/2015, Pirajno e altro, Rv. 261730); le regole dettate dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012 - dep. 24/10/2012, Bell'Arte ed altri, Rv. 253214). 4. 1. Nel caso in giudizio le analisi delle due decisioni (conformi) sono precise, puntuali e rigorose nell'affrontare l'attendibilità della donna, rilevando come i fatti sono emersi dalle sue dichiarazioni lineari e dal suo comportamento immediatamente successivo ai fatti, ovvero era "andata in un'altra camera da una ragazza che ho conosciuto lì e sono scoppiata a piangere con la mamma, le ho raccontato più o meno i fatti e poi, niente, è venuto mio padre, ho spiegato un po' la situazione, ho spiegato la situazione alla capo reparto, nessuno mi voleva credere e alla fine ho fatto denuncia". Su questi aspetti il ricorso, articolato in fatto e in maniera del tutto generica, reitera le motivazioni dell'atto di appello senza confrontarsi con la sentenza impugnata. Sostanzialmente non contiene motivi di legittimità nei confronti delle motivazioni della sentenza impugnata. Ripropone acriticamente dubbi soggettivi, adeguatamente risolti dalle decisioni di merito. 4. 2. Dalla querela (nel ricorso si insiste sulla valutazione del contenuto della querela per l'inattendibilità della donna), del resto, non possono trarsi elementi per la valutazione di attendibilità della querelante e, al contrario, nemmeno elementi di inattendibilità, in mancanza di acquisizione al fascicolo per il dibattimento e di lettura ("In tema di letture consentite, ex artt. 431 e 511 cod. proc. pen., la querela può essere inserita nel fascicolo per il dibattimento ed è utilizzabile ai soli fini della procedibilità dell'azione penale, con la conseguenza che da essa il giudice non può trarre elementi di convincimento circa la valutazione di attendibilità della persona offesa, tranne che per circostanze o fatti imprevedibili, risulti impossibile la testimonianza dell'autore della denuncia-querela, perchè in tal caso la lettura è consentita ai sensi dell'art. 512 cod. proc. pen., anche per utilizzarne il contenuto ai fini della prova. (Nella specie, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che aveva tratto dalla querela valutazioni inerenti alla attendibilità e credibilità della persona offesa, confrontandone il contenuto con le dichiarazioni rese dallo stesso querelante in udienza)" Sez. 5, Sentenza n. 21665 del 16/02/2018 Ud. (dep. 16/05/2018) Rv. 273167 - 01). Comunque, la questione della divisa verde (in uso ai medici e indossata dal ricorrente), che non sarebbe stata indicata dalla donna nella querela, è un'argomentazione in fatto; inoltre, non sono stati indicati elementi certi che possano dimostrare l'impossibilità per l'imputato di procurarsi una divisa verde, momentaneamente. 4. 3. Anche sulle dichiarazioni relative al danno patito (che per il ricorrente sarebbero contraddittorie e non provate) non può ritenersi una complessiva inattendibilità delle dichiarazioni della donna sul contenuto essenziale delle stesse, riferibili alla violenza sessuale. Si tratta di elementi diversi: uno riferito al danno, l'altro alla commissione del reato. 5. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità ", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 3.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al gratuito patrocinio a spese dello Stato nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Perugia con separato decreto di pagamento ai sensi degli art. 82 e 83 d.P.R. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati significativi, a norma dell'art. 52 del D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 13 dicembre 2023. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5319 del 2022, proposto da Ge. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Co., Gi. Co. e Al. Cr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Gi. Co. in Roma, via (...); contro Ivass, Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ni. Ge., Da. Ad. Ma. Za. e El. Gi. Mu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avv. Ni. Ge. in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Seconda n. 03221/2022, resa tra le parti, per l'annullamento, in parte qua, dell'ordinanza-ingiunzione emessa da IVASS con prot. n. 0122245/17 del 21.06.2017, successivamente notificata e ricevuta da Ge. S.p.A. il 27.06.2017, con la quale sono state irrogate alla ricorrente le sanzioni amministrative pecuniarie di cui agli artt. 318, c. 1 e 319, c. 1, d.lgs. 209/2005 complessivamente quantificate in Euro 41.000 (doc. 1); nonché di ogni atto presupposto, connesso e/o consequenziale, quali in particolare: l'atto di contestazione adottato da IVASS prot. n. 0095142/2016 dell'11.05.2016 ed il rapporto ispettivo formato dal Servizio Ispettorato - IVASS (doc. 2). con conseguente condanna di IVASS alla restituzione delle somme già versate ovvero, in via subordinata, per la rideterminazione dell'importo della sanzione in misura più favorevole alla ricorrente, con conseguente condanna di IVASS alla restituzione delle somme già versate. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ivass, Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 maggio 2024 il Cons. Oreste Mario Caputo e uditi per le parti gli avvocati Gi. Co., Ni. Ge. e Da. Ad. Ma. Za.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.È appellata la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma Sezione Seconda Ter, n. 01433/2021, di reiezione del ricorso proposto Ge. S.p.A., per l'annullamento in parte qua dell'ordinanza-ingiunzione emessa da IVASS con prot. n. 0122245/17 del 21.06.2017, d'irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie di cui agli artt. 318, c. 1 e 319, c. 1, d.lgs. 209/2005 complessivamente quantificate in Euro 41.000. Cumulativamente, oltre ad estendere il gravame all'atto di contestazione adottato da IVASS prot. n. 0095142/2016 dell'11.05.2016 ed al rapporto ispettivo formato dal Servizio Ispettorato - IVASS; la società ricorrente ha chiesto la condanna di IVASS alla restituzione delle somme già versate ovvero, in via subordinata, per la rideterminazione dell'importo della sanzione in misura più favorevole all'appellante, con conseguente condanna di IVASS alla restituzione delle somme già versate. 2. La sanzione consegue all'accertamento di cinque distinte ipotesi di violazione del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (artt. 182 e 183) e di diverse norme regolamentari poste in essere dalla Società appellante con riferimento alla commercializzazione di "BG Stile Libero", prodotto che combina assicurazioni di ramo I con assicurazioni di ramo III di cui all'articolo 2, c. 1, del d.lgs. 209/2005 ("Codice delle Assicurazioni Private"). Gli illeciti ritenuti sussistenti sono i seguenti: - utilizzo di materiale pubblicitario contenente espressioni che non consentono una chiara comprensione dei rischi finanziari che caratterizzano il prodotto (illecito a); - illustrazione fuorviante del regime fiscale relativo alle componenti esenti da tassazione (illecito b); - mancata consegna del "Progetto esemplificativo rielaborato in forma personalizzata" (illecito c); - non piena attendibilità dell'indicatore "Costo Percentuale Medio Annuo" riportato nella scheda sintetica ("CPMA") (illecito e); - carenti istruzioni alla rete distributiva in tema di raccolta delle informazioni necessarie alla valutazione di adeguatezza dei contratti offerti alle esigenze assicurative dei contraenti (illecito f). 3. Con i primi quattro motivi (da I a IV) del ricorso di primo grado la società appellante lamentava "I vizi del provvedimento sanzionatorio"; nei restanti cinque motivi (da V a IX) denunciava l'"Insussistenza delle violazioni"; con il decimo motivo (X) chiedeva in subordine la rideterminazione della sanzione in caso di mancato accoglimento della domanda di annullamento. 4. Il Tar ha respinto il ricorso. Il Giudice di prime cure ha confermato la violazione rubricata sub a) nel testo dell'ordinanza gravata con la quale Ivass ha contestato l'utilizzo di materiale pubblicitario contenente espressioni che non consentivano una chiara comprensione dei rischi finanziari che caratterizzavano il prodotto. Sul punto, il Tar osserva che la broucher del prodotto si presentava inequivocabilmente omissiva sia in ordine alle percentuali con le quali la componente assicurativa e quella finanziaria andavano a comporre il prodotto, sia in ordine alla tipologia di rischio che è sicuramente difforme dal canone di chiarezza indicato dalla disposizione regolamentare, e da quello di correttezza richiamato anche dalla disposizione legislativa. Infatti, sebbene la società ha utilizzato dato atto della natura composita del prodotto, nulla s'è chiarito in ordine all'effettiva composizione del prodotto stesso che presentava una spiccata componente finanziaria e significativi rischi di mercato a carico dei contraenti i quali, per una parte compresa tra 70% e il 95% del premio versato, non avevano alcuna garanzia di capitale né tantomeno di rendimento minimo, così che il prodotto nel suo insieme risultava oggettivamente connotato da un cospicuo rischio di perdita del capitale, non percepibile dalla lettura della brochure. In merito alla violazione rubricata sub b) con la quale Ivass ha ritenuto che la ricorrente abbia illustrato in maniera fuorviante il regime fiscale relativo alle componenti esenti da tassazione, il giudice di prime cure osserva che le espressioni utilizzate non erano chiare e comprensibili in punto di informazione fiscale, atteso che le stesse non rendevano agevolmente percepibile quali somme fossero esenti da imposta di successione e quali da Irpef. Il Tar conferma anche la violazione rubricata sub c) con la quale Ivass sanzionava la Società appellante per non avere consegnato ai clienti il "progetto esemplificativo rielaborato in forma personalizzata" come prescritto dalla normativa. Dalle risultanze istruttorie acquisite in sede ispettiva emerge che il progetto esemplificativo è stato solo mostrato per presa visione. Analogamente, la violazione rubricata sub e) con la quale Ivass ha ritenuto che Geneterllife non abbia riportato, nella scheda sintetica, l'indicatore Costo Percentuale Medio annuo (CPM) in maniera attendibile, trova conferma, secondo il Tar, nel modo in cui l'indice è stato redato senza che emergano, in maniera chiara, i livelli di onerosità del prodotto "BG Stile Libero". Infine il giudice di prime cure riscontra positivamente anche la violazione rubricata sub f) per aver fornito alla rete distributiva informazioni carenti in tema di raccolta delle informazioni necessarie alla valutazione di adeguatezza dei contratti offerti alle esigenze assicurative dei contraenti. Nel respingere i vari motivi di ricorso, il Tar aggiunge che le conclusioni raggiunte dall'Ivass risultano supportate da riscontri documentali acquisiti in sede di visita ispettiva e correttamente inquadrate in fattispecie di illecito sufficientemente specificate. In merito alla quantificazione della sanzione, il Tar richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, in tema di motivazione del quantum delle sanzioni amministrative pecuniarie, la scelta tra il minimo ed il massimo di pena pecuniaria risponde allo scopo di rimettere al potere dell'amministrazione la commisurazione della sanzione alla concreta gravità del fatto illecito, senza necessità che sia specificato il criterio seguito. La quantificazione della sanzione costituisce espressione di discrezionalità amministrativa non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità salvo che in ipotesi di eccesso di potere nelle sue varie forme sintomatiche. 5. Appella la sentenza Ge. S.p.A. 6. Si è costituito in giudizio l'Ivass. 7. Alla pubblica udienza del 9 maggio 2024 la causa, su richiesta delle parti, è stata trattenuta in decisione. 8. Con il primo motivo di appello l'appellante censura l'ordine con cui il Giudice di prime cure ha esaminato i motivi di ricorso, anteponendo l'esame delle censure relative all'insussistenza delle violazioni (motivi da V a IX) rispetto alla disamina delle doglianze sui vizi del provvedimento sanzionatorio (motivi da I a IX). In particolar modo l'appellante censura il fatto che il Tar abbia postergato l'esame e respinto il primo motivo di ricorso, incentrato sulla violazione del principio di legalità, determinatezza e tassatività delle fattispecie sanzionabili, dei principi di certezza del diritto e degli artt. 1 l. n. 689/1981 e 182 e 183 del c.a.p. Contrariamente a quanto sostenuto in sentenza, nel caso in esame, non si riscontrerebbero fattispecie sanzionatorie astratte, ricostruibili in chiari termini precettivi perfettamente comprensibili da un primario operatore del settore assicurativo. L'appellante, in particolare, in merito alla possibilità di ricostruire gli illeciti sanzionati riconducendoli alle fattispecie sanzionatorie astratte in chiari termini precettivi, osserva che la sentenza (p. 15) ammette che gli artt. 182 e 183 CAP, per la determinazione del loro contenuto, necessitano di una eterointegrazione mediante il rinvio ad una norma diversa da quella "incriminatrice". Nondimeno, alla pagina successiva (p. 16), ad avviso dell'appellante, la pronuncia in maniera criptica e tautologica, afferma che "con riferimento alle cinque figure di illecito ritenute ricorrenti da Ivass, vengono, di volta in volta, in rilievo violazioni di obblighi fondamentali gravanti sull'impresa assicuratrice quali quello di chiarezza, trasparenza e correttezza... la cui violazione - oltre a rilevare su un piano civilistico, ai sensi degli artt. 1337,1366 e 1375 c.c. - integra pure gli illeciti amministrativi delineati dagli artt. 182 e 183 del d,lgs. 209/2005". L'appellante sostiene che il giudice di prime cure avrebbe omesso di esaminare la necessità di eterointegrazione dei precetti normativi; le fonti integrative richiamate non sarebbero dotati di quei caratteri di determinatezza e di tassatività che controparte stessa ritiene indispensabili a suffragare il rispetto della riserva di legge. Sul punto, il Tar avrebbe fatto mal governo dei precedenti giurisprudenziali citati nella sentenza poiché gli addebiti, contrariamente a quanto precisato nelle decisioni, sarebbero formulati facendo sostanzialmente rinvio a clausole generali (diligenza, correttezza, trasparenza) che non sono ancorate ad alcun concreto parametro oggettivo. Pertanto, nemmeno si realizzerebbe un effettivo meccanismo di eterointegrazione della norma sanzionatoria primaria attraverso norme secondarie. In merito all'illecito sub a) (utilizzo di materiale pubblicitario con espressioni fuorvianti), richiamando le norme che l'Ivass assume violate (art. 182 c. 1 CAP; art. 39 c. 1 Reg. 35/2010), l'appellante osserva che le norme impongano il rispetto dei principi generali (correttezza e chiarezza) senza precisarne il contenuto. Il Tar si limiterebbe a rilevare che chiarezza e correttezza impongono che il messaggio pubblicitario sia tale da far comprendere le caratteristiche principali del prodotto, tuttavia non risulterebbe alcun obbligo di precisare nel messaggio pubblicitario le proporzioni tra la componente assicurativa e la componente finanziaria del prodotto. In merito all'illecito sub b) (Illustrazione fuorviante del regime fiscale relativo alle componenti esenti da tassazione) l'appellante osserva, da un lato, come il Tar si sofferma sull'eccesiva tecnicalità delle espressioni utilizzate dall'appellante (che il provvedimento gravato sanziona), dall'altro lato, come le norme che si assumono violate si caratterizzano per l'elevato tecnicismo delle regole. In secondo luogo la norma che si assume violata (All. 3 punto 8 Reg. 35/2010) stabilisce che deve essere "indicato" il trattamento fiscale applicabile al contratto; al contrario l'illecito è rubricato "illustrazione". I due concetti non sarebbero sovrapponibili: "indicare" significherebbe fornire informazioni; "illustrare" significherebbe chiarire nei particolari. In merito all'illecito sub c) (Mancata consegna del progetto esemplificativo rielaborato in forma personalizzata), l'appellante lamenta che la tesi del Tar, secondo cui a norma del regolamento sarebbe necessario che il cliente riceva in consegna il documento in quanto la presa visione non sarebbe sufficiente a rispettare il precetto normativo, è formalistica. La messa a disposizione del progetto, comprovata dall'attestazione di presa visione, indicherebbe che il documento è stato sottoposto al cliente prima di concludere il contratto. In merito all'illecito sub e) (Non piena attendibilità dell'indicatore Costo Percentuale Medio Annuo riportato nella scheda sintetica) l'appellante osserva che non verrebbe indicata quale previsione specifica della normativa regolamentare sia stata violata, di conseguenza resterebbe indeterminato il criterio concretamente prescritto dall'all. 2 Reg. 35/2010 e concretamente disatteso. In merito all'illecito f) (Carenti istruzioni alla rete distributiva in tema di raccolta delle informazioni necessarie alla valutazione di adeguatezza dei contratti offerti alle esigenze assicurative dei contraenti) l'appellante sostiene che il Tar si limita a riportare i profili di criticità rappresentati nel provvedimento sanzionatorio, tanto da essere indefinito il quadro delle regole che avrebbe violato. Il giudice di prime cure non affronterebbe la questione relativa alla mancanza di parametri oggettivi che guidino nell'applicazione della normativa alle polizze multi-ramo. 8.1 Il motivo è infondato. Quanto all'ordine d'esame delle censure, va ribadito che non è prescritto da parte del Giudice un ordine preciso di esame dei vari motivi proposti qualora essi non siano stati graduati dal ricorrente o, come nel caso di specie, non siano eccepiti il vizio di incompetenza o il difetto di legittimazione. Viceversa, nell'economia della decisione, il riscontro analitico delle singole violazioni ha evidenziato in modo puntuale, riferito al caso concreto, la sostanziale determinatezza dei precetti sanzionatori applicati. Sul piano generale, quanto alla denunciata violazione della necessaria determinatezza e tassatività delle fattispecie sanzionabili si può osservare che la riserva di legge prevista dall'art. 1 l. 689/81 è precettiva solo per quanto attiene alla determinazione della sanzione, esigendo la norma che la stessa sia comminata sulla base di norma primaria, ma consentendo il rinvio (cfr., Corte Cost. 11 luglio 1961, n. 48) "a provvedimenti amministrativi della determinazione di elementi o di presupposti espressione di discrezionalità tecnica". La riserva di legge - sul presupposto che la sanzione sia comminata direttamente dalla legge -consente l'integrazione meramente tecnica del precetto da parte di fonti non legislative. Le norme di settore contenenti i precetti non possono materialmente declinare tutte le fattispecie di violazione dei princì pi stessi perché ne risulterebbero norme pletoriche e comunque non esaustive di tutte le possibilità . Le norme in esame richiamano princì pi generali, individuabili senza incertezze, in cui il fatto viene accertato e sussunto nella fattispecie normativa per effetto dei rilievi in fatto contenuti nel rapporto ispettivo o azione di vigilanza "off site". In definitiva la contestazione d'addebiti e il provvedimento finale, s'integrano vicendevolmente e la portata lesiva dei fatti ed il loro disvalore nell'ordinamento di settore valutati nella motivazione del provvedimento impugnato.. La portata semantica degli elementi normativi evocati dai ridetti princì pi generali deriva dall'attività interpretativa tecnico-discrezionale dell'autorità procedente di cui il provvedimento e, prima ancora, gli atti prodromici - assunti in regì me di piena trasparenza e di contraddittorio - danno conto in motivazione. 9. Con il secondo motivo di appello l'appellante censura la pronuncia nel punto in cui ha respinto il secondo motivo di ricorso relativo alla mancata prova dei supposti illeciti. Il Tar ha sostenuto che le conclusioni di Ivass sarebbero supportate da riscontri documentali e inquadrate in fattispecie sufficientemente specificate, pertanto sarebbero soddisfatti gli oneri istruttori e motivazionali. Il giudizio espresso dal Tar sarebbe sostanzialmente apodittico, in quanto non sorretto da una effettiva dimostrazione. Sul secondo punto rinvia a quanto sostenuto nel primo motivo di appello. 9.1 Il motivo è infondato. Gli atti acquisiti in sede ispettiva e gli atti del procedimento, quali l'atto di contestazione e l'ordinanza gravata, circoscrivono i fatti contestati richiamando le disposizioni violate, anche tramite rinvio al rapporto ispettivo. La prova degli illeciti è stata offerta in concreto, consentendo all'ingiunta di percepire le contestazioni e di controdedurre nel corso del procedimento e corrisponde al paradigma probatorio tipico degli illeciti omissivi. Vale a dire che la prova della condotta positiva di adempimento degli obblighi derivanti dalla collocazione del prodotto finanziario-assicurativo, ai fini del rispetto dei princì pi di tutela in argomento, gravava - a fronte della contestata omissione - sull'impresa (cfr., Cass., Sez. Un., 30/9/2009, n. 20930, cit., anche in richiamo di Cass. Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533). 10. Con il terzo motivo di appello, l'appellante censura la pronuncia nel punto in cui ha rigettato il terzo motivo di ricorso con cui aveva lamentato la "Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 326 c. 1, CAP e dell'art. 5, Reg. IVASS 1/2013, nonché dell'art. 11, l. 689/1981. Violazione e/o falsa applicazione del principio di proporzionalità ...". Il Tar ha ritenuto che le fattispecie violate sarebbero ascrivibili a fattispecie di pericolo e che i richiami giurisprudenziali addotti dall'appellante a sostegno delle sue tesi non siano pertinenti. L'appellante censura la ricostruzione delle violazioni in termini di "fattispecie di pericolo" che si porrebbe in contrasto con la normativa di settore. Muovendo dall'analisi del dato normativo, l'appellante sostiene che le sanzioni sono configurate dalla normativa di riferimento come strumento che, oltre a punire, interviene per rimediare alla lesione, pertanto non potrebbero essere disgiunte dalla concreta lesività della condotta. La sentenza sarebbe erronea per aver trascurato la violazione del principio di proporzionalità ; per non aver tenuto conto che la società ha palesato la propria condotta collaborativa nei confronti della Vigilanza, tanto da essere intervenuta con azioni concrete per allinearsi ai rilievi critici prospettati nel rapporto ispettivo. Gli interventi migliorativi attuati dalla società appellante, e valutati positivamente dal Servizio Ispettorato, sarebbero stati travisati dall'Autorità che vi avrebbe ravvisato una sorta di "confessione" implicita o, almeno, di ammissione di responsabilità da cui far scaturire i presupposti per irrogare la sanzione. 10.1 Il motivo è infondato. In contrario a quanto dedotto dall'appellante, in continuità all'indirizzo giurisprudenziale qui condiviso, s'è chiarito che gli illeciti in materia assicurativa - proprio in quanto ritenuti di pericolo - sono perseguiti dall'ordinamento senza richiedere, quali elementi costitutivi, il pregiudizio della clientela o il conseguimento di concreto vantaggio economico (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 14 settembre 2020, n. 5444; Id.., sez. VI, 26 marzo 2020, n. 2125; Id., sez. VI, 5 agosto 2019, n. 5566; ) Anche il pregiudizio (o, a fortiori, il mero reclamo) dei clienti costituisce dato ultroneo ed estraneo rispetto agli elementi costitutivi dell'illecito, il quale è integrato dalla mera violazione di regole di comportamento che delineano la diligenza professionale esigibile, peraltro espressamente codificate sia a livello primario che regolamentare. La sanzione amministrativa, infatti, "non ha una funzione compensativa (risarcitoria) del danno patrimoniale subito dall'impresa assicuratrice, bensì intende garantire l'effetto di deterrenza a tutela della trasparenza del sistema assicurativo generale" (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 14 settembre 2020, n. 5444). Né è ravvisabile la violazione del principio di proporzionalità poiché la condotta cautelativa della società è meritevole d'apprezzamento nella graduazione della sanzione, e non nell'adozione della sanzione che non è (affatto) alternativa ai rimedi spontanei adottati dall'incolpata. 11. Con il quarto motivo di appello l'appellante censura la pronuncia nel punto in cui ha rigettato il quarto motivo del ricorso di primo grado. Il Tar si limita a negare che gli elementi prospettati dall'appellante - vale a dire la circostanza che la Società sia stata sanzionata nonostante abbia assunto misure più cautelative per la clientela; ed abbia applicato la normativa in modo più restrittivo di quanto previsto - possano inficiare il provvedimento sanzionatorio. Sicché le presunte violazione in materia di tutela del contribuente non sussisterebbero in ragione della condotta della società sarebbe improntata alla massima protezione della clientela e non risulterebbe in contrasto con le disposizioni di riferimento. 11.1 Il motivo è infondato In contrario a quanto dedotto dall'appellante, in continuità all'indirizzo giurisprudenziale qui condiviso, s'è chiarito che gli illeciti in materia assicurativa - proprio in quanto ritenuti di pericolo - sono perseguiti dall'ordinamento senza richiedere, quali elementi costitutivi, il pregiudizio della clientela o il conseguimento di concreto vantaggio economico (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 14 settembre 2020, n. 5444; Id.., sez. VI, 26 marzo 2020, n. 2125; Id., sez. VI, 5 agosto 2019, n. 5566; ) Anche il pregiudizio (o, a fortiori, il mero reclamo) dei clienti costituisce dato ultroneo ed estraneo rispetto agli elementi costitutivi dell'illecito, il quale è integrato dalla mera violazione di regole di comportamento che delineano la diligenza professionale esigibile, peraltro espressamente codificate sia a livello primario che regolamentare. La sanzione amministrativa, infatti, "non ha una funzione compensativa (risarcitoria) del danno patrimoniale subito dall'impresa assicuratrice, bensì intende garantire l'effetto di deterrenza a tutela della trasparenza del sistema assicurativo generale" (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 14 settembre 2020, n. 5444). Né è ravvisabile la violazione del principio di proporzionalità poiché la condotta cautelativa della società è meritevole d'apprezzamento nella graduazione della sanzione, e non nell'adozione della sanzione che non è affatto alternativa ai rimedi spontanei adottati dall'incolpata 12. Con il quinto motivo di appello l'appellante censura la pronuncia nel punto in cui ha respinto il quinto motivo di ricorso relativo alle pretese carenze del materiale pubblicitario e al preteso carattere ingannevole del messaggio pubblicitario (illecito sub a). Il Tar ha ritenuto che: la brochure rappresentava la natura composita della polizza, ma non precisava l'effettiva composizione; il prodotto presentava un cospicuo rischio di perdita di capitale non percepibile dalla brochure; la brochure era omissiva con riguardo alle informazioni sulle percentuali di composizione assicurativa e finanziaria e sulla rischiosità del prodotto; il supposto deficit informativo non poteva essere colmato dai contenuti della brochure con i riferimenti alla natura ibrida e con il richiamo al fascicolo informativo; sarebbero irrilevanti le considerazioni difensive sul target dei destinatari. Sulla destinazione del messaggio alla clientela e non ai venditori, la sentenza traviserebbe la funzione della brochure di "BG Stile Libero" che, all'opposto, avrebbe dovuto essere valutata in rapporto alle peculiarità del sistema distributivo del prodotto. La sentenza riconosce che dal materiale pubblicitario risultava la natura anche finanziaria del prodotto, ma censura la presunta omissione in ordine alle percentuali assicurativa e finanziaria e in ordine alla tipologia di rischio. Tali criticità non sarebbero indicate nel provvedimento sanzionatorio e dunque la sentenza sarebbe erronea per aver travalicato i limiti derivanti dal contenuto dei provvedimenti impugnati. 12.1. Il motivo è infondato. Né sussiste il denunciato travisamento della funzione della brochure di "BG Stile Libero", da valutare, secondo la censura, "in rapporto alle peculiarità del sistema distributivo del prodotto", visto che era impiegata dai promotori di Banca Generali, quali unici canali di collocamento. La natura ontologicamente e teleologicamente pubblicitaria del documento, congegnato e destinato al pubblico, non muta con riguardo al canale distributivo adottato. Come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, non è sufficiente che, dal materiale pubblicitario, risultasse la natura finanziaria del prodotto. Posto che il prodotto presenta "spiccata componente finanziaria e significativi rischi di mercato a carico dei contraenti i quali, per una parte compresa tra 70% e il 95% del premio versato, non avevano alcuna garanzia di capitale né tantomeno di rendimento minimo, così che il prodotto nel suo insieme risultava oggettivamente connotato da un cospicuo rischio di perdita del capitale, non percepibile dalla lettura della brochure". Al di là dell'indicazione delle percentuali della componente assicurativa e di quella finanziaria del prodotto, è stata omessa l'indicazione, perspicua ed inequivoca, della tipologia di rischio, in difformità dal canone di chiarezza indicato dalla disposizione regolamentare e da quello di correttezza, richiamato anche dalla norma primaria di riferimento (art. 182 CAP). La presenza sul mercato d'una gamma vastissima di prodotti c.d. "ibridi" che combinano la componente assicurativa ed quella finanziaria, con gradi di esposizione a rischio assai differenti tra loro in ragione di vari fattori, avrebbe dovuto indurre la ricorrente, nel presentare il prodotto, a rendere edotto il potenziale contraente del rischio affrontato, in ossequio ai principi di chiara e corretta l'informazione, di cui artt. 182, c. 1, CAP e 39, c. 1, Reg. ISVAP n. 35/2010. 13. Con il sesto motivo l'appellante censura il capo di sentenza di reiezione del sesto motivo del ricorso di primo grado relativo all'illecito b) concernente l'illustrazione del regime fiscale relativo alle componenti esenti da tassazione. La sanzione sarebbe stata irrogata per la pretesa non chiarezza di una parte delle informazioni sul regime fiscale riportate nella Nota Informativa. Il Tar avrebbe omesso di considerare che la descrizione del regime fiscale non si sarebbe esaurita nelle due espressioni oggetto dei rilievi dell'Autorità . I rilievi critici dell'Autorità riguardavano queste due formulazioni: "somme corrisposte in caso di morte" e "capitali percepiti in caso di decesso". Dalla lettura della motivazione del provvedimento sanzionatorio emerge che l'addebito è di aver usato locuzioni che genererebbero equivoci in quanto la prima espressione si riferisce all'intera prestazione assicurativa e la seconda alla copertura in caso di morte. Invece, secondo il Tar le espressioni non renderebbero "agevolmente percepibile quali somme fossero esenti da imposta di successione e quali da Irpef". 13.1. Il motivo è infondato. In merito al trattamento fiscale come rilevato dal giudice di prime cure la prescrizione relativa al trattamento fiscale (All. 3, sezione C, punto 8 Reg. 35/2010 e All. 8, sezione D, punto 13 Circ. ISVAP 551/2005) "va interpretata, proprio in forza del richiamo all'art. 183, nel senso che l'informazione fornita sia conforme a criteri di diligenza e trasparenza, alla quale sono inequivocabilmente contrari l'utilizzo di espressioni, anche parzialmente, omissive o di eccessivo tecnicismo giuridico":.. non è quindi sufficiente l'indicazione, perché "Diversamente da quanto ritenuto dalla ricorrente...la prescrizione secondo cui la nota informativa deve contenere le informazioni necessarie affinché il contraente e l'assicurato possano pervenire ad un fondato giudizio sui diritti e gli obblighi contrattuali anche con riferimento al trattamento fiscale". Prosegue la sentenza "Dalla mera lettura delle espressioni, appare evidente come la compiuta ermeneutica delle stesse richiedesse una particolare competenza tecnica in materia di tassazione o di esenzione dalla stessa o, in alternativa, un intervento interpretativo esterno". Le informazioni in parola paiono effettivamente inadeguate e fuorvianti, tali da non consentire al contraente comune di pervenire ad un fondato giudizio sui diritti e gli obblighi connessi alla stipulazione del contratto, anzi ne alterano la percezione. Il trattamento fiscale "agevolato" costituisce incentivo all'acquisto, da cui il conseguente obbligo d'informazione trasparente, facilmente comprensibile che, nel caso in esame, non è osservato. 14. Con il settimo motivo di appello l'appellante censura la pronuncia nel punto in cui ha respinto il settimo motivo del ricorso di primo grado relativo all'attendibilità del CPMA riportato nella scheda tecnica (illecito sub e). Il Tar ha ritenuto che: l'indicatore sintetico CPMA risulterebbe "... dettagliatamente disciplinato, quanto ai criteri di calcolo..."; alla società sarebbe imputato, oltre alla violazione dei criteri di calcolo pure la prospettazione di un costo significativamente inferiore; gli argomenti difensivi sulla indeterminatezza dei criteri e sul valore solo tendenziale del CPMA sarebbero irrilevanti; come ritenuto da Ivass la condotta di Genertellife sarebbe difforme dai canoni di diligenza, correttezza e trasparenza. Secondo la censura in esame, il convincimento del Tar sulla presunta esaustività della normativa sui criteri di calcolo articolata nell'All. 2 Reg. 35/2010 sarebbe eooroneo. Nel provvedimento sanzionatorio l'Autorità, proprio sul presupposto che mancherebbero criteri specifici di determinazione del CPMA per le polizze multi-ramo, ha giustificato l'addebito sostenendo che non investiva le peculiarità del calcolo dell'indicatore ma la struttura dei costi. Tale rappresentazione sarebbe contraddetta dal fatto che nello stesso provvedimento sanzionatorio le contestazioni riguarderebbero - non genericamente la struttura dei costi bensì specificamente - la percentuale di premio investita nella gestione separata e la percentuale di caricamento iniziale sul premio, giudicate "non coerenti con le medie di portafoglio". L'appellante evidenzia che la pronuncia gravata gli imputa di non aver contestato la non corrispondenza dei costi prospettati rispetto a quelli realmente attendibili, come se la Società avesse riconosciuto di aver calcolato il CPMA in modo non attendibile. Per l'appellante il Tar sembrerebbe aver equivocato il dato di partenza, ossia che il CPMA non avrebbe la funzione di fornire un'informativa completa sui costi. La sentenza incorrerebbe, poi, in errore nel sostenere che il calcolo del CPMA effettuato dalla Società abbia avuto "come risultato pratico, la prospettazione al contraente di un costo significativamente (e non tendenzialmente) inferiore a quello effettivamente rispondente alle caratteristiche del prodotto". Per l'appellante l'assunto è vago, perché ometterebbe di indicare la misura della pretesa discrasia concretamente riscontrata tra i costi effettivi e quelli prospettati, e soprattutto non quanto affermato non sarebbe provato. 14.1. Il motivo è infondato. I criteri generali per il calcolo del CPMA sono definiti dalla normativa (art. 183, c. 1, CAP e allegato 2, Reg. ISVAP n. 35/2010, che richiama all'art. 1 come fonte normativa l'art. 183). A fronte dello sviluppo di prodotto multiramo, che presenta variabilità dell'incidenza percentuale di ogni ramo, con una di "struttura di costi", diversificata in base all'investimento effettuato, la società appellante ha assunto solo le ipotesi estreme e più idonee a far apparire il CPMA quanto più basso possibile. Le allegazioni fornite in proposto dalla resistente sono dirimenti: - la massima possibile aliquota di investimento nella gestione separata prevista dal contratto (il 30%), contenendo al 70% la componente d'investimento con rischio del capitale per l'assicurato, anche se i dati di portafoglio - al momento dell'ispezione - mostravano che tale opzione, in media, riguardava solo il 18% della raccolta, percentuale per nulla corrispondente al segmento più significativo; - il caricamento minimo previsto dal contratto (lo 0% quando lo stesso può giungere fino al 3% e, in ogni caso, come affermato dalla società, quando la media di portafoglio - al momento dell'ispezione - risultava assestata su un valore dello 0,18%, dato che la società ritiene ancor oggi - sorprendentemente - indifferente, per quanto abbia un valore sostanziale diverso da quello comunque assunto). In definitiva, la società ha adottato le percentuali estreme, esclusivamente dirette a far apparire il prodotto con un CPMA più basso rispetto a quello mediamente attendibile 15. Con l'ottavo motivo di appello l'appellante censura il capo di reiezione del settimo motivo di ricorso relativo alla mancata consegna del progetto esemplificativo personalizzato (illecito sub c). Il Tar ha ritenuto che: le disposizioni pongono in maniera assolutamente chiara e inequivoca un obbligo di predisposizione e un successivo e distinto obbligo di consegna; le risultanze istruttorie farebbero emergere che il progetto esemplificativo è stato solo mostrato per presa visione; sarebbe irrilevante la mancanza di un obbligo di conservazione stante la distinzione tra presa visione e consegna; l'adozione da parte della Compagnia della circolare n. 12/2005 non avrebbe valenza scriminante. La pronuncia gravata, lamenta l'appellante, muove dall'erronea premessa chela normativa configurerebbe un obbligo di consegna del Progetto Esemplificativo Personalizzato; e che, non essendo stata trovata la copia del documento nel campione di fascicoli esaminati in sede ispettiva, non vi sarebbe la prova che la società appellante, oltre alla presa visione, abbia provveduto anche alla consegna del Progetto. Ma, aggiunge l'appellante, le norme richiamate nella motivazione dal Tar non prescrivono l'obbligo di consegna in termini tali da far apparire la condotta della società non satisfattiva di una qualche prescrizione. L'art. 9 c. 2 Reg. 35/2010 stabilisce che il progetto sia "da consegnare" al contraente e indica quale termine per adempiere il momento in cui il cliente "è informato che il contratto è concluso". La norma ammette la consegna in un momento successivo alla stipula contrattuale, pare non rispondente al dato normativo la tesi che pretende di penalizzare l'impresa che ha garantito la presa visione prima della stipula. Né si dovrebbe fare leva sulla distinzione fra "consegna" e "presa visione". Sicché, conclude sul punto la società, non è condivisibile l'affermazione del Tar che priva di efficacia l'aver garantito l'effettiva conoscenza del documento prima della sottoscrizione invece che al momento successivo del perfezionamento del contratto. Del pari non è corretto affermare che non ha valenza scriminante la condotta della società appellante che ha fornito le necessarie istruzioni operative alla rete distributiva. 15.1 Il motivo è infondato. Predisporre il progetto esemplificativo in un momento anteriore rispetto a quanto previsto dall'art. 9 Reg. n. 35/2010, ossia all'atto della firma della polizza in luogo che "al momento in cui il cliente è informato che il contratto è concluso"", non soddisfa il precetto d'effettiva tutela del cliente se, come nel caso in esame, il documento stesso non viene consegnato come prescritto dal regolamento. Sottoporre significa presentare qualcosa al giudizio di altri, mentre consegnare significa dare qualcosa in custodia o in possesso a qualcuno perché possa mantenerne disponibilità . Dunque la consegna presuppone la materiale disponibilità del documento al fine di consentirne anche successive consultazioni e analisi, il tutto nel contesto dell'obbligo di conservazione per almeno 5 anni (pro tempore vigente ex art. 57 Reg. ISVAP n. 5/2006), per tutti i contratti conclusi e per la documentazione relativa. 16. Con il nono motivo d'appello l'appellante censura la pronuncia nel punto in cui ha rigettato il nono motivo del ricorso di primo grado con cui lamentava l'insussistenza dell'illecito sub) f, relativo alla completezza degli adempimenti funzionali alla valutazione di adeguatezza. Il Tar: ha illustrato la contestazione di Ivass in termini di carenze nella struttura organizzativa in ordine alle procedure volte a garantire l'adeguatezza dei contratti alle esigenze dei contraenti, con la distinzione tra condotte fino a luglio 2015 e condotte successive; ritiene inefficace la scelta di utilizzare il questionario MIFID; rileva che non vi sarebbe una discrasia tra contestazione degli addebiti e provvedimento sanzionatorio finale; rappresenta che (i) fino a luglio 2015 l'alta percentuale di rifiuti al rilascio delle informazioni sarebbe sintomatica dell'illecito contestato e (ii) nel periodo successivo rileverebbe la casistica relativa ai prodotti con orizzonti temporali estesi proposti a clienti anziani. Nel respingere la tesi dell'appellante il giudice di prime cure si sarebbe limitato a fare riferimento ai contenuti della contestazione. Quanto alle contestazioni inerenti alle procedure di verifica dell'adeguatezza per il periodo fino al 30 giugno 2015, il Tar non avrebbe tenuto conto della normativa applicabile ratione temporis. L'art. 52 c. 4 Reg. 5/2006 avrebbe consentito di procedere alla stipulazione della polizza anche in caso di rifiuto del cliente di fornire le informazioni richieste, purché lo stesso cliente fosse reso edotto della conseguente impossibilità di valutare compiutamente l'adeguatezza del prodotto. Fin da marzo 2014, Genertellife avrebbe avviato, unitamente al distributore Banca Generali, una serie di azioni finalizzate ad elevare il livello di tutela del cliente e a contenere i casi di rifiuto; dal luglio 2015 sarebbe stata adottata una soluzione "integrata" di valutazione dell'adeguatezza, basata sull'utilizzo del Questionario MIFID e del Questionario IVASS; e si sarebbe introdotto il sistema della c.d. non-adeguatezza bloccante, in virtù del quale la Società appellante si è auto imposta un divieto di collocare il prodotto nel caso di mancata acquisizione o di rifiuto di fornire le informazioni necessarie per l'effettuazione della valutazione di adeguatezza. periodo. 16.1 Il motivo è infondato. A prescindere dal regime normativo che non muta sostanzialmente il contenuto delle prescrizioni contestate, sono dirimenti le risultanze della visita ispettiva effettuate dall'organo di vigilanza che hanno evidenziava, come scorrettamente sottolineato dal Tar, la scelta dell'impresa di utilizzare il questionario MIDIF non si fosse rivelata efficace nel predisporre presidi idonei e prevenire a una congrua valutazione di adeguatezza. Il questionario utilizzato restringeva il novero delle informazioni richieste e utilizzabili in materia di valutazione di adeguatezza, inficiando la correttezza della valutazione. Pertanto, rilievi documentali acquisiti in fase istruttoria smentiscono in fatto la censurata discrasia tra contestazione degli addebiti e provvedimento sanzionatorio finale. Né è censurabile il percorso argomentativo seguito dai giudici di prime cure laddove, con riferimento al primo periodo analizzato fino a luglio 2015, stante l'alta percentuale di soggetti che hanno rifiutato di rilasciare le informazioni presenti nel questionario distribuito dai collocatori del prodotto, da inferire "una indiscutibile valenza sintomatica in ordine alla ricorrenza dell'illecito ravvisato, risultando, in conclusione, dimostrato che non era stata, in concreto, posta in essere la necessaria verifica di adeguatezza su un numero molto alto di contratti". E, con riferimento al periodo successivo, la violazione contestata trova riscontro, come rilevato dal Tar, nella casistica riportata nel verbale ispettivo e dalla quale emerge che, in un significativo numero di casi, a clienti particolarmente avanti negli anni venivano proposti, senza che scattassero alert di adeguatezza, prodotti con orizzonti temporali non compatibili con l'età anagrafica del sottoscrittore. Senza che la violazione venga meno per il fatto che il prodotto "BG Stile Libero", disciplinava espressamente il caso morte, indipendentemente dall'orizzonte temporale assunto con riguardo agli investimenti sottostanti. L'obbligo di chiarezza impone comunque l'adozione delle misure adeguate di tutela del tipo del potenziale sottoscrittore. 17. Con il decimo motivo di appello l'appellante censura la pronuncia per aver respinto il decimo motivo del ricorso di primo grado con cui, in subordine, aveva richiesto la rideterminazione della sanzione tenuto conto degli interventi effettuati e della tenuità dei fatti contestati. La pronuncia gravata sosterrebbe erroneamente che dalla motivazione del provvedimento impugnato emergono le ragioni del giudizio di gravità delle condotte, al contrario, denuncia la società, tale gravità non sarebbe dimostrata. Nel dettaglio l'appellante ripropone in merito alla quantificazione dei singoli illeciti le argomentazioni già proposte in primo grado. 17.1 Il motivo è infondato. Costituisce orientamento consolidato, da cui non sussistono giustificati motivi per qui discostarsi, che la scelta tra il minimo ed il massimo di pena pecuniaria risponde allo scopo di rimettere al potere dell'amministrazione la commisurazione della sanzione alla concreta gravità del fatto illecito, senza necessità che sia specificato il criterio seguito (cfr., Cassazione civile, sez. I, 10 dicembre 1996, n. 10976; Cassazione Civile, Sez. I, 24 marzo 2004, n. 5877 e Cass. Civile I, 4 novembre 998, n. 11054). La gravità delle condotte emerge dalla motivazione del provvedimento che, nel riflesso giuridico della quantificazione della sanzione, è espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità salvo che, in ipotesi - qui non ricorrenti - di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l'evidente sproporzionalità e il travisamento. Come condivisibilmente rilevato dal Tar, in ragione della pluralità dei rilevi, è stato adottato un criterio composito: al minimo edittale, moltiplicato per due perché tale era il numero delle violazioni, s'è aggiunto il criterio di valore medio, in sé non irragionevole e, in concreto, proporzionato alla descrizione dei fatti e degli interessi pubblici alla cui tutela sono finalizzate le norme violate. 18. Conclusivamente l'appello deve essere respinto. 19. Le spese del grado di giudizio, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna Ge. S.p.A. al pagamento delle spese del grado di giudizio in favore di Ivass -Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni liquidate complessivamente in 5000,00 (cinquemila) euro, oltre diritti ed accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Sergio De Felice - Presidente Luigi Massimiliano Tarantino - Consigliere Oreste Mario Caputo - Consigliere, Estensore Roberto Caponigro - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Milena FALASCHI - Presidente Aldo CARRATO - Consigliere Rel. Antonio SCARPA - Consigliere Chiara BESSO MARCHEIS - Consigliere Remo CAPONI - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso (iscritto al N.R.G. 31743/2018) proposto da: BANFI LORENZO MAURO e REALI DAVID, rappresentati e difesi, in virtù di distinte procure speciali allegate al ricorso, dagli Avv.ti Claudio Bonora, Roberto Ferretti e Federico Sorrentino, elettivamente domiciliati presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, Lungotevere delle Navi, n. 30; - ricorrenti - contro BANCA D’ITALIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura rilasciata su separato foglio allegato materialmente al controricorso, dagli Avv.ti Stefani Ceci, Monica Marcucci e Nicola De Giorgi, elettivamente domiciliata presso i medesimi, in Roma, v. Nazionale, n. 91; - controricorrente - avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 4459/2018 (pubblicata il 2 luglio 2018); udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’11 aprile 2024 dal Consigliere relatore Aldo Carrato; R.G.N. 31743/2018 P.U. 11/04/2024 SANZIONI AMMINISTRATIVE udito il P.M., in persona del Sostituto P.G. Alberto Cardino, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso; udito l’Avv. Claudio Bonora, per i ricorrenti, e l’Avv. Nicola De Giorgi, per la controricorrente. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Con provvedimento del 23 ottobre 2012 n. 890349, approvato con deliberazione del Direttorio n. 689/2012, la Banca d’Italia definitiva il procedimento sanzionatorio instaurato, tra gli altri, contro Lorenzo Mauro Banfi e David Reali, quali componenti del collegio sindacale della Banca Network Investimenti spa, a seguito degli accertamenti ispettivi di vigilanza eseguiti dal 30 maggio al 30 settembre 2012, all’esito dei quali veniva irrogata, nei riguardi di ciascuno degli stessi, la sanzione pecuniaria di euro 15.000,00. Ai citati sanzionati era stato contestato l’illecito riconducibile alle carenze nei controlli imposti dall’art. 53, comma 1, lett. b) e d) del d. lgs. n. 385/1993, nonché delle norme contenute nel tit. IV cap. 11 delle Istruzioni di vigilanza delle banche – circ. 229/1999, nonché nel tit. I cap. I, parte IV, delle nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche, circ. 263/2006 – disposizioni di vigilanza del 4 marzo 2008 in materia di organizzazione e governo societario delle banche. Il Banfi e il Reali proponevano opposizione avverso la suddetta delibera sanzionatoria dinanzi al TAR Lazio, il quale – con sentenza del 25 febbraio 2015 – dichiarava il proprio difetto di giurisdizione. A seguito della riassunzione avanti alla Corte di appello di Roma, nella resistenza della Banca d’Italia e con l’intervento del PG presso la stessa Corte laziale, le opposizioni venivano integralmente respinte con sentenza n. 4459/2018, ravvisandosi l’insussistenza: a) della dedotta violazione dell’art. 14 della legge n. 689/1981, avuto riguardo all’asserita tardività della contestazione dell’addebito, avvenuta oltre il novantesimo giorno dall’accertamento del 30 settembre 2011; b) della denunciata violazione della mancata corrispondenza tra contestazione e condotta sanzionata; c) della prospettata carenza, erroneità e motivazione dell’impugnata delibera sanzionatoria; d) dell’erroneità dell’accertamento di condotte illecite ascrivibili a componenti del collegio sindacale della Banca Network Investimenti; e) della sproporzione ed incongruità della misura delle sanzioni irrogate. 2. Contro la suddetta sentenza di rigetto della Corte di appello di Roma hanno formulato un congiunto ricorso per cassazione Banfi Lorenzo Mauro e Reali David, affidato a otto motivi (di cui il primo riferibile, in via esclusiva, al solo Reali). Ha resistito con controricorso la Banca d’Italia. Il PG e i difensori di entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo David Reali denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 140 c.p.c., per aver la Corte di appello ritenuto – con la sentenza impugnata - tempestiva la notifica del verbale di avvio del procedimento sanzionatorio, da considerarsi, invece, affetta da nullità. In particolare, il Reali lamenta che la procedura notificatoria di cui all’art. 140 c.p.c. non era stata correttamente eseguita, in quanto esso ricorrente non aveva reperito l’avviso del deposito presso la Casa comunale, che avrebbe dovuto essere affisso sulla porta della sua casa di abitazione. Per contro, si evidenzia che la Corte di appello aveva preso in esame la questione della scissione degli effetti della notificazione fra mittente e destinatario, la quale, tuttavia, non era stata dallo stesso sollevata in giudizio con l’atto di opposizione. 1.1. Il motivo non coglie nel segno e va disatteso. Diversamente da quanto con esso prospettato, la Corte di appello non è incorsa nella dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., dal momento che ha posto riferimento alla richiamata rilevata distinzione relativa alla scissione degli effetti della notificazione fra notificante e notificatario proprio per desumerne che, nella fattispecie, non si era venuta a verificare la supposta violazione dell’art. 140 c.p.c. La Corte laziale, proprio sulla base di questo ormai pacifico presupposto giuridico (che trova applicazione anche nell’ambito dei procedimenti sanzionatori amministrativi: cfr. Cass. SU n. 12332/2017, Cass. n. 28388/2017 e Cass. n. 20515/2020), ha ritenuto legittima e tempestiva la notificazione dell’atto di contestazione dell’addebito nei confronti del Reali, rilevando che, a fronte della definizione dell’accertamento avvenuto il 30 settembre 2011, si era provveduto all’invio del suddetto atto di contestazione, da parte della Banca d’Italia, con la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario il 21 dicembre 2011 e, quindi, entro il termine decadenziale di legge. A tal proposito la Corte di appello ha opportunamente richiamato, considerandolo applicabile, quanto statuito dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 12332/2017, con cui è stato affermato che il principio della scissione degli effetti della notificazione tra il notificante ed il destinatario dell'atto trova applicazione anche per gli atti del procedimento amministrativo sanzionatorio - non ostandovi la loro natura recettizia – tutte le volte in cui dalla conoscenza dell'atto stesso decorrano i termini per l'esercizio del diritto di difesa dell'incolpato e, ad un tempo, si verifichi la decadenza dalla facoltà di proseguire nel procedimento sanzionatorio in caso di omessa comunicazione delle condotte censurate entro un certo termine, dovendo bilanciarsi l'interesse del notificante a non vedersi imputare conseguenze negative per il mancato perfezionamento della fattispecie "comunicativa" a causa del fatto di terzi che intervengano nella fase di trasmissione del contenuto dell'atto e quello del destinatario a non essere impedito nell'esercizio di propri diritti, compiutamente esercitabili solo a seguito dell'acquisita conoscenza del contenuto dell'atto medesimo. Pertanto, a questi fini, non rileva che l’esecuzione della notificazione sia avvenuta ai sensi dell’art. 140 c.p.c., senza trascurare il dato che lo stesso ricorrente ha attestato di aver ricevuto il plico, con effetto perciò sanante e tale da consentirgli il pieno dispiegamento delle sue attività difensive (cfr. Cass. n. 11713/2011 e Cass. n. 19522/2016). Oltretutto, per quanto evincibile dagli atti acquisiti in causa (esaminabili anche nella presente sede, vertendosi in un caso di denuncia di un vizio processuale), è emerso che il timbro apposto dall’ufficiale giudiziario che aveva proceduto alla notificazione dell’atto di contestazione degli addebiti ai sensi dell’art. 140 c.p.c. reca la data del 28 dicembre 2011 e nella stessa data il medesimo aveva compiuto le attestazioni relative all’affissione dell’avviso di deposito alla porta del destinatario e all’invio di altro avviso R.R. con spedizione presso il domicilio dello stesso Reali comunicandogli l’avvenuto deposito, così risultando completata la procedura notificatoria prevista dal citato art. 140 del codice di rito (peraltro, per vincere tali attestazioni effettuate dall’ufficiale giudiziario, occorreva proporre – rimedio che non risulta, invece, essere stato esperito dal Reali - querela di falso, stante la natura fidefaciente della relazione di notificazione: v., ad es., Cass. n. 1699/2019 e, già, Cass. n. 1125/1998). Pertanto, deve ritenersi che, ai fini del rispetto del termine di cui all’art. 14 della legge n. 689/1981, non costituisce elemento integrante della notificazione l’effettiva conoscenza acquisita dal destinatario in una data successiva, la quale – semmai – esercita la sua efficacia sulle attività di cui costui ha diritto di avvalersi, quali la presentazione delle proprie controdeduzioni, il cui termine di 30 giorni previsto dal TUB viene a decorrere dalla data di ricezione del plico, avvenuta, nel caso di specie, il 10 gennaio 2012 (come dallo stesso ricorrente ammesso: cfr. pag. 8 del ricorso). 2. Con il secondo motivo di ricorso sia il Banfi che il Reali deducono la violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della legge n. 241/1990 e dell'art. 97 Cost., sul presupposto che la Corte di appello avrebbe, erroneamente, ritenuto corretta la motivazione del provvedimento sanzionatorio. La censura è priva di pregio. A tale proposito, occorre rilevare che l’atto sanzionatorio, pur se sostanzialmente riproduttivo degli esiti delle operazioni ispettive, non può certo, per tale motivo soltanto, essere considerato insufficientemente motivato (v., ad es., Cass. n. 10745/2015), rispondendo, pertanto, per quanto in modo essenziale, alle doglianze mosse dai ricorrenti, non risultando, perciò, integrata la violazione del diritto di difesa ed al contraddittorio degli stessi. Va, oltretutto, ricordato che – sul piano generale – il provvedimento sanzionatorio con cui la P.A., disattendendone le deduzioni difensive, irroga al trasgressore una sanzione amministrativa è censurabile dal giudice dell'opposizione, sotto il profilo del vizio motivazionale, unicamente nel caso in cui sia del tutto privo di motivazione (ovvero quando questa sia solo apparente) e non anche se la stessa risulti insufficiente, atteso che l'eventuale giudizio di inadeguatezza motivazionale involge una valutazione di merito che non compete al giudice ordinario, concernendo il giudizio di opposizione non l'atto della P.A., ma il rapporto sottostante (Cass. SU n. 1786/2010, Cass. n. 2959/2016 e Cass. n. 12503/2018). Nel caso di specie, oltretutto, vengono in rilievo sanzioni amministrative irrogate ex art. 144 TUB, le quali non sono comparabili a quelle di cui all’art. 187-ter TUB, e quindi non possono considerarsi del tutto soggette al regime di garanzie proprio del processo penale (Cass. n. 3656/2016 e Cass. n. 16517/2020). 3. Con il terzo motivo i due ricorrenti denunciano la nullità della sentenza o del procedimento per omessa pronuncia sull’eccezione di violazione dei principi di colpevolezza e personalità, previsti dagli artt. 3 e 6 della legge n. 689/1981, stante l’uniformità degli addebiti mossi indistintamente a tutti i membri degli organi amministrativi e di controllo della BANCA NETWORK INVESTIMENTI – BNI S.p.a. Diversamente da quanto denunciato, il Collegio rileva che – per come chiaramente emergente dallo sviluppo motivazionale contenuto nelle pagg. 10-11 della sentenza impugnata - risultano essere stati evidenziati i puntuali doveri incombenti sugli organi di controllo societari e, in particolare, le carenze concretamente rilevate nello svolgimento di tale specifica attività rispetto agli organi di amministrazione. Da ciò consegue l’insussistenza del dedotto vizio di omessa pronuncia. 4. Con il quarto motivo i ricorrenti prospettano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2403 c.c., dell'art. 53, comma 1, lett. b) e d), TUB, nonché delle norme contenute nel Titolo IV, Capitolo 1 delle Istruzioni di vigilanza per le Banche di cui alla Circolare n. 229/99 della Banca d'Italia; nel Titolo I, Capitolo 1, parte quarta delle Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le Banche, di cui alla circolare n. 263/06 della Banca d'Italia e, infine, nelle Disposizioni di vigilanza in materia di organizzazione e governo societario delle banche, adottate dalla Banca d'Italia con provvedimento del 4 marzo 2008, in ordine al contenuto degli obblighi di controllo del Collegio sindacale. In sostanza, con tale censura, i ricorrenti denunciano, nel ripercorrere le motivazioni del provvedimento sanzionatorio, che la Corte di appello avrebbe avvalorato l’attribuzione ai sindaci della citata banca (qualità rivestita dal Banfi e dal Reali) della funzione di valutare nel merito la convenienza ed opportunità delle scelte gestorie societarie, obliterando, però, di considerare che al collegio sindacale non compete l’organizzazione delle funzioni di controllo interno, spettanti alla governance bancaria. La censura è priva di fondamento. La sentenza impugnata si è, infatti, uniformata alla giurisprudenza – ormai costante – di questa Corte, alla stregua della quale sono stati enunciati i seguenti principi: - in tema di sanzioni amministrative pecuniarie applicabili ai sensi degli artt. 144 e 145 TUB, il componente del collegio sindacale è imputabile a titolo di dolo o di colpa per l'omesso o il difettoso compimento, cosciente e volontario, dei doveri di controllo e di ispezione di cui all'art. 2403, terzo comma, c.c., non diversamente da quanto previsto dalla disciplina generale dell'illecito amministrativo di cui alla legge n. 689 del 1981 che esclude forme di responsabilità oggettiva; - in materia di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia bancaria, i componenti del collegio sindacale, i quali, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la corretta gestione societaria, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo "quoad functione", gravando sui sindaci, da un lato, l'obbligo di vigilanza in funzione non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche della verifica dell'adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno della società, secondo i parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare di vigilanza e, dall'altro lato, l'obbligo legale di denuncia immediata alla Banca d'Italia. In altri termini, diversamente da quanto prospettato con il motivo in esame, non si tratta di imputare ai sindaci una responsabilità per il compimento di operazioni irregolari o illecite da parte di altri, né di sottoporre gli organi amministrativi ad un controllo sul merito delle scelte gestionali, ma di esigere l’esercizio tempestivo dei poteri ispettivi che la legge pone a carico dei sindaci, esercizio che, nella specie, la Corte di appello di Roma ha accertato essere mancato con una motivazione del tutto logica e sufficiente, perciò insindacabile nella presente sede di legittimità. Al riguardo, la citata Corte (v., soprattutto, pagg. 13-14 della motivazione della sentenza qui impugnata) ha adeguatamente evidenziato l’assenza di iniziative volte a far emergere e a rimuovere le anomalie e le irregolarità rilevate (sul punto, v. Cass. SU n. 20934/2009 e, già con specifico riferimento alle sanzioni ex art. 144 TUB, Cass. n. 5239/2008), non essendosi i medesimi attivati per far emergere gli indici di criticità correlati all’attività gestoria bancaria (tra i quali la larga diffusione di condotte scorrette dei promotori, la vendita di prodotti rischiosi senza adeguate cautele, il ritardo nella segnalazione dell’applicazione della normativa antiriciclaggio). 5. Con il quinto motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione della disciplina normativa regolatrice del riparto dell’onere probatorio, di cui all’art. 2697 c.c. ed all'art. 3 della legge n. 689/1981 (in rapporto all’art. 115 c.p.c.), sostenendosi che la Corte di appello avrebbe conferito rilevanza unicamente alle risultanze degli accertamenti ispettivi, senza considerare le controdeduzioni documentali degli stessi ricorrenti, fra le quali il rapporto della BANCA D’ITALIA 18.10.2012 prot. 0873007/12, che aveva escluso qualsivoglia responsabilità, e degli organi gestori e degli organi di controllo, per le perdite patrimoniali subite da BNI. Contrariamente a quanto sostenuto con la formulata censura, deve evidenziarsi che la Corte di appello non si è limitata a recepire acriticamente e pedissequamente le risultanze degli accertamenti ispettivi, ma ha provveduto a vagliare autonomamente e in modo tra loro coordinato varie circostanze fattuali, fra cui: il significativo contenzioso sviluppatosi a seguito della offerta di prodotti finanziari non adeguati, nel periodo di operatività dell’organo sindacale di controllo; il non aver impedito, quindi, un’estesa diffusione di vendita incauta di prodotti ad elevata rischiosità per la clientela (oltretutto riferita ad una banca di piccole dimensioni) e – come già evidenziato - il ritardo nell’adozione della normativa antiriciclaggio. Peraltro, è appena il caso di aggiungere che il riferimento al su citato rapporto della Banca d’Italia concerne unicamente lo specifico problema della diminuzione della patrimonialità della BNI, ma non esclude in alcun modo che all’organo di controllo fossero addebitabili specifiche omissioni nelle loro funzioni. 6. Con il sesto motivo i ricorrenti denunciano l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, con riferimento all’arco temporale degli accertamenti ispettivi. Si deduce che tali accertamenti avrebbero posto riferimento unicamente a fatti occorsi fra il maggio 2010 e il settembre 2011, senza considerare quelli anteriori, sui quali la stessa Banca d’Italia aveva condotto un accertamento ispettivo diverso da quello oggetto della presente causa, riferibile sino alla data del 17.10.2008, conclusosi senza la contestazione di addebiti. Diversamente da quanto opinato dai ricorrenti, la Corte di appello ha adeguatamente chiarito che l’esclusione della responsabilità del sindaco Favalesi era giustificata dal fatto che egli aveva cominciato a svolgere il suo incarico dal 27 aprile 2010, nel mentre il Banfi e il Reali lo avevano assunto a far data dal 26.9.2007 e che le loro omissioni di vigilanza - nel corso del periodo in cui essi avevano rivestito tale qualità - erano state verificate con gli accertamenti ispettivi che erano stati poi posti a fondamento della impugnata delibera sanzionatoria. La circostanza della contestata “perimetrazione temporale” risulta, dunque, essere stata esaminata. 7. Con il settimo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 53, 144 e 145 TUB in relazione al rilievo ispettivo n. 11), con il quale si contestava la mancata osservanza delle prescrizioni antiriciclaggio, di cui all’art. 7, d.lgs. 231/2007, fattispecie estranea al potere di controllo degli Istituti di credito e di normazione secondaria della Banca d’Italia, di cui al citato art. 53 TUB. A tal proposito va rilevato che l’area applicativa dell’art. 53 TUB concerne il controllo interno (comma 1, lett. d) e il contenimento del rischio (comma 1, lett. b) e la violazione della relativa normativa secondaria trova la disciplina sanzionatoria nell’art. 144 TUB. Nel caso, non risulta essere stato applicato il procedimento sanzionatorio previsto dall’art. 56 del d.lgs. 231/2007, che pertanto non viene in rilievo nella vicenda dedotta in causa. 8. Con l’ottavo ed ultimo motivo i ricorrenti denunciano l’omessa pronuncia sulla dedotta incompetenza della Banca d’Italia all’irrogazione di sanzioni concernenti la prestazione di servizi di investimento, da intendersi, invece, devoluta alla competenza CONSOB dal TUF. La doglianza è priva di fondamento, dal momento che la Corte di appello ha preso specifica posizione sulla questione (v. ultima parte di pag. 11 e la prima della successiva pag. 12), rilevando che le sanzioni irrogate al Banfi e al Reali attenevano alla violazione della disciplina dell’attività di controllo interno e non invadevano, pertanto, la sfera di attribuzioni propria della CONSOB. Più specificamente nella sentenza impugnata è stato correttamente posto in risalto che non aveva rilievo che la contestata carenza nei controlli interni concernesse anche l’attività di collocamento tra i clienti della banca di prodotti finanziari soggetta a vigilanza della CONSOB, poiché la contestazione e la conseguente sanzione applicata avevano riguardato i controlli interni della banca e l’adeguatezza dell’attività di controllo da esercitarsi sulle funzioni societarie e non esorbitavano, quindi, dai compiti di vigilanza sulle banche assegnati alla Banca d’Italia. È da escludersi, quindi, la sussistenza della dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c. 9. In definitiva, il ricorso va integralmente respinto, con conseguente condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo. Infine, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 3.700,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali in misura del 15%. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1- bis dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte di cassazione, in data 11 aprile 2024. Il Consigliere estensore La Presidente Aldo Carrato Milena Falaschi

  • 1 REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto Responsabilità civile per danno da animale selvatico GIACOMO TRAVAGLINO Presidente ENRICO SCODITTI Consigliere - Rel. CHIARA GRAZIOSI Consigliere ENZO VINCENTI Consigliere Cron. R.G.N. 4745/2020 PAOLO PORRECAConsigliere Ud.22/4/2024 PU Cron. R.G.N24493/2021 Ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 24493/2021 R.G. proposto da: ATC AMBITO TERRITORIALE DI CACCIA RAVENNA 3, elettivamente domiciliato in ROMA CORSO VITTORIO EMANUELE II 308, presso lo studio dell’avvocato RUFFOLO UGO (RFFGUO42D02I872U) che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato LOCCISANO VALTER (LCCVTR76B01I725W) -ricorrente- contro PAGLIAI ARMANDO E GIORGIO SS SOC. AGRICOLA AZIENDA AGRICOLA PAGLIAI, elettivamente domiciliato in Roma via delle Milizie 2 22, presso lo studio dell’avvocato ARONICA WALTER (RNCWTR80P23H501A) rappresentato e difeso dall'avvocato DOLCINI SILVIA (DLCSLV59H58D458J) -controricorrente- avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO BOLOGNA n. 1136/2021 depositata il 11/05/2021. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 22/04/2024 dal Consigliere ENRICO SCODITTI; sentite le parti ed il Pubblico Ministero GIOVANNI BATTISTA NARDECCHIA. Fatti di causa 1. Con atto di citazione notificato in data 11 luglio 2012 l’Azienda Agricola Pagliai Armando e Giorgio s.s. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Ravenna l'Ambito Territoriale di Caccia Ravenna 3 chiedendo il risarcimento del danno causato dall’azione di cinghiali e caprioli sui propri fondi coltivati siti nel Comune di Brisighella. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda. 2. Il Tribunale adito accolse la domanda, condannando il convenuto al risarcimento del danno nella misura di Euro 20.965,00, oltre accessori. 3. Avverso detta sentenza propose appello l’Ambito Territoriale. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello. 4. Con sentenza di data 11 maggio 2021 la Corte d’appello di Bologna rigettò l’appello. Osservò la corte territoriale, per quanto qui rileva, che, diversamente da quanto affermato da Cass. n. 2374 del 2016 in relazione ad un fatto accaduto nel 1997, in relazione al fatto in questione, verificatosi nel 2011, doveva aversi riguardo, ai fini del riconoscimento della sussistenza della legittimazione passiva del convenuto, alle modifiche intervenute prima con la legge regionale n. 3 6 del 2000, e poi con la legge regionale n. 16 del 2007, alla legge regionale n. 8 del 1994. In particolare, osservò quanto segue. «L’art. 17 della L.R. 8/1994 prevedeva nella formulazione originaria che gli oneri per il contributo al risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole e alle opere approntate su terreni coltivati ed a pascolo dalle specie di fauna selvatica sono a carico delle Provincie, qualora siano provocati nelle zone di protezione, anche se in gestione convenzionata ovvero, per quanto di rilievo in questa sede, degli ambiti territoriali di caccia qualora si siano verificati nei fondi ivi compresi. Con la L.R. 6/2000 si è disposto che la legittimazione è degli ambiti territoriali di caccia, qualora gli eventi lesivi si siano verificati nei fondi ivi ricompresi, oppure delle Province, qualora siano provocati nelle zone di protezione di cui all'art. 19 e nei parchi e nelle riserve naturali regionali, comprese quelle aree contigue ai parchi dove non è consentito l'esercizio venatorio. Con L.R. 16/2007 si è provveduto a modificare ulteriormente la disciplina di cui trattasi confermando la legittimazione degli ambiti territoriale di caccia per le specie di cui si consente il prelievo venatorio, qualora gli eventi lesivi si siano verificati nei fondi ivi ricompresi». 5. Ha proposto ricorso per cassazione l'Ambito Territoriale di Caccia Ravenna 3 sulla base di un motivo. Resiste con controricorso la parte intimata. Il Pubblico Ministero ha presentato le conclusioni scritte, concludendo per l’accoglimento del ricorso. E’ stata depositata memoria di parte. Ragioni della decisione 1. Con il motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 26 legge n. 157 del 1992, 16, 17 e 18 legge regionale n. 8 del 1994, 111 Cost., 132 n. 4 e 118 att. cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale ha ravvisato la sussistenza della legittimazione passiva in capo al ricorrente nonostante le modifiche richiamate alla 4 legge regionale non modificassero, per la parte rilevante, la legge regionale n. 8 del 1994, così come interpretata da Cass. n. 2375 del 2016, la quale aveva individuato nella Provincia il soggetto passivamente legittimato, posto che la lieve modifica intervenuta aveva toccato solo l’art. 17, il quale prevede, come affermato da Cass. n. 2375 del 2016, la ripartizione interna fra la Provincia e gli altri soggetti (fra cui l’Ambito Territoriale) degli oneri relativi ai contributi per il fondo regionale, previsto dall’art. 26 legge n. 157 del 1992 per i danni arrecati alle produzioni agricole dalle specie di fauna selvatica cacciabile. Aggiunge che la motivazione, alla luce di quanto osservato, risulta anche apparente. 1.1 Deve premettersi all’esame del motivo che il ricorrente ha depositato copia della sentenza impugnata, con asseverazione di autenticità, priva però dell’indicazione della data di pubblicazione (c.d. glifo). La questione, per come ha già trovato modo di declinarsi nella giurisprudenza di questa Corte, è riassumibile nei seguenti termini: se il deposito di sentenza digitale priva della stampigliatura (quest’ultima indicata, in taluni precedenti, atecnicamente come “glifo”), apposta in via automatica dal sistema informatico di gestione dei servizi di cancelleria, indicante la data di deposito ed il numero del provvedimento, valga o meno a soddisfare l’onere di deposito del provvedimento impugnato previsto a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., ovvero, in assenza dei predetti dati, debba addivenirsi, altrimenti, ad una pronuncia di inammissibilità del ricorso per tardività, ove non si ritenga superata la c.d. prova di resistenza. 1.2. – Occorre, anzitutto, dare evidenza, in estrema sintesi, alle soluzioni (con gli argomenti che le sorreggono) sinora adottate dalla giurisprudenza di questa Corte, alla luce di una ricognizione di cui si fa carico, in modo ampio, la memoria del pubblico ministero e alla quale, dunque, giova richiamarsi. 5 1.2.1. – L’improcedibilità del ricorso per cassazione è stata dichiarata (tra le altre: Cass. n. 29803/2020, Cass. n. 5771/2023, Cass. n. 8535/2023, Cass. n. 10180/2023, Cass. n. 23694/2023, Cass. n. 25472/2023, Cass. n. 28035/2023, Cass. n. 36379/2023) nel caso in cui la sentenza impugnata, redatta in formato digitale, risulti priva dell’attestazione di cancelleria circa l’avvenuta pubblicazione, la relativa data e il conseguente numero di pubblicazione, sia perché i suddetti adempimenti sono gli unici che permettono alla Corte di controllare se e quando il provvedimento impugnato sia effettivamente venuto ad esistenza, sia perché la produzione di una copia della sentenza incerta nella data e priva del numero identificativo non consente di verificare la tempestività dell’impugnazione, né, in caso di accoglimento del ricorso, di formulare un corretto dispositivo che, coordinato con la motivazione, individui con esattezza il provvedimento cassato. In particolare, gli argomenti a sostegno dell’improcedibilità (Cass. n. 5771/2023) muovono dal rilievo che «la disposizione dell’art. 16- bis, comma 9-bis, del d.l. n. 179/2012 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 221/2012) - introdotta dall’art. 52, comma 1, lett. a), del d.l. n. 90/2014 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 114/2014) - che stabilisce la equivalenza all’originale delle copie informatiche, anche per immagine, dei provvedimenti del Giudice “anche se prive della firma digitale del cancelliere di attestazione di conformità all’originale”» attribuisce «al difensore il potere di certificazione pubblica delle “copie analogiche ed anche informatiche, anche per immagine, estratte dal fascicolo informatico” ma non anche la competenza amministrativa riservata al funzionario di Cancelleria relativa alla “pubblicazione” della sentenza». Si è, quindi, ritenuto che, “per quanto in linea generale sia possibile produrre in giudizio copie o duplicati del provvedimento impugnato estratti dal fascicolo telematico, attestando la conformità del relativo contenuto all’originale 6 contenuto nel predetto fascicolo, ai fini della procedibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 369 c.p.c. deve comunque trattarsi di copie o duplicati recanti l’attestazione di Cancelleria della pubblicazione del provvedimento, con la relativa data e il numero attribuito dal sistema”, altrimenti resterebbe preclusa alla Corte la verifica circa l’effettiva venuta ad esistenza del provvedimento impugnato e del suo numero identificativo. 1.2.2. – L’inammissibilità del ricorso è stata dichiarata (tra le altre: Cass. n. 18510/2023, Cass. n. 29263/2023, Cass. n. 36189/2023, Cass. n. 817/2024, Cass. n. 841/2024) nel caso in cui il ricorrente depositi un duplicato della sentenza telematica dal quale non si evince la data di pubblicazione e la notificazione del ricorso è avvenuta in una data che non risulta tempestiva - se calcolata in relazione al giorno della decisione indicato nel testo del provvedimento - rispetto al termine dell’art. 327, comma primo, c.p.c. Va, peraltro, posto in evidenza che, nel superare la soluzione dell’improcedibilità del ricorso, questa Corte, in base a questo orientamento, ha affermato (in un caso in cui ha avuto esito positivo la c.d. “prova di resistenza” sulla tempestività dell’impugnazione: Cass. n. 865/2024) che la «copia analogica prodotta, pur con le dette omissioni, non si può considerare come copia non autentica, in quanto risulta ─ e vi è in tal senso anche espressa asseverazione del Procuratore dello Stato resa ai sensi dell’art. 16-bis, comma 9-bis, 16- decies e 16-undecies d.l. n. 179 del 2012 ─ “tratta con modalità telematiche” e “conforme” allo “esemplare presente nel fascicolo informatico” come “reso disponibile dai servizi informatici e telematici del competente plesso giurisdizionale”, e, dunque, deve considerarsi conforme al documento informatico effettivamente presente nel fascicolo del giudizio di merito e, pertanto, autentica». 1.2.3. – Giova, altresì, dare conto che, sebbene in un caso di rigetto del ricorso in presenza di ragione più liquida di infondatezza dello 7 stesso (e superando in tal modo la depositata proposta di definizione accelerata nel senso della improcedibilità del ricorso), Cass. n. 5204/2024 - premesse le nozioni di “copia informatica di documento informatico” e di “duplicato informatico”, secondo le definizioni contenute nell’art. 1, comma 1, del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, e richiamate le disposizioni speciali per il processo civile in tema di attestazione di conformità - ha prospettato i seguenti interrogativi: a) «può il deposito di una tale copia ritenersi soddisfare l’onere, previsto all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c. … di depositare “copia autentica della sentenza”?»; b) “se sì, può la mancanza, nella copia informatica estratta dal fascicolo informatico e attestata conforme, delle indicazioni relative al numero e alla data di pubblicazione dal fascicolo informatico considerarsi causa di inammissibilità del ricorso per mancata prova della sua tempestività (salva la c.d. prova di resistenza …)?”; c) “accedendo a tale ultimo orientamento, può infine ritenersi utilmente e tempestivamente prodotta, a riprova dell’ammissibilità del ricorso, altra copia informatica, questa volta recante il c.d. glifo, successivamente al deposito ed alla comunicazione della proposta di definizione? Se sì, può essa ritenersi utilmente prodotta, come nella specie, al di là del termine di quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza, fissato dall’art. 372, secondo comma, c.p.c.?”. 1.3. – Il Collegio ritiene che gli interrogativi posti da Cass. n. 5204/2024 trovino complessiva risposta nelle considerazioni che seguono. 1.3.1. - Le nozioni di “copia informatica” e di “duplicato informatico”. In base alle definizioni contenute nell’art. 1 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale: C.A.D.), applicabili anche al processo civile, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo 8 telematico (art. 2, comma 6): a) la copia informatica di documento informatico: è il documento informatico avente contenuto identico a quello del documento da cui è tratto su supporto informatico con diversa sequenza di valori binari (lett. i-quater); b) il duplicato informatico: è il documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario (lett. 1- quinquies). Ai sensi dell’art. 23-bis del C.A.D.: «1. I duplicati informatici hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono tratti, se prodotti in conformità alle Linee guida [i.e. le linee guida adottate dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) ai sensi dell’art. 71 C.A.D.]. Le copie e gli estratti informatici del documento informatico, se prodotti in conformità alle vigenti Linee guida, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale, in tutti le sue componenti, è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato o se la conformità non è espressamente disconosciuta. […]». Nozioni, queste, che sono riprese dalla citata Cass. n. 5204/2024 e che erano tenute ben presenti già da Cass. n. 27379/2022 (la quale ha confermato la decisione di merito che aveva dichiarato inammissibile per tardività l’impugnazione svolta nei confronti della sentenza di primo grado, sul presupposto che la notifica telematica della stessa, mediante duplicato informatico, era idonea a far decorrere il ‘termine breve’, pur non presentando segni grafici relativi all’apposizione della sottoscrizione del giudice), da cui è stato tratto il principio di diritto così massimato: “in tema di notificazione della sentenza con modalità telematica, occorre distinguere la copia informatica di un documento nativo digitale, la quale presenta segni grafici (generati dal programma ministeriale in uso alle cancellerie degli uffici giudiziari) che 9 rappresentano una mera attestazione della presenza della firma digitale apposta sull’originale di quel documento, dal duplicato informatico che, come si evince dagli artt. 1, lett. i) quinquies e 16-bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, consiste in un documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario e la cui corrispondenza con quest’ultimo non emerge dall’uso di segni grafici - la firma digitale è infatti una sottoscrizione in bit la cui apposizione, presente nel file, è invisibile sull’atto analogico cartaceo - ma dall’uso di programmi che consentono di verificare e confrontare l’impronta del file originario con il duplicato”. 1.3.2. - Le attestazioni di conformità nel processo civile. La materia delle attestazioni di conformità trova espressa disciplina per il processo civile nelle disposizioni sul processo telematico, dapprima ai sensi degli artt. 16-bis, comma 9-bis, decies ed undecies, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, ora (sostanzialmente) riproposti negli artt. 196-octies, 196 novies, 196 decies e 196 undecies disp. att. c.p.c. In sintesi, e per quel che qui rileva, è conferito al difensore il potere di estrarre con modalità telematiche duplicati, copie analogiche o informatiche di atti e provvedimenti contenuti nel fascicolo informatico e attestare la conformità delle copie estratte ai corrispondenti atti originali, mentre per il duplicato informatico (la cui equivalenza all’originale esclude la necessità di attestazione) si richiede che lo stesso venga prodotto mediante processi e strumenti che assicurino che il documento informatico ottenuto sullo stesso sistema di memorizzazione o su un sistema diverso contenga la stessa sequenza di bit del documento informatico di origine. 1.3.3. – La nozione di “contrassegno elettronico”, “timbro digitale”, “codice bidimensionale”, “glifo”. 10 Ai sensi dell’art. 23, comma 2-bis, C.A.D.: «Sulle copie analogiche di documenti informatici può essere apposto a stampa un contrassegno, sulla base dei criteri definiti con le Linee guida, tramite il quale è possibile accedere al documento informatico, ovvero verificare la corrispondenza allo stesso della copia analogica. Il contrassegno apposto ai sensi del primo periodo sostituisce a tutti gli effetti di legge la sottoscrizione autografa del pubblico ufficiale e non può essere richiesta la produzione di altra copia analogica con sottoscrizione autografa del medesimo documento informatico. I soggetti che procedono all’apposizione del contrassegno rendono disponibili gratuitamente sul proprio sito Internet istituzionale idonee soluzioni per la verifica del contrassegno medesimo». Nelle linee guida emanate dall’AgID con circolare n. 62 del 30 aprile 2013 si chiarisce che «Nei vari contesti il contrassegno generato elettronicamente può essere indicato, anche in relazione alle specificità dello scenario implementato, con termini differenti, quali “Contrassegno elettronico”, “Timbro digitale”, “Codice bidimensionale”, “Glifo”, termini che sono da intendersi come sinonimi». Nell’ambito delle predette linee guida, si precisa che «per contrassegno generato elettronicamente si intende una sequenza di bit, codificata mediante una tecnica grafica e idonea a rappresentare un documento amministrativo informatico o un suo estratto o una sua copia o un suo duplicato o i suoi dati identificativi. A tutti gli effetti di legge sostituisce la sottoscrizione autografa della copia analogica. Il contrassegno generato elettronicamente è rappresentato graficamente con tecnologie differenti, per leggere le quali può essere richiesto apposito software rilasciato dallo sviluppatore della soluzione». 1.4. – Ciò premesso, si osserva quanto segue. L’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., richiede il deposito di “copia autentica della decisione impugnata”. 11 Il provvedimento emesso come documento informatico e sottoscritto con firma digitale è depositato nel fascicolo tramite l’applicativo l’informatico, ai sensi dell’art. 15 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44. La pubblicazione avviene, dunque, non più attraverso la materiale apposizione del deposito e della relativa certificazione da parte del cancelliere, bensì attraverso l’accettazione del deposito telematico del provvedimento e l’attribuzione mediante il sistema informatico del numero identificativo e della data dell’adempimento, con inserimento nel fascicolo informatico e conseguente ostensibilità agli interessati (si veda anche Cass. n. 2829/2023). Ne consegue che, per effetto dell’attuazione del processo telematico, alla certificazione della cancelleria sull’unico originale in formato cartaceo è subentrata la registrazione automatica del documento informatico effettuata dal sistema informatico. Con l’accettazione del deposito telematico e l’attribuzione del numero cronologico, il provvedimento digitale è inserito nel fascicolo informatico e solo in esito alla pubblicazione informatizzata diventa consultabile da parte dei difensori, attraverso il portale dei servizi telematici di cui all’art. 6 del d.m. n. 44/2011, nella versione originale, rappresentata dal duplicato (che reca la firma digitale del magistrato), ovvero nella copia informatica, che reca la stampigliatura dei dati esterni della pubblicazione (vale a dire il numero di cronologico e la data di pubblicazione) come segno grafico apposto dal sistema per evidenziare l’avvenuto processamento informatico. Pertanto, nella differente realtà digitale il concetto di unico originale risulta sostanzialmente superato dalla possibilità di accedere al duplicato (che equivale all’originale), dovendosi, altresì, evidenziare che è l’accettazione dell’atto da parte del cancelliere a determinare l’inserimento del provvedimento nel fascicolo informatico, sicché resta 12 escluso che il difensore possa accedere al duplicato ovvero alla copia informatica se non è intervenuta la pubblicazione. E tanto emerge chiaramente anche dalla giurisprudenza di questa Corte, che collega la pubblicazione dei provvedimenti digitali al necessario presupposto che l’atto divenga visibile e consultabile dalle parti, cosicché non è sufficiente il mero deposito, ma occorre l’accettazione da parte della cancelleria - almeno fino a che i sistemi richiederanno l’intervento manuale – e, comunque, l’inserimento nei registri e l’assegnazione del numero cronologico (Cass. n. 24891/2018, Cass. n. 2362/2020, Cass. n. 2829/2023). Infatti, solo a seguito dell’avvenuta pubblicazione informatica, i difensori, accedendo al fascicolo informatico tramite il portale dei servizi telematici, possono scegliere se estrarre copia informatica del provvedimento, recante le indicazioni sulla data di pubblicazione e sul numero di cronologico, come stampigliatura apposta dal sistema informatico in esito all’accettazione dell’atto digitale da parte della cancelleria, ovvero se scaricare direttamente il duplicato informatico che, in quanto tale, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione che determinerebbe ipso facto l’alterazione dell’originale informatico (e la conseguente alterazione della sequenza di valori binari del documento originario). Non è, pertanto, sanzionabile con l’improcedibilità la scelta del difensore che, potendo optare tra il deposito del duplicato e la copia informatica(la cui apposta stampigliatura rappresenta soltanto un’evidenza grafica della registrazione informatizzata), si determini per il deposito del primo in quanto equivalente all’originale e, come tale, non necessitante di alcuna attestazione di conformità. Sicché, il concetto stesso di duplicato risulta assorbente rispetto al requisito di “copia autentica della sentenza o della decisione impugnata”, postulato dall’art. 369 c.p.c. 13 I dati relativi alla pubblicazione, se in contestazione ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione (e, dunque, là dove non evincibili tramite gli stessi sistemi informatici in uso a questa Corte), possono essere verificati attraverso la consultazione del fascicolo informatico del giudizio di merito acquisito d’ufficio ai sensi dell’art. 137-bis disp. att. c.p.c. per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere a decorrere dal 1° gennaio 2023 (art. 35, comma 5, del d.lgs. n. 149/2022). Quanto ai giudizi introdotti precedentemente, i dati relativi alla pubblicazione del provvedimento impugnato (quale documento nativo digitale), se necessario, possono essere verificati tramite richiesta di attestazione degli stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso quel provvedimento, in presenza di istanza del ricorrente formulata ai sensi dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nel testo antecedente alla abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149/2022. Dati che sono presenti nel fascicolo informatico che la cancelleria deve tenere e conservare ai sensi art. 36, ultimo comma, disp. att. c.p.c. e dell’art. 9 del d.m. n. 44/2011. Quest’ultima disposizione precisa, infatti, che il predetto fascicolo contiene “i dati del procedimento medesimo da chiunque formati” (comma 1) e in modo tale da “garantire la facile reperibilità ed il collegamento degli atti ivi contenuti [anche] in relazione alla data di deposito” (comma 5). E una tale verifica officiosa si rende necessaria in quanto il ricorrente, con il deposito del duplicato informatico del provvedimento impugnato, ha pienamente assolto l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c.; onere funzionale, in primo luogo, proprio a “consentire la verifica della tempestività dell’atto di impugnazione” (Cass., S.U., n. 8312/2019), la quale (è opportuno ribadire), in ambiente di processo telematico, è possibile solo attraverso i sistemi informatici in uso all’ufficio giudiziario. 14 Occorre, dunque, collocarsi nel cono d’ombra del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 111 Cost.; art. 47 della Carta di Nizza; art. 19 del Trattato sull’Unione europea; art. 6 CEDU), il quale, nella sua essenziale tensione verso una decisione di merito, richiede che eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale siano ponderate attentamente alla luce dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità (tra le tante: Cass., S.U., n. 10648/2017; Cass., S.U., n. 8950/2022; Cass., S.U., n. 28403/2023; Cass., S.U., n. 2075/2024; Cass., S.U., n. 6477/2024). Pertanto, va fatta applicazione del principio - già affermato da Cass., S.U., 25513/2016 in riferimento alla proposizione del ricorso per cassazione ex art. 348-ter, comma terzo, c.p.c. (e ribadito da Cass., S.U., n. 11850/2018, Cass., S.U., n. 8312/2019 e Cass., S.U., n. 21349/2022) - secondo il quale la Corte esercita il proprio potere officioso di controllo sulla tempestività dell’impugnazione ove il ricorrente abbia assolto l’onere di richiedere il fascicolo d’ufficio alla cancelleria del giudice a quo tramite l’istanza di cui all’ultimo comma dell’art. 369 c.p.c. 1.4.1. – Nel caso, invece, di deposito ex art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., di copia analogica di duplicato informatico della decisione impugnata (ossia, tramite la stampa del file), rimane necessaria l’attestazione di conformità del difensore ai sensi del citato art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179/2012 (nei termini affermati da Cass., S.U., n. 8312/2019), non potendosi, in siffatta evenienza, apprezzare altrimenti la qualità di duplicato informatico che dal difensore medesimo sia stata predicata (atteso che la stampa di un documento informatico sottoscritto digitalmente non consente la verifica dell’apposizione della firma, ciò che, come detto, è possibile con i sistemi informatici in uso all’ufficio giudiziario). Tuttavia, all’interrogativo posto da Cass. n. 5204/2024 in ordine alla ritualità della copia autenticata così depositata, in quanto priva 15 delle indicazioni relative alla pubblicazione, si deve dare risposta positiva. Infatti, in quanto estratta dal fascicolo informatico ed attestata come conforme dal difensore, anche il deposito di una tale copia autenticata vale ad integrare il requisito richiesto dall’art. 369 c.p.c., così aprendosi la possibilità, pure in tale ipotesi, dell’accertamento officioso in ordine alla tempestività dell’impugnazione (ove in contestazione), tramite la richiesta alla cancelleria del giudice a quo di attestazione dei dati di pubblicazione del provvedimento. 1.5. – Devono, quindi, enunciarsi i seguenti principi di diritto: «a) in regime di deposito telematico degli atti, l’onere del deposito di copia autentica del provvedimento impugnato imposto, a pena di improcedibilità del ricorso dall’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto non solo dal deposito della relativa copia informatica, recante la stampigliatura solo rappresentativa dei dati esterni (numero cronologico e data) concernenti la sua pubblicazione, ma anche dal deposito del duplicato informatico di detto provvedimento, il quale ha il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, dell’originale informatico e che, per sue caratteristiche intrinseche, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione (e, dunque, la stampigliatura presente nella copia informatica) che ne determinerebbe, di per sé, l’alterazione. Ne consegue che, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, i dati relativi alla pubblicazione, ove non evincibili tramite i sistemi informatici in uso alla Corte di cassazione e in contestazione, vanno attinti attraverso la consultazione del fascicolo di merito acquisito d’ufficio ai sensi dell’art. 137-bis c.p.c. per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere dal 1° gennaio 2023, ovvero, per i giudizi precedentemente introdotti, tramite richiesta di attestazione dei dati stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, in presenza di istanza del ricorrente ai sensi 16 dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nella formulazione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149 del 2022; b) nel regime in cui è consentito il deposito di copia analogica del provvedimento impugnato redatto come documento informatico nativo digitale e così depositato in via telematica, ove detta copia analogica sia tratta dal duplicato informatico depositato nel fascicolo informatico, l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto tramite l’attestazione di conformità della copia al duplicato apposta dal difensore. Ne consegue che, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, i dati relativi alla pubblicazione del provvedimento impugnato, ove in contestazione, vanno attinti tramite richiesta di attestazione dei dati stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, in presenza di istanza del ricorrente ai sensi dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nella formulazione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149 del 2022». 1.6. Nel caso di specie, a seguito del dato acquisito tramite cancelleria, la data di pubblicazione del provvedimento impugnato è 11 maggio 2021. Essendo stato il ricorso notificato in data 30 settembre 2021, risulta rispettato il termine semestrale per proporre l’impugnazione. 1.7. Ciò premesso, il motivo è fondato. Conformemente alle conclusioni del Pubblico Ministero, deve essere mantenuto l’indirizzo di questa Corte, espresso dalle pronunce n. 2374 del 2016 e n. 2375 del 2016, il cui principio di diritto è che, in relazione alla legge della Regione Emilia Romagna,l'amministrazione provinciale è l'unico soggetto legittimato passivamente a fronte di azioni proposte da terzi per ottenere la riparazione dei danni eventualmente provocati dalla fauna selvatica, a nulla rilevando la ripartizione di compiti interna alla Provincia stessa riguardo al peso economico derivante dall'obbligo 17 risarcitorio. La modifica legislativa, considerata dalla corte territoriale, è relativa solo alla ripartizione degli oneri relativi al fondo regionale. L’art. 17 legge regionale n. 8 del 1994, applicabile ratione temporis (in relazione al fatto verificatosi nel 2011) sulla base delle modifiche intervenute, prima con l’art. 14 della legge regionale n. 6 del 2000, e poi con l’art. 10 della legge regionale n. 16 del 2007, è il seguente: «Danni alle attività agricole 1. Gli oneri relativi ai contributi per i danni arrecati alle produzioni agricole e alle opere approntate sui terreni coltivati ed a pascolo dalle specie di fauna selvatica cacciabile o da sconosciuti nel corso dell'attività venatoria sono a carico: a) degli ambiti territoriali di caccia per le specie di cui si consente il prelievo venatorio, qualora si siano verificati nei fondi ivi ricompresi; b) dei titolari dei centri privati della fauna allo stato naturale di cui all'articolo 41 qualora si siano prodotti ad opera delle specie ammesse nei rispettivi piani produttivi o di gestione e delle aziende venatorie di cui all'articolo 43 per le specie di cui si autorizza il prelievo venatorio, nei fondi inclusi nelle rispettive strutture; c) dei proprietari o conduttori dei fondi rustici di cui ai commi 3 e 8 dell'art. 15 della legge statale, nonché dei titolari delle altre strutture territoriali private di cui al capo V, qualora si siano verificati nei rispettivi fondi; d) delle Province, qualora siano provocati nelle zone di protezione di cui all’art. 19 e nei parchi e nelle riserve naturali regionali, comprese quelle aree contigue ai parchi dove non è consentito l'esercizio venatorio. 2. Le Province concedono contributi per gli interventi di prevenzione e per l'indennizzo dei danni: a) provocati da specie cacciabili ai sensi del comma 1 lettera d); b) provocati nell'intero territorio agro-silvo-pastorale da specie protette, dal piccione di città (Columba livia, forma domestica) o da 18 specie il cui prelievo venatorio sia vietato, anche temporaneamente, per ragioni di pubblico interesse. 3. I contributi sono concessi entro i limiti di disponibilità delle risorse previste dall’art. 18, comma 1». La rilevanza della modifica legislativa al livello della ripartizione interna del peso economico derivante dall’obbligo di risarcire i danni da fauna selvatica, come risulta dal primo comma della disposizione citata, non incide sul principio di diritto enunciato dai richiamati precedenti di questa Corte, cui il Collegio presta continuità e rinvia, anche sul piano della motivazione, per quanto concerne l’individuazione del soggetto tenuto al risarcimento del danno, salva la modifica legislativa evidenziata sul piano del riparto interno. 1.8. Poiché non sono necessari altri accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito con il rigetto della domanda. L’intervento della giurisprudenza determinante nel corso del processo costituisce ragione di compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. P. Q. M. Accoglie il motivo di ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, rigetta la domanda; dispone la compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il giorno 22 aprile 2024 Il consigliere estensore Dott. Enrico Scoditti Il Presidente Dott. Giacomo Travaglino 19

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. BORSELLINO Maria Daniela - Consigliere Dott. D'AURIA Donato - Relatore Dott. SGADARI Giuseppe - Consigliere Dott. LEOPIZZI Alessandro - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Mi.Na. nato a P il (omissis) Hu.Si. nato a P il (omissis) Fu.Do. nato a C il (omissis) Ri.Va. nata a A il (omissis) avverso la sentenza del 12/07/2023 della Corte di Appello di Venezia visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Donato D'auria; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Luigi Cuomo, che ha chiesto dichiararsi inammissibili i ricorsi; ricorsi trattati con contraddittorio scritto ai sensi dell'art. 23, comma 8, D. L. n. 137/2020. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Venezia con sentenza del 12/7/2023, in riforma della sentenza del Tribunale di Padova in data 25/5/2022, che aveva condannato - tra gli altri - Mi.Na., Hu.Si., Fu.Do. e Ri.Va. per i reati loro rispettivamente ascritti, dichiarava non doversi procedere in ordine a taluni dei reati contestati e rideterminava la pena. 2. Mi.Na., a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione, affidandolo ad un unico articolato motivo con cui deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica con riferimento alla dichiarazione di responsabilità per i reati di cui ai capi 7), 15) e 21). Rileva che in relazione al reato di cui al capo 7), la Corte territoriale non ha tratto dalla inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, evidenziata nei motivi di appello, le dovute conseguenze, tenuto conto che Pe.Ma. solo dopo circa tre mesi dai fatti, in sede di integrazione della denunzia, ha riferito delle minacce ricevute; che, anche in relazione al reato di cui al capo 15), i giudici di appello non hanno tenuto conto delle doglianze difensive, specie in punto di errata indicazione del numero di targa dell'autovettura, di talché hanno confermato la responsabilità del ricorrente solo sulla base di una generica compatibilità di luogo e di tempo con l'indicazione parziale di una targa, non compatibile con quella attribuibile ai rapinatori; che analoghe doglianze devono essere mosse con riferimento alla motivazione relativa al reato di cui al capo 21), atteso che anche in relazione a tale reato gli elementi a carico del ricorrente sarebbero inconsistenti, tenuto conto che l'indicazione del colore dell'autovettura utilizzata dagli autori del furto è errata e che le intercettazioni ambientali sono prive di concreto significato. 3. Hu.Si., a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione, affidandolo ad un unico motivo con cui deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per carenza e contraddittorietà della motivazione con riferimento alla dichiarazione di responsabilità per il reato di cui al capo 15). Ritiene che la Corte territoriale non si sia confrontata con i motivi di appello, specie con riferimento alla errata indicazione del numero di targa dell'autovettura, per cui ha fondato il giudizio di responsabilità solo sulla base di una generica compatibilità di luogo e di tempo con l'indicazione parziale di una targa, non compatibile con quella attribuibile ai rapinatori. 4. Fu.Do. a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione, affidandolo ad un unico motivo con cui deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per carenza della motivazione con riferimento alla applicazione della recidiva ed al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza. Osserva, quanto al primo profilo, che la motivazione del provvedimento impugnato non dà conto del perché la reiterazione dell'illecito sia sintomo effettivo di maggiore riprovevolezza, avendo invece ritenuto la recidiva sulla scotta dei precedenti penali, a seguito di un automatismo non consentito; quanto al secondo profilo, che la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche - giustificata in considerazione dell'età del ricorrente, del corretto comportamento processuale e della non particolare gravità del fatto - avrebbe consentito di irrogare una pena maggiormente aderente alle specifiche circostanze di fatto. 5. Ri.Va. a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione, affidandolo ad un unico motivo con cui deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per carenza e contraddittorietà della motivazione con riferimento al mancato contenimento della pena entro il minimo edittale. Evidenzia che risulta del tutto generico il riferimento alla concreta gravità dei fatti ed alla negativa personalità dell'imputata, specie se si considera che la pena inflitta è superiore a quella minima edittale; che, dunque, la Corte territoriale avrebbe dovuto adottare una motivazione più specifica e dettagliata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso di Mi.Na. è inammissibile. Invero, l'unico motivo cui è affidato non è consentito, atteso che è costituito da mere doglianze di fatto, tutte finalizzate a prefigurare una rivalutazione alternativa delle fonti probatorie, estranee al sindacato di legittimità. In particolare, sollecita una rivalutazione delle risultanze probatorie, discutendo il peso attribuito a questo o a quell'elemento vagliato, ma non evidenziando -contrariamente a quanto predicato - manifeste illogicità motivazionali, né travisamento della prova. A questo proposito, va ricordato che il controllo di legittimità concerne il rapporto tra motivazione e decisione, non già il rapporto tra prova e decisione; sicché il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di cassazione. Ne consegue che sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sezione 3, n. 17395 del 24/1/2023, Chen Wenjian, Rv. 284556 - 01; Sezione 5, n. 26455 del 9/6/2022, Dos Santos Silva, Rv. 283370 - 01; Sezione 2, n. 9106 del 12/2/21, Caradonna, Rv. 280747 - 01; Sezione 5, n. 48050 del 2/7/2019, S., Rv. 277758 - 01; Sezione 5, n. 19970 del 15/3/2019, Girardi, Rv. 275636 - 01; Sezione 3, n. 18521 del 11/1/2018, Ferri, Rv. 273217 - 01). Peraltro, la sentenza impugnata in relazione alla ricostruzione dei fatti ascritti all'imputato costituisce una c.d. doppia conforme della decisione di primo grado, con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, essendo stato rispettato sia il parametro del richiamo da parte della sentenza d'appello a quella del Tribunale, sia l'ulteriore parametro costituito dal fatto che entrambe le decisioni adottano i medesimi criteri nella valutazione delle prove (Sezione 2, n. 6560 del 8/10/2020, Capozio, Rv. 280654 - 01). Deve esser evidenziato, inoltre, che il motivo è reiterativo di medesime doglianze inerenti alla ricostruzione dei fatti e all'interpretazione del materiale probatorio già espresse in sede di appello ed affrontate in termini precisi e concludenti dalla Corte territoriale, che ha evidenziato - con riferimento al reato di cui al capo 7) - come costituisca mera illazione quella secondo la quale la persona offesa avrebbe riferito delle minacce ricevute perché indotta dalla polizia giudiziaria, tenuto conto che non ha mostrato ostilità nei confronti degli imputati, non si è costituita parte civile ed ha effettuato una puntuale ricostruzione dell'accaduto, che ha trovato conferma nelle risultanze delle intercettazioni ambientali; come il riferimento alle minacce ricevute solo in sede di integrazione della denunzia trovi spiegazione nella circostanza per cui, tenuto conto del valore modesto dei beni sottratti e del mancato uso di violenza fisica, la persona offesa si sia determinata a sporgere denunzia solo per senso civico e che solo successivamente abbia avuto modo di rivalutare l'accaduto. Quanto al reato di cui al capo 15), i giudici di appello hanno valorizzato - tra l'altro - i) gli esiti delle operazioni di captazione, che hanno consentito di ascoltare le conversazioni intercorse all'atto della partenza ("a cinesi dovremmo andare") ed al ritorno dalla spedizione predatoria, ii) la circostanza che l'autovettura utilizzata per commettere la rapina è stata ripresa dal sistema di videosorveglianza del comune del luogo in cui è avvenuta l'aggressione in danno della persona offesa in orario del tutto compatibile, iii) il tipo di autovettura cui ha fatto riferimento il cittadino cinese rapinato. Quanto, infine, al reato di cui al capo 21), il provvedimento impugnato ha ricostruito il furto praticamente "in diretta", grazie alle intercettazioni delle conversazioni intercorse all'interno dell'autovettura utilizzata, che contengono riferimenti inequivoci alla azione criminosa messa a segno, per cui ha ritenuto irrilevante la discrasia sulla tonalità del colore grigio dell'autovettura come riferita dalla persona offesa ed il riferimento alla somma di cinquanta Euro, inferiore a quella complessiva sottratta alla cittadina cinese, di cui ha ritenuto costituisse solo una parte, contenuta in una tasca della borsa. Trattasi di motivazione congrua, esaustiva e immune da vizi logici, per cui non è censurabile in sede di legittimità. 2. Il ricorso di Hu.Si. è inammissibile per le stesse ragioni indicate sub 1, cui sul punto integralmente si rinvia. Invero, contiene le stesse doglianze in fatto già sviluppate dal coimputato Mi.Na. relative al reato di cui al capo 15), che mirano ad ottenere una diversa rivalutazione delle prove, preclusa alla Corte di legittimità. 3. Il ricorso di Fu.Do. è inammissibile. Reputa il Collegio che il profilo relativo alla mancata disapplicazione della recidiva sia aspecifico, atteso che non si confronta con la trama argomentativa del provvedimento impugnato, che ha evidenziato come debba ritenersi sussistente il legame tra le condanne annotate nel certificato del casellario giudiziale ed i fatti per cui si procede, in ragione della inefficacia della comminatoria penale rispetto ad una personalità altamente trasgressiva, quale quella del ricorrente, tale da far ritenere accentuata e più intensa la sua pericolosità. In altri termini, la Corte territoriale ha valutato che le pregresse condotte criminose siano indicative "di una persistenza di stimoli criminogeni e, dunque, di una perdurante inclinazione al delitto atta a influire quale fattore criminogeno per la commissione della nuova azione delittuosa". Ebbene, a fronte di questo articolato percorso logico argomentativo, il difensore glissa, limitandosi genericamente a denunciare la carenza motivazionale. Come reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (Sezione 6, n. 23014 del 29/4/2021, B., Rv. 281521 - 01; Sezione 3, n. 50750 del 15/6/2016, Dantese, Rv. 268385 - 01; Sezione 4, n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv. 253849; Sezione 4, n. 34270 del 3/7/2007, Scicchitano Rv. 236945 - 01). Inammissibile, infine, è il profilo relativo al bilanciamento delle circostanze, essendo la motivazione esente da manifesta illogicità, con la conseguenza che è insindacabile in cassazione (Sezione 3, n. 1913 del 20/12/2018, Carillo, Rv. 275509 - 03; Sezione 6, n. 42688 del 24/9/2008, Caridi, Rv. 242419 - 01). Ed invero, il giudizio di comparazione tra opposte circostanze, che può legittimare la diminuzione della pena, presuppone una valutazione di fatto che, se adeguatamente motivata, si sottrae al sindacato di legittimità della Corte di cassazione (Sezioni Unite, n. 10713 del 25/2/2010, Contaldo, Rv. 245931 -01; Sezione 2, n. 31543 del 8/6/2017, Pennelli, Rv. 270450 - 01). Nel caso di specie, va evidenziato che la Corte territoriale ha negato la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche nel giudizio di bilanciamento con le contestate circostanze aggravanti, valorizzando la obbiettiva gravità del fatto, desunta dalle sperimentate modalità esecutive e dalla pluralità di circostanze aggravanti, oltre che dalla negativa personalità del ricorrente, desunta dai precedenti penali specifici da cui risulta gravato. Trattasi di motivazione all'evidenza né arbitraria, né illogica. 4. Il ricorso di Ri.Va. è inammissibile. Invero, il dedotto vizio motivazionale in ordine alla congruità della pena non è ammesso dalla legge in sede di legittimità: le statuizioni relative al quantum della pena, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione (Sezione 2, n. 36104 del 27/4/2017, Mastro, Rv. 271243 - 01), tale dovendo ritenersi quella dell'impugnata sentenza che ha stimato decisive - tra l'altro - le modalità allarmanti della condotta criminosa, anche considerato il coinvolgimento in plurimi delitti di un minore, pur a fronte di una pena determinata in misura di poco superiore al minimo edittale. Dunque, in tema di dosimetria della pena, per costante giurisprudenza non vi è margine per il sindacato di legittimità quando la decisione sia motivata in modo conforme alla legge ed ai canoni di logica, in aderenza ai principi enunciati dagli artt. 132 e 133 cod. pen. 5. All'inammissibilità dei ricorsi segue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della Cassa delle ammende della somma di Euro tremila ciascuno, così equitativamente fissata. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il giorno 8 maggio 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • 1 REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto Trasporto spedizione GIACOMO TRAVAGLINO Presidente ENRICO SCODITTI Consigliere - Rel. LINA RUBINO Consigliere PAOLO SPAZIANI Consigliere Cron. R.G.N. 4745/2020 GIOVANNI FANTICINIConsigliere Ud.3/5/2024 PU Cron. R.G.N. 2304/2022 Ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 2304/2022 R.G. proposto da: AEROFLOT RUSSIAN AIRLINES, elettivamente domiciliato in Roma Giunio Bazzoni n. 3, presso lo studio dell’avvocato DELLA MARRA TATIANA (DLLTTN65L52A326W) che lo rappresenta e difende -ricorrente- contro LANZA SALVATORE -intimato- 2 avverso SENTENZA di TRIBUNALE CATANIA n. 4561/2021 depositata il 09/11/2021. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 3 maggio 2024 dal consigliere ENRICO SCODITTI Fatti di causa 1. Salvatore Lanza convenne in giudizio innanzi al Giudice di Pace di Catania Aeroflot Russian Airlines s.p.a. chiedendo il risarcimento del danno perché in data 28 aprile 2019, munito del biglietto aereo Pechino – Mosca - Milano, a causa del ritardo di un’ora nella prima tratta, aveva perso la connessione con il volo per Milano, con conseguente riprotezione su volo successivo ed arrivo con ritardo prolungato (di circa nove ore) alla destinazione finale. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda. 2. Il giudice adito accolse la domanda, con condanna al pagamento della somma di Euro 600,00, a titolo di compensazione pecuniaria, ed Euro 100,00, a titolo di danno morale per l’omessa assistenza. 3. Avverso detta sentenza propose appello la convenuta. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello. 4. Con sentenza di data 9 novembre 2011 il Tribunale di Catania, in parziale accoglimento dell’appello, condannò l’appellante al pagamento del solo importo di Euro 600,00. Osservò il Tribunale, premessa l’inapplicabilità sia della Convenzione di Montreal del 1999, mai ratificata dalla Federazione Russa, che del Regolamento Ce n. 261/04, non facendo parte la detta Federazione dell’UE, che trovava applicazione la Convenzione di Varsavia del 1929 (e successive integrazioni), la quale prevedeva la responsabilità del vettore per il caso del ritardo, ma non prevedeva alcuna quantificazione al pari della compensazione economica pecuniaria di cui al Regolamento Ce n. 261/04, e che pertanto, 3 mancando specificazioni nella Convenzione circa il ritardo rilevante, poteva farsi riferimento alla giurisprudenza unionale sul Regolamento, il quale prevedeva una compensazione pecuniaria – una sorta di penale legale analoga a quella di fonte convenzionale - e l’eventuale risarcimento supplementare (art. 12). Aggiunse che, sulla base di quest’ultimo quadro di riferimento, ricorreva l’inadempimento contrattuale rilevante ai sensi anche della Convenzione di Varsavia e che, stante l’inadempimento imputabile, doveva essere riconosciuto il diritto di ottenere la compensazione pecuniaria nella misura liquidata dal Giudice di Pace, anche in applicazione analogica dell’art. 7 del Regolamento Ce n. 261 del 2004, mentre non spettava l’ulteriore risarcimento, in assenza della prova di danni ulteriori, anche di natura morale, rispetto a quelli coperti dalla compensazione pecuniaria e risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c.. 5. Ha proposto ricorso per cassazione Aeroflot Russian Airlines s.p.a. sulla base di quattro motivi. E’ stata depositata memoria di parte. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 3 e 7 regolamento CE 261/04, 1223 cod. civ., 19 convenzione di Varsavia del 12 ottobre 1929, 12 prel., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che il Tribunale ha erroneamente applicato l’art. 7 del regolamento CE fuori dei casi contemplati dall’art. 3 del medesimo regolamento, in luogo dell’art. 1223 c.c., applicabile in base all’art. 19 convenzione di Varsavia del 12 ottobre 1929, né, in presenza di altra disposizione applicabile, può farsi applicazione del regolamento CE. 2. Con il secondo motivo si denuncia falsa applicazione dell’art. 1223 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che il Tribunale, riconoscendo il diritto alla compensazione pecuniaria anche in applicazione analogica dell’art. 7 4 del Regolamento Ce n. 261 del 2004, senza esplicitare il significato di “anche”, non ha applicato l’art. 1223, poiché il danno risarcito risulta estraneo ai concetti di danno emergente e lucro cessante. 3. Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 1223 e 2697 cod. civ., 115 e 112 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che nella decisione impugnata vi è soltanto il riferimento all’inadempimento, ma non anche al danno che ne sarebbe derivato, con violazione delle norme sull’onere della prova, e che la motivazione è pertanto assolutamente carente. 4. Con il quarto motivo si denuncia violazione degli artt. 2002, 1678, 1681 e 1341 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che il giudice di appello ha omesso di valutare l’art. 10 delle condizioni generali di contratto, che prevede quanto segue: «il vettore farà tutto il possibile per portare a termine il trasporto del passeggero e dei suoi bagagli in tempi ragionevoli. Le tempistiche indicate negli orari e altri documenti non sono garantite e non fanno parte del presente documento». 5. I primi tre motivi, da trattare congiuntamente, sono fondati. Il Collegio, condividendone integralmente la motivazione, dà continuità a Cass. n. 9474 del 2021 (cui sono conformi Cass. n. 27051 del 2021 e n. 34776 del 2023), la quale, in una fattispecie perfettamente sovrapponibile alla presente, anche per ciò che concerneva la motivazione della decisione impugnata, ha enunciato il seguente principio di diritto: in tema di trasporto aereo internazionale, gli artt. 5 e 7 del Regolamento CE n. 261 del 2004, nel prevedere a favore dei passeggeri un ristoro indennitario per il caso di cancellazione del volo (nonché, secondo la giurisprudenza europea, per il caso di ritardo superiore a tre ore), indipendentemente dall'esistenza di un effettivo pregiudizio, configurano una disciplina speciale che si applica, ai sensi dell'art. 3, par. 1, del regolamento medesimo, ai passeggeri in partenza da un aeroporto situato nel territorio di uno Stato membro e a quelli in 5 partenza da un aeroporto situato in un paese terzo con destinazione in un aeroporto situato nel territorio di uno Stato membro, se il vettore aereo operativo è un vettore dell'Unione; pertanto, la suddetta disciplina non è analogicamente estensibile oltre i predetti casi, al di fuori dei quali resta applicabile il principio generale di cui agli artt.1223 e 2697 c.c., secondo cui il debitore inadempiente risponde (solo) dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento, mentre il creditore è onerato della prova tanto delle conseguenze dannose quanto del loro collegamento causale con la condotta del debitore, secondo il nesso di cd. causalità giuridica. (nella specie, la Corte ha cassato la sentenza di merito che, in accoglimento della domanda risarcitoria di due passeggeri, aveva ritenuto analogicamente applicabile la disciplina euro-unitaria in un caso in cui il vettore aereo, responsabile del ritardo, proveniva da un paese non facente parte dell'Unione europea). 6. L’accoglimento dei primi tre motivi determina l’assorbimento del quarto motivo. 7. Poiché non sono necessari altri accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito. Il giudice del merito ha accertato che non spetta ulteriore risarcimento, in assenza della prova di danni ulteriori, anche di natura morale, rispetto alla compensazione pecuniaria e risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c.. Poiché il ristoro indennitario non spetta, per quanto sopra osservato, resta il giudizio di fatto di inesistenza di danni risarcibili, a parte la detta compensazione. Consegue a tale accertamento il rigetto della domanda. 8. Il consolidarsi della giurisprudenza determinante nel corso dei vari gradi processuali costituisce ragione di compensazione delle spese, sia per i gradi di merito che per il giudizio di legittimità. P. Q. M. Accoglie i primi tre motivi del ricorso, con assorbimento dell’ultimo motivo; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti e, decidendo la 6 causa nel merito, rigetta domanda, disponendo la compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il giorno 3 maggio 2024 Il consigliere estensore Dott. Enrico Scoditti Il Presidente Dott. Giacomo Travaglino

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. SABEONE Gerardo - Presidente Dott. MASINI Tiziano - Consigliere Dott. SESSA Renata - Relatore Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere Dott. MELE Maria Elena - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Di.El. nato a R il (Omissis) avverso la sentenza del 12/10/2023 della CORTE APPELLO di ROMA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere RENATA SESSA; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUIGI GIORDANO che ha concluso chiedendo udito il difensore RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 123,10,2023 la Corte dì Appello di Roma ha confermato la pronuncia emessa in primo grado nei confronti di Di.El., che lo aveva dichiarato colpevole del reato di lesione volontaria. 2. Avverso la suindicata sentenza, ricorre per cassazione l'imputato, tramite il difensore di fiducia, deducendo due motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.. 2.1. Col primo motivo deduce la nullità della sentenza impugnata per mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in riferimento alla ritenuta colpevolezza dell'imputato. Si rappresenta, dopo un breve excursus sul tenore delle dichiarazioni rese dai testi e dalla persona offesa, ritenute non esaustive ai fini della certa identificazione dell'imputato nell'autore dell'aggressione, che all'esito dell'articolata istruttoria sarebbe emerso unicamente che un soggetto sconosciuto sia alla persona offesa che ai suoi amici, all'esterno della discoteca e successivamente all'aggressione, aveva dichiarato di chiamarsi Di.El.. 2.2.Col secondo motivo deduce la nullità della sentenza impugnata per mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in riferimento alla eccessiva quantificazione della pena detentiva e pecuniaria inflitta. 3. Il ricorso è stato trattato - ai sensi dell'art. 23, comma 8, del d. l. n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, che continua ad applicarsi, in virtù del comma secondo dell'art. 94 del D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall'art. 11, comma 7, d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito con modificazioni dalla l. del 23.2.2024 n. 18, per le impugnazioni proposte sino al 30.6.2024 - senza l'intervento delle parti che hanno così concluso per iscritto: il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso; il difensore della parte civile ha chiesto rigettarsi il ricorso, allegando nota spese; CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato limitatamente al trattamento sanzionatorio, esso è inammissibile nel resto. 1.1. Il primo motivo è aspecifico e meramente reiterativo della questione della identificazione dell'imputato come autore dell'aggressione posta in essere ai danni della persona offesa, che è stata già ampiamente valutata dalla Corte d'appello nella sentenza impugnata. Il collegio di merito, in particolare, ha indicato gli elementi di prova che hanno permesso tale identificazione, precisando, tra l'altro, che lo stesso imputato si era presentato a uno dei testimoni, e ai suoi amici, il quale, per questa ragione, aveva potuto riferirne il nome alla vittima. 1.2. Quanto al trattamento sanzionatorio deve rilevarsi la illegalità della pena - di mesi quattro di reclusione - irrogata con riferimento al reato di lesione personale, ritenuta di tipo lieve - superiore ai venti giorni ma inferiore ai 41 - e non grave dai giudici di merito, rispetto alla quale devono essere applicate le più miti sanzioni previste dal D.Lgs. n. 274 del 2000. Ed invero, come ha avuto modo di affermare - tra le altre - Sez. 5, n. 41372 del 05/07/2023, Rv. 285876 - 01; Sez. 5, Sentenza n. 10669 del 31/01/2023, Rv. 284371 - 01, in tema di lesioni personali lievi, divenute procedibili a querela per effetto dell'art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, rientrando il delitto nella competenza per materia del giudice di pace, è illegale l'inflizione della pena della reclusione, anche nel caso in cui esso sia stato commesso prima dell'entrata in vigore della suddetta disposizione normativa o sia stato giudicato da un giudice diverso (in motivazione, questa Corte ha evidenziato un difetto di coordinamento tra l'art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 e l'art. 582, comma secondo, cod. pen., in quanto il primo, che non è stato modificato, continua a riferirsi al secondo che, invece, non individua più ipotesi procedibili a querela). Al riguardo sì sono di recente pronunciate, in data 14.12.2023, anche le Sezioni Unite di questa Corte che hanno affermato che appartiene al giudice di pace, dopo l'entrata in vigore delle modifiche introdotte dall'art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, la competenza per materia ex art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 in ordine al delitto di lesione personale di cui all'art. 582 cod. pen., nei casi procedibili a querela, anche quando comporti una malattia di durata superiore a venti giorni e fino a quaranta giorni, fatte salve le ipotesi espressamente escluse dall'ordinamento (in motivazione si è precisato che il mancato coordinamento di tale disposizione con quella di cui all'art. 4 comma 1 lett. a) del decreto legislativo 74/2000, deve essere risolto attraverso l'interpretazione estensiva di tale ultima disposizione conformemente alla volontà del legislatore riformatore di ampliare la competenza della predetta autorità giudiziaria a tutti i casi di lesione procedibile a querela). In motivazione le Sezioni Unite hanno altresì precisato che la soluzione non è però automaticamente quella dell'applicazione delle sanzioni previste per i reati di competenza del giudice di pace relativamente ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2022, potendo risultare in concreto più favorevole il trattamento sanzionatorio comminato per i reati di competenza del tribunale in caso di concedibilità della sospensione condizionale della pena e secondo una valutazione da compiere di volta in volta alla luce della singola vicenda processuale; sospensione condizionale della pena che nel caso di specie risulta essere stata riconosciuta dai giudici di merito, con la conseguenza che il giudice del rinvio dovrà procedere alle valutazioni del caso secondo i suindicati dettami delle Sezioni Unite. Sicché, trattandosi di reato punito con la sola pena della reclusione, ai sensi dell'art. 52, comma 2, lett. b), sarà applicabile la pena pecuniaria della specie corrispondente da Euro 516,00 ad Euro 2582,00 o la pena della permanenza domiciliare da quindici a quarantacinque giorni ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità da venti giorni a sei mesi, e, stante l'alternativa riguardo alla pena applicabile, e a monte la necessità di valutare in merito alla opportunità della modifica della pena inflitta tenendo conto delle circostanze del caso concreto, s'impone l'annullamento con rinvio affinché alla - eventuale - rideterminazione della stessa - vi proceda il giudice di merito a cui compete ogni valutazione al riguardo. 2. Dalle ragioni sin qui esposte deriva che la sentenza impugnata dev'essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma; che nel resto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Consegue altresì che l'imputato deve essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile liquidate in complessivi Euro 3.500, oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento devono essere omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma. Inammissibile il ricorso nel resto. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi Euro 3.500, oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 3 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente Dott. RICCIARELLI Massimo - Relatore Dott. GALLUCCI Enrico - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Consigliere Dott. DI GERONIMO Paolo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ma.Gi., nato il (Omissis) a C; avverso l'ordinanza in data 08/09/2023 della Corte di appello di Milano; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Massimo Ricciarelli; udite le conclusioni del Pubblico ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Perla Lori, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito il difensore Avv. El.Ma. in sost. dell'Avv. Ma.Na. per la parte civile, che ha depositato conclusioni e nota spese; udito il difensore Avv. Pa.Le. per il ricorrente, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso, riportandosi alla questione di illegittimità costituzionale. RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 08/09/2023 la Corte di appello di Milano ha dichiarato inammissibile per mancata allegazione di elezione o dichiarazione di domicilio l'appello presentato da Ma.Gi. avverso la sentenza del Tribunale di Pavia in data 02/02/2023, con cui il predetto è stato riconosciuto colpevole dei delitti di maltrattamenti e lesioni. 2. Ha proposto ricorso Ma.Gi. tramite il suo difensore. Deduce violazione dell'art. 581, comma 1-ter cod. proc. pen. in relazione agli artt. 6 CEDU, 3, 24, 27, 111 Cost. Il provvedimento impugnato non considera che l'imputato aveva eletto e mai modificato il domicilio e che nell'atto di appello era stato operato richiamo al domicilio fiduciario, risolvendosi in un mero formalismo la valorizzazione della mancata allegazione della dichiarazione o elezione di domicilio, tale da privare l'imputato del giudizio di appello a fronte di condanna per gravi reati. Ciò si risolveva in una violazione di garanzie, tale da determinare un contrasto con gli artt. 3, 24, 27, 111 Cost. e con l'art. 6 CEDU, sollevandosi in subordine questione di legittimità costituzionale dell'art. 581, comma 1-ter cod. proc. pen. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 2. L'art. 581, comma 1-ter cod. proc. pen., introdotto dall'art. 33, comma 1, lett. d) del D.Lgs. 150 del 2022 e applicabile, ai sensi dell'art. 89, comma 3, D.Lgs. 150 cit., alle sentenze pronunciate dopo l'entrata in vigore dello stesso decreto legislativo, prevede che con l'atto di impugnazione delle parti private e dei difensori è depositata a pena di inammissibilità la dichiarazione o elezione di domicilio, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio. L'art. 581, comma 1-quater, cod. proc. pen., anch'esso introdotto dal citato art. 33, comma 1, lett. d), D.Lgs. 150 del 2022 si riferisce invece all'impugnazione dell'imputato giudicato in assenza, stabilendo che a pena di inammissibilità è depositato specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente l'elezione o la dichiarazione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio. Ciò si correla alla previsione dell'art. 157-ter, comma 3, cod. proc. pen., inserito dallo stesso D.Lgs. 150 del 2022, secondo cui in caso di impugnazione proposta dall'imputato o nel suo interesse la notificazione dell'atto di citazione a giudizio è eseguita esclusivamente presso il domicilio dichiarato o eletto ai sensi dell'art. 581, comma 1-ter e 1-quater. Tali disposizioni devono essere lette alla luce delle direttive contenute nella legge delega 134 del 2021, che, oltre a prefiggersi lo scopo di evitare procedimenti inutili nei confronti dell'imputato inconsapevole, destinati ad essere travolti dalla rescissione - in tale prospettiva disciplinando il processo in assenza anche nei gradi di impugnazione -, aveva più in generale perseguito la finalità di rendere il processo più celere ed efficiente, prevedendo (art. 1, comma 6, lett. f) che nel caso di impugnazione proposta dall'imputato o nel suo interesse "la notificazione dell'atto di citazione a giudizio" nei suoi confronti deve essere effettuata presso il domicilio dichiarato o eletto e (art. 1, comma 13, lett. a) che "con l'atto di impugnazione, a pena di inammissibilità, sia depositata dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di impugnazione". Dai lavori preparatori e dalla relazione di accompagnamento si trae conferma dell'intendimento di facilitare la celebrazione dei giudizi di impugnazione, semplificando sia in via generale la "notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di impugnazione" attraverso l'onere imposto all'impugnante di dichiarare o eleggere domicilio, sia in modo specifico "la notificazione dell'atto di citazione a giudizio" per l'impugnazione proposta dall'imputato o nel suo interesse, utilizzando la dichiarazione o elezione di cui sopra. 3. Con specifico riguardo all'art. 581, comma 1-ter cod. proc. pen., a seguito della sua entrata in vigore, la giurisprudenza si è pronunciata in modo non sempre uniforme. Innanzi tutto, si è rilevato che la disposizione non è applicabile nel caso di imputato detenuto (Sez. 4, n. 4342 del 09/01/2024, Shala Rafael, Rv. 285749; Sez. 2, n. 51273 del 10/11/2023, Savoia, Rv. 285546; Sez. 2, n. 33355 del 28/06/2023, Quattrocchi, Rv. 285021), ma, in un caso, è stata distinta la posizione dell'imputato detenuto per altra causa, rispetto al quale la norma è stata ritenuta applicabile (Sez. 5, n. 4606 del 28/11/2023, D'Amuri, Rv. 285973), essendosi inoltre ritenuto in una circostanza che la restrizione agli arresti domiciliari parimenti non valga ad impedire l'applicabilità della disposizione (Sez. 4, n. 41858 del 08/06/2023, Andrioli, Rv. 285146). In secondo luogo, si è posto il problema di stabilire se l'allegazione dell'elezione o dichiarazione di domicilio all'atto di appello implichi una specifica dichiarazione o elezione successiva alla sentenza impugnata ovvero possa aver ad oggetto una dichiarazione o elezione effettuata nella fase precedente: nel primo senso si è rilevato che "la dichiarazione o elezione di domicilio che, ai sensi dell'art. 581, comma 1-ter, cod. proc. pen., va depositata, a pena di inammissibilità, unitamente al gravame delle parti private e dei difensori, dev'essere successiva alla pronuncia della sentenza impugnata, poiché, alla luce della nuova formulazione dell'art. 164 cod. proc. pen., quella effettuata nel precedente grado non ha più una durata estesa ai gradi successivi" (così Sez. 6, n. 7020 del 16/01/2024, Mirabile, Rv. 285985; Sez. 5, n. 3118 del 10/01/2024, Mohamed Ahmad Hasan, Rv. 285805), ma nel secondo senso si è sottolineato che "nel caso di imputato non processato" in absentia", la dichiarazione o l'elezione di domicilio richieste ex art. 581, comma 1-ter, cod. proc. pen. possono essere effettuate anche nel corso del procedimento di primo grado, e non necessariamente in un momento successivo alla pronuncia della sentenza impugnata, a condizione che siano depositate unitamente all'atto di appello, atteso che la contraria interpretazione ostacolerebbe indebitamente l'accesso al giudizio di impugnazione, in violazione dei diritti costituzionalmente e convenzionalmente garantiti" (Sez. 2, n. 8014 del 11/01/2024, El Janati, Rv. 285936). Peraltro, in altra occasione, si è sottolineato sullo specifico tema che è ammissibile l'appello che contenga, senza materiale allegazione, la domiciliazione, anche al fine della notifica dell'atto di citazione (Sez. 2, n. 16480 del 29/02/2024, Miraoui Mohamed, non massimata). 4. Ciò posto, si rileva che, nel caso in esame, non viene in rilievo né l'ipotesi dell'imputato assente né quella dell'imputato detenuto. In concreto, l'atto di appello indicava la domiciliazione dell'imputato, ma senza che fosse allegato l'atto che la conteneva, senza che l'atto recasse la firma anche dell'imputato e senza che fosse specificata la precisa collocazione della dichiarazione di domicilio nel fascicolo processuale. La Corte di appello, facendo applicazione dell'art. 581, comma 1-ter cod. proc. pen., ha ritenuto l'appello inammissibile, in quanto privo dell'allegazione della dichiarazione di domicilio e della firma dell'imputato, pur non ritenendo necessario che tale domiciliazione fosse intervenuta dopo la sentenza impugnata. 5. Orbene, richiamando quanto osservato in ordine alla ratio della disposizione, che è quella di assicurare la celerità ed efficienza del processo e dunque, in primo luogo, l'individuazione sicura del luogo di notifica, non di rado fonte di incertezze, da cui possono discendere nullità processuali, deve ritenersi che la valutazione della Corte territoriale non si esponga in alcun modo alle censure proposte nel motivo di ricorso. Va infatti rimarcato come l'adempimento previsto a pena di inammissibilità consista nel deposito della dichiarazione o elezione di domicilio e come tale adempimento sia funzionale alla notifica dell'atto di citazione. La norma non chiarisce se la dichiarazione o elezione debba essere successiva alla sentenza impugnata, come previsto invece espressamente nel caso di imputato assente e come, nondimeno, ritenuto da una parte della giurisprudenza. Sta di fatto che la nozione di deposito implica un'attività di materiale produzione, avente ad oggetto la dichiarazione o elezione di domicilio, quale atto proveniente specificamente dall'imputato e recante dunque la sua firma, al fine di consentire l'inequivoca individuazione del luogo della notifica. Anche volendo ritenere sufficiente una dichiarazione o elezione anteriore alla sentenza impugnata, si tratta tuttavia di stabilire se tale produzione comporti un'allegazione all'atto di appello o possa risolversi nella sua riproduzione nel corpo dell'atto. Quel che pare certo è, da un lato, che debba emergere la provenienza sicura dell'atto e che dunque possa con certezza attribuirsi la dichiarazione o elezione all'imputato e, dall'altro, che ciò possa farsi senza equivoci fin dal momento della presentazione dell'atto di impugnazione. In tale prospettiva deve escludersi che possa ritenersi bastevole il generico richiamo del luogo della domiciliazione nell'atto di appello, ove la stessa non sia corroborata e accompagnata dalla firma dell'imputato, giacché quel richiamo, al di là dell'assunzione di responsabilità da parte del legale, non varrebbe comunque a conferire certezza alla domiciliazione fin dal momento della presentazione dell'impugnazione. Tutt'al più, in una prospettiva volta, sul piano interpretativo, a ridimensionare la portata dell'onere previsto ma, nel contempo, ad assicurare in pari misura la provenienza e la certezza della domiciliazione, potrebbe ritenersi se del caso idonea, alla stregua di una produzione, la puntuale, specifica e precisa indicazione della collocazione della domiciliazione nel fascicolo processuale, così da inverarne l'attualità senza la necessità di imporre una incerta esplorazione dell'incartamento, tanto più problematica nel caso di fascicoli particolarmente ponderosi. Sta di fatto che nel caso di specie, come detto, non ricorre neppure tale ipotesi, dovendosi dunque ribadire la valutazione formulata dalla Corte di appello. 6. Una siffatta conclusione non si pone in contrasto con la tutela dei diritti difensivi e in conflitto con garanzie costituzionali, sia pur mediate da norme convenzionali. La prospettata questione di legittimità costituzionale, peraltro formulata in termini generici, risulta, invero, anche manifestamente infondata. È stato più volte rilevato come le nuove disposizioni introdotte dagli artt. 581, comma 1-ter e 1-quater cod. proc. pen., non si pongano in contrasto con le invocate garanzie (Sez. 6, n. 3365 del 20/12/2023, dep. 2024, Terrasi, Rv. 285900; Sez. 4, n. 43718 del 11/10/2023, Ben Khalifa Mohamed, Rv. 285324; cfr. anche Sez. 6, n. 223 del 07/11/2023, dep. 2024, Sechovcov, non massimata). Con particolare riguardo all'art. 581, comma 1-ter cod. proc. pen. va infatti richiamata la nitida ratio sottesa alla disposizione, funzionale alla salvaguardia di un'esigenza che trova tutela e riconoscimento nella Carta costituzionale: la norma non è volta a limitare il diritto di difesa e si risolve nella definizione di una modalità strutturale dell'atto di impugnazione, che non implica un adempimento irragionevole e inutile, in quanto volto, semmai, a rafforzare il rispetto delle garanzie senza un aggravio intollerabile e tale da costituire di fatto una limitazione nell'esercizio delle facoltà difensive. Si tratta infatti di assicurare una permanente vigilanza da parte dell'imputato in ordine all'indicazione del luogo della notifica, senza peraltro pretenderne una non esigibile collaborazione, tale da eccedere il limite di quella minima vigilanza e da interferire con gli adempimenti, per contro, esigibili dagli organi deputati all'amministrazione della giustizia. Ciò non determina alcuna tensione con il principio di uguaglianza, con il diritto di difesa e con il diritto di impugnazione e dunque con la facoltà di accesso ai rimedi previsti, essendo introdotta una modalità che non si risolve in un vuoto formalismo tale da comprimere irragionevolmente quella facoltà, al contrario idoneamente calibrata in modo assicurare il contemperamento di tutte le esigenze, senza tuttavia incidere sul ruolo del difensore, creando un'indebita frattura con la sua pregressa azione. Ciò vale a fortiori ove l'adempimento richiesto sia inteso riduttivamente non come nuova elezione o dichiarazione ma come allegazione di una dichiarazione precedente o addirittura come mera puntale indicazione della collocazione nel fascicolo della dichiarazione precedente, essendo evidente come un siffatto adempimento possa essere agevolmente assicurato dalla parte interessata o dal suo difensore, a fronte di uno scopo legittimo e della concreta proporzione della prescrizione, rispettosa dei canoni evocati in generale dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (sul punto Corte edu, 28 ottobre 2021, Succi et al. c. Italia, ric. nn. 55064/11, 37781/13 e 26049/14). 7. Su tali basi deve concludersi che la questione di illegittimità costituzionale è manifestamente infondata e che radicalmente infondato risulta il ricorso nel suo complesso. 8. All'inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, ma non anche quella al pagamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, dovendosi valutare la peculiarità della situazione, coinvolgente il diritto di difesa avverso ordinanza emessa, pur legittimamente, de plano. Proprio la peculiarità della questione devoluta con il ricorso, non immediatamente coinvolgente i profili civilistici, induce a ritenere compensate le spese di costituzione e difesa sostenute nel presente grado dalla parte civile. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Compensa integralmente le spese di costituzione del grado della parte civile. Così deciso il 16 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7538 del 2023, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Fr. Ca., Fi. La., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Fr. Ca. in Roma, via (...); contro Sapienza Università di Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Ru., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Terza n. -OMISSIS- Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Sapienza Università di Roma; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 febbraio 2024 il Cons. Sergio Zeuli e uditi per le parti gli avvocati Fi. La. e Gi. Ru.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso proposto dalla parte appellante avverso il provvedimento del -OMISSIS- n. -OMISSIS- con cui l'Università degli Studi di Roma "La Sapienza" le ha irrogato, ai sensi dell'art. 87 del T.U. 1592 del 1993, nonché dell'art. 3 commi 4 e 5 del Regolamento di Ateneo, la sanzione disciplinare della sospensione dall'ufficio e dallo stipendio, per un periodo di due mesi. A supporto del gravame, la parte espone le seguenti circostanze di fatto: - con la nota n. -OMISSIS- del -OMISSIS- l'Università comunicava l'avvio del procedimento disciplinare contestando - sulla base del decreto di rinvio a giudizio del GIP presso il Tribunale di Roma - di aver confezionato un bando su misura per il prof. -OMISSIS-; - nel corso di detto procedimento, l'organo istruttore disattendeva la richiesta di sospensione pregiudiziale del procedimento disciplinare in attesa della definizione del processo penale e deferiva, per la gravità dei fatti contestati, il procedimento al Collegio di Disciplina che procedeva all'audizione dell'incolpato; - anche il Collegio di disciplina disattendeva la richiesta di sospensione per pregiudizialità ; - in seguito l'incolpato veniva in possesso di file audio riproducenti una conversazione fra terzi che conteneva elementi a suo carico e veniva quindi nuovamente escusso, su convocazione, dall'organo, il -OMISSIS-; - il -OMISSIS- successivo - precedentemente, il -OMISSIS-, la parte aveva presentato una memoria - il Collegio comunicava di aver concluso il -OMISSIS- le proprie attività ; - il -OMISSIS- l'Università trasmetteva il decreto impugnato, con il quale irrogava la sanzione disciplinare della sospensione dall'ufficio e dallo stipendio per un periodo di due mesi, a decorrere dall'-OMISSIS-, senza effettuare alcun riferimento alle richieste ed alle difese presentate dall'incolpato e fondando la propria decisione su di una consistente attività istruttoria, a dire di questi, non resagli nota. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso proposto avverso detto decreto. La parte deduce i seguenti motivi di appello: 1. Errores in procedendo e in iudicando: violazione e/o falsa applicazione dell'art. 10 della L. n. 240/2010, dell'art. 117 del DPR n. 3/1957 e dell'art. 12 della legge n. 311/1958. 2. Errores in iudicando: violazione e/o falsa applicazione dell'art. 10 comma 1 della Legge n. 240/2010 e ss. mm. ii.; artt. 6 e 7 del Regolamento di Ateneo; art. 41 CDFUE e art. 6 CEDU. 3. Errores in procedendo e in iudicando: sulla violazione del divieto di mutatio libelli. Violazione del principio del giusto procedimento e del contraddittorio. Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 24 e 97 della Cost.; violazione e/o falsa applicazione dell'art. 3 della l. 241/1990 ss. mm. ii.; eccesso di potere per sviamento ed erroneità della motivazione. 4. Errores in procedendo e in iudicando: sull'inutilizzabilità in sede disciplinare delle registrazioni audio effettuate dal dott. -OMISSIS-. 5. Errores in iudicando: sulla infondatezza dell'addebito disciplinare eccesso di potere per erroneità, carenza e perplessità dell'istruttoria e della motivazione; violazione del principio della prova; travisamento dei presupposti di fatto e di diritto. Ingiustizia manifesta. Violazione del principio di proporzionalità . 2. Si è costituita in giudizio l'Università degli Studi "La Sapienza" di Roma, contestando l'avverso dedotto e chiedendo il rigetto del gravame. DIRITTO 3. Il primo motivo di appello contesta l'omessa applicazione alla fattispecie controversa della cd. "pregiudiziale penale" di cui all'art. 117 del D.P.R. n. 3/1957. La parte appellante sostiene, in primo luogo, che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure, questa disposizione sarebbe applicabile al procedimento disciplinare celebrato nei confronti dei professori universitari, ancorché il relativo rapporto di lavoro abbia sempre presentato delle particolarità rispetto al resto del pubblico impiego, e che, in ogni caso, le ragioni di garanzia sostanziale e processuale che ispirano il suddetto principio imporrebbero comunque di applicarlo, anche se non fosse espressamente contemplato. Il secondo motivo di appello - che può essere trattato congiuntamente al primo - deduce in via principale che nel procedimento controverso sarebbe stato violato l'articolo 10 della legge n. 240 del 2010, e, in subordine, che se quest'ultimo fosse interpretato nei sensi ritenuti dal giudice di prime cure, sarebbe in contrasto con gli articoli 3 e 97 della Costituzione, oltre che, per norma interposta, ex art. 117 Cost., con l'articolo 6 par. CEDU. 3.1. Il primo motivo è infondato per una serie di ragioni, prima delle quali è che il suddetto articolo 117 D.P.R. n. 3 del 1957 è ricompreso, al n. VI 1 a) dell'allegato B, richiamato dal comma 1 dell'art. 71 del d.lgs. 165/2001, tra le previsioni che cessano di avere efficacia, dal momento della stipulazione dei contratti collettivi, per ciascun ambito di riferimento. Diversamente da quanto ritenuto dalla parte appellante, la sopravvenuta inefficacia ivi prevista va applicata - come testualmente precisato sia dall'articolo 71 che dal precedente articolo 69 del d.lgs. n. 165 del 2001 - " a ciascun ambito di riferimento", e non al solo personale del comparto dirigenziale, per il quale ultimo, la sola differenza è in relazione al quadriennio dei contratti collettivi preso in considerazione quale evento caducante, che, per i soli dirigenti, è quello del 1994-1997, mentre per tutti gli atri - fra essi compresi i docenti universitari - è quello successivo del 1998-2001. 3.2. La conferma dell'inapplicabilità della pregiudiziale penale ai professori universitari, si ricava altresì dalla previsione contenuta nell'art. 12 della legge n. 311 del 1958 che tra le norme ritenute applicabili ai predetti, sin da allora, non richiamava il citato articolo 117 DPR n. 3/1957. 3.3. In terzo luogo - evidenziando l'autonomia del procedimento disciplinare nei confronti dei pubblici impiegati - l'articolo 55-ter del d.lgs. n. 165 del 2001 prevede oggi espressamente che "il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l'autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale ". 3.3. Infine l'articolo 10 della legge n. 240 del 2010 - in tema di competenza disciplinare nei confronti dei professori universitari - nulla prevede a proposito della cd. pregiudiziale penale, così implicitamente autorizzando, diversamente da quanto sostenuto dal motivo in esame, che ne assume la violazione, i singoli Atenei, in occasione dell'adozione dei relativi Regolamenti, ad orientarsi come meglio credono. Or bene la suddetta prerogativa è stata puntualmente esercitata dall'Università appellata che, al comma 1 dell'articolo 12 del Regolamento disciplinare dell'Ateneo (D.R. 438/2020) ha escluso l'operatività del suddetto principio. 3.4.1. Come anticipato, la parte appellante sostiene, con il secondo motivo d'appello, che - essendo posto a presidio di una garanzia essenziale, sulla quale l'autonomia regolamentare non avrebbe potuto incidere, in quanto strettamente connessa allo status di professore universitario di ruolo, ed alla relativa tutela costituzionale del professore universitario, ai sensi degli articoli 3 e 97 della Costituzione - il suddetto principio andrebbe comunque salvaguardato in una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 10 della legge n. 240 del 2010. In questa prospettiva il motivo in analisi rivendica l'esigenza di una disciplina unitaria - necessariamente per via legislativa - dei relativi procedimenti disciplinari, pena la creazione di inammissibili disparità di trattamento tra i professori universitari, a seconda dell'ateneo di appartenenza, chiedendo alternativamente, con il primo motivo di annullare per violazione del citato articolo 10 l.240 la suddetta norma regolamentare, con il secondo, in subordine, di rilevare il contrasto dell'articolo 10, se non interpretato come proposto, con i principi costituzionali di cui agli articoli 3, e 97 della Costituzione. 3.4.2. L'obiezione è infondata nei suoi presupposti. Essa dà infatti per scontato che, quello della pregiudizialità del processo penale rispetto al procedimento disciplinare, rappresenti un principio generalmente applicabile all'intero pubblico impiego, quando è al contrario evidente che, a seguito dell'introduzione nel testo unico del p.i. dell'art. 55 ter, il legislatore - optando per gli opposti principi di autosufficienza ed autonomia delle due procedure - ha espresso l'intendimento esattamente opposto. Il che è peraltro conclamato dalla giurisprudenza unanime della Cassazione che, per l'appunto in materia di procedimento disciplinare nei confronti dei pubblici dipendenti, ha escluso la sopravvivenza dell'istituto della pregiudiziale, venuta meno dopo l'introduzione del citato articolo 55-ter del d.lgs. 165 del 2001, ed ha espressamente affermato, per quel che più interessa in questa sede, che "l'amministrazione è libera di valutare autonomamente gli atti del procedimento penale, ai fini della contestazione, senza necessità di una ulteriore ed autonoma istruttoria, (così come NdR) di avvalersi dei medesimi atti, in sede d'impugnativa giudiziale, per dimostrare la fondatezza degli addebiti" (cfr. Cass. civ., sez. lav., 1 marzo 2017 n. 5284 e 26 ottobre 2017 n. 25485). Dunque l'amministrazione, quale datrice di lavoro deve ritenersi libera di valutare se e quando sussistano motivi per sospendere il relativo procedimento, a causa della contemporanea pendenza di un processo penale, e, quindi, anche di presumere, in astratto, fatta salva la possibilità di scelta del caso per caso, la normale non pregiudizialità . Né può fondatamente sostenersi che tale discrezionalità - ripetesi - attribuita oramai dalla legge- non sia riferibile anche alla categoria dei professori universitari, ancorché non privatizzata, a maggior ragione laddove si consideri che, già in vigenza dell'originario assetto ordinamentale di questi ultimi, risalente al 1958, si dubitava, peraltro, con valide argomentazioni, che suddetto principio operasse per questa categoria di lavoratori. 3.4.3. Quanto al prospettato vulnus che, per questa via, si recherebbe ai suddetti principi costituzionali si osserva che - a voler seguire l'interpretazione di cui al motivo in analisi che propugna la necessità di una disciplina legislativa unica su tutto il territorio nazionale - risulterebbe senz'altro vulnerato un altro fondamentale principio costituzionale, ossia l'autonomia organizzativa dell'Università di cui all'art. 33 comma 6 della Costituzione, che ne risulterebbe irreparabilmente compressa. 3.4.4. Quanto invece alla contestata lesione dei principi costituzionali di parità di trattamento e buon andamento, l'obiezione non considera che la non operatività della pregiudiziale, nella legge come nel regolamento di ateneo, è da intendersi come previsione solo "di massima" che, come tale, non impedisce che, in casi specifici, quest'ultima possa operare, come pure che la decisione che ne nega l'applicazione sarebbe comunque pur sempre sindacabile in sede giurisdizionale. Il che significa che, a tutto concedere, la previsione denunciata presenterebbe una lesività tutto sommato modesta rispetto ai suddetti principi, e comunque rimediabile, che, come tale, giammai può ritenersi con essi in contrasto. 3.4.5. Dimostrata l'inconferenza delle relative obiezioni, si palesa con ciò la manifesta infondatezza del prospettato contrasto dell'articolo 10 della legge n. 240 del 2010 con le norme costituzionali, evocato nel secondo motivo di appello. 3.5. In definitiva, va ribadita la legittimità dell'articolo 12 del Regolamento di Ateneo dell'Università La Sapienza di Roma, in tema di procedimento disciplinare nei confronti dei professori universitari, nella parte in cui esclude l'operatività della pregiudiziale penale, disposizione che risulta altresì essere stata correttamente applicata nella vicenda controversa. D'altro canto le considerazioni che precedono escludono che con l'inciso - "fatti salvi i casi di sospensione previsti dalla legge" ivi contenuto - questa disposizione si sia voluta riferire alla pregiudiziale, in quanto la stessa, come si è visto, è stata definitivamente espunta, persino quale principio generale, dalle norme regolative del pubblico impiego e non è tampoco evincibile dall'articolo 10 della legge n. 240 del 2010, come pure appena osservato. 4. Il terzo motivo d'appello contesta la violazione dei principi generali di garanzia del giusto procedimento disciplinare, anche in contrasto con il diritto europeo e quello convenzionale, lamentando che l'attività dell'autorità procedente sarebbe censurabile per più ragioni, e cioè, per la violazione dei principi del contraddittorio e della corrispondenza fra incolpazione e condanna e per l'omesso esame delle ultime memorie depositate dall'incolpato, al quale, così operando, l'amministrazione non avrebbe lasciato l'ultima parola. 4.1. Sotto altro profilo il terzo motivo d'appello contesta la non corrispondenza tra imputazione e condanna. Specificamente con questa doglianza la parte appellante deduce che, in sede di contestazione iniziale, le era stata addebitata una condotta attiva, consistente nell'indebito confezionamento di un bando su misura, e che nella condanna, al contrario, la sanzione è stata irrogata per ragioni diverse, ossia per avere omesso di esercitare i poteri di verifica, controllo e segnalazione su di lei incombenti. 4.2. Il quarto motivo d'appello - che può essere trattato congiuntamente a quello che lo precede- contesta in aggiunta che le registrazioni effettuate dal dr. -OMISSIS- del dia con il dr. -OMISSIS- sarebbero inutilizzabili nei confronti di terzi estranei alla conversazione, quale è in questo caso la parte appellante. 5. Il terzo motivo di appello è infondato, innanzitutto nei presupposti, basandosi su di una pretesa assimilabilità tra le garanzie offerte dall'imputato nel processo penale - che gli consentono di assistere a tutte le fasi del procedimento al momento del "farsi" della prova in dibattimento - e quelle, senz'altro più dimensionate rispetto alle prime, che spettano all'incolpato nel procedimento disciplinare. E' evidente infatti che, trattandosi di due procedimenti con finalità diverse, e, soprattutto, suscettibili di incidere su situazioni soggettive di diverso spessore - giuridicamente molto più delicate sono quelle coinvolte nel primo - non si può pretendere per essi il medesimo tasso di garantismo, pena l'introduzione di una disparità di trattamento al contrario, e, soprattutto, il rischio di appesantire eccessivamente il secondo, in contrasto con il principio di efficienza dell'azione amministrativa. Da ciò consegue che il prospettato diritto di seguire, per così dire, "da presso" tutte le acquisizioni testimoniali che la parte appellante rivendica, è - almeno nella ipotizzata estensione - insussistente nel procedimento disciplinare. 5.2. Si deve anche osservare, in fatto, che nel procedimento controverso risulta rispettata la procedura prescritta dal Regolamento di Ateneo in tema di procedimento disciplinare, conformato nell'esercizio dei poteri attribuiti all'università dal ricordato articolo 10 della legge n. 240 del 2010, il che consente di escludere che sia stato indebitamente conculcato il diritto di difesa della parte appellante. 5.2.1. Infatti il contraddittorio procedimentale, e il suo presupposto partecipativo, sono stati adeguatamente assicurati a quest'ultimo tanto da consentirgli di: produrre due memorie al Collegio, ed una all'organo istruttore; essere esaminato due volte dal Consiglio di disciplina, il -OMISSIS- ed il -OMISSIS-, anche concordando, nella prima occasione, la data della sua audizione, ed essendo stato convocato di ufficio, dal Collegio, al termine dell'istruttoria. In entrambe le occasioni egli ha avuto modo di difendersi dai fatti che gli erano stati contestati, controreplicando in fatto ed in diritto. Che avesse piena contezza di questi ultimi, e dunque che fosse stato messo nella piena condizione di difendersi, è dimostrato dal contenuto delle dette audizioni. Del resto aveva precedentemente acquisito i file audio della registrazione riproducente il dia intercorso tra il dr. -OMISSIS- ed il dr. -OMISSIS-, ossia il documento che rappresenta la prova principale, e del processo penale, e di quello disciplinare. 5.2.2. Tanto meno trova conferma in atti la doglianza che all'incolpato non furono comunicate le nuove circostanze emergenti dalle testimonianze acquisite in istruttoria lo stesso -OMISSIS-. Infatti dal relativo verbale si evince che la parte appellante, anche grazie alla previa acquisizione dei suddetti audio file, aveva un apprezzabile grado di conoscenza degli elementi di prova a suo carico. Aggiungasi che si trattava di fatti storici non particolarmente articolati e sostanzialmente coincidenti con quelli acquisiti nel corso del procedimento penale, che gli erano ben noti a maggior ragione dopo che era stato rinviato a giudizio. 5.2.3. Il sub-motivo al terzo motivo d'appello è infondato in fatto perché, a leggere la motivazione del provvedimento impugnato vi è coincidenza e sovrapponibilità fra contestazione iniziale e fatto posto a fondamento della condanna. Infatti nella contestazione iniziale, estratta dall'imputazione contenuta nel decreto che dispone il giudizio del GIP, l'organo istruttore aveva contestato alla parte soprattutto il risultato della sua condotta, consistente nell'aver emanato un bando su misura per il professor -OMISSIS-, controparte nella controversia pre-processuale iniziata con la diffida, nonché presunto creditore dell'università . L'evento era addebitato all'incolpato, senza precisare la tipologia di condotta causale da lui posta in essere, ossia se commissiva o omissiva, come è evincibile dai generici riferimenti alle "condotte (id est: senza ulteriore aggettivazione) rilevanti sotto il profilo disciplinare" da lui tenute e all'iniziativa "da lui promossa ed attivata" contenuti nella contestazione. Del resto, dall'intero contenuto del procedimento disciplinare palesatosi nel corso del suo svolgimento (come si dirà anche infra), era evidente che l'incolpato fosse stato chiamato in causa dall'amministrazione, sia come co-autore di condotte materiali che, più in generale, come responsabile gestionale e di spesa dei procedimenti che avevano dato luogo alla controversia, dunque la condanna per questo secondo profilo non poteva ex ante ritenersi imprevedibile, ma anzi rappresentava un fatto implicitamente ricompreso nella contestazione, così come uno dei possibili esiti dell'istruttoria. 4.2.4. Quanto alla contestata inutilizzabilità dei file, l'eccezione sollevata con il ricordato quarto motivo non ha pregio perché si trattava di un documento, nel senso di elemento rappresentativo di una circostanza- appunto il dia tra -OMISSIS- ed -OMISSIS- - confermata da quest'ultimo, da questi spontaneamente consegnato. Delle registrazioni eseguite in questo modo la Cassazione unanimemente riconosce la piena utilizzabilità in giudizio (vedasi per tutte Cassazione civile, sez. lav., 29/09/2022, n. 28398) senza limitazioni quanto ai soggetti a carico dei quali farle valere. Con principio che, a maggior ragione, deve valere nel caso di specie, dove si procedeva nell'ambito del meno garantito procedimento disciplinare. A definitiva confutazione dell'obiezione si consideri poi che l'eventuale interdizione all'uso della registrazione nei diretti confronti dell'incolpato, non ne impedirebbe l'uso nei confronti del suo correo, in quanto altro interlocutore della conversazione, ossia il dr. -OMISSIS-, il che finirebbe per avere una valenza indiziaria pressoché analoga anche a carico dell'odierna parte appellante, che è accusata (e che è stata sanzionata in sede disciplinare) di aver agito in concerto con quest'ultimo. 5. Il quinto motivo d'appello contesta l'inveridicità, in fatto, dell'addebito disciplinare. 5.1. Il motivo è infondato. Alla parte appellante è stato contestato di aver fatto approvare un bando per il conferimento di un incarico retribuito, confezionato sui requisiti del prof. -OMISSIS-, allo scopo di ricompensarlo delle prestazioni da lui effettuate nell'ambito di un progetto di ricerca condotto dal Dipartimento di -OMISSIS- dell'Università, di cui era Responsabile Scientifico la parte appellante. Le dette prestazioni non erano state pagate al professor -OMISSIS- che pertanto si era indotto ad inoltrare al Dibattimento una diffida di adempimento. Per indurlo a rinunciare alle sue pretese - secondo l'accusa - la parte appellante avrebbe, per interposta persona, proposto al suddetto docente di far emanare un Bando dall'Università "cucito" sul suo profilo professionale, a tacitazione della sua pretesa. Senonché - dopo aver rifiutato la proposta - il predetto -OMISSIS- ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Roma, dal quale è stato occasionato il procedimento penale che ha condotto al rinvio a giudizio della parte appellante per i reati p. e p. dagli articoli 110 e 322 comma 4 del codice penale. La registrazione di cui sopra fornisce la prova che effettivamente il dottor -OMISSIS-, collaboratore della parte appellante, che lo avrebbe incaricato del relativo incombente, abbia chiesto ad -OMISSIS- di convincere -OMISSIS- a partecipare alla procedura concorsuale, procedura che quest'ultimo avrebbe prevedibilmente vinto, ottenendo così l'attribuzione dell'incarico per il quale era previsto un corrispettivo di euro 31.400, rinunciando al contempo alla diffida inoltrata all'Ateneo e, con essa, al pagamento delle somme spettantigli in ragione della collaborazione al precedente progetto. E' altresì accertato (deposizione della funzionaria -OMISSIS-) che fu la parte appellante a modificare gli atti attuativi conseguenti alla delibera del Dipartimento di -OMISSIS- del -OMISSIS-. Del resto, in quanto vertice dell'ufficio, era solo l'incolpato che avrebbe potuto intervenire, sia da un punto di vista tecnico che amministrativo sulla relativa procedura, così come è altrettanto indubbio che egli rappresentava l'autorità dotata dell'ultima parola a decidere in ordine alla gestione dei fondi. Risulta ancora che la procedura presentava una configurazione anomala, quanto al contenuto, rispetto ad altri bandi consimili emessi dal dipartimento e che, altri sintomi con valenza indiziaria, il primo bando andò deserto, mentre al secondo partecipò, significativamente il solo professor -OMISSIS- che effettivamente possedeva, e non casualmente, i titoli specialistici esattamente richiesti dalla procedura. Né è fondatamente sostenibile che le funzionarie amministrative che redassero il bando avrebbero potuto autonomamente intervenire sulle specifiche tecniche per l'aggiudicazione che, al di là di ogni ragionevole dubbio, furono inserite nel Bando dalla parte appellante, come del resto confermato dalle stesse impiegate, escusse dal Collegio di disciplina. La stessa parte appellante ne nominò i membri e per di più presiedette la Commissione di concorso. 5.2. Tanto premesso, si tratta - come è evidente - di fatti gravi che, oltre a dimostrare che la parte appellante, almeno in due occasioni, ha platealmente violato i suoi doveri di ufficio - prima non corrispondendo al -OMISSIS- le somme dovute a titolo di collaborazione, quindi successivamente distraendo altre somme per uno scopo diverso da quello previsto - ledono al contempo la dignità e la credibilità della funzione docente e l'immagine pubblica dell'Istituzione universitaria alla quale ella apparteneva integrando i presupposti che consentono l'applicazione della sanzione. Quanto precede, peraltro, stante l'obiettiva gravità della condotta - che sarebbe integrata anche dal solo fatto di aver disegnato un bando sul profilo professionale dell'unico candidato, oltretutto soggetto controparte in una vicenda precontenziosa che sarebbe presumibilmente presto sfociata in un giudizio civile, altra circostanza opaca della vicenda- rende irrilevante anche l'obiezione di parte appellante che rivendica la carenza di dolo della sua condotta. Invero - in disparte la considerazione che di tale assenza di colpevolezza non v'è traccia né negli atti né nel decreto che dispone il giudizio e che, anzi, tutto lascia deporre, al contrario, per la presenza di una condotta intenzionale - la negligenza grave che comunque emerge dai fatti passati in rassegna, giustificherebbe di per sé la sanzione irrogata, Anche a voler trascurare che si trattava, nell'occorso, di un potere largamente permeato da discrezionalità che, nell'occorso, non risulta essere stato esercitato, ad un giudizio estrinseco, in modo abusivo o anche solo dis-funzionale. 6. Conclusivamente questi motivi inducono al rigetto dell'appello. Le concrete circostanze del fatto, unitamente alla relativa novità della questione in diritto, rappresentano giustificate ragioni per compensare le spese di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Compensa le spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Marco Lipari - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Daniela Di Carlo - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere, Estensore Rosaria Maria Castorina - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. RICCIARELLI Massimo - Consigliere Dott. GIORDANO Emilia Anna - Consigliere Dott. APRILE Ercole - Consigliere Dott. PATERNÒ RADDUSA Benedetto - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ca.Em., nato a T il (Omissis); avverso la sentenza della Corte di appello di Roma del 4 aprile 2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Benedetto Paterno Raddusa; Letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Roberto Aniello, che ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata senza rinvio limitatamente alla disposta applicazione della misura di sicurezza e la inammissibilità del ricorso nel resto. RITENUTO IN FATTO 1. Ca.Em. è stato condannato dal Tribunale di Latina alla pena di anni due e mesi sei di reclusione perché giudicato colpevole dei reati allo stesso ascritti e segnatamente dei maltrattamenti ex art. 572 cod. pen. e delle lesioni aggravate realizzate ai danni della convivente, Sa.Ta. 2. Interposto appello, con la sentenza descritta in epigrafe, la Corte di appello di Roma, fermo il giudizio di responsabilità, ha ridotto la pena irrogata (da due anni e sei mesi a due anni) in ragione della ritenuta presenza del vizio parziale di mente rivendicato dalla difesa e, al contempo, ha applicato al Ca.Em. la misura di sicurezza della libertà vigilata, con la prescrizione di sottoporsi ad un programma terapeutico individuato dai servizi territoriali competenti. 3. Propone ricorso la difesa dell'imputato e lamenta: - in relazione all'applicazione della misura di sicurezza, violazione dell'art. 597, comma 3, cod. proc. pen., essendo stata disposta dalla Corte in presenza di un gravame proposto solo dall'imputato, nonché degli artt. 203 e 228 cod. pen. perché il giudizio di pericolosità sarebbe stato reso senza considerare la condotta del ricorrente successiva alla commissione dei reati né valorizzare il comportamento tenuto in carcere; - in relazione alla configurabilità dei maltrattamenti, l'inadeguatezza degli elementi probatori indicati a supporto del relativo giudizio di responsabilità considerato sia il narrato della persona offesa - dal quale sarebbe emerso un singolo e occasionale fatto di violenza, quello documentato dal referto ospedaliero, non altrimenti sostenuto dalle altre deposizioni, così da rendere la condotta a giudizio distante dal reato di cui all'art. 572 cod. pen. per l'assenza di abitualità degli agiti vessatori, sia l'insussistenza del dolo unitario che connota il reato in contestazione, sia, infine, la mancanza del contesto sociale, la convivenza, nel quale si sarebbero innestate le condotte ascritte al ricorrente; - violazione di legge e omessa motivazione in relazione alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso merita l'accoglimento limitatamente alla sola applicazione della misura di sicurezza disposta con la sentenza gravata, che va dunque annullata in parte qua. Per il resto, va rilevata l'infondatezza degli altri motivi di impugnazione. 2. Modificando l'ordine di prospettazione delle censure, viene scrutinata per prima, per la sua assorbente priorità logico giuridica, quella inerente al giudizio di responsabilità reso, con duplice valutazione conforme, dai giudici del merito in relazione ai contestati maltrattamenti in famiglia ascritti al Ca.Em. Sul tema, devoluto dal terzo motivo di ricorso, ritiene la Corte che sentenza gravata regga l'urto delle censure prospettate dall'impugnazione che occupa. 2.1. Le due sentenze di merito fanno coerentemente leva sulle dichiarazioni della persona offesa, tali da cristallizzare, senza incertezze, i costituiti oggettivi dei maltrattamenti contestati in ragione delle riferite, molteplici e ripetute, iniziative aggressive, verbali e fisiche, realizzate ai danni della stessa dall'imputato nel torno di tempo coperto dall'imputazione, tali da rendere all'evidenza intollerabile il clima inerente alla relativa convivenza. Certa, né contrastata dal ricorso, la attendibilità soggettiva della dichiarante, i giudici del merito hanno affrontato e superato, con argomentare immune a manifeste incongruenze logiche, le criticità offerte dal narrato dibattimentale della persona offesa mettendo in evidenza il fatto che le contraddittorietà emerse rispetto alla deposizione resa nel corso delle indagini - avendo la teste dichiarato, a differenza di quanto riferito in precedenza, che solo in una occasione si era recata in ospedale in conseguenza delle aggressioni del compagno, mentre gli altri referti acquisiti si sarebbero riferiti ad eventi accidentali - erano da ritenersi giustificate dall'intenzione di ridimensionare i profili di responsabilità dell'imputato, cristallizzati dalle originarie propalazioni; e ciò, del resto in coerenza con la scelta di non denunziare il Ca.Em. in precedenza e soprattutto con la maturata volontà di non costituirsi parte civile nel processo che occupa. Di contro, l'insieme di altri elementi acquisiti in esito alla relativa attività istruttoria, hanno consentito ai giudici del merito, anche in parte qua senza incorrere in vizi di sorta, di limitare le incertezze afferenti alla credibilità del narrato della persona offesa solo a questa parte della relativa deposizione dibattimentale (in particolare, viene dato puntuale rilievo al contenuto del referto ospedaliero del 17 luglio 2020, all'evidenza coerente con la tipologia di agiti violenti riferiti alle condotte del Ca.Em., cosi come ben precisato anche dalle sentenza di primo grado, tal da smentire la relativa dichiarazione dibattimentale sul punto). 2.2. Del resto, come messo in rilievo dalla decisione gravata, in linea con il portato complessivo delle dichiarazioni della persona offesa, le violente aggressioni realizzate dall'imputato nel caso hanno trovato definitivo riscontro non solo nelle stesse dichiarazioni dell'imputato, che si è dichiarato responsabile dei fatti allo stesso ascritti; ma anche e soprattutto nel contenuto delle deposizioni rese dagli altri soggetti escussi (in particolare, i testi Bi.e Gu.), che hanno riferito fatti ai quali hanno assistito personalmente e altre vicende loro riferite dalla persona offesa. 2.3. Ferma, dunque, la riscontrata natura vessatoria e la abitualità delle condotte realizzate dal Ca.Em., la difesa, nel contestare la configurabilità dell'ipotesi di reato ascritta all'imputato, ha altresì introdotto con il ricorso temi non devoluti con l'appello. In particolare, è stato messo in discussione il contesto sociale di verificazione delle condotte in questione, che sarebbero state realizzate in assenza di un rapporto di convivenza tra l'imputato e la persona offesa: aspetto in fatto, quest'ultimo, non contrastato dal gravame di merito, così da non poter essere scrutinato, per la prima volta, in sede di legittimità, risultando così precluso ogni ulteriore sviluppo sul tema in punto di diritto. Né, ancora, l'appello muoveva censure specifiche sulle, peraltro puntuali, argomentazioni svolte in relazione al dolo con la sentenza di primo grado, (si veda la pagina 6, ultimo capoverso), sicché oggi non risulta consentito l'addotto difetto di motivazione su tale versante del giudizio di responsabilità. Da qui la infondatezza del terzo motivo di ricorso. 3. Coglie, invece, nel segno il primo motivo di impugnazione, con il quale si lamenta la violazione del disposto di cui all'art. 597 del codice di rito perchè la Corte del merito, una volta riconosciuto il vizio parziale di mente rivendicato con l'appello, ha ridotto la pena irrogata in primo grado ma al contempo ha applicato al Ca.Em. la misura di sicurezza della libertà vigilata, pur in presenza di un appello unicamente interposto dall'imputato. 3.1. Secondo quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, nell'ipotesi in cui il pubblico ministero non abbia proposto impugnazione, il giudice d'appello, anche quando la misura di sicurezza sia obbligatoria e sia stata illegittimamente esclusa o non ritenuta dal giudice di primo grado, non può disporla, modificando in danno dell'imputato la sentenza da quest'ultimo impugnata, in quanto l'art. 597, comma 3, del codice di rito estende il divieto di reformatio in peius anche all'applicazione di una misura di sicurezza nuova o più grave (Sez. 3, n. 12999 del 12/11/2014, dep. 2015, Rv. 262991; Sez. 1, n. 20004 del 30/04/2009, Rv. 243779; da ultimo, Sezione 6, n. 27928 del 30/3/2022, n.m.). 3.2. Vero è che, secondo una lettura opposta, siffatta scelta interpretativa non consentirebbe all'organo dell'accusa di ovviare alle ipotesi nelle quali i presupposti funzionali all'adozione della misura di sicurezza siano emersi in appello a fronte di una accertata, in tale grado, incapacità parziale o totale di mente, si che risulterebbero così sacrificate radicalmente le istanze di tutela collettiva immediatamente correlate alle situazioni di pericolosità sociale dirette a giustificare l'intervento in prevenzione garantito dalle misure stesse. 3.3. Quale che sia il grado di condivisibilità di tale rilievo critico, va comunque messo in evidenza che la realtà processuale in esame ne rende indifferente il portato. Dalla stessa lettura della decisione impugnata emerge, infatti, come già in primo grado fossero emersi aspetti che, in linea di principio, potevano giustificare, l'adozione della misura di sicurezza alla luce delle risultanze della perizia all'epoca disposta. Nel confermare l'imputabilità del Ca.Em., si metteva al contempo in evidenza come l'imputato non fosse in grado di autogestirsi e che, potendosi prevedere una sua incapacità di non ricadere nell'abuso di sostanze che, a sua volta, lo avrebbe indotto a tenere nuovi comportamenti pericolosi per sè e per i terzi, doveva comunque ritenersi necessario collocarlo presso una struttura territoriale di riabilitazione. Ciò, all'evidenza, in termini non diversi da quanto da quanto ora prescritto dalla Corte territoriale con la decisione impugnata. Per quel che qui interessa, una siffatta situazione consentiva alla Procura di impugnare la sentenza di condanna, nella parte in cui non prevedeva l'applicazione della misura di sicurezza correlata alla riscontrata pericolosità del ricorrente; e tanto finisce per neutralizzare, nel caso, le incertezze interpretative sopra rassegnate. 3.4. La fondatezza della rilevata violazione del terzo comma di cui all'art. 597 del codice di rito porta con sé l'annullamento della sentenza impugnata in parte qua e, al contempo, assorbe e rende indifferente la disamina degli ulteriori rilievi critici prospettati nel merito quanto alla ricorrenza dei presupposti utili a giustificare l'adozione della misura di sicurezza. 4.L'ultimo motivo di ricorso non merita l'accoglimento. In tesi, l'annullamento della misura di sicurezza potrebbe rimettere in gioco il tema della sospensione condizionale della pena, applicabile d'ufficio e comunque precluso nei precedenti gradi di merito per ragioni distinte (in primo grado in considerazione della misura della pena irrogata e in appello, in esito alla riduzione di pena, divenuta non più ostativa, per la disposta applicazione della misura di sicurezza, in virtù di quanto previsto dall'art. 164, comma 3, cod. proc. pen.). Una valutazione nel merito della possibilità di concedere il detto beneficio, possibile conseguenza di un annullamento con rinvio della decisione impugnata anche su tale punto, risulta nella specie, tuttavia, concretamente vanificata dalla puntualità e dalla linearità delle considerazioni spese dalla Corte territoriale in relazione al giudizio di pericolosità apprezzato a sostegno della misura di sicurezza ora annullata per motivi processuali, per nulla scalfite dai rilievi prospettati dal ricorso seppur in relazione al profilo inerente all'applicazione della libertà vigilata. Va infatti ricordato che il giudizio sotteso all'applicazione delle misure di sicurezza si pone in termini di inconciliabilità con il giudizio prognostico funzionale al riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale e che tale incompatibilità costituisce la ragione fondante del disposto di cui all'art. 164, comma 3, cod. proc. pen.: l'applicazione della misura di sicurezza, quando sia accertata la pericolosità, è, infatti incompatibile con la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, che per l'appunto presuppone una prognosi di astensione dalla commissione di altri reati, contraddetta dall'accertata pericolosità. Né consegue che, non ritenendosi censurabile il detto giudizio speso nel valutare la pericolosità del Ca.Em., il relativo portato ben può essere recuperato e valorizzato in questa sede nel ritenere già presente, in termini correttamente e coerentemente ostativi, la valutazione di merito inerente alla sospensione condizionale, sollecitata con l'ultimo motivo di ricorso. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla applicazione della misura di sicurezza che elimina. Rigetta nel resto il ricorso. Così deciso il 20 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da Dott. VESSICHELLI Maria - Presidente Dott. GUARDIANO Alfredo - Consigliere Dott. ROMANO Michele - Consigliere Dott. CUOCO Michele - Relatore Dott. GIORDANO Rosaria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ig.Ni. nato a P il Omissis; avverso l'ordinanza del 9 novembre 2023 del Tribunale di Palermo; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Michele Cuoco; lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Perla Lori, che ha concluso per il rigetto del ricorso; letta la memoria depositata il 4 marzo 2024 dall'avv. Al.Ma., nell'interesse del ricorrente, con la quale si insiste per l'accoglimento del ricorso; RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 9 ottobre 2023, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Palermo rigettava la richiesta di applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalle persone offese avanzata dal Pubblico Ministero nei confronti di Ig.Ni. con riferimento alla contestazione provvisoria di cui al capo di incolpazione n. 1), relativo a condotte integranti, secondo la prospettazione accusatoria, il reato di atti persecutori ai danni della sua ex moglie, Pu.Gi., e dei di lei genitori, Pu.Le. e Lo.Ro. 2. Il provvedimento veniva impugnato dal Pubblico Ministero e il Tribunale, in parziale accoglimento dell'appello proposto, applicava al ricorrente la misura cautelare richiesta, prescrivendo, altresì, l'obbligo di mantenere una distanza di centocinquanta metri dalle persone offese e dai luoghi da queste frequentati e il divieto di comunicazione con le stesse. 3. Avverso quest'ultima ordinanza, la difesa dell'indagato propone ricorso per cassazione, articolando due motivi d'impugnazione, entrambi formulati sotto i profili della violazione di legge, dell'inosservanza di norma processuale e del connesso vizio di motivazione. 3.1. Il primo attiene alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, per come ritenuti e configurati nell'ordinanza impugnata, e deduce, in particolare: - la parziale identità delle condotte oggetto del capo d'incolpazione per il quale è stata emessa la misura rispetto a quanto contestato in altro procedimento penale, in relazione al quale la stessa accusa ha chiesto l'archiviazione; - l'incoerenza cronologica di tali fatti (risalenti al 2022) rispetto a quelli (ulteriori) contestati nel presente procedimento (tutti asseritamente commessi nel 2023); - il vizio motivazionale nel quale sarebbe incorso il Tribunale, nella parte in cui non avrebbe tenuto conto della versione dei fatti fornita dall'indagato, posta a base della richiesta di archiviazione del procedimento in precedenza indicato; - l'incoerente valutazione di attendibilità offerta dal Tribunale quanto alle dichiarazioni rese dalla persona offesa in sede di denuncia e di sommarie informazioni testimoniali (secondo cui il ricorrente non avrebbe partecipato alle spese straordinarie per il mantenimento dei figli); dichiarazioni che si pongono in aperta contraddizione con quanto accertato nel parallelo procedimento penale iscritto in relazione al reato di cui all'art. 570 cod. peri, (conclusosi con l'archiviazione) e con il giudizio civile instaurato a seguito dell'emissione del decreto ingiuntivo richiesto dalla ex moglie (conclusosi con l'accoglimento dell'opposizione proposta dall'odierno ricorrente); - l'omessa valutazione degli esiti di altri procedimenti penali (n. 4600/2021 R.G.N.R., in cui l'odierna persona offesa, Pu.Gi., denunciava la madre dell'odierna persona indagata, Se.El., per il reato di percosse, ma dal materiale indiziario raccolto dagli agenti, emergeva che era stata l'odierna persona offesa ad insultare e ingiuriare la Se.El.; n. 9638/2022 R.G.N.R., tuttora pendente, nel quale Se.El., Ig.Se. e Me.Ro., anche in qualità di esercenti la responsabilità genitoriale dei propri figli minorenni, proponevano denuncia-querela nei confronti di Pu.Gi.. Pu.Le. e Lo.Ro. per i reati di minaccia, di atti persecutori e molestie); dati fattuali che avrebbero avvalorato, secondo la prospettazione difensiva, l 'ipotesi alternativa quanto alle reali motivazioni per le quali Pu.Gi. ha cambiato la propria abitazione (non per colpa del comportamento dell'indagato, ma perché era stata destinataria di denunce per molestie e atti persecutori); - il deficit logico-interpretativo nel quale sarebbe incorso il Tribunale nel valutare l'attendibilità delle due contrastanti versioni sui fatti occorsi il 4 settembre 2023, laddove avrebbe ritenuto credibili le dichiarazioni delle persone offese sulla base del mero dato temporale che queste ultime avessero sporto querela il giorno successivo e che la versione offerta dalle stesse trovasse reciproco riscontro nel racconto di ciascuna di esse; senza considerare come, al contrario, la versione offerta dall'odierno indagato fosse supportata dalle dichiarazioni di persone che avevano assistito ai fatti contestati; - la logica incoerenza della valutazione, quale elemento indiziario, del fatto che il ricorrente si fosse fermato a bere pacificamente una birra davanti al supermercato, ubicato di fronte l'abitazione delle persone offese, atteso che lo stesso vive nel medesimo quartiere; - il travisamento della prova documentale in atti (quanto alle e-mail inviate dall'indagato), prive di contenuto ingiurioso (o minaccioso) e tendenti esclusivamente ad ottenere un confronto con la ex moglie in ordine ai loro rapporti personali, all'organizzazione degli incontri con i figli e al mantenimento degli stessi. 3.2. Il secondo motivo attiene alla sussistenza del pericolo di recidiva, fondante, sotto il profilo cautelare, la misura applicata, e deduce: - che le circostanze dichiarate da Lo.Ro. (quanto al riferito abuso di sostanze stupefacenti da parte dell'indagato) sono prive del requisito dell'attualità e concretezza in quanto esplicitamente riferite a tempi ampiamente trascorsi; tanto più che il ricorrente è sottoposto periodicamente a controlli presso il Sert di P; - che l'asserita continuità rispetto a condotte trascorse (indicate in precedenza con riferimento all'invocata duplicazione di procedimenti) deve ritenersi insussistente proprio in ragione della già evidenziata incoerenza cronologica; - la genericità della prescrizione imposta, nella parte in cui non specifica che la stessa non opera in caso di incontri occasionali. CONSIDERATO IN DIRITTO Il primo motivo di ricorso è fondato nei limiti di seguito indicati. Preliminarmente va chiarito che gli atti di indagine provenienti da altro procedimento, sono acquisibili e utilizzabili ai fini dell'emissione di un provvedimento di cautela personale anche dopo l'archiviazione o l'eventuale sentenza di non doversi procedere, e prima del decreto di riapertura delle indagini, in quanto l'acquisizione di atti già formati non corrisponde al compimento di nuova attività di indagine in senso proprio (Sez. 1, n. 24905 del 19/05/2009, Abbruzzese, Rv. 243814). Né si può prospettare, alla luce delle rispettive fasi procedimentali, un profilo di duplicazione di contestazioni o di bis in idem: i fatti per i quali è intervenuta archiviazione, invero, non sono stati rivalutati ex se, autonomamente, ma apprezzati unitamente alle altre successive condotte contestate nel presente procedimento, concorrendo, insieme alla prospettata produzione dell'evento. Ma è proprio in relazione a tale profilo che va accolta la censura proposta dalla difesa. Invero, in linea di principio, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, ai fini dell'adozione di una misura cautelare, è sufficiente qualunque elemento probatorio idoneo a fondare un giudizio di qualificata probabilità sulla responsabilità dell'indagato in ordine ai reati addebitatigli, attesa la diversa "consistenza" dei "gravi indizi di colpevolezza" di cui all'art. 273 cod. proc. pen. rispetto agli "indizi" intesi quali elementi di prova idonei a fondare un motivato giudizio finale di colpevolezza. Cosicché, il giudice di merito non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato, le ragioni del convincimento, dimostrando che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente, si da potersi considerare implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex multis, Sez. 4, n. 26660 del 13/05/2011, Caruso, Rv. 250900). Ne discende che il ricorso per cassazione che deduca l'insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza o l'assenza delle esigenze cautelari è ammissibile solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ma non anche quando propone censure che riguardano la ricostruzione dei fatti o che si risolvono in una diversa valutazione degli elementi esaminati dal giudice di merito (Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, Rv. 27062; Sez. 2, n. 27866 del 17/06/2019, Rv. 276976, con riferimento specifico al vizio di motivazione). Ciò considerato, tuttavia, il provvedimento impugnato, pur indicando con precisione tutti gli elementi fattuali dai quali ha ritenuto di desumere la sussistenza di un grave quadro indiziario in relazione alle singole contestazioni mosse, dando atto delle plurime e convergenti dichiarazioni rese dalla ex moglie (quanto agli incessanti tentativi di comunicare tramite telefonate o messaggi o, ancora, con il continuo invio di e-mail) e dai suoi genitori, Lo.Ro. (quanto agli appostamenti nei pressi dell'abitazione della figlia o ai danneggiamenti subiti) e Pu.Le. (quanto all'aggressione del settembre 2023) e, parallelamente, dell'inverosimiglianza della diversa versione offerta dall'indagato, omette una compiuta valutazione delle parallele condotte poste in essere dalle attuali persone offese (contestate nei procedimenti penali in precedenza indicati). Condotte che, se non escludono la sussistenza di quelle oggetto del presente procedimento (in parte neanche negate dall'indagato nella loro storica esistenza), impongono, comunque, al giudice un più accurato onere motivazionale in ordine alla sussistenza dell'evento di danno previsto dalla fattispecie normativa (Sez. 3, n. 45648 del 23/05/2013, Rv. 257288; Sez. 5, n. 17698 del 05/02/2010, Rv. 247226, dettata, quest'ultima, proprio in relazione ad un provvedimento de liberiate). Il reato di cui si discute prevede, infatti, eventi alternativi, la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo: deve trattarsi di un comportamento reiteratamente minaccioso o, comunque, molesto dell'agente dal quale derivi per il destinatario della molestia o minaccia (reiterata), quale ulteriore evento dannoso, un perdurante stato d'ansia o di paura, oppure un fondato timore dello stesso per l'incolumità propria o di soggetti vicini, oppure, ancora, il mutamento necessitato delle proprie abitudini di vita. Tali eventi, tuttavia, impongono la necessità di accertare in quali termini le condotte "persecutorie" vengano poste in essere ed in quale contesto esse originino e si sviluppino. Cosicché, se sono maturate in un ambito di comune litigiosità, che evoca una posizione di sostanziale parità, non può parlarsi di condotta persecutoria nei termini richiesti dalla fattispecie astratta, che, invece, si riferisce ad una posizione sbilanciata della vittima rispetto all'autore dei comportamenti intimidatori o vessatori (Sez. 3, n. 45648, cit.). In altri termini, se la rilevata reciprocità non vale ad escludere in radice la possibilità della rilevanza penale delle condotte come persecutorie ex art. 612-bis cod. pen., impone comunque di verificare se vi sia stata una posizione di ingiustificata predominanza di uno dei due contendenti, tale da consentire di qualificarne le iniziative minacciose e moleste come atti di natura persecutoria e le reazioni della vittima come esplicazione di un meccanismo di difesa volto a sopraffare la paura. In concreto, una compiuta verifica sotto tale profilo è stata omessa. Si impone, quindi, l'annullamento del provvedimento impugnato, con rinvio per nuovo giudizio, sul punto, al Tribunale di Palermo. In ragione della natura del reato, deve essere disposto l'oscuramento del presente provvedimento. P.Q.M. Annulla il provvedimento impugnato con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Palermo. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 14 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. APRILE Ercole - Relatore Dott. VIGNA Maria Sabina - Consigliere Dott. TRIPICCIONE Debora - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Sa.Fr., nato a M il (Omissis); avverso la sentenza del 04/10/2023 della Corte di appello di Messina; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Raffaele Gargiulo, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso; letta la memoria dell'Avv. Gi.Ab., difensore del ricorrente, che ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Messina riformava parzialmente la pronuncia di primo grado, rideterminando la pena finale, e confermava nel resto la medesima pronuncia del 16 gennaio 2023 con la quale il Tribunale di Messina aveva condannato Sa.Fr. in relazione al reato di cui all'art. 572 cod. pen. (in esso assorbito il reato già contestato ai sensi dell'art. 612-bis cod. pen.), per avere, dal 2003 ed almeno sino al settembre 2014, maltrattato abitualmente la compagna Ma.An.. tirandole addosso oggetti, spintonandola, picchiandola, minacciandola di morte e ingiuriandola. 2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il Sa.Fr., con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale ha dedotto i seguenti motivi. 2.1. Violazione di legge, in relazione agli artt. 572 cod. pen., 192 e 546 cod. proc. pen., 111 Cost., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, per avere la Corte territoriale confermato la pronuncia di condanna di primo grado, benché le dichiarazioni della persona offesa fossero risultate inattendibili per le evidenti reticenze e ingiustificate contraddizioni, e per l'anomalia delle condotte tenute durante il suo esame, avendo ella "gonfiato" il suo narrato ed essendo apparsa soggettivamente e intrinsecamente non credibile. 2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 572 cod. pen., 192 e 546 cod. proc. pen., 111 Cost., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, per avere la Corte distrettuale omesso di considerare che i comportamenti aggressivi denunciati erano stati reciproci tra le parti del rapporto, con un grado di gravità e di intensità equivalenti. 2.3. Violazione di legge, in relazione agli artt. 612-bis, 157, 160 e 161 cod. pen., 111 Cost., e vizio di motivazione, per avere la Corte di merito omesso di dichiarare l'intervenuta estinzione per prescrizione del reato di atti persecutori, originariamente contestato al capo b), commesso fino al 2014. 2.4. Violazione di legge, in relazione agli artt. 572 e 612-bis, 111 Cost., e vizio di motivazione, per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto le condotte del capo b) "assorbite" in quelle del capo a), nonostante la convivenza tra i compagni fosse cessata nel 2014. 2.5. Violazione di legge, in relazione agli artt. 62-bis, 132 e 133 cod. pen., 27 e 111 Cost., e vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale ingiustificatamente negato all'imputato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, benché il prevenuto sia incensurato e non abbia più avvicinato la persona offesa dopo la presentazione della denuncia. 3. Il procedimento è stato trattato nell'odierna udienza in camera di consiglio con le forme e con le modalità di cui all'art. 23, commi 8 e 9, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, i cui effetti sono stati prorogati da successive modifiche legislative. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Ritiene la Corte che il ricorso presentato nell'interesse di Sa.Fr. vada accolto, sia pur nei limiti e con gli effetti di seguito precisati. 2. I primi due motivi del ricorso, strettamente connessi tra loro, non superano il vaglio preliminare di ammissibilità perché contenenti la deduzione di ragioni diverse da quelle per le quali la legge consente tale impugnazione. Il ricorrente solo formalmente ha denunciato una serie di vizi di carenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione della decisione gravata, senza però prospettare alcuna reale contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse dell'argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni; né è riconoscibile alcuna delle denunciate violazioni di norme di legge. Il ricorrente si è limitato a criticare - peraltro, talora in maniera indeterminata - il significato che la Corte di appello di Messina aveva dato al contenuto delle emergenze acquisite durante il giudizio di primo grado, sollecitando un'inammissibile rivalutazione dell'intero materiale conoscitivo, rispetto al quale è stata proposta dalla difesa una spiegazione alternativa alla semantica privilegiata dalla Corte territoriale nell'ambito di un sistema motivazionale logicamente completo ed esauriente. In particolare, i giudici di merito hanno chiarito, con motivazione che resta esente da qualsivoglia censura di manifesta illogicità, come la prova della sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di maltrattamenti per il quale vi è stata condanna, fosse desumibile dalla deposizione della persona offesa, intrinsecamente attendibili per la loro sufficiente precisione e linearità, la cui valenza non era stata inficiata dall'atteggiamento assunto nel processo dalla donna: la quale, dopo essersi oramai riappacificata con l'imputato, a distanza di tre anni dalla denuncia, oltre che decidere di non costituirsi parte civile, aveva cercato di ridimensionare le accuse e di sostenere, molto genericamente, che le sue precedenti indicazioni fossero state da lei "gonfiate", senza però essere stata in grado, significativamente, di precisare quali riferimenti non corrispondessero al vero. Per giunta, la testimonianza della prevenuta - che aveva, comunque, raffigurato una sua sottoposizione ad un regime vessatorio e degradante - era risultata riscontrata, nei suoi aspetti essenziali, dalle deposizioni dei di lei genitori, nonché dalle dichiarazioni di un sottufficiale dei carabinieri (v. pagg. 5-7 sent. impugn.; pagg. 6 ss. sent. primo grado). 3. Il terzo e quarto motivo del ricorso sono, invece, fondati. Richiamando quanto puntualizzato dal giudice del primo grado, la Corte territoriale ha ritenuto che le condotte contestate in termini di atti persecutori nel capo d'imputazione b) della rubrica, dovessero considerarsi assorbite nel più ampio addebito di maltrattamenti in famiglia del capo a), benché le prime fosse state tenute quando il rapporto di convivenza tra i due era oramai cessato, la donna aveva instaurato una nuova relazione sentimentale con un altro uomo e le relazioni tra i due ex conviventi erano proseguite solo per affrontare le esigenze dei figli minori che la coppia aveva in precedenza avuto (v. pagg. 7-8 sent. impugn.; pagg. 10-12 sent. primo grado). Tale impostazione esegetica, tuttora sostenuta da un indirizzo giurisprudenziale minoritario (per il quale si veda, da ultimo, Sez. 2, n. 43846 del 29/09/2023, V., Rv. 285330), non è condivisa da questo Collegio: apparendo preferibile il contrario orientamento esegetico secondo il quale, in tema di rapporti fra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici impone di intendere i concetti di "famiglia" e di "convivenza" di cui all'art. 572 cod. pen. nell'accezione più ristretta, quale comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché non necessariamente continuativa: sicché è configurabile l'ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all'art. 612-bis, comma secondo, cod. pen., e non il reato di maltrattamenti in famiglia, quando le reiterate condotte moleste e vessatorie siano perpetrate dall'imputato dopo la cessazione della convivenza "more uxorio" con la persona offesa (così, tra le molte, Sez. 6, n. 31390 del 30/03/2023, P., Rv. 285087; Sez. 6, Sentenza n. 38336 del 28/09/2022, D., Rv. 283939; Sez. 6, n. 15883 del 16/03/2022, D., Rv. 283436; Sez. 6, n. 10626 del 16/02/2022, L. Rv. 283003; Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H., Rv. 282398). È indispensabile, infatti, rispettare la lettera della norma incriminatrice di diritto sostanziale in argomento e non modificarne la portata operativa in termini tali da formulare opzioni applicative fondate su soluzioni che rispondono ad una logica di interpretazione analogica in malam partem, non consentita in materia penale. In tale contesto è significativa la presa di posizione della Corte Costituzionale che, nell'esaminare una specifica questione processuale avente ad oggetto l'art. 521 cod. proc. pen., ha evidenziato il rischio che l'esercizio del relativo potere da parte del giudice possa determinare una violazione del principio di tassatività sancito dall'art. 25 Cost., che impone che "in materia penale il possibile significato letterale della legge fissa il limite estremo della sua legittima interpretazione". Ciò la Consulta ha fatto proprio con riferimento al rapporto tra le due norme incriminatrici previste dagli artt. 572 e 612-bis cod. pen., sottolineando come "il divieto di analogia in malam partem impon(ga) di chiarire se il rapporto affettivo dipanatosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro possa già considerarsi, alla stregua dell'ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di "convivenza"...(e se)... davvero possa sostenersi che la sussistenza di una (tale) relazione consenta di qualificare quest'ultima come persona appartenente alla medesima "famiglia" dell'imputato (...). In difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione dell'art. 572 cod. pen. in casi siffatti - in luogo dell'art, 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona "legata da relazione affettiva" all'agente - apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice" (Corte cost., sent. n. 98 del 2021). In buona sostanza, alla luce di una esegesi rispettosa del principio costituzionale di legalità, ai fini della applicazione della norma incriminatrice dell'art. 572 cod. pen., di "convivenza" si può parlare solamente laddove risulti acclarata l'esistenza di una relazione affettiva qualificata dalla continuità e connotata da elementi oggettivi di stabilità: lungi dall'essere confuso con la mera coabitazione, il concetto di convivenza deve essere espressione di una stabile relazione personale caratterizzata da una reale condivisione e comunanza materiale e spirituale di vita. Seguendo questa impostazione la motivazione della sentenza impugnata, mentre si presenta corretta nella parte in cui ha ritenuto configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia fino al momento in cui vi era stata convivenza tra il soggetto attivo e la persona offesa, è invece errata nella parte in cui ha sostenuto che il delitto di cui all'art. 572 cod. pen. fosse configurabile anche per le condotte tenute dall'odierno ricorrente in danno della ex compagna nel periodo in cui era cessata la loro convivenza: periodo con riferimento al quale andrà valutata, ovviamente nel rispetto del divieto di reformatio in peius, la possibilità di qualificare i fatti ai sensi dell'art, 612-bis cod. pen., con ogni conseguenza di legge in ordine all'eventuale declaratoria di estinzione del reato del capo b) e alle rideterminazione della pena per il reato del capo a). 4. Nel riconoscimento della fondatezza del terzo e del quarto motivo, resta assorbito l'esame del quinto motivo, poiché la delimitazione cronologica del riconosciuto reato di maltrattamenti in famiglia e la rideterminazione del trattamento sanzionatorio imporranno al giudice di rinvio di rivalutare la questione concernente il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche. La sentenza impugnata va, dunque, annullata limitatamente al dichiarato assorbimento del reato del capo b) in quello del capo a), nonché al trattamento sanzionatorio, con rinvio, per nuovo giudizio su tali punti, ad altra sezione della Corte di appello di Messina. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Messina. Così deciso il 30 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

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