Sentenze recenti Cassazione Civile

Ricerca semantica

Risultati di ricerca:

  • Ric. n. 12026/2016 sez. T – ud. 9 maggio 2024 est. Napolitano A. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Oggetto: Elusione fiscale Ud. 9/5/2024 – P.U. R.G. 12026/2016 Composta da Dott. Lucio Napolitano Presidente Dott. Luciano Ciafardini Consigliere Dott. Riccardo Rosetti Consigliere Dott. Federico Lume Consigliere Dott. Angelo Napolitano Consigliere rel. est. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 12026/2016 R.G. proposto da Cofely Progetti s.r.l. in liquidazione, rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. Paolo Petrosillo, elettivamente domiciliata in Roma alla via delle Quattro Fontane n. 20, presso lo studio Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners; – ricorrente – contro Ric. n. 12026/2016 sez. T – ud. 9 maggio 2024 est. Napolitano A. Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma è domiciliata alla via dei Portoghesi n. 12; - intimata - avverso la sentenza n. 5801/35/2015 della Commissione Tributaria Regionale del Lazio - Roma, depositata in data 6/11/2015, non notificata; udita la relazione della causa svolta dal dott. Angelo Napolitano nella pubblica udienza del 9 maggio 2024; udite le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, dott. Fulvio Troncone, che ha chiesto dichiararsi inammissibile o, in subordine, rigettarsi il ricorso; udito l’Avvocato Luciano Bonito Oliva per delega dell’Avv. Paolo Petrosillo per la società ricorrente e l’Avvocato dello Stato Eva Ferretti per l’Agenzia delle Entrate; Fatto Con avviso di accertamento n. TK034M04635/2010, emesso nei confronti della società Cofely Progetti s.r.l. in liquidazione (d’ora in poi, anche “la società” o “la contribuente” o “Progetti”), l’Agenzia delle Entrate riconsiderò, ai fini delle imposte dirette, una serie di vicende poste in essere nell’ambito della riorganizzazione del gruppo Cofely. In particolare, Cofely Italia s.p.a. (già Cofathec Servizi s.p.a., d’ora in poi “Servizi”) deteneva l’intero capitale sociale di Progetti; Progetti, a sua volta, deteneva l’intero capitale sociale di Cofathec Prasi s.p.a. (d’ora in avanti, anche “Prasi”). Come risulta dall’avviso di accertamento, nel 2000, in forza della convenzione conclusa con il Ministero dei Beni e delle Attività culturali (d’ora in avanti, anche il “Mibac”), è stata affidata alla associazione temporanea di imprese (“ATI”), composta da Progetti quale mandataria, Prasi e Ales s.p.a. (quest’ultima società Ric. n. 12026/2016 sez. T – ud. 9 maggio 2024 est. Napolitano A. partecipata dal Ministero), la realizzazione del “Progetto per la Sicurezza e tutela del Patrimonio culturale”, della durata di 60 mesi. Successivamente, la Progetti firmò con il Ministero dei nuovi contratti per la prosecuzione della sua attività nell’ambito della tutela dei beni culturali. Il 28 gennaio 2005 Prasi trasferì a titolo oneroso a Progetti il ramo d’azienda avente ad oggetto lo svolgimento, a livello nazionale, delle attività di lavori e servizi nel ramo dei beni culturali, oggetto della convenzione con il MIBAC. Successivamente, Prasi fu posta in liquidazione volontaria (iniziata il 9 settembre 2005 e conclusasi il 30 dicembre 2005) e cancellata dal registro delle imprese. In data 22 dicembre 2005 fu trasferito da Progetti a Servizi il ramo d’azienda avente ad oggetto lo svolgimento dell’attività di “Ingegneria ed Impianti”, relativo alla realizzazione e manutenzione di impianti tecnologici e di cogenerazione all’interno di edifici civili, del terziario e dei siti industriali (d’ora in poi, anche “Ramo Ingegneria e Impianti”). In relazione alla cessione del ramo d’azienda MIBAC da Prasi a Progetti, l’Ufficio rilevò che la liquidazione della Prasi aveva consentito a Progetti di dedurre fiscalmente la minusvalenza realizzata attraverso l’annullamento della partecipazione in Prasi pari ad euro 1.420.256. Rispetto alla cessione del Ramo Ingegneria e Impianti, l’Ufficio rilevò che la Servizi aveva iscritto tra le immobilizzazioni immateriali l’avviamento del suddetto ramo per un importo pari ad euro 10.942.654 e aveva dedotto, per il periodo d’imposta 2007, una quota di ammortamento pari ad euro 607.925 (1/18 del valore complessivo dell’avviamento). Con l’avviso di accertamento impugnato, l’Ufficio riprese a tassazione in capo a Progetti la minusvalenza risultante dalla cessione del ramo d’azienda MIBAC da Prasi a Progetti, accertando una maggiore imposta pari ad euro 668.148. Ric. n. 12026/2016 sez. T – ud. 9 maggio 2024 est. Napolitano A. In particolare, secondo l’Ufficio gli atti di riorganizzazione del gruppo societario sarebbero stati privi di ragioni economiche, finalizzati solo a conseguire in capo a Servizi la doppia deduzione delle perdite in capo a Progetti, con aggiramento del divieto del riporto delle perdite fiscali pregresse dell’incorporante, in violazione dell’art. 172, comma 7, Tuir. Progetti impugnò l’avviso di accertamento dinanzi alla C.T.P. di Roma, che accolse il ricorso. Su appello dell’Ufficio, la C.T.R. riformò integralmente la sentenza di primo grado, ritenendo legittima la ripresa a tassazione della minusvalenza in capo a Progetti. Avverso la sentenza di appello, la contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi. L’Agenzia delle Entrate ha depositato un atto di costituzione. Il sostituto Procuratore Generale, dott. Fulvio Troncone, ha depositato una requisitoria scritta. La contribuente ha depositato memoria difensiva ex art. 378 c.p.c. Diritto 1.Con il primo motivo di ricorso, rubricato “Nullità della sentenza per carenza assoluta di motivazione, in violazione dell’art. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992, dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.) – Omessa individuazione degli elementi probatori dimostrativi del disegno elusivo ipotizzato dall’Ufficio”, la società censura la carenza motivazionale che affliggerebbe l’impugnata sentenza, deducendo che il giudice d’appello, a conferma dell’elusività della cessione del ramo di azienda da Prasi a Progetti, si sarebbe soffermato esclusivamente sull’asserito aggiramento “delle regole della cd. partecipation exemption (cfr. artt. 87 e 101 Tuir)”, sulla base delle quali la società non avrebbe potuto procedere alla svalutazione del valore della partecipazione in Prasi, senza una disamina della sussistenza nel caso di specie degli elementi sulla base dei quali Ric. n. 12026/2016 sez. T – ud. 9 maggio 2024 est. Napolitano A. sarebbe stato possibile applicare l’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973. 2. Con il secondo motivo di ricorso, rubricato “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, commi 1 e 2, 2727 e 2729, comma 1 c.c. (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.) – Errato governo dei princìpi generali in tema di onere della prova in relazione alla valutazione della sussistenza del “disegno elusivo” ipotizzato dall’Ufficio”, la sentenza impugnata avrebbe violato i princìpi relativi al riparto dell’onere della prova, in base ai quali la dimostrazione dell’esistenza del disegno elusivo e della manipolazione e alterazione degli schemi negoziali a fini elusivi incombe sull’amministrazione finanziaria. Spetterebbe, invece, al contribuente l’onere di provare che le operazioni effettivamente poste in essere corrispondono ad un interesse economico non marginale. 3. Con il terzo motivo di ricorso, rubricato “Violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 1, l. n. 241 del 1990, dell’art. 7, comma 1, l. n. 212 del 2000, dell’art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 37 bis comma 5 del d.P.R. n. 600 del 1973, per avere i giudici di seconde cure ritenuto “chiaramente e compiutamente motivato” l’avviso di accertamento nonostante l’omessa individuazione di una operazione “fisiologica” effettivamente alternativa a quella posta in essere dalle parti (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.)”, la società si lamenta che il giudice di appello non avrebbe dato risposta alle sue osservazioni secondo le quali il comportamento preteso dall’Ufficio (la fusione per incorporazione di Prasi in Progetti e di Progetti in Servizi) avrebbe avuto come conseguenza la concentrazione in un unico soggetto imprenditoriale (Servizi) di attività tra loro eterogenee (quelle del ramo MIBAC e quelle relative al ramo “Ingegneria e Impianti”), contrariamente ai criteri di ottimizzazione delle risorse e della diversificazione seguiti dalla società nella riorganizzazione del gruppo. 4. Con il quarto motivo di ricorso, rubricato “Omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra Ric. n. 12026/2016 sez. T – ud. 9 maggio 2024 est. Napolitano A. le parti, sulla base dei quali avrebbe dovuto essere rilevata la sussistenza di valide ragioni economiche sottese all’operazione di riorganizzazione”, la società censura la sentenza impugnata perché questa non avrebbe esaminato i fatti da essa addotti per dimostrare la razionalità dal punto di vista imprenditoriale del passaggio del ramo di azienda MIBAC da Prasi a Progetti. 5. I quattro motivi di ricorso, attesa la loro connessione, posso essere esaminati e decisi congiuntamente. Essi sono infondati. 5.1. Seppure con una motivazione sintetica, concentrata nella parte finale, la sentenza impugnata ha, innanzitutto, ristretto l’ambito oggettivo del giudizio alla ripresa dell’imposta che la società Progetti avrebbe eluso adottando, in luogo della fusione (per incorporazione di Prasi in Progetti), lo schema negoziale della cessione del ramo di azienda MIBAC da Prasi a Progetti. Ponendo in essere la cessione del ramo d’azienda MIBAC da Prasi a Progetti in luogo della fusione per incorporazione della prima nella seconda, il giudice di appello ha affermato che la società ha ottenuto la svalutazione delle quote detenute in Prasi, abbattendo in questo modo la base imponibile determinata dalla successiva cessione del ramo d’azienda “Ingegneria e Impianti” da Progetti a Servizi. La sentenza ha anche spiegato con un percorso motivazionale congruo e lineare che non vi era ragione che Prasi cedesse a Progetti il ramo d’azienda MIBAC anziché fondersi per incorporazione in quest’ultima società, atteso che dopo la cessione Prasi divenne sostanzialmente una scatola vuota e fu messa in liquidazione. A tal proposito, la sentenza impugnata ha anche accertato, in esito ad una valutazione di merito non censurabile in sede di legittimità, che Prasi non svolgeva altre attività che non fossero quelle relative al ramo d’azienda MIBAC, sicché lo schema “naturale” per la riorganizzazione delle attività di Prasi e Progetti non era la cessione d’azienda dalla prima alla seconda, ma la fusione della prima nella seconda. Ric. n. 12026/2016 sez. T – ud. 9 maggio 2024 est. Napolitano A. Dopo l’individuazione, congruamente motivata, della fusione di Prasi in Progetti come lo schema “naturale” per la riorganizzazione delle attività delle due società, la sentenza impugnata ha ragionevolmente ed insindacabilmente ritenuto che le due operazioni (la cessione del ramo d’azienda da Prasi a Progetti e la successiva messa in liquidazione di Prasi, ormai svuotata) erano state pensate e poste in essere solo per garantire a Progetti un sostanzioso risparmio fiscale sulla riorganizzazione delle attività proprie e della controllata Prasi. 6. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato. All’Agenzia delle Entrate devono essere liquidati, in base al principio di soccombenza, solo gli onorari spettanti per lo studio e la discussione orale della controversia. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Condanna Cofely Progetti s.r.l. in liquidazione al pagamento, in favore dell’Agenzia delle Entrate, della somma di euro seimila a titolo di onorari per lo studio della controversia e la discussione orale. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso, in Roma, il 9 maggio 2024. Il Consigliere estensore Il Presidente dott. Angelo Napolitano Dott. Lucio Napolitano

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA Presidente ENRICO MANZON Consigliere GIOVANNI LA ROCCA Consigliere-Rel. LUNELLA CARADONNA Consigliere MARIA GIULIA PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Consigliere Oggetto: *IVA ACCERTAMENTO Ud.06/12/2023 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 8805/2015 R.G. proposto da: GASDA SPA, IMMOBILIARE MALU SPA, ZAMPARINI MAURIZIO, ZAMPARINI ANDREA MAURIZIO, ZAMPARINI PAOLO DIEGO, elettivamente domiciliati in ROMA VIALE BRUNO BUOZZI 99, presso lo studio dell’avvocato PUNZI CARMINE (PNZCMN33H20A509G) che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato POLI ROBERTO (PLORRT64D24H501W); -ricorrente- contro AGENZIA DELLE ENTRATE, domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (ADS80224030587) che la rappresenta e difende; -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. TORINO n. 1029/2014 depositata il 23/09/2014. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 06/12/2023 dal Consigliere GIOVANNI LA ROCCA. Sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alberto Cardino, che ha concluso per l’«estinzione per IRES e IRAP» e il «rigetto per IVA». Uditi l’avv. Roberto Poli per i ricorrenti e l’avv. dello Stato Barbara Tidore per la controricorrente. FATTI DI CAUSA 1. Il presente giudizio riguarda due avvisi di accertamento: a) l’avviso di accertamento n. T7E060205921/2012, notificato alla Immobiliare Malu spa e alla sua controllante Gasda sapa (ora spa, già Maurizio Zamparini e C. sapa), quale responsabile solidale ex art. 6 DM 13 dicembre 1979, con cui l’Agenzia delle entrate aveva ritenuto indetraibile IVA per euro 3.600.000,00 portata dalla fattura n. 12/C emessa il 28.12.2007 dalla Gasda sapa nei confronti della Immobiliare Malu spa in relazione ad una operazione infragruppo per euro 18.000.000,00; b) l’avviso di accertamento, n. T7E030205695/2012 (IRES e IRAP anno 2007), notificato alla Gasda sapa e agli Zamparini quali soci accomandatari Maurizio, Andrea Maurizio e Paolo Diego Zamparini, con cui l’Ufficio aveva contestato ai fini IRES e IRAP 2007 l’illegittimo scomputo dal reddito 2007 delle perdite maturate da Gasda nel quinquennio precedente. 2. In particolare gli atti, emessi ad esito della richiesta di documentazione e della compilazione di questionari ai sensi dell’art. 51 comma 2 d.P.R. n. 633/1972, si fondano sul rilievo che la fattura in questione, con causale «cessione di scrittura privata 28.12.2007», si riferiva ad una operazione oggettivamente inesistente. 3. A monte dell’operazione, secondo la ricostruzione dell’Ufficio, vi era il contratto preliminare di vendita e permuta del 4.11.2005 (detta anche convenzione) stipulato da altra società del “Gruppo Zamparini”, la Monte Mare spa, con terzi e avente ad oggetto un’area in Palermo (c.d. fondo “Raffo”), ove si sarebbe dovuto realizzare un centro commerciale; all’atto del definitivo del 14.3.2009, la Monte Mare spa aveva dichiarato di aver indicato in data 12.9.2008 ai sensi dell’art. 1411 c.c. la Immobiliare Malu spa, quale terzo contraente, e aveva confermato tale nomina, mentre alla stipula del contratto definitivo non aveva partecipato la Gasda. 4. Secondo l’Agenzia, la scrittura 28.12.2007, priva di data certa, avente ad oggetto la cessione della convenzione per l’acquisto del fondo “Raffo”, era fittizia e finalizzata ad assicurare alle parti una serie di vantaggi fiscali: in particolare, la Gasda aveva avuto la possibilità di azzerare il reddito 2007 utilizzando le perdite fiscali pregresse; la Immobiliare Malu aveva beneficiato della diminuzione del reddito imponibile 2009, con giroconto dell’importo della fattura a rimanenze, e aveva maturato per il 2007 un credito IVA; inoltre, vi era stata una indebita detrazione IVA di cui doveva rispondere in solido con la controllata anche la controllante Gasda che aveva presentato la dichiarazione IVA di gruppo. 5. Contro questi avvisi le due società Gasda sapa e i suoi soci accomandatari nonché Immobiliare Malu hanno proposto ricorso che è stato rigettato dalla Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Torino: per quel che interessa in questa sede, i Giudici di prime cure hanno disatteso l’eccezione preliminare di nullità degli atti, per mancanza di PVC e violazione dell’art. 12 comma 7 legge n. 212/2000, non essendo richiesta l’emissione di PVC e trattandosi di accertamento a tavolino senza accesso nei luoghi di pertinenza dell’imprenditore; la CTP, inoltre, ha ritenuto che ai sensi dell’art. 6 D.M. 13.12.1979, nell’ambito della liquidazione dell’IVA di gruppo, la controllante risponde in solido dei debiti IVA della controllata. 6. Nel merito, la Commissione ha osservato quanto segue: Gasda, indicata nella scrittura 20.12.2007 dalla Monte Mare come soggetto che avrebbe dovuto stipulare il contratto definitivo, non aveva partecipato al rogito («ancorché secondo i ricorrenti, cessionaria del contratto preliminare rispetto a Monte Mare e cedente a sua volta il contratto a favore di Malu»); mancava la prova del pagamento di euro 18.000.000,00; l’operazione non era indicata negli elenchi clienti/fornitori delle due società del 2007 né nei bilanci e nelle note integrative; l’importo, «inizialmente contabilizzato da Malu», era stato «girocontato a rimanenze nel 2009». 7. La Commissione Tributaria Regionale (CTR) del Piemonte, con la sentenza indicata in epigrafe, ha rigettato a sua volta l’appello delle due società. 8. La CTR ha confermato che, trattandosi di accertamento su documentazione «richiesta su invito», non era dovuta l’emissione di PVC. Nel merito ha disatteso la difesa degli appellanti, secondo cui la fattura si riferiva alla cessione non del contratto preliminare di acquisto e permuta dell’area ma del progetto per lo sviluppo del progetto immobiliare nel frattempo elaborato da Gasda, rilevando che la fattura si riferiva alla “cessione scrittura privata del 28.12.2007”, la quale riportava in premessa che la Gasda era «titolare di una convenzione con [nominativi dei terzi promittenti venditori]….per un’operazione immobiliare parte di acquisto, parte di permuta…», richiamando gli altri elementi contabili già evidenziati dalla CTP e aggiungendo che mancavano riscontri documentali relativi ai costi sostenuti da Gasda; ha altresì rilevato che titolare della convenzione era Monte Mare spa, la quale in data 20.12.2007 aveva indicato la Maurizio Zamparini spa (poi Gasda) come acquirente degli immobili, e in data 12.9.2008 aveva indicato la Immobiliare Malu spa che, quindi, solo da questo momento poteva considerarsi «potenziale titolare della convenzione ceduta». 9. Avverso questa sentenza i contribuenti hanno proposto ricorso per cassazione fondato su sette motivi e hanno depositato memoria. 10. Ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate. 11. In data 10 ottobre 2023 per i ricorrenti è stata depositata copia della domanda di definizione agevolata della lite pendente ai sensi dell’art. 1 commi 186 e segg. l. n. 197/2022 relativamente a quest’ultimo avviso di accertamento n. T7E030205695/2012 (IRES e IRAP anno 2007),con la relativa ricevuta di presentazione, nonché copia del modello F24 relativo al pagamento della prima rata effettuato in data 27 marzo 2023, ed è stata chiesta l’estinzione parziale del giudizio, domanda a cui ha aderito la stessa Agenzia delle entrate con istanza depositata il 28.11.2023. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Preliminarmente deve dichiararsi l’estinzione del giudizio con riferimento all’avviso di accertamento n. T7E030205695/2012 (IRES e IRAP anno 2007), in ordine al quale è intervenuta definizione agevolata della lite pendente, ai sensi dell’art. 1 comma 198 l. n. 197/2022, cosicché devono esaminarsi soltanto i primi quattro motivi di ricorso che interessano l’altro avviso impugnato. 2. Con il primo motivo di ricorso, le ricorrenti hanno dedotto, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 24 legge n. 4 del 1929 e dell’art. 12 comma 7 della legge n. 212 del 2000, nella parte in cui i Giudici di secondo grado hanno escluso l’obbligo di consegna da parte dell’Amministrazione Finanziaria del processo verbale di constatazione ed hanno altresì escluso che la notificazione dell’avviso di accertamento prima del decorso di sessanta giorni dalla consegna di detto verbale importi la nullità dell’accertamento stesso. 2.1. Sotto un diverso profilo si è censurata la sentenza della CTR per aver individuato le ragioni d’urgenza che giustificavano il mancato rispetto del termine dilatorio nella necessità di evitare la decadenza dal potere impositivo per l’anno 2007 i cui termini per l’accertamento scadevano il 31 dicembre 2012. 3.Con il secondo motivo di ricorso hanno denunciato, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza impugnata per motivazione mancante e/o apparente, ai sensi degli artt. 156, comma 2, 132, n. 4 e 360, n. 4, c.p.c. Secondo le ricorrenti, la CTR ha esaminato la questione relativa alle presunte ragioni di urgenza attraverso una relatio ad altra parte della motivazione della medesima sentenza di secondo grado del tutto inconferente con la suddetta questione. 4. Il primo motivo è infondato; il secondo, logicamente dipendente dal primo, risulta inammissibile. 4.1. Va, in primo luogo, evidenziato che questa Suprema Corte ha precisato (Cass. n. 16546 del 2018; Cass. n. 12094 del 2019) che l'attività di controllo dell'Amministrazione finanziaria non deve necessariamente concludersi con la redazione di un processo verbale di constatazione, essendo sufficiente il verbale attestante le operazioni compiute. Si è, altresì, precisato che in tema di violazione di norme finanziarie (nella specie, in materia di IVA), il processo verbale di constatazione, redatto dagli organi accertatori in occasione di verifiche presso il contribuente e previsto dall’art. 24 della l. n. 4/1929 non deve necessariamente contenere le contestazioni, potendo avere una molteplicità di contenuti, valutativi o meramente ricognitivi di fatti o di dichiarazioni, che, per la libera valutazione dell'amministrazione finanziaria prima e dell'autorità giudiziaria poi, possono comunque dare luogo alla emissione di avvisi di accertamento (Cass. n. 31120 del 2017; Cass. n. 2711 del 2013). 4.2. Sotto altro profilo, costituisce principio consolidato di questa Corte quello secondo cui «In tema di accertamento fiscale, il termine dilatorio di cui all'art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000 opera soltanto in caso di controllo eseguito presso la sede del contribuente e non anche alla diversa ipotesi, non assimilabile alla precedente, di accertamenti cd. a tavolino, atteso che la naturale "vis expansiva" dell'istituto del contraddittorio procedimentale nei rapporti tra fisco e contribuente non giunge fino al punto di imporre termini dilatori all'azione di accertamento derivanti da controlli eseguiti nella sede dell'Amministrazione sulla base dei dati forniti dallo stesso contribuente o acquisiti documentalmente» (tra le tante, Cass. n. 24793 del 2020; Cass. n. 1497 del 2020; Cass. n. 27420 del 2018). 4.3. Quindi, in difetto di verifica o accesso nei luoghi di pertinenza dell’imprenditore non si applica il termine dilatorio di cui all’art. 12 comma 7 cit. e deve essere conseguentemente disattesa anche la questione dell’insussistenza delle ragioni d’urgenza che potevano giustificare l’emissione dell’avviso di accertamento prima del decorso del termine di sessata giorni dalla notifica del PVC; ne discende che è priva di rilievo l’ulteriore censura sollevata al secondo motivo, relativamente all’erronea relatio contenuta nella sentenza impugnata che, comunque, non incide sulla comprensione della motivazione della sentenza né inficia la ratio decidendi. 4.4. Soltanto nella memoria ex art. 378 c.p.c. si è introdotto il tema dell’invalidità degli atti per inosservanza del generale dovere di contraddittorio endoprocedimentale di matrice unionale, rilevante con riguardo ai tributi armonizzati e, quindi, all’IVA, sul presupposto del superamento della c.d. “prova di resistenza”; la novità è inammissibile, perché la memoria, di regola, è un mero strumento di approfondimento di questioni di diritto poste con ricorso e controricorso, senza che sia possibile introdurre, con essa, nuove e tardive allegazioni (Cass. n. 8939 del 2021; Cass. n. 3780 del 2015). 5. Con il terzo motivo di ricorso è stata denunciata la nullità della sentenza impugnata, ex art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., per omesso esame del primo motivo di appello proposto dalla Gasda avverso la decisione di primo grado, nella parte in cui la CTP, in violazione e falsa applicazione dell’art. 6, comma 2, D.M. 13 dicembre 1979, aveva dichiarato la legittimazione passiva della stessa Gasda, quale soggetto asseritamente responsabile in solido, con riferimento all’avviso di accertamento n. T7E06205921/2012 in materia di IVA. La questione si fondava, in particolare, sulle seguenti considerazioni: a) la norma prevede la responsabilità solidale della controllante solo con riguardo alle somme risultanti dalle liquidazioni periodiche o dalle dichiarazioni e non versate; b) trattandosi di operazione infragruppo non vi è stato alcun minor versamento di imposta né danno per l’Erario perché, a fronte dell’IVA a credito della controllata Immobiliare Malu, che ha esercitato la detrazione, si rinviene l’IVA a debito in capo alla controllante soggetto passivo. 5.1. Il motivo è infondato perché non ricorre una omessa pronuncia: avendo la CTR disatteso per intero l’appello dei ricorrenti e confermato la responsabilità solidale della controllante, si ravvisa un rigetto, sia pure implicito della questione (Cass. n. 12131 del 2023), che deve essere condiviso. 5.2. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il quadro normativo offerto dall'art. 73, comma 3, d.P.R. 633/1972 (come sostituito dall'art. 1 d.P.R. 24/1979) e dal D.M. 13 dicembre 1979, n. 11065 (modificato dai DD.MM. 21 ottobre 1988 e 18 dicembre 1989), che disciplina la c.d. “IVA di gruppo” va integrato con le disposizioni in tema di dichiarazione annuale IVA dettate dagli artt. 3, 8 e 8 bis del d.P.R. n.322/1998 e coordinato con le disposizioni di cui agli artt. 54 e 54 bis del d.P.R. n.633/1972, in tema di accertamento, ed agli artt.5 e 6 del d.lgs. n.471/1997, in tema di sanzioni: a questa stregua, la società controllante si colloca in una posizione di immediato e diretto rilievo sul piano fiscale, in ragione del quale il soggetto che deve presentare la dichiarazione è tenuto a rispettare le disposizioni dettate in materia ed è soggetto ai controlli previsti per legge, nonché all'applicazione delle sanzioni (Cass. sez. un. n. 1915 del 2016; Cass. n. 10207 del 2016). La disciplina della liquidazione dell'IVA di gruppo, nell'autorizzare un sistema di compensazione speciale infragruppo, che si attua in capo alla controllante, pone, infatti, uno specifico obbligo di dichiarazione a carico della stessa, che abbraccia, oltre la propria dichiarazione, anche le dichiarazioni delle società controllate unitamente al prospetto di liquidazione, e che produce immediate ricadute in merito all’applicazione delle disposizioni in tema di accertamento e di sanzioni: si è chiarito, in proposito, che l'art. 73, comma 3, DPR n. 633/1972 ha corredato il regime dell'"IVA di gruppo" di presidi atti a contrastarne il possibile uso a finalità elusiva o evasiva (cfr. Cass. 12768 del 2006) proprio attraverso l'espressa enunciazione della persistenza di obblighi e responsabilità in capo alla società il cui debito d'imposta risulti estinto nell'ambito della compensazione "di gruppo", oltre che con precipuo riferimento all'ambito temporale d'applicazione del regime (Cass. sez. un. n.1915 del 2016). 5.3. Quindi, l'art.5 del D.M., richiedendo espressamente che le dichiarazioni delle controllate siano sottoscritte anche dal rappresentante dell'ente o società controllante e disponendo che la controllante provveda anche a presentare le dichiarazioni delle controllate presso l'Ufficio IVA ove a queste hanno sede, configura un adempimento sostanziale, e non formale, con assunzione della responsabilità di quanto dichiarato e posto a fondamento del rapporto tributario del gruppo, cui conseguono tutti gli effetti di legge sia in tema di controllo, sia in tema di sanzioni, sicché l'attività di controllo e accertamento può essere legittimamente esercitata, senza la necessità di pregiudiziali rettifiche alle controllate, nei confronti della sola controllante e, cioè, del soggetto fiscale sul quale ricadono gli obblighi della dichiarazione ed a favore del quale matura il diritto ad ottenere il rimborso o la compensazione dell'eccedenza detraibile (Cass. n. 10207 del 2016; Cass. n. 1286 del 2020); in sostanza, la controllante, con la presentazione della dichiarazione IVA anche della controllata e la sua sottoscrizione, ne ha confermato e fatto proprio il contenuto dichiarativo a tutti gli effetti di legge, assumendosene la relativa responsabilità. 5.4. Né serve osservare che l’IVA a credito della controllata sarebbe “compensata” dall’IVA a debito della controllante: da un lato, la disciplina di cui all'art. 73, terzo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 rappresenta una mera agevolazione rispetto all'esercizio degli obblighi di dichiarazione e dei diritti conseguenti delle società controllate, attraverso una procedura di liquidazione e di versamento del tributo da parte della società controllante, ma i soggetti del gruppo rimangono distinti e sottoposti agli altri obblighi tributari su di essi gravanti, senza divenire un unico soggetto d'imposta (Cass. n. 20708 del 2014; Cass. n. 12645 del 2017; Cass. n. 23424 del 2020); d’altro lato, la compensazione, in tema di IVA, non è ammessa se non nei limiti nei quali è esplicitamente regolata, non potendo derogarsi al principio secondo cui ogni operazione di versamento, di riscossione e di rimborso ed ogni deduzione sono regolate da specifiche inderogabili norme di legge (Cass. n. 10207 del 2016). 6. Con il quarto motivo di ricorso la sentenza della CTR è stata censurata, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. nonché dell’art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, nella parte in cui i Giudici di secondo grado hanno ritenuto oggettivamente inesistente l’operazione oggetto della fattura 12/C emessa dalla Gasda nei confronti della Immobiliare Malu e, sulla base di tale erroneo assunto, hanno escluso il diritto della stessa Immobiliare Malu alla detrazione dell’IVA indicata. Secondo le ricorrenti, la CTR aveva errato nel ritenere che la fattura contestata e la scrittura del 28.12.2007 si riferissero alla cessione della convenzione per l’acquisto del fondo “Raffo” mentre l’atto riguardava in realtà la cessione per il prezzo di euro 18.000.000,00 del progetto di sviluppo immobiliare al quale la Gasda si era dedicata dopo la stipula nel 2005 del preliminare per l’acquisto dell’area da parte della partecipata Monte Mare; a conferma di ciò si aggiunge che tra il 2006 e il 2007 la stessa Gasda aveva ricevuto manifestazioni di interesse da parte di numerosi altri gruppi imprenditoriali, anche di rilievo internazionale, come acquirenti e/o investitori, con i quali si erano svolte trattative anche con scambio di documenti tecnici e progettuali, sinché nel 2012 la stessa Immobiliare Malu aveva venduto alla Auchan spa, grazie anche alla precedente attività svolta dalla Gasda, una porzione del centro commerciale “Conca d’Oro” realizzato sul fondo “Raffo” per il prezzo di euro 39.000.000,00 oltre IVA. 6.1. Il motivo è inammissibile in quanto attraverso il paradigma della violazione di legge si tenta di rimettere in discussione l’accertamento in fatto svolto dal Giudice di merito, incensurabile nel giudizio di legittimità se congruamente ed adeguatamente motivato, come in questo caso: l’accertamento della inesistenza oggettiva della prestazione si fonda su un ragionamento presuntivo confortato da evidenze documentali e contabili, chiaramente individuate sia dai giudici di prime cure che da quelli d’appello. Il tentativo di dare alla cessione un diverso oggetto (il progetto di sviluppo immobiliare anziché la convenzione per l’acquisto dell’area), oltre ad ingerirsi in un tipico ambito meritale riservato al giudice di merito (Cass. n. 3115 del 2021), non ha trovato oggettivi e decisivi riscontri: come evidenziato dalla CTR, infatti, è mancato «il supporto dei costi sostenuti da Gasda relativi all’emissione della fattura di euro 18.000.000,00», cioè non erano state documentate le spese sostenute da Gasda per lo sviluppo del progetto immobiliare che potessero giustificare un corrispettivo tanto ingente; quanto alle trattative con i terzi interessati all’acquisto o all’investimento nell’iniziativa, il tema è stato affrontato dalla CTP che aveva rilevato come il carteggio prodotto intervenne «non con Gasda ma con il gruppo Zamparini» e, facendo capo a questo numerose realtà societarie, la documentazione era «assolutamente insufficiente e inidonea a provare l’assunto dei ricorrenti». 6.2. Sebbene il ragionamento presuntivo non possa sottrarsi al controllo in sede di legittimità, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. (Cass. n. 17720 del 2018; Cass. sez. un., n. 1785 del 2018; Cass. n. 9054 del 2022), la critica sfugge al concetto di falsa applicazione quando si concreta in un'attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali, in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo ovvero nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perché quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell'art. 2729, comma 1 c.c.; proprio in questo caso la critica si risolve in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti, e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio, cosicché ci si pone su un terreno che non è quello del n. 3 dell'art. 360 c.p.c. (Cass. sez. un. n. 1785 del 2018). 7. Le spese, liquidate come in dispositivo, vanno regolate secondo soccombenza. P.Q.M. dichiara la cessazione della materia del contendere in relazione all’avviso di accertamento n. T7E030205695/2012 (IRES e IRAP anno 2007) con spese a carico di chi le ha anticipate; rigetta il ricorso con riguardo all’avviso di accertamento n. T7E060205921/2012; condanna le ricorrenti Gasda spa e Immobiliare Malu spa in solido al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 14.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito; ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti principali Gasda spa e Immobiliare Malu spa, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13. Così deciso in Roma, il 06/12/2023. Il Consigliere estensore Il Presidente GIOVANNI LA ROCCA ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: FEDERICO SORRENTINOPresidente ORONZO DE MASIConsigliere LIBERATO PAOLITTOConsigliere MILENA BALSAMOConsigliere FRANCESCA PICARDIConsigliere-Rel. Oggetto: TRIBUTI ALTRI Ud.17/05/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 18475/2020 R.G. proposto da: INOX VILLA SRL, elettivamente domiciliata in ROMA CIRCONVALLAZIONE CLODIA 36, presso lo studio dell’avvocato VAVALA' RAFFAELE MARIO (VVLRFL55D26I639J), rappresentato e difeso dall'avvocato COPPOLA DANIELA (CPPDNL69D55F205Z) -ricorrente- contro AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587), che la rappresenta e difende -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. LOMBARDIA n. 4185/2019 depositata il 24/10/2019, udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 17/05/2024 dal Consigliere FRANCESCA PICARDI. FATTI DI CAUSA 1. Inox Villa s.r.l. ha impugnato l'avviso di liquidazione emesso dall’Agenzia delle Entrate con riferimento al decreto ingiuntivo del Tribunale di Monza, n. 5316 del 2014, deducendo l’illegittimità della doppia imposizione, in quanto le fatture poste a fondamento del decreto ingiuntivo erano già state assoggettate ad i.v.a., e la carenza di motivazione dell’atto impugnato. 2.Il ricorso è stato accolto in primo grado. Nella sentenza di primo grado si legge che «le fatture .. rappresentano l’unica documentazione commerciale necessaria ai fini processuali, senza che vi sia enunciazione di alcun rapporto» e «che l’atto impugnato si appalesa illegittimo anche sotto il profilo del vizio di motivazione». 3. All’esito dell’appello dell’Agenzia delle Entrate, la sentenza di primo grado è stata riformata. Nella sentenza di appello, previo rigetto dell’eccezione di inammissibilità, si conclude «quando sia enunciato che le fatture derivano da operazioni di fornitura di merci soggette ad i.v.a., operazioni negoziali da registrare in caso di uso ai sensi degli artt. 22 e 40 del d.P.R. n. 131 del 1986, anche tale enunciazione deve essere tassata». 4. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, la contribuente. 5. Si è costituita con controricorso l’Agenzia delle Entrate, che ha eccepito la tardività del ricorso e ne ha chiesto, comunque, il rigetto del ricorso. 6. La contribuente ha depositato istanza di rimessione in termini, allegando di aver avviato il procedimento di notificazione del ricorso per cassazione prima della scadenza del termine, ma di non essere riuscita a completarlo per le modalità organizzative dell’ente destinatario, che, a causa dell’emergenza sanitaria, ha disposto la chiusura dell’ufficio e lo svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti da casa. 5. Risultano depositate la memoria della contribuente e le conclusioni scritte della Procura Generale, che ha chiesto rigettarsi il ricorso. 8.La causa è stata trattata e decisa all’udienza pubblica del 17 maggio 2024. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.La contribuente ha dedotto: 1) la violazione e falsa applicazione, ai sensi all'art. 360, primo comma 1, n. 3, cod.proc.civ., degli artt. 22 e 40 del d.P.R. n. 131 del 1986, atteso che il concetto di enunciazione non si esaurisce nella allegazione, quale antefatto, della generica esistenza di un rapporto giuridico, sotteso alle fatture commerciali poste a fondamento del decreto ingiuntivo e che una diversa conclusione non può basarsi sulla circolare n. 34/E del 2001 dell’Agenzia, che non è un atto normativo; 2) l’omesso esame, ai sensi all'art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ., di un fatto decisivo per il giudizio e, cioè, della carenza di motivazione dell’atto impositivo, che non consente di comprendere la quantificazione della somma pretesa – fatto dedotto in primo grado ed oggetto di un motivo del ricorso introduttivo accolto, ma di cui il giudice di appello non ha tenuto conto, nonostante la censura di appello sul punto. 2. In primo luogo la ricorrente va rimessa in termini, ai sensi dell’art. 155 cod.proc.civ. Difatti, le circostanze di fatto allegate e non contestate dalla controricorrente, oltre che confermate dalla documentazione relativa al procedimento di notificazione, hanno determinato la sua decadenza dall’impugnazione per causa ad essa non imputabile. Più precisamente il primo procedimento di notificazione (tempestivamente avviato ed immediatamente rinnovato) non si è positivamente concluso in conseguenza della chiusura al pubblico degli uffici dell’Agenzia delle Entrate, destinataria dell’atto, in considerazione dell’emergenza sanitaria del 2020. Non è, tuttavia, necessaria la concessione di un termine per rinnovare la notifica, essendosi concluso positivamente il secondo procedimento di notificazione immediatamente avviato dalla ricorrente ed essendosi, difatti, costituita la controricorrente. 3. In ordine al primo motivo, avente ad oggetto l’imposta di registro sul rapporto sottostante al decreto ingiuntivo, occorre premettere che la mera enunciazione di un atto soggetto a registrazione in caso d'uso in altro atto registrato, pur non configurandosi, di per sé, come ipotesi di uso ai sensi dell'art. 6 del d.P.R. n. 131 del 1986, ne comporta l'assoggettamento ad imposta a prescindere dall'uso, ai sensi del successivo art. 22 (così Cass., Sez. 5, 29 gennaio 2024, n. 2684, che ha confermato la decisione impugnata, secondo cui andava assoggettato ad imposta il contratto di prestazione d'opera richiamato in un decreto ingiuntivo, pur non costituendo ipotesi di uso del predetto). Va, però, precisato che, per potersi configurare l’enunciazione, è necessario che nell'atto sottoposto a registrazione vi sia espresso richiamo al negozio posto in essere, sia che si tratti di atto scritto o di contratto verbale, con specifica menzione di tutti gli elementi costitutivi di esso che servono ad identificarne la natura ed il contenuto in modo tale che lo stesso potrebbe essere registrato come atto a sé stante. Pertanto, la tassazione per enunciazione non può operare se nell'atto soggetto a registrazione siano menzionate circostanze dalle quali possa solo dedursi che esiste tra le parti il rapporto giuridico non denunciato, essendo sempre necessario che le circostanze enunciate siano idonee di per sé stesse, e, cioè, senza necessità di ricorrere ad elementi non contenuti nell'atto, a dare certezza di quel rapporto giuridico. Nel caso di specie, il giudice di merito ha accertato l’avvenuta enunciazione, precisando che dal decreto ingiuntivo risulta che le fatture derivano da un rapporto di fornitura di merci, i cui elementi sono specificati, sicché il motivo non merita accoglimento e deve essere rigettato. Solo per completezza deve sottolinearsi che l’accertamento di fatto effettuato dal giudice di merito non può essere rimesso in discussione in sede di legittimità e che sul punto non è stata formulata alcuna doglianza riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ. 4. Il secondo motivo di ricorso, formulato ai sensi all’art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ., deve essere riqualificato e ricondotto nell’ambito applicativo dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., visto che denuncia l’omessa motivazione della sentenza impugnata in ordine all’accoglimento (implicito) del motivo di appello formulato dall’Agenzia relativamente alla motivazione dell’atto impositivo. In proposito occorre ribadire che il ricorso, che denunci l’apparente o omessa motivazione, in violazione dell'art. 132 cod.proc.civ., non può essere accolto qualora la questione giuridica sottesa sia comunque da disattendere, non essendovi motivo per cui un tale principio, formulato rispetto al caso di omesso esame di un motivo di appello, e fondato sui principi di economia e ragionevole durata del processo, non debba trovare applicazione anche rispetto al caso, del tutto assimilabile, in cui la motivazione resa dal giudice dell'appello sia, rispetto ad un dato motivo, sostanzialmente apparente, ma suscettibile di essere corretta ai sensi dell'art. 384 cod.proc.civ. (Cass., Sez. L., 1° marzo 2019, n. 6145). La censura deve essere, pertanto, rigettata in applicazione dell’orientamento di questa Corte, secondo cui, in tema di imposta di registro su atti giudiziari, l'obbligo di motivazione dell'avviso di liquidazione, gravante sull'Amministrazione, è assolto con l'indicazione della data e del numero della sentenza civile o del decreto ingiuntivo, senza necessità di allegazione dell'atto, purché i riferimenti forniti lo rendano agevolmente individuabile, e conseguentemente conoscibile senza la necessità di un'attività di ricerca complessa, realizzandosi in tal caso un adeguato bilanciamento tra le esigenze di economia dell'azione amministrativa ed il pieno esercizio del diritto di difesa del contribuente (Cass., Sez. 5, 7 aprile 2022, n. 11283). 5.In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del presente giudizio devono essere integralmente compensate, in considerazione delle specifiche circostanze del caso concreto e del rigetto dell’eccezione pregiudiziale di rito di tardività del ricorso. P.Q.M. La Corte: rigetta il ricorso; dichiara integralmente compensate le spese di questo giudizio; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13. Così deciso in Roma, il 17/05/2024. Il Consigliere estensore Il Presidente FRANCESCA PICARDI FEDERICO SORRENTINO

  • 1 REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto Responsabilità civile per danno da animale selvatico GIACOMO TRAVAGLINO Presidente ENRICO SCODITTI Consigliere - Rel. CHIARA GRAZIOSI Consigliere ENZO VINCENTI Consigliere Cron. R.G.N. 4745/2020 PAOLO PORRECAConsigliere Ud.22/4/2024 PU Cron. R.G.N24493/2021 Ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 24493/2021 R.G. proposto da: ATC AMBITO TERRITORIALE DI CACCIA RAVENNA 3, elettivamente domiciliato in ROMA CORSO VITTORIO EMANUELE II 308, presso lo studio dell’avvocato RUFFOLO UGO (RFFGUO42D02I872U) che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato LOCCISANO VALTER (LCCVTR76B01I725W) -ricorrente- contro PAGLIAI ARMANDO E GIORGIO SS SOC. AGRICOLA AZIENDA AGRICOLA PAGLIAI, elettivamente domiciliato in Roma via delle Milizie 2 22, presso lo studio dell’avvocato ARONICA WALTER (RNCWTR80P23H501A) rappresentato e difeso dall'avvocato DOLCINI SILVIA (DLCSLV59H58D458J) -controricorrente- avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO BOLOGNA n. 1136/2021 depositata il 11/05/2021. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 22/04/2024 dal Consigliere ENRICO SCODITTI; sentite le parti ed il Pubblico Ministero GIOVANNI BATTISTA NARDECCHIA. Fatti di causa 1. Con atto di citazione notificato in data 11 luglio 2012 l’Azienda Agricola Pagliai Armando e Giorgio s.s. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Ravenna l'Ambito Territoriale di Caccia Ravenna 3 chiedendo il risarcimento del danno causato dall’azione di cinghiali e caprioli sui propri fondi coltivati siti nel Comune di Brisighella. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda. 2. Il Tribunale adito accolse la domanda, condannando il convenuto al risarcimento del danno nella misura di Euro 20.965,00, oltre accessori. 3. Avverso detta sentenza propose appello l’Ambito Territoriale. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello. 4. Con sentenza di data 11 maggio 2021 la Corte d’appello di Bologna rigettò l’appello. Osservò la corte territoriale, per quanto qui rileva, che, diversamente da quanto affermato da Cass. n. 2374 del 2016 in relazione ad un fatto accaduto nel 1997, in relazione al fatto in questione, verificatosi nel 2011, doveva aversi riguardo, ai fini del riconoscimento della sussistenza della legittimazione passiva del convenuto, alle modifiche intervenute prima con la legge regionale n. 3 6 del 2000, e poi con la legge regionale n. 16 del 2007, alla legge regionale n. 8 del 1994. In particolare, osservò quanto segue. «L’art. 17 della L.R. 8/1994 prevedeva nella formulazione originaria che gli oneri per il contributo al risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole e alle opere approntate su terreni coltivati ed a pascolo dalle specie di fauna selvatica sono a carico delle Provincie, qualora siano provocati nelle zone di protezione, anche se in gestione convenzionata ovvero, per quanto di rilievo in questa sede, degli ambiti territoriali di caccia qualora si siano verificati nei fondi ivi compresi. Con la L.R. 6/2000 si è disposto che la legittimazione è degli ambiti territoriali di caccia, qualora gli eventi lesivi si siano verificati nei fondi ivi ricompresi, oppure delle Province, qualora siano provocati nelle zone di protezione di cui all'art. 19 e nei parchi e nelle riserve naturali regionali, comprese quelle aree contigue ai parchi dove non è consentito l'esercizio venatorio. Con L.R. 16/2007 si è provveduto a modificare ulteriormente la disciplina di cui trattasi confermando la legittimazione degli ambiti territoriale di caccia per le specie di cui si consente il prelievo venatorio, qualora gli eventi lesivi si siano verificati nei fondi ivi ricompresi». 5. Ha proposto ricorso per cassazione l'Ambito Territoriale di Caccia Ravenna 3 sulla base di un motivo. Resiste con controricorso la parte intimata. Il Pubblico Ministero ha presentato le conclusioni scritte, concludendo per l’accoglimento del ricorso. E’ stata depositata memoria di parte. Ragioni della decisione 1. Con il motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 26 legge n. 157 del 1992, 16, 17 e 18 legge regionale n. 8 del 1994, 111 Cost., 132 n. 4 e 118 att. cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale ha ravvisato la sussistenza della legittimazione passiva in capo al ricorrente nonostante le modifiche richiamate alla 4 legge regionale non modificassero, per la parte rilevante, la legge regionale n. 8 del 1994, così come interpretata da Cass. n. 2375 del 2016, la quale aveva individuato nella Provincia il soggetto passivamente legittimato, posto che la lieve modifica intervenuta aveva toccato solo l’art. 17, il quale prevede, come affermato da Cass. n. 2375 del 2016, la ripartizione interna fra la Provincia e gli altri soggetti (fra cui l’Ambito Territoriale) degli oneri relativi ai contributi per il fondo regionale, previsto dall’art. 26 legge n. 157 del 1992 per i danni arrecati alle produzioni agricole dalle specie di fauna selvatica cacciabile. Aggiunge che la motivazione, alla luce di quanto osservato, risulta anche apparente. 1.1 Deve premettersi all’esame del motivo che il ricorrente ha depositato copia della sentenza impugnata, con asseverazione di autenticità, priva però dell’indicazione della data di pubblicazione (c.d. glifo). La questione, per come ha già trovato modo di declinarsi nella giurisprudenza di questa Corte, è riassumibile nei seguenti termini: se il deposito di sentenza digitale priva della stampigliatura (quest’ultima indicata, in taluni precedenti, atecnicamente come “glifo”), apposta in via automatica dal sistema informatico di gestione dei servizi di cancelleria, indicante la data di deposito ed il numero del provvedimento, valga o meno a soddisfare l’onere di deposito del provvedimento impugnato previsto a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., ovvero, in assenza dei predetti dati, debba addivenirsi, altrimenti, ad una pronuncia di inammissibilità del ricorso per tardività, ove non si ritenga superata la c.d. prova di resistenza. 1.2. – Occorre, anzitutto, dare evidenza, in estrema sintesi, alle soluzioni (con gli argomenti che le sorreggono) sinora adottate dalla giurisprudenza di questa Corte, alla luce di una ricognizione di cui si fa carico, in modo ampio, la memoria del pubblico ministero e alla quale, dunque, giova richiamarsi. 5 1.2.1. – L’improcedibilità del ricorso per cassazione è stata dichiarata (tra le altre: Cass. n. 29803/2020, Cass. n. 5771/2023, Cass. n. 8535/2023, Cass. n. 10180/2023, Cass. n. 23694/2023, Cass. n. 25472/2023, Cass. n. 28035/2023, Cass. n. 36379/2023) nel caso in cui la sentenza impugnata, redatta in formato digitale, risulti priva dell’attestazione di cancelleria circa l’avvenuta pubblicazione, la relativa data e il conseguente numero di pubblicazione, sia perché i suddetti adempimenti sono gli unici che permettono alla Corte di controllare se e quando il provvedimento impugnato sia effettivamente venuto ad esistenza, sia perché la produzione di una copia della sentenza incerta nella data e priva del numero identificativo non consente di verificare la tempestività dell’impugnazione, né, in caso di accoglimento del ricorso, di formulare un corretto dispositivo che, coordinato con la motivazione, individui con esattezza il provvedimento cassato. In particolare, gli argomenti a sostegno dell’improcedibilità (Cass. n. 5771/2023) muovono dal rilievo che «la disposizione dell’art. 16- bis, comma 9-bis, del d.l. n. 179/2012 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 221/2012) - introdotta dall’art. 52, comma 1, lett. a), del d.l. n. 90/2014 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 114/2014) - che stabilisce la equivalenza all’originale delle copie informatiche, anche per immagine, dei provvedimenti del Giudice “anche se prive della firma digitale del cancelliere di attestazione di conformità all’originale”» attribuisce «al difensore il potere di certificazione pubblica delle “copie analogiche ed anche informatiche, anche per immagine, estratte dal fascicolo informatico” ma non anche la competenza amministrativa riservata al funzionario di Cancelleria relativa alla “pubblicazione” della sentenza». Si è, quindi, ritenuto che, “per quanto in linea generale sia possibile produrre in giudizio copie o duplicati del provvedimento impugnato estratti dal fascicolo telematico, attestando la conformità del relativo contenuto all’originale 6 contenuto nel predetto fascicolo, ai fini della procedibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 369 c.p.c. deve comunque trattarsi di copie o duplicati recanti l’attestazione di Cancelleria della pubblicazione del provvedimento, con la relativa data e il numero attribuito dal sistema”, altrimenti resterebbe preclusa alla Corte la verifica circa l’effettiva venuta ad esistenza del provvedimento impugnato e del suo numero identificativo. 1.2.2. – L’inammissibilità del ricorso è stata dichiarata (tra le altre: Cass. n. 18510/2023, Cass. n. 29263/2023, Cass. n. 36189/2023, Cass. n. 817/2024, Cass. n. 841/2024) nel caso in cui il ricorrente depositi un duplicato della sentenza telematica dal quale non si evince la data di pubblicazione e la notificazione del ricorso è avvenuta in una data che non risulta tempestiva - se calcolata in relazione al giorno della decisione indicato nel testo del provvedimento - rispetto al termine dell’art. 327, comma primo, c.p.c. Va, peraltro, posto in evidenza che, nel superare la soluzione dell’improcedibilità del ricorso, questa Corte, in base a questo orientamento, ha affermato (in un caso in cui ha avuto esito positivo la c.d. “prova di resistenza” sulla tempestività dell’impugnazione: Cass. n. 865/2024) che la «copia analogica prodotta, pur con le dette omissioni, non si può considerare come copia non autentica, in quanto risulta ─ e vi è in tal senso anche espressa asseverazione del Procuratore dello Stato resa ai sensi dell’art. 16-bis, comma 9-bis, 16- decies e 16-undecies d.l. n. 179 del 2012 ─ “tratta con modalità telematiche” e “conforme” allo “esemplare presente nel fascicolo informatico” come “reso disponibile dai servizi informatici e telematici del competente plesso giurisdizionale”, e, dunque, deve considerarsi conforme al documento informatico effettivamente presente nel fascicolo del giudizio di merito e, pertanto, autentica». 1.2.3. – Giova, altresì, dare conto che, sebbene in un caso di rigetto del ricorso in presenza di ragione più liquida di infondatezza dello 7 stesso (e superando in tal modo la depositata proposta di definizione accelerata nel senso della improcedibilità del ricorso), Cass. n. 5204/2024 - premesse le nozioni di “copia informatica di documento informatico” e di “duplicato informatico”, secondo le definizioni contenute nell’art. 1, comma 1, del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, e richiamate le disposizioni speciali per il processo civile in tema di attestazione di conformità - ha prospettato i seguenti interrogativi: a) «può il deposito di una tale copia ritenersi soddisfare l’onere, previsto all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c. … di depositare “copia autentica della sentenza”?»; b) “se sì, può la mancanza, nella copia informatica estratta dal fascicolo informatico e attestata conforme, delle indicazioni relative al numero e alla data di pubblicazione dal fascicolo informatico considerarsi causa di inammissibilità del ricorso per mancata prova della sua tempestività (salva la c.d. prova di resistenza …)?”; c) “accedendo a tale ultimo orientamento, può infine ritenersi utilmente e tempestivamente prodotta, a riprova dell’ammissibilità del ricorso, altra copia informatica, questa volta recante il c.d. glifo, successivamente al deposito ed alla comunicazione della proposta di definizione? Se sì, può essa ritenersi utilmente prodotta, come nella specie, al di là del termine di quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza, fissato dall’art. 372, secondo comma, c.p.c.?”. 1.3. – Il Collegio ritiene che gli interrogativi posti da Cass. n. 5204/2024 trovino complessiva risposta nelle considerazioni che seguono. 1.3.1. - Le nozioni di “copia informatica” e di “duplicato informatico”. In base alle definizioni contenute nell’art. 1 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale: C.A.D.), applicabili anche al processo civile, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo 8 telematico (art. 2, comma 6): a) la copia informatica di documento informatico: è il documento informatico avente contenuto identico a quello del documento da cui è tratto su supporto informatico con diversa sequenza di valori binari (lett. i-quater); b) il duplicato informatico: è il documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario (lett. 1- quinquies). Ai sensi dell’art. 23-bis del C.A.D.: «1. I duplicati informatici hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono tratti, se prodotti in conformità alle Linee guida [i.e. le linee guida adottate dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) ai sensi dell’art. 71 C.A.D.]. Le copie e gli estratti informatici del documento informatico, se prodotti in conformità alle vigenti Linee guida, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale, in tutti le sue componenti, è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato o se la conformità non è espressamente disconosciuta. […]». Nozioni, queste, che sono riprese dalla citata Cass. n. 5204/2024 e che erano tenute ben presenti già da Cass. n. 27379/2022 (la quale ha confermato la decisione di merito che aveva dichiarato inammissibile per tardività l’impugnazione svolta nei confronti della sentenza di primo grado, sul presupposto che la notifica telematica della stessa, mediante duplicato informatico, era idonea a far decorrere il ‘termine breve’, pur non presentando segni grafici relativi all’apposizione della sottoscrizione del giudice), da cui è stato tratto il principio di diritto così massimato: “in tema di notificazione della sentenza con modalità telematica, occorre distinguere la copia informatica di un documento nativo digitale, la quale presenta segni grafici (generati dal programma ministeriale in uso alle cancellerie degli uffici giudiziari) che 9 rappresentano una mera attestazione della presenza della firma digitale apposta sull’originale di quel documento, dal duplicato informatico che, come si evince dagli artt. 1, lett. i) quinquies e 16-bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, consiste in un documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario e la cui corrispondenza con quest’ultimo non emerge dall’uso di segni grafici - la firma digitale è infatti una sottoscrizione in bit la cui apposizione, presente nel file, è invisibile sull’atto analogico cartaceo - ma dall’uso di programmi che consentono di verificare e confrontare l’impronta del file originario con il duplicato”. 1.3.2. - Le attestazioni di conformità nel processo civile. La materia delle attestazioni di conformità trova espressa disciplina per il processo civile nelle disposizioni sul processo telematico, dapprima ai sensi degli artt. 16-bis, comma 9-bis, decies ed undecies, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, ora (sostanzialmente) riproposti negli artt. 196-octies, 196 novies, 196 decies e 196 undecies disp. att. c.p.c. In sintesi, e per quel che qui rileva, è conferito al difensore il potere di estrarre con modalità telematiche duplicati, copie analogiche o informatiche di atti e provvedimenti contenuti nel fascicolo informatico e attestare la conformità delle copie estratte ai corrispondenti atti originali, mentre per il duplicato informatico (la cui equivalenza all’originale esclude la necessità di attestazione) si richiede che lo stesso venga prodotto mediante processi e strumenti che assicurino che il documento informatico ottenuto sullo stesso sistema di memorizzazione o su un sistema diverso contenga la stessa sequenza di bit del documento informatico di origine. 1.3.3. – La nozione di “contrassegno elettronico”, “timbro digitale”, “codice bidimensionale”, “glifo”. 10 Ai sensi dell’art. 23, comma 2-bis, C.A.D.: «Sulle copie analogiche di documenti informatici può essere apposto a stampa un contrassegno, sulla base dei criteri definiti con le Linee guida, tramite il quale è possibile accedere al documento informatico, ovvero verificare la corrispondenza allo stesso della copia analogica. Il contrassegno apposto ai sensi del primo periodo sostituisce a tutti gli effetti di legge la sottoscrizione autografa del pubblico ufficiale e non può essere richiesta la produzione di altra copia analogica con sottoscrizione autografa del medesimo documento informatico. I soggetti che procedono all’apposizione del contrassegno rendono disponibili gratuitamente sul proprio sito Internet istituzionale idonee soluzioni per la verifica del contrassegno medesimo». Nelle linee guida emanate dall’AgID con circolare n. 62 del 30 aprile 2013 si chiarisce che «Nei vari contesti il contrassegno generato elettronicamente può essere indicato, anche in relazione alle specificità dello scenario implementato, con termini differenti, quali “Contrassegno elettronico”, “Timbro digitale”, “Codice bidimensionale”, “Glifo”, termini che sono da intendersi come sinonimi». Nell’ambito delle predette linee guida, si precisa che «per contrassegno generato elettronicamente si intende una sequenza di bit, codificata mediante una tecnica grafica e idonea a rappresentare un documento amministrativo informatico o un suo estratto o una sua copia o un suo duplicato o i suoi dati identificativi. A tutti gli effetti di legge sostituisce la sottoscrizione autografa della copia analogica. Il contrassegno generato elettronicamente è rappresentato graficamente con tecnologie differenti, per leggere le quali può essere richiesto apposito software rilasciato dallo sviluppatore della soluzione». 1.4. – Ciò premesso, si osserva quanto segue. L’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., richiede il deposito di “copia autentica della decisione impugnata”. 11 Il provvedimento emesso come documento informatico e sottoscritto con firma digitale è depositato nel fascicolo tramite l’applicativo l’informatico, ai sensi dell’art. 15 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44. La pubblicazione avviene, dunque, non più attraverso la materiale apposizione del deposito e della relativa certificazione da parte del cancelliere, bensì attraverso l’accettazione del deposito telematico del provvedimento e l’attribuzione mediante il sistema informatico del numero identificativo e della data dell’adempimento, con inserimento nel fascicolo informatico e conseguente ostensibilità agli interessati (si veda anche Cass. n. 2829/2023). Ne consegue che, per effetto dell’attuazione del processo telematico, alla certificazione della cancelleria sull’unico originale in formato cartaceo è subentrata la registrazione automatica del documento informatico effettuata dal sistema informatico. Con l’accettazione del deposito telematico e l’attribuzione del numero cronologico, il provvedimento digitale è inserito nel fascicolo informatico e solo in esito alla pubblicazione informatizzata diventa consultabile da parte dei difensori, attraverso il portale dei servizi telematici di cui all’art. 6 del d.m. n. 44/2011, nella versione originale, rappresentata dal duplicato (che reca la firma digitale del magistrato), ovvero nella copia informatica, che reca la stampigliatura dei dati esterni della pubblicazione (vale a dire il numero di cronologico e la data di pubblicazione) come segno grafico apposto dal sistema per evidenziare l’avvenuto processamento informatico. Pertanto, nella differente realtà digitale il concetto di unico originale risulta sostanzialmente superato dalla possibilità di accedere al duplicato (che equivale all’originale), dovendosi, altresì, evidenziare che è l’accettazione dell’atto da parte del cancelliere a determinare l’inserimento del provvedimento nel fascicolo informatico, sicché resta 12 escluso che il difensore possa accedere al duplicato ovvero alla copia informatica se non è intervenuta la pubblicazione. E tanto emerge chiaramente anche dalla giurisprudenza di questa Corte, che collega la pubblicazione dei provvedimenti digitali al necessario presupposto che l’atto divenga visibile e consultabile dalle parti, cosicché non è sufficiente il mero deposito, ma occorre l’accettazione da parte della cancelleria - almeno fino a che i sistemi richiederanno l’intervento manuale – e, comunque, l’inserimento nei registri e l’assegnazione del numero cronologico (Cass. n. 24891/2018, Cass. n. 2362/2020, Cass. n. 2829/2023). Infatti, solo a seguito dell’avvenuta pubblicazione informatica, i difensori, accedendo al fascicolo informatico tramite il portale dei servizi telematici, possono scegliere se estrarre copia informatica del provvedimento, recante le indicazioni sulla data di pubblicazione e sul numero di cronologico, come stampigliatura apposta dal sistema informatico in esito all’accettazione dell’atto digitale da parte della cancelleria, ovvero se scaricare direttamente il duplicato informatico che, in quanto tale, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione che determinerebbe ipso facto l’alterazione dell’originale informatico (e la conseguente alterazione della sequenza di valori binari del documento originario). Non è, pertanto, sanzionabile con l’improcedibilità la scelta del difensore che, potendo optare tra il deposito del duplicato e la copia informatica(la cui apposta stampigliatura rappresenta soltanto un’evidenza grafica della registrazione informatizzata), si determini per il deposito del primo in quanto equivalente all’originale e, come tale, non necessitante di alcuna attestazione di conformità. Sicché, il concetto stesso di duplicato risulta assorbente rispetto al requisito di “copia autentica della sentenza o della decisione impugnata”, postulato dall’art. 369 c.p.c. 13 I dati relativi alla pubblicazione, se in contestazione ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione (e, dunque, là dove non evincibili tramite gli stessi sistemi informatici in uso a questa Corte), possono essere verificati attraverso la consultazione del fascicolo informatico del giudizio di merito acquisito d’ufficio ai sensi dell’art. 137-bis disp. att. c.p.c. per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere a decorrere dal 1° gennaio 2023 (art. 35, comma 5, del d.lgs. n. 149/2022). Quanto ai giudizi introdotti precedentemente, i dati relativi alla pubblicazione del provvedimento impugnato (quale documento nativo digitale), se necessario, possono essere verificati tramite richiesta di attestazione degli stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso quel provvedimento, in presenza di istanza del ricorrente formulata ai sensi dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nel testo antecedente alla abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149/2022. Dati che sono presenti nel fascicolo informatico che la cancelleria deve tenere e conservare ai sensi art. 36, ultimo comma, disp. att. c.p.c. e dell’art. 9 del d.m. n. 44/2011. Quest’ultima disposizione precisa, infatti, che il predetto fascicolo contiene “i dati del procedimento medesimo da chiunque formati” (comma 1) e in modo tale da “garantire la facile reperibilità ed il collegamento degli atti ivi contenuti [anche] in relazione alla data di deposito” (comma 5). E una tale verifica officiosa si rende necessaria in quanto il ricorrente, con il deposito del duplicato informatico del provvedimento impugnato, ha pienamente assolto l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c.; onere funzionale, in primo luogo, proprio a “consentire la verifica della tempestività dell’atto di impugnazione” (Cass., S.U., n. 8312/2019), la quale (è opportuno ribadire), in ambiente di processo telematico, è possibile solo attraverso i sistemi informatici in uso all’ufficio giudiziario. 14 Occorre, dunque, collocarsi nel cono d’ombra del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 111 Cost.; art. 47 della Carta di Nizza; art. 19 del Trattato sull’Unione europea; art. 6 CEDU), il quale, nella sua essenziale tensione verso una decisione di merito, richiede che eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale siano ponderate attentamente alla luce dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità (tra le tante: Cass., S.U., n. 10648/2017; Cass., S.U., n. 8950/2022; Cass., S.U., n. 28403/2023; Cass., S.U., n. 2075/2024; Cass., S.U., n. 6477/2024). Pertanto, va fatta applicazione del principio - già affermato da Cass., S.U., 25513/2016 in riferimento alla proposizione del ricorso per cassazione ex art. 348-ter, comma terzo, c.p.c. (e ribadito da Cass., S.U., n. 11850/2018, Cass., S.U., n. 8312/2019 e Cass., S.U., n. 21349/2022) - secondo il quale la Corte esercita il proprio potere officioso di controllo sulla tempestività dell’impugnazione ove il ricorrente abbia assolto l’onere di richiedere il fascicolo d’ufficio alla cancelleria del giudice a quo tramite l’istanza di cui all’ultimo comma dell’art. 369 c.p.c. 1.4.1. – Nel caso, invece, di deposito ex art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., di copia analogica di duplicato informatico della decisione impugnata (ossia, tramite la stampa del file), rimane necessaria l’attestazione di conformità del difensore ai sensi del citato art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179/2012 (nei termini affermati da Cass., S.U., n. 8312/2019), non potendosi, in siffatta evenienza, apprezzare altrimenti la qualità di duplicato informatico che dal difensore medesimo sia stata predicata (atteso che la stampa di un documento informatico sottoscritto digitalmente non consente la verifica dell’apposizione della firma, ciò che, come detto, è possibile con i sistemi informatici in uso all’ufficio giudiziario). Tuttavia, all’interrogativo posto da Cass. n. 5204/2024 in ordine alla ritualità della copia autenticata così depositata, in quanto priva 15 delle indicazioni relative alla pubblicazione, si deve dare risposta positiva. Infatti, in quanto estratta dal fascicolo informatico ed attestata come conforme dal difensore, anche il deposito di una tale copia autenticata vale ad integrare il requisito richiesto dall’art. 369 c.p.c., così aprendosi la possibilità, pure in tale ipotesi, dell’accertamento officioso in ordine alla tempestività dell’impugnazione (ove in contestazione), tramite la richiesta alla cancelleria del giudice a quo di attestazione dei dati di pubblicazione del provvedimento. 1.5. – Devono, quindi, enunciarsi i seguenti principi di diritto: «a) in regime di deposito telematico degli atti, l’onere del deposito di copia autentica del provvedimento impugnato imposto, a pena di improcedibilità del ricorso dall’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto non solo dal deposito della relativa copia informatica, recante la stampigliatura solo rappresentativa dei dati esterni (numero cronologico e data) concernenti la sua pubblicazione, ma anche dal deposito del duplicato informatico di detto provvedimento, il quale ha il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, dell’originale informatico e che, per sue caratteristiche intrinseche, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione (e, dunque, la stampigliatura presente nella copia informatica) che ne determinerebbe, di per sé, l’alterazione. Ne consegue che, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, i dati relativi alla pubblicazione, ove non evincibili tramite i sistemi informatici in uso alla Corte di cassazione e in contestazione, vanno attinti attraverso la consultazione del fascicolo di merito acquisito d’ufficio ai sensi dell’art. 137-bis c.p.c. per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere dal 1° gennaio 2023, ovvero, per i giudizi precedentemente introdotti, tramite richiesta di attestazione dei dati stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, in presenza di istanza del ricorrente ai sensi 16 dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nella formulazione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149 del 2022; b) nel regime in cui è consentito il deposito di copia analogica del provvedimento impugnato redatto come documento informatico nativo digitale e così depositato in via telematica, ove detta copia analogica sia tratta dal duplicato informatico depositato nel fascicolo informatico, l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto tramite l’attestazione di conformità della copia al duplicato apposta dal difensore. Ne consegue che, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, i dati relativi alla pubblicazione del provvedimento impugnato, ove in contestazione, vanno attinti tramite richiesta di attestazione dei dati stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, in presenza di istanza del ricorrente ai sensi dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nella formulazione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149 del 2022». 1.6. Nel caso di specie, a seguito del dato acquisito tramite cancelleria, la data di pubblicazione del provvedimento impugnato è 11 maggio 2021. Essendo stato il ricorso notificato in data 30 settembre 2021, risulta rispettato il termine semestrale per proporre l’impugnazione. 1.7. Ciò premesso, il motivo è fondato. Conformemente alle conclusioni del Pubblico Ministero, deve essere mantenuto l’indirizzo di questa Corte, espresso dalle pronunce n. 2374 del 2016 e n. 2375 del 2016, il cui principio di diritto è che, in relazione alla legge della Regione Emilia Romagna,l'amministrazione provinciale è l'unico soggetto legittimato passivamente a fronte di azioni proposte da terzi per ottenere la riparazione dei danni eventualmente provocati dalla fauna selvatica, a nulla rilevando la ripartizione di compiti interna alla Provincia stessa riguardo al peso economico derivante dall'obbligo 17 risarcitorio. La modifica legislativa, considerata dalla corte territoriale, è relativa solo alla ripartizione degli oneri relativi al fondo regionale. L’art. 17 legge regionale n. 8 del 1994, applicabile ratione temporis (in relazione al fatto verificatosi nel 2011) sulla base delle modifiche intervenute, prima con l’art. 14 della legge regionale n. 6 del 2000, e poi con l’art. 10 della legge regionale n. 16 del 2007, è il seguente: «Danni alle attività agricole 1. Gli oneri relativi ai contributi per i danni arrecati alle produzioni agricole e alle opere approntate sui terreni coltivati ed a pascolo dalle specie di fauna selvatica cacciabile o da sconosciuti nel corso dell'attività venatoria sono a carico: a) degli ambiti territoriali di caccia per le specie di cui si consente il prelievo venatorio, qualora si siano verificati nei fondi ivi ricompresi; b) dei titolari dei centri privati della fauna allo stato naturale di cui all'articolo 41 qualora si siano prodotti ad opera delle specie ammesse nei rispettivi piani produttivi o di gestione e delle aziende venatorie di cui all'articolo 43 per le specie di cui si autorizza il prelievo venatorio, nei fondi inclusi nelle rispettive strutture; c) dei proprietari o conduttori dei fondi rustici di cui ai commi 3 e 8 dell'art. 15 della legge statale, nonché dei titolari delle altre strutture territoriali private di cui al capo V, qualora si siano verificati nei rispettivi fondi; d) delle Province, qualora siano provocati nelle zone di protezione di cui all’art. 19 e nei parchi e nelle riserve naturali regionali, comprese quelle aree contigue ai parchi dove non è consentito l'esercizio venatorio. 2. Le Province concedono contributi per gli interventi di prevenzione e per l'indennizzo dei danni: a) provocati da specie cacciabili ai sensi del comma 1 lettera d); b) provocati nell'intero territorio agro-silvo-pastorale da specie protette, dal piccione di città (Columba livia, forma domestica) o da 18 specie il cui prelievo venatorio sia vietato, anche temporaneamente, per ragioni di pubblico interesse. 3. I contributi sono concessi entro i limiti di disponibilità delle risorse previste dall’art. 18, comma 1». La rilevanza della modifica legislativa al livello della ripartizione interna del peso economico derivante dall’obbligo di risarcire i danni da fauna selvatica, come risulta dal primo comma della disposizione citata, non incide sul principio di diritto enunciato dai richiamati precedenti di questa Corte, cui il Collegio presta continuità e rinvia, anche sul piano della motivazione, per quanto concerne l’individuazione del soggetto tenuto al risarcimento del danno, salva la modifica legislativa evidenziata sul piano del riparto interno. 1.8. Poiché non sono necessari altri accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito con il rigetto della domanda. L’intervento della giurisprudenza determinante nel corso del processo costituisce ragione di compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. P. Q. M. Accoglie il motivo di ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, rigetta la domanda; dispone la compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il giorno 22 aprile 2024 Il consigliere estensore Dott. Enrico Scoditti Il Presidente Dott. Giacomo Travaglino 19

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Milena FALASCHI - Presidente Aldo CARRATO - Consigliere Rel. Antonio SCARPA - Consigliere Chiara BESSO MARCHEIS - Consigliere Remo CAPONI - Consigliere ha pronunciato la seguente\\6789 SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 16864/2021 R.G. proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato presso i suoi Uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12; – ricorrente – contro DE VIVO ANNA, rappresentata e difesa dagli Avv. Giuseppe Mauriello e Antonio Carrella con procura speciale a margine del controricorso ed elettivamente domiciliata all’indirizzo PEC dei suddetti difensori iscritti nel REGINDE; – controricorrente– avverso l’ordinanza della Corte di appello di Salerno n. cronol. 6677/2020, depositata il 22 dicembre 2020; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’11 aprile 2024 dal Consigliere relatore Aldo Carrato; udito il P.M., in persona del Sostituto P.G. Alberto Cardino, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso; R.G.N. 16864/2021 P.U. 11/04/2024 *\ rtyuiop+èytf samZ<A EQUA RIPARAZIONE udito l’Avv. Alberto Giovanni Angelo D’Onofrio, per il ricorrente Ministero della Giustizia. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Con ricorso proposto ai sensi dell’art. 3 della legge n. 89/2001, depositato in data 29 maggio 2020 presso la Corte di appello di Salerno, De Vivo Anna chiedeva il riconoscimento dell’equo indennizzo per l’irragionevole durata del processo instaurato a seguito degli eventi franosi verificatisi in Sarno il 5 maggio 1998 e che cagionarono la morte dei suoi genitori e della sorella. A tale proposito la ricorrente faceva presente di essersi costituita parte civile nel relativo processo penale in data 13 aprile 2000, il cui primo grado si concludeva con sentenza del 3 giugno 2004, a cui seguiva quello di appello definito con sentenza del 19 febbraio 2009, che veniva fatta oggetto di ricorso per cassazione, all’esito del cui giudizio questa Corte emetteva sentenza di annullamento con rinvio in data 20 dicembre 2011. Il giudizio di rinvio si concludeva con sentenza di condanna depositata il 16 marzo 2012, confermata all’esito del successivo giudizio di cassazione con sentenza del 7 maggio 2013. Quindi, la ricorrente introduceva giudizio civile, dinanzi al Tribunale di Salerno, per l’ottenimento del risarcimento dei danni con citazione notificata il 5 marzo 2019, la cui domanda veniva accolta con sentenza del 16 maggio 2019. Decidendo sul citato ricorso formulato ai sensi della legge n. 89/2001, il giudice designato della Corte di appello di Salerno, con decreto n. 4218 del 23 giugno 2020, comunicato il 1° luglio 2020, accoglieva, per quanto di ragione, la domanda e condannava il Ministero della Giustizia al pagamento dell’indennità di euro 800,00 per un solo anno di ritardo maturato nel corso del giudizio civile, oltre alle spese. 2. Decidendo sull’opposizione ex art. 5-ter della stessa legge n. 89/2001 formulata avverso il citato decreto dalla medesima ricorrente in relazione al ritardo maturato anche nel processo penale, la Corte di appello di Salerno, in composizione collegiale, nella resistenza del Ministero della giustizia, che proponeva anche opposizione incidentale, con ordinanza (in effetti da considerarsi un decreto, ai sensi del citato art. 5-ter, ultimo comma, l. n. 89/2001) n. cronol. 6677 del 2020, accoglieva l’opposizione “principale”, condannando il Ministero al pagamento, in favore della De Vivo, della somma di euro 4.000,00, oltre interessi dalla domanda al soddisfo, nonché al pagamento delle spese del procedimento, compensate solo per un quarto. Più specificamente, per quanto ancora di rilievo in questa sede, la Corte salernitana riteneva fondate le doglianze della De Vivo con riferimento alla prospettata inesattezza del computo operato dal consigliere designato per stabilire la durata del complessivo giudizio presupposto nelle sue varie articolazioni e per gradi, e segnatamente di quelli relativi al giudizio di secondo grado, al primo giudizio di legittimità e a quello di rinvio del giudizio penale, oltre a quello di primo grado del giudizio civile. Pertanto, a seguito della rivalutazione complessiva della durata dei vari giudizi (da considerarsi in un quadro unitario), la Corte distrettuale riteneva indennizzabile un periodo di eccessiva durata di anni quattro e mesi sette, respingendo l’opposizione incidentale del Ministero della Giustizia relativa al mancato esperimento dei rimedi preventivi. 3. Avverso il menzionato decreto collegiale ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di un unico motivo, il Ministero della giustizia, cui ha resistito la De Vivo con controricorso. Formulata proposta di definizione del giudizio ai sensi del primo comma dell’art. 380-bis c.p.c. (come sostituito dall’art. 3, comma 28, del d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149), ritualmente comunicata alle parti, il Ministero ricorrente ha chiesto la decisione del ricorso con conseguente fissazione dell’adunanza in camera di consiglio ai sensi del terzo comma dello stesso art. 380-bis.1 c.p.c., all’esito della quale il designato collegio, con ordinanza interlocutoria n. 1522/2024 (alla stregua della problematicità della questione, per l’eventualità della conferma della suddetta proposta di definizione anticipata, sull’adottabilità, anche nei confronti delle P.A., delle pronunce previste dall’art. 96, ai commi 3 e 4, c.p.c. come richiamate dall’ultimo comma dell’art. 380-bis c.p.c.), ha disposto rimettersi la trattazione della causa in pubblica udienza, fissata per la data odierna, in prossimità della quale il P.G. ha depositato memoria, con la quale ha concluso per il rigetto del ricorso e l’applicazione dell’art. 96, comma 3, c.p.c. Anche la difesa erariale ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con l’unico formulato motivo il Ministero della Giustizia denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2 della legge n. 89/2001 contestando la legittimità del calcolo compiuto dalla Corte salernitana nell’impugnato provvedimento in relazione al computo della durata irragionevole del processo in caso di costituzione di parte civile nel giudizio penale e di successiva instaurazione di giudizio civile per la quantificazione dei danni (nell’ipotesi di accertata responsabilità definitiva dell’imputato). Il ricorrente Ministero deduce che la Corte di merito ha illegittimamente ritenuto l’unitarietà, ai fini dell’equa riparazione, del processo penale e del successivo giudizio civile instaurato per la liquidazione del danno alla De Vivo, costituitasi parte civile nel pregresso processo penale. Si evidenzia che la Corte di appello salernitana ha ritenuto che la ragionevole durata – e, quindi, quella correlativamente eccessiva rispetto agli standard normativi – avrebbe dovuto essere individuata prima fase per fase, per poi essere le stesse complessivamente riconsiderate entro il limite dei sei anni, senza tenere in alcun conto il comportamento concretamente osservato in sede processuale dalla parte civile in sede penale, rendendosi necessario che quest’ultima faccia tutto quanto in suo potere per ottenere la quantificazione del danno direttamente in sede penale, perché solo in siffatta ipotesi appare corretto considerare unitariamente il processo ai fini della ragionevole durata. Di converso – ad avviso del ricorrente Ministero - nella specie la De Vivo si era limitata a richiedere un importo meramente simbolico, senza fornire adeguato supporto alla propria richiesta, per cui il giudice penale era stato costretto a rimettere al giudice civile l’attività di quantificazione e di liquidazione del danno. 2. Il motivo è infondato e deve essere respinto. Secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di ragionevole durata del processo, allorquando venga proposta l'azione civile nel giudizio penale e tale giudizio si concluda con una sentenza di affermazione della penale responsabilità dell'imputato e di condanna generica dello stesso (o del responsabile civile) al risarcimento del danno da liquidarsi in sede civile, il successivo giudizio civile che venga introdotto per la determinazione in concreto del danno non costituisce un autonomo procedimento e, stante l'identità della pretesa sostanziale azionata, i due giudizi devono essere sottoposti ad una valutazione unitaria (Cass. n. 22356/2023; già in questi termini Cass n. 4436/2015). Il ricorrente Ministero invoca l’obiter contenuto nel precedente di cui a Cass. n. 11493/2006 (difforme dall’orientamento successivo a cui ha aderito questa Corte, circostanza che lo stesso ricorrente attesta di non ignorare), secondo il quale nella valutazione complessiva delle vicenda processuale il Giudice dell'equa riparazione dovrà tenere conto della complessità della controversia derivante dalla sua articolazione in giudizi diversi svoltisi l'uno dinnanzi al giudice penale, l'altro dinnanzi al giudice civile, apprezzando altresì se la conclusione del processo penale con sentenza di condanna generica al risarcimento del danno consegua ad una esplicita domanda in tal senso della persona offesa costituita parte civile ovvero se sul punto della quantificazione del danno siano state articolate richieste istruttorie non accolte dal giudice penale. Senonché, il richiamato precedente non ancorava affatto la valutazione unitaria dei due giudizi alla qualitas dell’attività assertiva e probatoria svota dalla parte civile in sede penale, ma al contrario, nel confermare detta “valutazione complessiva della vicenda processuale”, si era limitato a prescrivere la necessità di procedere ad un tale accertamento di fatto, la cui omissione avrebbe dovuto ritenersi censurabile unicamente nei termini e nei limiti di cui al n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. (nella versione all’epoca vigente) e risultare decisiva, di regola, solo ai fini della determinazione del quantum debeatur, ma non anche dell’an. Nel caso che viene qui in rilievo la persona offesa – costituitasi parte civile - formulò, peraltro, una domanda di risarcimento dei danni non di carattere generico e nemmeno simbolica, mentre non si riesce a comprendere quale particolare attività istruttoria la stessa avrebbe avuto l’onere di svolgere nel processo penale relativo al disastro (al di là delle allegazioni poste a fondamento della costituzione di parte civile), essendo tale attività propriamente demandata alle parti principali di siffatto processo, ovvero al P.M. e all’imputato (solo per completezza va detto che nemmeno le asserzioni del ricorrente sulla inerzia della parte civile a fronte delle sentenze di assoluzione colgono nel segno: v. provvedimento impugnato a pag. 7, lett. b). In conclusione, deve essere riaffermato in questa sede il principio secondo cui, in tema di ragionevole durata del processo, allorquando venga proposta l'azione civile nel giudizio penale e quest’ultimo si concluda con una sentenza di affermazione della penale responsabilità dell'imputato e di condanna generica dello stesso (o del responsabile civile) al risarcimento del danno da liquidarsi in sede civile, il successivo giudizio civile che venga introdotto per la determinazione in concreto del danno non costituisce un autonomo procedimento e, stante l'identità della pretesa sostanziale azionata, i due giudizi devono essere sottoposti ad una valutazione unitaria, al conseguente fine di addivenire al computo della durata da considerarsi irragionevole e, quindi, indennizzabile ai sensi della legge n. 89/2001 (come ha fatto correttamente la Corte salernitana nel caso di specie). 2. Per effetto della decisione qui adottata risultante pienamente conforme alla proposta formulata - in data 27 marzo 2023 - ai sensi del primo comma dell’art. 380-bis c.p.c., deve trovare applicazione la conseguenza sanzionatoria prevista dall’art. 96, comma 3, c.p.c., come richiamata dall’ultimo comma del medesimo art. 380-bis. Le Sezioni unite di questa Corte (cfr. ordinanze nn. 27433/2023 e 28540/2023) hanno, infatti, stabilito il principio per cui, in tema di procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, l'art. 380-bis, comma 3 c.p.c. (come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022) - che, nei casi di definizione del giudizio in conformità alla proposta, contiene una valutazione legale tipica della sussistenza dei presupposti per la condanna ai sensi del terzo e del quarto comma dell'art. 96 c.p.c. - codifica un'ipotesi normativa di abuso del processo, poiché il non attenersi ad una valutazione del proponente, poi confermata nella decisione definitiva, lascia presumere una responsabilità aggravata del ricorrente (quanto alla disciplina intertemporale sull’applicazione ai giudizi di cassazione – come quello in questione - delle disposizioni di cui all’art. 96, terzo e anche quarto comma, c.p.c., per effetto del rinvio operato dall’ultimo comma dell’art. 380 bis c.p.c. nel testo riformato, v. Cass. SU n. 27195/2023). Diversamente da quanto obiettato dal Ministero della Giustizia, l’applicazione delle “sanzioni” previste dal citato art. 96, commi 3 e 4 c.p.c. (per le quali non possono sussistere dubbi che scattino anche nei confronti della soccombente P.A.), le Sezioni unite non hanno – condivisibilmente - avallato una interpretazione predicatrice della sua applicabilità in termini di automatismo, propendendo, invece, per la sua univoca applicabilità – ovvero in modo certo e rispondente alla ratio di garantire l’effettività della sua funzione dissuasiva, senza possibilità, quindi, di procedere ad una valutazione discrezionale - nei casi di piena conformità della decisione presa all’esito della richiesta di giudizio rispetto al contenuto motivazionale e conclusivo della suddetta proposta contemplata dal primo comma del citato art. 380-bis c.p.c. (v. Cass. SU, ord. n. 36039/2023). Nel caso di specie la conformità è integrale: riguarda non solo l’esito del ricorso, inteso come dispositivo o formula terminativa della deliberazione (nel senso della infondatezza), ma anche le ragioni che tale esito hanno sostenuto, che hanno fatto leva, per l’appunto, sulla necessità della valutazione unitaria dei due giudizi - penale e civile - al fine di determinare la durata irragionevole indennizzabile ai sensi della legge n. 89/2001, in favore del soggetto costituitosi parte civile in quello penale (e che abbia dovuto, poi, introdurre la causa civile per vedersi liquidato il danno conseguente all’affermazione, in via definitiva, della responsabilità penale dell’imputato). 3. Quanto all’obbligo di pagamento di una somma a favore della Cassa delle Ammende, di cui al citato comma 4 (pure – di regola – conseguente in caso di piena conformità della decisione alla proposta anticipata), si evidenzia, innanzitutto, che si tratta di un istituto introdotto dall’art. 3, comma 6 d.lgs. 10.10.2022 n. 149. Ritiene il collegio che – ancora in senso contrario a quanto sostenuto dal Ministero della Giustizia nella sua memoria finale - nulla osta alla sua applicazione nella causa in questione, posto che il beneficiario della sanzione, la Cassa delle Ammende, costituisce un Ente di diritto pubblico autonomo, con soggettività distinta da quella del Ministero obbligato (come, del resto, riconosce lo stesso Ministero nella richiamata memoria, laddove si discorre di “alterità soggettiva che si traduce in una reciproca autonomia finanziaria e contabile”), il quale esercita solo una funzione di vigilanza, e non può, quindi, discorrersi di confusione della relativa obbligazione. La Cassa delle Ammende – come opportunamente posto in risalto dal PG nelle sue conclusioni - è dotata di una propria contabilità (art. 4, comma 4, della legge 9 maggio 1932 n. 547) e di un proprio bilancio (art. 7, comma 1 lett. h), Allegato al DPCM del 10 aprile 2017, n. 102), con fondi destinati a funzioni specifiche (art. 2, comma 2 Allegato). Quindi, la Cassa in questione è – a tutti gli effetti - un ente con personalità giuridica di diritto pubblico istituito con la richiamata legge 9 maggio 1932 n. 547, che ha autonomia amministrativa, regolamentare, patrimoniale, contabile e finanziaria, nei limiti stabiliti dallo Statuto, emanato con il citato DPCM 10 Aprile 2017 n. 102. Essa finanzia programmi e progetti finalizzati al reinserimento sociale delle persone in esecuzione penale e cura la gestione del patrimonio e dei depositi cauzionali. La sua dotazione finanziaria è costituita dal conto depositi e dal conto patrimoniale. Al conto depositi affluiscono tutti i versamenti effettuati a titolo provvisorio o cauzionale. Sul conto patrimoniale sono versate tutte le altre somme ed in particolare quelle devolute alla Cassa per disposizione di legge o per disposizione dell'Autorità Giudiziaria. L’entrata che rileva, in particolare, in questa sede è quella, di carattere corrente, prevista dall’art. 20, comma 2 lett. c), del citato Allegato, destinata a confluire nella gestione separata di cui all’art. 22, comma 1 dello stesso Allegato. 4. In definitiva, il ricorso va respinto, con conseguente condanna del Ministero ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che si liquidano come in dispositivo, con attribuzione ai difensori antistatari della controricorrente. Va, inoltre, disposta – non ostandovi impedimenti normativi o di carattere logico-sistematico, come posto in risalto - l’applicazione del terzo e quarto comma dell’art. 96 c.p.c, richiamati dal novellato art. 380-bis c.p.c. (all’ultimo comma), nei termini di cui in dispositivo. Trattandosi di ricorso in materia di equa riparazione ai sensi della legge n. 89/2021, non si applica l’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, in tema di raddoppio del contributo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente Ministero della Giustizia al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano in complessivi euro 2.000,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario, iva e cpa nella misura e sulle voci come per legge, con distrazione in favore dei difensori della controricorrente. Condanna, altresì, lo stesso Ministero ricorrente al pagamento, a favore della controricorrente ed ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., della somma equitativamente determinata nella misura di euro 1.500,00, nonché al pagamento, in favore della Cassa delle ammende ed in applicazione dell’art. 96, comma 4, c.p.c., della somma di euro 500,00. Così deciso nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte di cassazione, in data 11 aprile 2024. Il Consigliere estensore La Presidente Aldo Carrato Milena Falaschi

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA Presidente ENRICO MANZON Consigliere GIOVANNI LA ROCCA Consigliere-Rel. LUNELLA CARADONNA Consigliere MARIA GIULIA PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Consigliere Oggetto: TRIBUTI ACCERTAMENTO Ud.06/12/2023 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 19424/2015 R.G. proposto da: FORNO ETTORE, domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati TAMBASCO FRANCESCA (TMBFNC84C41C351V), DI PAOLA NUNZIO SANTI GIUSEPPE (DPLNZS67B25C351B); -ricorrente- contro AGENZIA DELLE ENTRATE, domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (ADS80224030587) che la rappresenta e difende; -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. CALTANISSETTA n. 350/2015 depositata il 29/01/2015. Udita la relazione svolta dal Consigliere Giovanni La Rocca nella pubblica udienza del 6 dicembre 2023; Sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alberto Cardino, che ha concluso per l’accoglimento del quinto e del settimo motivo, non essendo comparso nessuno per le altre parti. FATTI DI CAUSA 1. A seguito di PVC di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza di Enna, l’Agenzia delle Entrate notificava al sig. Ettore Forno, in qualità di titolare dell’omonima ditta individuale, in data 01.08.2012, l’avviso di accertamento n.TYU01T200460/2012, con il quale veniva recuperato imponibile per l’anno d’imposta 2010, con conseguenti maggiori imposte IRPEF, IRAP e IVA, oltre interessi e sanzioni correlate. 2. L’Ufficio accertava l’omessa contabilizzazione di incassi, una plusvalenza derivante da cessione d’azienda e ricavi non dichiarati desunti da accertamenti bancari. 3. Il contribuente impugnava, quindi, l’avviso di accertamento e la Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Enna emetteva la sentenza n. 432/01/13, depositata il 20.12.2013, con la quale rigettava il ricorso e condannava il ricorrente alle spese di giudizio. 4. Il contribuente proponeva appello e la Commissione Tributaria Regionale (CTR) della Sicilia, con la sentenza in epigrafe, rigettava il gravame, confermando la decisione di primo grado. 5. La CTR osservava che con l’atto impugnato, correttamente motivato per relationem con riferimento al PVC, regolarmente notificato al Forno, l’Ufficio aveva «adeguatamente motivato, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche poste a base dell’accertamento»; nel merito confermava tutti i rilievi, osservando, in particolare, quanto agli accertamenti bancari che questi pongono una presunzione legale in base alla quale sia i versamenti sia i prelevamenti costituiscono ricavi, mentre è onere del contribuente fornire la prova contraria e, in questo caso, «i prelevamenti contestati dall’Ufficio sono quelli per i quali non è stata fornita alcuna giustificazione e quelli per i quali il contribuente, pur fornendo qualche forma di giustificazione non è stato in grado di produrre idonea documentazione probatoria a supporto, così come precisato a pag. 104 del processo verbale di giustificazione». 6. Il contribuente ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza fondato su quindici motivi. 7. Ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo il ricorrente deducel’«inesistenza giuridica dell’avviso impugnato per carenza del potere dirigenziale del Direttore firmatario» alla luce della sentenza n. 37/2015 della Corte costituzionale, in quanto «pare» che la nomina del Direttore provinciale che aveva sottoscritto l’atto impugnato «rientrerebbe» tra quelle interessate dalla predetta dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 8 comma 24 del d.l. n. 16/2012. 1.1. L'eccezione di inammissibilità sollevata dall’Agenzia, la quale rileva che la questione non era stata proposta con il ricorso iniziale in primo grado, può essere superata trattandosi di ius superveniens per effetto della pronuncia della Corte costituzionale invocata. Il motivo è inammissibile, piuttosto, perché si esprime in maniera ipotetica e dubitativa sul fatto che la nomina del sottoscrittore rientrasse tra quelle interessate dalla pronunzia di incostituzionalità. 1.2. Il motivo, in ogni caso, è infondato alla luce dell’orientamento di questa Corte secondo cui «In tema di accertamento tributario, ai sensi dell'art. 42, commi 1 e 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d'ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell'ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva e, cioè, da un funzionario di area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d'incostituzionalità dell'art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, convertito nella l. n. 44 del 2012» (Cass. n. 22810 del 2015; conf. Cass. n. 5177 del 2020). 2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art.7 dello Statuto del contribuente e dell’art.42 d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., nella parte in cui non è stato annullato l’avviso per mancata indicazione della metodologia di accertamento, essendo insufficiente il riferimento all’art. 39 comma 1 d.P.R. n. 600/1973 che contempla diverse metodologie – l’accertamento analitico e l’accertamento analitico – induttivo - , con conseguente violazione del diritto di difesa del contribuente. 2.1. La censura è infondata, posto che è irrilevante la formale qualificazione della metodologia a fondamento dell’atto da parte dell’Amministrazione finanziaria, essendo essenziale invece che siano chiari i suoi presupposti di fatto e di diritto. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, non è necessaria l'indicazione delle «norme di riferimento», bastando che l'avviso indichi i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che permettano al contribuente di esercitare il proprio diritto difensivo (Cass. n. 9499 del 2017; Cass. n. 28968 del 2008; Cass. n. 3257 del 2002); d’altro canto, all’Amministrazione finanziaria è consentito impiegare sia il metodo di accertamento induttivo che quello analitico- induttivo contemporaneamente, ove consti una complessiva inattendibilità delle scritture contabili la quale, peraltro, non esclude che l’accertamento possa essere fondato anche su elementi contabili (Cass. n.7626 del 2008; Cass. n. 27068 del 2006). 3. Con il terzo motivo il contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art.7 Statuto del contribuente e dell’art.42 d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., nella parte in cui la CTR non ha annullato, per omessa motivazione, l’avviso impugnato che aveva malamente sintetizzato il PVC che non conteneva specifici accertamenti di irregolarità contabili. 3.1. Il motivo è, per un verso, inammissibile e, per altro verso, infondato. 3.2. Il motivo è inammissibile per difetto di specificità e autosufficienza, denunciando genericamente carenze del PVC e acritico recepimento di questo da parte dell’Agenzia ma senza riportare puntualmente il contenuto dell’atto né offrire comunque elementi specifici in grado di circostanziare queste doglianze. 3.4. In ogni caso il motivo è infondato. Come osservato dalla stessa CTR, la motivazione per relationem con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell'esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell'Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l'Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (Cass. n. 32957 del 2018; Cass. n. 30560 del 2017; Cass. n. 21119 del 2011; Cass. n. 8183 del 2011); inoltre, non sussisteva alcun obbligo di allegazione del processo verbale di constatazione all’avviso di accertamento, trattandosi di atto già a conoscenza del contribuente (tra le tante, Cass. n. 28060 del 2017; Cass. n. 16976 del 2012). 4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art.2697 c.c. sul mancato assolvimento dell’onere della prova da parte dell’Agenzia dalle entrate, laddove la CTR ha ritenuto provata l’omessa contabilizzazione di incassi «atteso che il contribuente non è riuscito a provare l’omesso pagamento della somma in questione», invertendo di fatto l’onere della prova e addossando sul contribuente un fatto negativo, quando deve essere l’Amministrazione a dimostrare che il pagamento vi era stato. 4.1. Il motivo è inammissibile, perché non coglie la ratio decidendi, ed è comunque infondato. 4.2. La decisione non si fonda sulla mancata prova di un fatto negativo ma poggia sull’assenza degli adempimenti che fiscalmente fanno ritenere che non vi è materiale imponibile tassabile. Infatti, l’emissione di fattura per operazioni imponibili fa sorgere l’obbligazione tributaria di versamento della relativa IVA, ex art. 6, comma 5, d.P.R. 26.10.1972, n. 633 e l’eventuale mancato pagamento della fattura emessa, per portare all’annullamento dell’obbligazione tributaria di versamento dell’IVA, deve essere contabilizzato mediante nota di credito, ex art. 26, d.P.R. n. 633/1972, la cui emissione non è stata dedotta né tantomeno provata. Ai fini delle imposte dirette, invece, il venir meno dell’imponibile fatturato deve essere registrato come sopravvenienza passiva, ex art. 101 (ex art. 66), d.P.R. 22.12.1986, n. 917 (Cass. n. 7313 del 2003) ma non è stato indicato neppure questo adempimento. 5. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art.86 comma 2 TUIR e dell’art.2 d.P.R. n.460/1996 nella parte in cui non si è annullato il rilievo sulla plusvalenza da cessione di azienda nonché deduce, in relazione all’art.360 comma 1 n. 5 c.p.c., omesso esame circa un fatto decisivo con riferimento alla plusvalenza per cessione di azienda, erroneamente calcolata sulla base di quanto definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro, anziché sulla base del corrispettivo conseguito. 5.1. Il motivo è fondato con riguardo alla violazione di legge, mentre è inammissibile la censura sotto il paradigma del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. non trattandosi di un fatto storico e ricorrendo una c.d. “doppia conforme” (v. § 9.2. e § 9.3.). 5.2. Va rammentato che la norma di interpretazione autentica di cui all'art. 5, comma 3, d.lgs. 14.9.2015, n. 147, avente efficacia retroattiva, esclude che l'Amministrazione finanziaria possa determinare, in via induttiva, la plusvalenza realizzata dalla cessione di immobili e di aziende solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell'imposta di registro, ipotecaria o catastale, dovendo l'Ufficio individuare ulteriori indizi, gravi, precisi e concordanti, che supportino l'accertamento del maggior corrispettivo rispetto a quanto dichiarato dal contribuente, su cui grava la prova contraria (Cass. n. 12131 del 2019; Cass. n. 9513 del 2018; Cass. n. 19227 del 2017); in questo caso, invece, come riportato in sentenza, la plusvalenza accertata deriva dalla rettifica dall’atto ai fini dell’imposta di registro. 6. Con il sesto motivo il ricorrente denunzia, in relazione all’art.360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art.32 d.P.R. n. 600/73 e dell’art.2967 c.c., perché la CTR non ha annullato la ripresa a tassazione dei prelevamenti di cui è stato indicato il beneficiario. 6.1. Il motivo è inammissibile, perché in realtà tenta di rimettere in discussione l’accertamento in fatto svolto dal giudice di merito che è incensurabile come tale nel giudizio di legittimità, ed è comunque infondato. 6.2. Il citato art. 32, n. 2), d.P.R. n. 600/1973, prevede che vengano posti come ricavi o compensi a base delle rettifiche ed accertamenti i prelevamenti o gli importi riscossi nell'ambito dei rapporti bancari, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili. Si pone così una presunzione relativa, di fonte legale, circa la corrispondenza fra versamenti e prelevamenti bancari, non risultanti dalle scritture contabili, e ricavi occultati, che determina in capo al contribuente un preciso ed analitico onere di prova contraria; quest’onere non può essere assolto solo attraverso il ricorso a dichiarazioni di terzi, non potendo queste ultime assurgere né a rango di prove esclusive della provenienza del reddito accertato, né essere idonee, di per sé, a fondare il convincimento del Giudice (Cass. n. 6405 del 2021; Cass. n. 22302 del 2022). Va altresì osservato che l’indicazione del beneficiario non può risolversi nella mera menzione di un nominativo, in quanto ciò permetterebbe facili elusioni della presunzione, ma deve essere accompagnata da una qualche documentazione che giustifichi la causa del prelevamento a favore del terzo o, comunque, da elementi che rendano credibili che tale prelevamento sia stato effettuato al di fuori dell’attività di impresa, in modo che sia fornita prova che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili (tra le altre, v. Cass. n. 15161 del 2020; n. 16896 del 2014). 6.3. Incombeva, quindi, sul ricorrente allegare di aver superato la presunzione attraverso la dimostrazione in modo analitico dell'estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili (Cass. n. 35258 del 2021); solo in questa evenienza il giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all'efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso contribuente, avuto riguardo ad ogni singola movimentazione e dandone conto in motivazione. Nel caso in esame, però, il motivo si sostanzia nella elencazione dei prelevamenti recuperati con indicazione di causali in gran parte generiche, mentre, come riferito in sentenza, il recupero ha riguardato solo i prelevamenti per i quali il ricorrente non è stato in grado di produrre idonea documentazione probatoria a supporto. 7. Con il settimo motivo il ricorrente deducenullità della sentenza per violazione dell’art.32 D.P.R. 600/1973 e art. 53 Cost. nella parte in cui non tiene conto degli eventuali costi per produrre il reddito. 7.1. Il motivo è fondato. 7.2. A seguito della sentenza della Corte cost. n. 10/2023, che ha operato un'interpretazione adeguatrice dell'art. 32, comma 1, n. 2), d.P.R. n. 600/1973, a fronte della presunzione legale di ricavi non contabilizzati, e quindi occulti, scaturente da prelevamenti bancari non giustificati, il contribuente imprenditore può sempre opporre la prova presuntiva contraria, eccependo una incidenza percentuale forfettaria di costi di produzione, che vanno quindi detratti dall'ammontare dei maggiori ricavi presunti (Cass. n. 18653 del 2023; n. 6874 del 2023; v. anche n. 7122 del 2022). 8. Con l’ottavo motivo rileva nullità della sentenza, in relazione all’art.360 comma 1 n. 3 c.p.c., per violazione dell’art.36 d.lgs. n. 546/1992 e 115 c.p.c. avendo la CTR erroneamente ritenuti assorbiti una serie di motivi d’appello, riguardanti singole riprese. e mancato di esaminare i documenti prodotti e mai contestati dall’Ufficio, cosicché risulta un vizio di omessa motivazione che rende nulla la sentenza. 8.1. Il motivo è inammissibile in quanto l'assorbimento erroneamente dichiarato si traduce in una omessa pronunzia (Cass. n. 26520 del 2023; Cass n. 12193 del 2020), che deve essere censurata in sede di legittimità ai sensi dell’art. 112 c.p.c. (Cass. n. 11459 del 2019). In questo caso il motivo si discosta dalle regole in materia secondo cui, la deduzione del vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell'art.112 c.p.c., postula, per un verso, che il giudice di merito sia stato investito di una domanda o eccezione autonomamente apprezzabili e ritualmente e inequivocabilmente formulate e, per altro verso, che tali istanze siano puntualmente riportate nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto del relativo contenuto, con l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l'una o l'altra erano state proposte, onde consentire la verifica, innanzitutto, della ritualità e della tempestività e, in secondo luogo, della decisività delle questioni prospettatevi. Pertanto, non essendo detto vizio rilevabile d'ufficio, la Corte di cassazione, quale giudice del "fatto processuale", intanto può esaminare direttamente gli atti processuali in quanto, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente abbia, a pena di inammissibilità, ottemperato all'onere di indicarli compiutamente, non essendo essa legittimata a procedere ad un'autonoma ricerca, ma solo alla verifica degli stessi (Cass. n. 28072 del 2021). 9. Con i motivi dal nono al quindicesimo il ricorrente denunzia la sentenza impugnata, in relazione all’art.360 comma 1 n.5 c.p.c., per l’omesso esame circa un fatto decisivo della controversia e segnatamente: «non avere annullato la ripresa a tassazione dei versamenti relativi all’acquisto di vendita e di carburante Eni» (motivo 9); «non avere annullato la ripresa a tassazione dei versamenti relativi agli incassi del negozio di telefonia Tim» (motivo 10); «non avere annullato la ripresa a tassazione delle operazioni effettuate quale “anticipo socio”, “finanziamento a favore di Ipsale” (Rosa, Salvatore, Luca, Fortunato), “restituzione finanziamento Ipsale”» (motivo 11); «non avere annullato la ripresa a tassazione delle operazioni neutre» (motivo 12); «non avere annullato la ripresa a tassazione dell’importo di € 90.000,00 relativo all’acquisto dell’appartamento in via Canfora 55 Catania» (motivo 13); «non avere annullato la ripresa a tassazione dell’importo di € 515.000,00 relativo all’acquisto delle quote di Villa Parlapiano» (motivo 14); «non avere annullato la ripresa a tassazione dell’importo di € 300,000,00 relativo all’acquisto di un immobile a Milano alla via Teuliè n.13» (motivo 15). 9.1. Questi motivi sono inammissibili. 9.2. La censura prevista dal novellato art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ossia di un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico- naturalistico, la cui esistenza risulti dalla sentenza o dagli atti processuali, che ha costituito oggetto di discussione tra le parti e che abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) (Cass. n. 13024 del 2022; Cass. n. 14802 del 2017); non possono considerarsi tali né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, né le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio (Cass. n. 10525 del 2022). 9.3. Va considerato, inoltre, che, secondo quanto previsto dall’art. 348 ter, comma 5, c.p.c. (applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), è escluso che possa essere impugnata ex art. 360, n. 5, c.p.c. la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado (c.d. “doppia conforme”), salvo che il ricorrente non dimostri che le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell'appello sono tra loro diverse (Cass. n.5947 del 2023); la “doppia conforme”, peraltro, ricorre non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni sono fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo Giudice (Cass. n. 7724 del 2022). 9.4. In questo caso, da un lato, manca la precisa indicazione dei fatti storici decisivi che la CTR avrebbe omesso di esaminare, poiché le doglianze riguardano la valutazione di mezzi istruttori ovvero istanze difensive, e, dall’altro, il ricorrente non si è fatto carico di superare la preclusione derivante dalla c.d. “doppia conforme”. 10. Conclusivamente, accolti il quinto motivo nei limiti in motivazione e il settimo motivo, rigettati gli altri, la causa deve essere cassata di conseguenza con rinvio alla Corte di merito in diversa composizione che deciderà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. accoglie il quinto motivo nei limiti in motivazione e il settimo motivo, rigettati gli altri, cassa di conseguenza la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, il 06/12/2023. Il Consigliere estensore Il Presidente GIOVANNI LA ROCCA ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA Presidente ENRICO MANZON Consigliere GIOVANNI LA ROCCA Consigliere-Rel. LUNELLA CARADONNA Consigliere MARIA GIULIA PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Consigliere Oggetto: TRIBUTI ACCERTAMENTI BANCARI Ud.06/12/2023 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 18120/2018 R.G. proposto da: FORNO ETTORE, domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato DI PAOLA NUNZIO SANTI GIUSEPPE (DPLNZS67B25C351B); -ricorrente- contro AGENZIA DELLE ENTRATE, domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (ADS80224030587) che la rappresenta e difende; -controricorrente e ricorrente incidentale- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. PALERMO n. 5083/2017 depositata il 18/12/2017. Udita la relazione svolta dal Consigliere Giovanni La Rocca nella pubblica udienza del 6 dicembre 2023, Letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alberto Cardino, che ha concluso per l’accoglimento del primo e terzo motivo di ricorso, non essendo comparso nessuno per le altre parti. FATTI DI CAUSA 1. Secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata, Ettore Forno, titolare di omonima ditta individuale esercente il commercio di prodotti di telefonia, ha impugnato l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate contenente la determinazione di maggiori ricavi e minori costi deducibili per il 2008 con conseguente recupero di imposte. 2. L'accertamento di maggiori ricavi era fondato, per la gran parte, su accertamenti bancari che il contribuente ha contestato osservando che l’Agenzia aveva acriticamente recepito le risultanze del PVC della Guardia di finanza senza svolgere alcun controllo e la Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Enna ha accolto il ricorso, osservando che l’Ufficio non aveva approfondito le giustificazioni rese dal Forno in ordine alle movimentazioni bancarie contestate. 3. Il gravame erariale è stato accolto dalla Commissione Tributaria Regionale (CTR) della Sicilia, la quale ha osservato che l’art. 32 d.P.R. n. 600/1973 in tema di accertamenti bancari pone una presunzione legale a favore dell’Amministrazione, cosicché incombe sul contribuente l’onere di giustificare i versamenti o dimostrare che i prelevamenti erano già stati considerati nella determinazione della base imponibile ovvero erano irrilevanti a quei fini, non essendo onere dell’Amministrazione “approfondire” le proprie indagini sulla base delle giustificazioni fornite dal contribuente. 4. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Forno fondato su cinque motivi. 5. Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate che propone ricorso incidentale fondato su un motivo. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Preliminarmente deve esaminarsi l’eccezione di tardività del ricorso iniziale sollevata dall’Agenzia: notificato l’atto impugnato il 23.2.2012, il contribuente aveva proposto ricorso soltanto il 20.7.2012 confidando, secondo la controricorrente, nel termine di sospensione di gg. 90 di cui all’accertamento con adesione che era stato richiesto con chiari intenti dilatori in quanto l'istanza non conteneva alcuna proposta e il contribuente, invitato al contraddittorio, non si era presentato. 1.1. L'eccezione è infondata. 1.2. La giurisprudenza di legittimità ha affermato che la mancata comparizione del contribuente alla data fissata per la definizione, in via amministrativa, della lite, sia essa giustificata o meno, non interrompe la sospensione del termine di novanta giorni per l'impugnazione dell'avviso di accertamento, in quanto detto comportamento non è equiparabile alla formale rinuncia all'istanza, né è idoneo a farne venir meno ab origine gli effetti (Cass. n. 27274 del 2019). L’effetto sospensivo del termine di impugnazione è automatico (Cass. n. 21096 del 2018) e non può dipendere da indagini sulla effettiva intenzione del contribuente di addivenire ad un accordo transattivo, pena l’intollerabile incertezza sulla operatività della sospensione e sul verificarsi della decadenza dall’impugnazione che, per loro stessa natura, debbono essere ancorate unicamente ad eventi oggettivi e immediatamente verificabili. 2. Passando al ricorso principale, con il primo motivoil contribuente deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 nn. 3 e 4, nullità della sentenza per assoluto difetto di motivazione in violazione degli artt. 36 e 61 d.lgs. n. 546/1992 in quanto la motivazione resa dalla CTR non dava conto della complessa articolazione delle controdeduzioni in appello. 3. Con il secondo motivodeduce, in relazione all’art. 360 comma 1 nn. 3 e 4 c.p.c., nullità della sentenza per assoluto difetto di motivazione e omesso esame circa un fatto decisivo nella parte in cui la CTR non si è pronunciata sull’eccezione di inesistenza giuridica dell’avviso impugnato per carenza del potere dirigenziale del direttore firmatario, alla luce della sentenza n. 37/2015 della Corte costituzionale, e ciò in quanto «pare» che la nomina del Direttore Provinciale che aveva sottoscritto l’atto impugnato «rientrerebbe» tra quelle interessate dalla predetta dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 8 comma 24 del d.l. n. 16/2012. 4. Con il terzo motivo deduce, in relazione agli artt. 360 comma 1 nn. 3 e 4, nullità della sentenza per assoluto difetto di motivazione, violazione e falsa applicazione dell’art. 32 d.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 51 del d.P.R. n. 633/1972, avendo la CTR accolto l’appello dell’Ufficio senza esaminare le giustificazioni che il contribuente aveva fornito in ordine alle movimentazioni bancarie contestate né precisare perché quelle giustificazioni, che il Giudice di prime cure aveva ritenuto «affidabili», erano state invece disattese in appello. 5. Con il quarto motivo deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 nn. 4 e 5 c.p.c., «nullità della sentenza per assoluto difetto di motivazione e omesso esame circa un fatto decisivo nella parte in cui si contesta l’acquiescenza parziale della sentenza per non aver l’Ufficio indicato la categoria di reddito cui ascrivere l’imponibile recuperato»: in sostanza, il ricorrente rileva che nel giudizio d’appello si era eccepita l’acquiescenza dell’Agenzia sul capo della sentenza di primo grado che aveva annullato l’accertamento perché non era stata indicata la categoria di reddito a cui ascrivere il rilevante imponibile recuperato, «certamente non correlabile all’attività economica esercitata», poiché l’appellante aveva contestato solo l’idoneità della documentazione prodotta a giustificare i movimenti bancari contestati; su tale eccezione, mai contestata dall’Ufficio, la CTR non si era pronunziata. 6. Con il quinto motivo deduce, in relazione agli artt. 360 comma 1 nn. 4 e 5 c.p.c., nullità della sentenza per assoluto difetto di motivazione e omesso esame di fatti decisivi riportati nei rilievi indicati nelle controdeduzioni (da pagg. 18 a pag. 74) e mai esaminati dalla CTR, così riassunti in ricorso: I) nullità dell’accertamento per insanabile difetto di motivazione, mancata indicazione della metodologia di accertamento (pagg. 18-21); II nullità dell’accertamento per aver omesso l’Ufficio qualsiasi controllo o confronto nei riguardi del contribuente (pagg. 21-22); III infondatezza dei rilievi relativi alla presunta inattendibilità della contabilità (pagg. 23-27); IV sulle indagini finanziarie (pagg. 27- 76). 7. Il primo motivo è infondato. 7.1. E’ noto chenon essendo più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi - che si convertono in violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale", di "motivazione apparente", di "manifesta ed irriducibile contraddittorietà" e di "motivazione perplessa od incomprensibile", purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata (Cass. n. 23940 del 2018; Cass. sez. un. 8053 del 2014), a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (v., ultimamente, anche Cass. n. 7090 del 2022). Questa Corte ha, altresì, precisato che «la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da "error in procedendo", quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture» (Cass., sez. un., n. 22232 del 2016; conf. Cass. n. 9105 del 2017). 7.2. In questo caso la motivazione raggiunge il c.d. “minimo costituzionale” ed esprime chiaramente la sua ratio decidendi, fondata sull’inottemperanza da parte del contribuente all’onere di prova a suo carico, «per i versamenti e i prelevamenti non giustificati», al fine di superare la presunzione legale posta dall’art. 32 comma 2 cit. a favore dell’Amministrazione, la quale, prosegue la CTR, non è tenuta ad approfondire le giustificazioni rese dal contribuente in ordine alle movimentazioni contestate, come erroneamente ritenuto dai giudici di prime cure. 8. Il secondo motivo è inammissibile per difetto di specificità e autosufficienzaesprimendosi in maniera ipotetica e dubitativa sul fatto che la nomina del soggetto che aveva sottoscritto l’atto rientrasse tra quelle incise dalla pronunzia di incostituzionalità. 8.1. Il motivo, in ogni caso, è infondato nel merito alla luce di Cass. n. 22810 del 2015 secondo cui «In tema di accertamento tributario, ai sensi dell'art. 42, commi 1 e 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d'ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell'ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva e, cioè, da un funzionario di area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d'incostituzionalità dell'art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, convertito nella l. n. 44 del 2012» (conf. Cass. n. 5177 del 2020). 9. Il terzo motivo è inammissibile. 9.1. In tema di accertamenti bancari, grava sul contribuente l'onere di superare la presunzione di legge dimostrando in modo analitico l'estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili, in questo caso il Giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all'efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso contribuente, avuto riguardo ad ogni singola movimentazione e dandone conto in motivazione(Cass. n. 35258 del 2021). Tale preciso ed analitico onere della prova contraria non può essere assolto solo attraverso il ricorso a dichiarazioni di terzi, non potendo queste ultime assurgere né a rango di prove esclusive della provenienza del reddito accertato, né essere idonee, di per sé, a fondare il convincimento del Giudice (Cass. n. 6405 del 2021; Cass. n. 22302 del 2022); con riguardo ai prelevamenti, in particolare, non è sufficiente neppure la mera indicazione del nominativo dell’asserito beneficiario, in quanto ciò permetterebbe facili elusioni della presunzione, ma la deduzione deve essere accompagnata da una qualche documentazione che giustifichi la cagione del prelevamento a favore del terzo o, comunque, da elementi che rendano credibili che tale prelevamento sia stato effettuato al di fuori dell’attività di impresa, in modo da fornire la prova che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili (Cass. n. 16896 del 2014; Cass. n. 13035 del 2012; Cass. n. n. 25502 del 2011). 9.2. La denunzia dell’omessa verifica da parte del giudice di merito delle prove fornite dal contribuente, da svolgersi con riguardo ad ogni singola movimentazione e dandone conto in motivazione (Cass. n. 15161 del 2020; Cass. n. 16896 del 2014), presuppone quindi che il contribuente abbia dedotto in modo analitico l'estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili; in questo caso, in cui l’Agenzia ha chiarito che l’avviso impugnato aveva riguardato soltanto le movimentazioni bancarie su cui non si era data alcuna giustificazione o la giustificazione era sprovvista di idonea documentazione, il motivo difetta di autosufficienza; il ricorrente non ha allegato le analitiche giustificazioni e prove relative alle movimentazioni bancarie contestate, che il giudice di merito avrebbe dovuto verificare e valutare; la doglianza resta estremamente generica, manca di puntuali riferimenti alle deduzioni difensive e a tale carenza non può supplire il mero richiamo della sentenza di primo grado che aveva ritenuto «affidabili» le giustificazioni del contribuente. 10. Anche il quarto motivo è inammissibile e, in ogni caso, la questione proposta è infondata. 10.1. Da un lato, come già si è osservato, non ricorre nella sentenza impugnata un difetto assoluto di motivazione e, dall’altro, non è ravvisabile nel motivo l’omesso esame di un fatto decisivo denunciandosi una questione riguardante l’interpretazione e valutazione degli atti processuali (sul contenuto del “fatto decisivo”, v. par. 11.2); il motivo tende, piuttosto, all’esame di quella questione ma non si confronta con il principio, affermato da questa Corte, secondo cui la mancata impugnazione di una o più affermazioni contenute nella sentenza può dare luogo alla formazione del giudicato interno soltanto se le stesse siano configurabili come capi completamente autonomi, risolutivi di questioni controverse che, dotate di propria individualità ed autonomia, integrino una decisione del tutto indipendente, e non anche quando si tratti di mere argomentazioni, oppure della valutazione di presupposti necessari di fatto che, unitamente agli altri, concorrano a formare un capo unico della decisione (Cass. n. 20951 del 2022; Cass. n. 40276 del 2021; Cass. n. 21566 del 2017; Cass. n. 4732 del 2012); in questo caso, la questione non costituisce autonoma ratio decidendi ma è uno dei profili cui deve estendersi, secondo i Giudici di primo grado, l’onere di prova in capo all’Agenzia che peraltro, denunziando «violazione degli artt. 32 del dpr 600 del 1973 e 51 del dpr 633 del 19872 in relazione alle indagini finanziarie» nonché «omessa carente ed erronea motivazione» (v. sentenza della CTR), ha aggredito in termini assai ampi la sentenza di primo grado, in modo da ricomprendere nel gravame anche quel profilo. 11. Il quinto motivo, infine, è inammissibile sotto svariati profili. 11.1. Anche in questo caso la doglianza presenta un difetto di autosufficienza in quanto non riporta i “fatti decisivi” il cui esame sarebbe stato omesso ma il contribuente si limita a rinviare alle sue corpose controdeduzioni difensive in appello (da pag. 18 a pag. 74 delle controdeduzioni), lasciando alla Corte il compito di ricercare ed individuare quegli elementi che, invece, era suo onere indicare in maniera puntuale. 11.2. Dalla riassuntiva esposizione, poi, si desume che l’omesso esame lamentato non riguarda tanto fatti storici decisivi quanto la valutazione di elementi probatori e la valutazione di singole doglianze e allegazioni difensive. La censura di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, deve riguardare un fatto storico, principale o secondario, ossia un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico- naturalistico, la cui esistenza risulti dalla sentenza o dagli atti processuali, che ha costituito oggetto di discussione tra le parti e ha carattere decisivo (Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017), senza che possano considerarsi tali né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, né le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio (ex multis, v. Cass. n. 10525 del 2022; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 5795 del 2017). 12. Con l’unico motivo di ricorso incidentale,l’Agenzia delle entrate ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. da parte della CTR che non si era pronunciata con riguardo a maggiori ricavi per euro 11.665,95, relativi a incassi documentati con scontrino fiscale su cui non era stata riportata l’annotazione “corrispettivo non pagato”. 12.1. Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza mancando la puntuale indicazione della riproposizione del rilievo come motivo d’appello contro la sentenza di primo grado che aveva annullato per intero l’avviso di accertamento. La deduzione della violazione dell'art.112 c.p.c. in sede di legittimità postula che la parte abbia formulato la domanda o l'eccezione in modo autonomamente apprezzabile ed inequivoco e che la stessa sia stata puntualmente riportata nel ricorso per cassazione nei suoi esatti termini, con l'indicazione specifica dell'atto difensivo o del verbale di udienza in cui era stata proposta (Cass. n. 16899 del 2023; Cass. n. 29952 del 2022; Cass. n. 28184 del 2020); Pertanto, non essendo detto vizio rilevabile d'ufficio, la Corte di cassazione, quale giudice del "fatto processuale", intanto può esaminare direttamente gli atti processuali in quanto, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente abbia, a pena di inammissibilità, ottemperato all'onere di indicarli compiutamente, non essendo essa legittimata a procedere ad un'autonoma ricerca, ma solo alla verifica degli stessi (Cass. n. 28072 del 2021). 13. Conclusivamente devono essere rigettati entrambi i ricorsi e la reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese. P.Q.M. rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; compensa le spese; Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13. Così deciso in Roma, il 06/12/2023. Il Consigliere estensore Il Presidente GIOVANNI LA ROCCA ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Milena FALASCHI - Presidente Aldo CARRATO - Consigliere Rel. Antonio SCARPA - Consigliere Chiara BESSO MARCHEIS - Consigliere Remo CAPONI - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso (iscritto al N.R.G. 31743/2018) proposto da: BANFI LORENZO MAURO e REALI DAVID, rappresentati e difesi, in virtù di distinte procure speciali allegate al ricorso, dagli Avv.ti Claudio Bonora, Roberto Ferretti e Federico Sorrentino, elettivamente domiciliati presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, Lungotevere delle Navi, n. 30; - ricorrenti - contro BANCA D’ITALIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura rilasciata su separato foglio allegato materialmente al controricorso, dagli Avv.ti Stefani Ceci, Monica Marcucci e Nicola De Giorgi, elettivamente domiciliata presso i medesimi, in Roma, v. Nazionale, n. 91; - controricorrente - avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 4459/2018 (pubblicata il 2 luglio 2018); udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’11 aprile 2024 dal Consigliere relatore Aldo Carrato; R.G.N. 31743/2018 P.U. 11/04/2024 SANZIONI AMMINISTRATIVE udito il P.M., in persona del Sostituto P.G. Alberto Cardino, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso; udito l’Avv. Claudio Bonora, per i ricorrenti, e l’Avv. Nicola De Giorgi, per la controricorrente. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Con provvedimento del 23 ottobre 2012 n. 890349, approvato con deliberazione del Direttorio n. 689/2012, la Banca d’Italia definitiva il procedimento sanzionatorio instaurato, tra gli altri, contro Lorenzo Mauro Banfi e David Reali, quali componenti del collegio sindacale della Banca Network Investimenti spa, a seguito degli accertamenti ispettivi di vigilanza eseguiti dal 30 maggio al 30 settembre 2012, all’esito dei quali veniva irrogata, nei riguardi di ciascuno degli stessi, la sanzione pecuniaria di euro 15.000,00. Ai citati sanzionati era stato contestato l’illecito riconducibile alle carenze nei controlli imposti dall’art. 53, comma 1, lett. b) e d) del d. lgs. n. 385/1993, nonché delle norme contenute nel tit. IV cap. 11 delle Istruzioni di vigilanza delle banche – circ. 229/1999, nonché nel tit. I cap. I, parte IV, delle nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche, circ. 263/2006 – disposizioni di vigilanza del 4 marzo 2008 in materia di organizzazione e governo societario delle banche. Il Banfi e il Reali proponevano opposizione avverso la suddetta delibera sanzionatoria dinanzi al TAR Lazio, il quale – con sentenza del 25 febbraio 2015 – dichiarava il proprio difetto di giurisdizione. A seguito della riassunzione avanti alla Corte di appello di Roma, nella resistenza della Banca d’Italia e con l’intervento del PG presso la stessa Corte laziale, le opposizioni venivano integralmente respinte con sentenza n. 4459/2018, ravvisandosi l’insussistenza: a) della dedotta violazione dell’art. 14 della legge n. 689/1981, avuto riguardo all’asserita tardività della contestazione dell’addebito, avvenuta oltre il novantesimo giorno dall’accertamento del 30 settembre 2011; b) della denunciata violazione della mancata corrispondenza tra contestazione e condotta sanzionata; c) della prospettata carenza, erroneità e motivazione dell’impugnata delibera sanzionatoria; d) dell’erroneità dell’accertamento di condotte illecite ascrivibili a componenti del collegio sindacale della Banca Network Investimenti; e) della sproporzione ed incongruità della misura delle sanzioni irrogate. 2. Contro la suddetta sentenza di rigetto della Corte di appello di Roma hanno formulato un congiunto ricorso per cassazione Banfi Lorenzo Mauro e Reali David, affidato a otto motivi (di cui il primo riferibile, in via esclusiva, al solo Reali). Ha resistito con controricorso la Banca d’Italia. Il PG e i difensori di entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo David Reali denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 140 c.p.c., per aver la Corte di appello ritenuto – con la sentenza impugnata - tempestiva la notifica del verbale di avvio del procedimento sanzionatorio, da considerarsi, invece, affetta da nullità. In particolare, il Reali lamenta che la procedura notificatoria di cui all’art. 140 c.p.c. non era stata correttamente eseguita, in quanto esso ricorrente non aveva reperito l’avviso del deposito presso la Casa comunale, che avrebbe dovuto essere affisso sulla porta della sua casa di abitazione. Per contro, si evidenzia che la Corte di appello aveva preso in esame la questione della scissione degli effetti della notificazione fra mittente e destinatario, la quale, tuttavia, non era stata dallo stesso sollevata in giudizio con l’atto di opposizione. 1.1. Il motivo non coglie nel segno e va disatteso. Diversamente da quanto con esso prospettato, la Corte di appello non è incorsa nella dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., dal momento che ha posto riferimento alla richiamata rilevata distinzione relativa alla scissione degli effetti della notificazione fra notificante e notificatario proprio per desumerne che, nella fattispecie, non si era venuta a verificare la supposta violazione dell’art. 140 c.p.c. La Corte laziale, proprio sulla base di questo ormai pacifico presupposto giuridico (che trova applicazione anche nell’ambito dei procedimenti sanzionatori amministrativi: cfr. Cass. SU n. 12332/2017, Cass. n. 28388/2017 e Cass. n. 20515/2020), ha ritenuto legittima e tempestiva la notificazione dell’atto di contestazione dell’addebito nei confronti del Reali, rilevando che, a fronte della definizione dell’accertamento avvenuto il 30 settembre 2011, si era provveduto all’invio del suddetto atto di contestazione, da parte della Banca d’Italia, con la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario il 21 dicembre 2011 e, quindi, entro il termine decadenziale di legge. A tal proposito la Corte di appello ha opportunamente richiamato, considerandolo applicabile, quanto statuito dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 12332/2017, con cui è stato affermato che il principio della scissione degli effetti della notificazione tra il notificante ed il destinatario dell'atto trova applicazione anche per gli atti del procedimento amministrativo sanzionatorio - non ostandovi la loro natura recettizia – tutte le volte in cui dalla conoscenza dell'atto stesso decorrano i termini per l'esercizio del diritto di difesa dell'incolpato e, ad un tempo, si verifichi la decadenza dalla facoltà di proseguire nel procedimento sanzionatorio in caso di omessa comunicazione delle condotte censurate entro un certo termine, dovendo bilanciarsi l'interesse del notificante a non vedersi imputare conseguenze negative per il mancato perfezionamento della fattispecie "comunicativa" a causa del fatto di terzi che intervengano nella fase di trasmissione del contenuto dell'atto e quello del destinatario a non essere impedito nell'esercizio di propri diritti, compiutamente esercitabili solo a seguito dell'acquisita conoscenza del contenuto dell'atto medesimo. Pertanto, a questi fini, non rileva che l’esecuzione della notificazione sia avvenuta ai sensi dell’art. 140 c.p.c., senza trascurare il dato che lo stesso ricorrente ha attestato di aver ricevuto il plico, con effetto perciò sanante e tale da consentirgli il pieno dispiegamento delle sue attività difensive (cfr. Cass. n. 11713/2011 e Cass. n. 19522/2016). Oltretutto, per quanto evincibile dagli atti acquisiti in causa (esaminabili anche nella presente sede, vertendosi in un caso di denuncia di un vizio processuale), è emerso che il timbro apposto dall’ufficiale giudiziario che aveva proceduto alla notificazione dell’atto di contestazione degli addebiti ai sensi dell’art. 140 c.p.c. reca la data del 28 dicembre 2011 e nella stessa data il medesimo aveva compiuto le attestazioni relative all’affissione dell’avviso di deposito alla porta del destinatario e all’invio di altro avviso R.R. con spedizione presso il domicilio dello stesso Reali comunicandogli l’avvenuto deposito, così risultando completata la procedura notificatoria prevista dal citato art. 140 del codice di rito (peraltro, per vincere tali attestazioni effettuate dall’ufficiale giudiziario, occorreva proporre – rimedio che non risulta, invece, essere stato esperito dal Reali - querela di falso, stante la natura fidefaciente della relazione di notificazione: v., ad es., Cass. n. 1699/2019 e, già, Cass. n. 1125/1998). Pertanto, deve ritenersi che, ai fini del rispetto del termine di cui all’art. 14 della legge n. 689/1981, non costituisce elemento integrante della notificazione l’effettiva conoscenza acquisita dal destinatario in una data successiva, la quale – semmai – esercita la sua efficacia sulle attività di cui costui ha diritto di avvalersi, quali la presentazione delle proprie controdeduzioni, il cui termine di 30 giorni previsto dal TUB viene a decorrere dalla data di ricezione del plico, avvenuta, nel caso di specie, il 10 gennaio 2012 (come dallo stesso ricorrente ammesso: cfr. pag. 8 del ricorso). 2. Con il secondo motivo di ricorso sia il Banfi che il Reali deducono la violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della legge n. 241/1990 e dell'art. 97 Cost., sul presupposto che la Corte di appello avrebbe, erroneamente, ritenuto corretta la motivazione del provvedimento sanzionatorio. La censura è priva di pregio. A tale proposito, occorre rilevare che l’atto sanzionatorio, pur se sostanzialmente riproduttivo degli esiti delle operazioni ispettive, non può certo, per tale motivo soltanto, essere considerato insufficientemente motivato (v., ad es., Cass. n. 10745/2015), rispondendo, pertanto, per quanto in modo essenziale, alle doglianze mosse dai ricorrenti, non risultando, perciò, integrata la violazione del diritto di difesa ed al contraddittorio degli stessi. Va, oltretutto, ricordato che – sul piano generale – il provvedimento sanzionatorio con cui la P.A., disattendendone le deduzioni difensive, irroga al trasgressore una sanzione amministrativa è censurabile dal giudice dell'opposizione, sotto il profilo del vizio motivazionale, unicamente nel caso in cui sia del tutto privo di motivazione (ovvero quando questa sia solo apparente) e non anche se la stessa risulti insufficiente, atteso che l'eventuale giudizio di inadeguatezza motivazionale involge una valutazione di merito che non compete al giudice ordinario, concernendo il giudizio di opposizione non l'atto della P.A., ma il rapporto sottostante (Cass. SU n. 1786/2010, Cass. n. 2959/2016 e Cass. n. 12503/2018). Nel caso di specie, oltretutto, vengono in rilievo sanzioni amministrative irrogate ex art. 144 TUB, le quali non sono comparabili a quelle di cui all’art. 187-ter TUB, e quindi non possono considerarsi del tutto soggette al regime di garanzie proprio del processo penale (Cass. n. 3656/2016 e Cass. n. 16517/2020). 3. Con il terzo motivo i due ricorrenti denunciano la nullità della sentenza o del procedimento per omessa pronuncia sull’eccezione di violazione dei principi di colpevolezza e personalità, previsti dagli artt. 3 e 6 della legge n. 689/1981, stante l’uniformità degli addebiti mossi indistintamente a tutti i membri degli organi amministrativi e di controllo della BANCA NETWORK INVESTIMENTI – BNI S.p.a. Diversamente da quanto denunciato, il Collegio rileva che – per come chiaramente emergente dallo sviluppo motivazionale contenuto nelle pagg. 10-11 della sentenza impugnata - risultano essere stati evidenziati i puntuali doveri incombenti sugli organi di controllo societari e, in particolare, le carenze concretamente rilevate nello svolgimento di tale specifica attività rispetto agli organi di amministrazione. Da ciò consegue l’insussistenza del dedotto vizio di omessa pronuncia. 4. Con il quarto motivo i ricorrenti prospettano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2403 c.c., dell'art. 53, comma 1, lett. b) e d), TUB, nonché delle norme contenute nel Titolo IV, Capitolo 1 delle Istruzioni di vigilanza per le Banche di cui alla Circolare n. 229/99 della Banca d'Italia; nel Titolo I, Capitolo 1, parte quarta delle Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le Banche, di cui alla circolare n. 263/06 della Banca d'Italia e, infine, nelle Disposizioni di vigilanza in materia di organizzazione e governo societario delle banche, adottate dalla Banca d'Italia con provvedimento del 4 marzo 2008, in ordine al contenuto degli obblighi di controllo del Collegio sindacale. In sostanza, con tale censura, i ricorrenti denunciano, nel ripercorrere le motivazioni del provvedimento sanzionatorio, che la Corte di appello avrebbe avvalorato l’attribuzione ai sindaci della citata banca (qualità rivestita dal Banfi e dal Reali) della funzione di valutare nel merito la convenienza ed opportunità delle scelte gestorie societarie, obliterando, però, di considerare che al collegio sindacale non compete l’organizzazione delle funzioni di controllo interno, spettanti alla governance bancaria. La censura è priva di fondamento. La sentenza impugnata si è, infatti, uniformata alla giurisprudenza – ormai costante – di questa Corte, alla stregua della quale sono stati enunciati i seguenti principi: - in tema di sanzioni amministrative pecuniarie applicabili ai sensi degli artt. 144 e 145 TUB, il componente del collegio sindacale è imputabile a titolo di dolo o di colpa per l'omesso o il difettoso compimento, cosciente e volontario, dei doveri di controllo e di ispezione di cui all'art. 2403, terzo comma, c.c., non diversamente da quanto previsto dalla disciplina generale dell'illecito amministrativo di cui alla legge n. 689 del 1981 che esclude forme di responsabilità oggettiva; - in materia di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia bancaria, i componenti del collegio sindacale, i quali, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la corretta gestione societaria, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo "quoad functione", gravando sui sindaci, da un lato, l'obbligo di vigilanza in funzione non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche della verifica dell'adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno della società, secondo i parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare di vigilanza e, dall'altro lato, l'obbligo legale di denuncia immediata alla Banca d'Italia. In altri termini, diversamente da quanto prospettato con il motivo in esame, non si tratta di imputare ai sindaci una responsabilità per il compimento di operazioni irregolari o illecite da parte di altri, né di sottoporre gli organi amministrativi ad un controllo sul merito delle scelte gestionali, ma di esigere l’esercizio tempestivo dei poteri ispettivi che la legge pone a carico dei sindaci, esercizio che, nella specie, la Corte di appello di Roma ha accertato essere mancato con una motivazione del tutto logica e sufficiente, perciò insindacabile nella presente sede di legittimità. Al riguardo, la citata Corte (v., soprattutto, pagg. 13-14 della motivazione della sentenza qui impugnata) ha adeguatamente evidenziato l’assenza di iniziative volte a far emergere e a rimuovere le anomalie e le irregolarità rilevate (sul punto, v. Cass. SU n. 20934/2009 e, già con specifico riferimento alle sanzioni ex art. 144 TUB, Cass. n. 5239/2008), non essendosi i medesimi attivati per far emergere gli indici di criticità correlati all’attività gestoria bancaria (tra i quali la larga diffusione di condotte scorrette dei promotori, la vendita di prodotti rischiosi senza adeguate cautele, il ritardo nella segnalazione dell’applicazione della normativa antiriciclaggio). 5. Con il quinto motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione della disciplina normativa regolatrice del riparto dell’onere probatorio, di cui all’art. 2697 c.c. ed all'art. 3 della legge n. 689/1981 (in rapporto all’art. 115 c.p.c.), sostenendosi che la Corte di appello avrebbe conferito rilevanza unicamente alle risultanze degli accertamenti ispettivi, senza considerare le controdeduzioni documentali degli stessi ricorrenti, fra le quali il rapporto della BANCA D’ITALIA 18.10.2012 prot. 0873007/12, che aveva escluso qualsivoglia responsabilità, e degli organi gestori e degli organi di controllo, per le perdite patrimoniali subite da BNI. Contrariamente a quanto sostenuto con la formulata censura, deve evidenziarsi che la Corte di appello non si è limitata a recepire acriticamente e pedissequamente le risultanze degli accertamenti ispettivi, ma ha provveduto a vagliare autonomamente e in modo tra loro coordinato varie circostanze fattuali, fra cui: il significativo contenzioso sviluppatosi a seguito della offerta di prodotti finanziari non adeguati, nel periodo di operatività dell’organo sindacale di controllo; il non aver impedito, quindi, un’estesa diffusione di vendita incauta di prodotti ad elevata rischiosità per la clientela (oltretutto riferita ad una banca di piccole dimensioni) e – come già evidenziato - il ritardo nell’adozione della normativa antiriciclaggio. Peraltro, è appena il caso di aggiungere che il riferimento al su citato rapporto della Banca d’Italia concerne unicamente lo specifico problema della diminuzione della patrimonialità della BNI, ma non esclude in alcun modo che all’organo di controllo fossero addebitabili specifiche omissioni nelle loro funzioni. 6. Con il sesto motivo i ricorrenti denunciano l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, con riferimento all’arco temporale degli accertamenti ispettivi. Si deduce che tali accertamenti avrebbero posto riferimento unicamente a fatti occorsi fra il maggio 2010 e il settembre 2011, senza considerare quelli anteriori, sui quali la stessa Banca d’Italia aveva condotto un accertamento ispettivo diverso da quello oggetto della presente causa, riferibile sino alla data del 17.10.2008, conclusosi senza la contestazione di addebiti. Diversamente da quanto opinato dai ricorrenti, la Corte di appello ha adeguatamente chiarito che l’esclusione della responsabilità del sindaco Favalesi era giustificata dal fatto che egli aveva cominciato a svolgere il suo incarico dal 27 aprile 2010, nel mentre il Banfi e il Reali lo avevano assunto a far data dal 26.9.2007 e che le loro omissioni di vigilanza - nel corso del periodo in cui essi avevano rivestito tale qualità - erano state verificate con gli accertamenti ispettivi che erano stati poi posti a fondamento della impugnata delibera sanzionatoria. La circostanza della contestata “perimetrazione temporale” risulta, dunque, essere stata esaminata. 7. Con il settimo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 53, 144 e 145 TUB in relazione al rilievo ispettivo n. 11), con il quale si contestava la mancata osservanza delle prescrizioni antiriciclaggio, di cui all’art. 7, d.lgs. 231/2007, fattispecie estranea al potere di controllo degli Istituti di credito e di normazione secondaria della Banca d’Italia, di cui al citato art. 53 TUB. A tal proposito va rilevato che l’area applicativa dell’art. 53 TUB concerne il controllo interno (comma 1, lett. d) e il contenimento del rischio (comma 1, lett. b) e la violazione della relativa normativa secondaria trova la disciplina sanzionatoria nell’art. 144 TUB. Nel caso, non risulta essere stato applicato il procedimento sanzionatorio previsto dall’art. 56 del d.lgs. 231/2007, che pertanto non viene in rilievo nella vicenda dedotta in causa. 8. Con l’ottavo ed ultimo motivo i ricorrenti denunciano l’omessa pronuncia sulla dedotta incompetenza della Banca d’Italia all’irrogazione di sanzioni concernenti la prestazione di servizi di investimento, da intendersi, invece, devoluta alla competenza CONSOB dal TUF. La doglianza è priva di fondamento, dal momento che la Corte di appello ha preso specifica posizione sulla questione (v. ultima parte di pag. 11 e la prima della successiva pag. 12), rilevando che le sanzioni irrogate al Banfi e al Reali attenevano alla violazione della disciplina dell’attività di controllo interno e non invadevano, pertanto, la sfera di attribuzioni propria della CONSOB. Più specificamente nella sentenza impugnata è stato correttamente posto in risalto che non aveva rilievo che la contestata carenza nei controlli interni concernesse anche l’attività di collocamento tra i clienti della banca di prodotti finanziari soggetta a vigilanza della CONSOB, poiché la contestazione e la conseguente sanzione applicata avevano riguardato i controlli interni della banca e l’adeguatezza dell’attività di controllo da esercitarsi sulle funzioni societarie e non esorbitavano, quindi, dai compiti di vigilanza sulle banche assegnati alla Banca d’Italia. È da escludersi, quindi, la sussistenza della dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c. 9. In definitiva, il ricorso va integralmente respinto, con conseguente condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo. Infine, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 3.700,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali in misura del 15%. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1- bis dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte di cassazione, in data 11 aprile 2024. Il Consigliere estensore La Presidente Aldo Carrato Milena Falaschi

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta da Biagio Virgilio- Presidente - Giovanni La Rocca- Consigliere -R.G.N. 13356/2021 Giuseppe Fuochi Tinarelli- Consigliere -Cron. Pierpaolo Gori- Consigliere Rel. -PU - 14/2/2024 Salvatore Leuzzi- Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 13356/2021 R.G. proposto da ANTONIO PAPADIA, ARTY SHOW S.A.R.L., in persona del legale rap- presentante p.t. ELISABETH SCHRURS, rappresentati e difesi dall’Avv. Massimo Mambelli, domiciliati presso la Cancelleria della Corte di cas- sazione; – ricorrenti – Oggetto: dogane - san- zioni amministrative - cir- colazione veicoli extra UE in Italia –principi di diritto contro AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12; – controricorrente – avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna, n.1516/4/2020 depositata il 22 dicembre 2020, non notifi- cata. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 14 febbraio 2024 dal consigliere Pierpaolo Gori. Udita per la controricorrente l’Avv. Eva Ferretti. Udite le conclusioni del Pubblico Ministero in persona del Sostituto Pro- curatore Generale dott. Tommaso Basile, nel senso del rigetto del ri- corso. Fatti di causa 1. Con sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Ro- magna veniva rigettato l’appello proposto dalla società di diritto sviz- zero ARTY SHOW S.A.R.L., Papadia Antonio, in proprio, e da Schrurs Elisabeth, n.q. di legale rappresentante della società, avverso la sen- tenza n.12/1/2020 emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Forlì la quale aveva rigettato il ricorso dei contribuenti avverso l’atto di contestazione al Papadia, avente ad oggetto le sanzioni amministrative ex art.216 d.P.R. n.43/1973 (TULD) n.24100-3-2019 prot. 5193/RU e il provvedimento di confisca amministrativa ex art.301 TULD dell’auto- veicolo Land Rover tg. VD76196 immatricolato in Svizzera di cui la so- cietà era proprietaria. 2. In particolare, le riprese traevano origine dalla contestazione da parte della polizia municipale di Forlì al Papadia della violazione della normativa doganale per la circolazione in territorio italiano del veicolo svizzero, al di fuori dei presupposti per il regime di ammissione tem- poranea del mezzo per sei mesi. 3. Il giudice di prime cure, premessa la legittimazione del Papadia in qualità di autore materiale della condotta e della Schrurs quale legale rappresentante della società, rigettava il ricorso introduttivo in appli- cazione del d.P.R. n.43/1973 per il mancato rispetto delle formalità doganali prescritte per la circolazione in territorio nazionale di veicoli appartenenti a soggetti non residenti. 4.Il giudice d’appello condivideva la sussunzione della fattispecie, ra- tione temporis, nel Regolamento UE n.2013/952 (CDU) e nel Regola- mento delegato UE n.2015/2446 integrativo, ricostruzione proposta dai contribuenti in luogo di quella, considerata parzialmente erronea- mente, individuata dalla CTP. Tuttavia, il giudice rigettava il gravame ritenendo in primo luogo che non potesse trovare concreta applicazione l’art.212 del Regolamento n.2015/2446, dal momento che il Papadia, autore materiale della condotta contestata, era cittadino italiano paci- ficamente residente in Italia e non una persona stabilita fuori dal ter- ritorio doganale UE. Inoltre, non ricorrevano le eccezioni di cui agli artt.214 e 215 del Regolamento delegato. Infine, il giudice riteneva generica la contestazione circa la misura della sanzione applicata, ed esplorativa la richiesta di CTU avanzata a riguardo. 5. Avverso la sentenza i contribuenti hanno proposto ricorso, affidato a tre motivi illustrati con memoria, cui replica l’Agenzia con controri- corso. Ragioni della decisione 6. Con il primo motivo di ricorso, in relazione all’art.360 primo comma n.3 cod. proc. civ., viene prospettata la violazione o falsa applicazione dell’art. 212 Reg. UE 2446/2015, avendo la CTR fornito un’interpreta- zione del tutto erronea e non condivisibile della normativa di riferi- mento. I ricorrenti censurano il capo di decisione, riportato alle pagg.5 e 6 del ricorso, nel quale il giudice ritiene che la disposizione suddetta vada interpretata nel senso che non legittima, al di fuori del regime di ammissione temporanea per sei mesi, la circolazione in ambito UE dell’automezzo immatricolato al di fuori dello spazio doganale UE allor- quando, come nel caso di specie, sia intestato ad una persona giuridica e il legale rappresentante della società e conducente sia residente in Stato UE. Con il secondo motivo i ricorrenti, ai fini dell’art.360 primo comma nn.3 e 4 cod. proc. civ., lamentano la violazione o falsa applicazione dell’art. 215 Reg. UE 2446/2015, per aver la CTR ritenuto insussistenti anche i presupposti di cui alla previsione citata. 7. I motivi, connessi, possono essere esaminati congiuntamente e sono infondati. 7.1. È opportuna una breve ricostruzione del complesso normativo eu- ropeo applicabile, contenuto negli artt.212-218 del Regolamento Dele- gato (UE) 2015/2446 della Commissione del 28 luglio 2015, nel quadro del Regolamento (UE) n. 952/2013 del Parlamento europeo e del Con- siglio, del 9 ottobre 2013, che istituisce il Codice doganale dell’Unione. 7.2. In particolare, l’articolo 212 del Regolamento Delegato, nel testo in vigore dal 31/07/2018 e vigente ratione temporis, fissa le condizioni per la concessione dell’esenzione totale dai dazi all’importazione per i mezzi di trasporto, in relazione all’articolo 250, paragrafo 2, lettera d), del Codice doganale. L’esenzione totale dal dazio all’importazione è concessa per i mezzi di trasporto purché soddisfino le seguenti due condizioni (paragrafi 2 e 3 dell’art.212 cit.): in primo luogo siano im- matricolati al di fuori del territorio doganale dell’Unione a nome di una persona stabilita fuori di tale territorio o, se non sono immatricolati, siano di proprietà di una persona stabilita al di fuori del territorio do- ganale dell’Unione; in secondo luogo, siano utilizzati da una persona stabilita al di fuori del territorio doganale dell’Unione, fatte salve le di- sposizioni di cui agli articoli 214, 215 e 216. 7.3. Con riferimento all’Articolo 250, paragrafo 2, lettera d) invocato nel primo motivo di ricorso, tali condizioni devono sussistere in concor- renza e non alternatività tra loro, e sono ulteriormente specificate dall’ultima parte del paragrafo 3 dell’art.212 cit. nel senso che: «Se tali mezzi di trasporto sono utilizzati per uso privato da una terza persona stabilita al di fuori del territorio doganale dell’Unione, la concessione dell’esenzione totale dal dazio all’importazione è subordinata alla con- dizione che tale persona sia debitamente autorizzata per iscritto dal titolare dell’autorizzazione.». 8. La regola così delineata, trova delle eccezioni agli artt.214, 215 e 216 del Regolamento Delegato, previsioni rispettivamente rubricate “Condizioni per la concessione dell’esenzione totale dal dazio all’impor- tazione alle persone stabilite nel territorio doganale dell’Unione” (214), “Uso di mezzi di trasporto da parte di persone fisiche che hanno la loro residenza abituale nel territorio doganale dell’Unione” (215) ed “Esen- zione dal dazio all’importazione per i mezzi di trasporto in altri casi” (216). 8.1. Le eccezioni più rilevanti sono contenute ai paragrafi 1 e 3 dell’art.215, il primo dei quali dispone che le persone fisiche che hanno la loro residenza abituale nel territorio doganale dell’Unione, su richie- sta del titolare dell’immatricolazione, godono di un’esenzione totale dal dazio all’importazione per i mezzi di trasporto che utilizzano privata- mente e occasionalmente, e sempre se il titolare dell’immatricolazione si trovi nel territorio doganale dell’Unione al momento dell’uso. 8.2. Inoltre, per quanto qui interessa, il terzo paragrafo dell’art.215 cit., invocato nel secondo motivo di ricorso, prevede che le persone fisiche che hanno la loro residenza abituale nel territorio doganale dell’Unione possano beneficiare di un’esenzione totale dai dazi all’im- portazione per i mezzi di trasporto adibiti ad uso commerciale o privato a condizione che siano alle dipendenze del proprietario, del locatario o dell’affittuario dei mezzi di trasporto, e purché il datore di lavoro sia stabilito al di fuori di tale territorio doganale. Il mancato rispetto del complesso dei presupposti sopra richiamati fa scattare la fattispecie del contrabbando doganale. 9. Alla luce del quadro come sopra ricostruito, il Collegio ritiene che la regola fissata dall’art.212 del Regolamento Delegato non può essere interpretata, come ritiene parte ricorrente, nel senso che allorquando il mezzo di trasporto immatricolato al di fuori del territorio doganale UE sia intestato a nome di una persona giuridica stabilita fuori di tale ter- ritorio, il fatto che il conducente sia il legale rappresentante consenta di per sé di fruire dell’agevolazione doganale oltre il periodo di sei mesi del regime di ammissione temporanea. Ritiene il Collegio che il requisito non possa essere considerato soddi- sfatto allorquando l’utilizzatore del mezzo, anche se legale rappresen- tante della persona giuridica intestataria, sia una persona residente, ossia “stabilita” ai fini dell’art.212 cit., all’interno e non all’esterno del territorio doganale dell’Unione. Tale interpretazione è infatti coerente con la ratio legis, come già correttamente colto dal giudice d’appello, volta al contrasto di abusi dell’agevolazione doganale, come nel caso di immatricolazione extra UE di mezzi di trasporto intestati a società off shore o con sede legale al difuori dello spazio doganale unionale e concretamente utilizzati da residenti in Italia ben oltre il periodo seme- strale di ammissione temporanea del veicolo nello spazio doganale UE. 10. Dev’essere così affermato il seguente principio di diritto: «Ai fini dell’agevolazione doganale dell’esenzione totale dai dazi all’importazione per i mezzi di trasporto oltre i sei mesi del regime di ammissione temporanea, i requisiti di cui all’art. 212 del Regolamento Delegato (UE) 2015/2446 della Commissione del 28 luglio 2015, nel quadro del Regolamento (UE) n. 952/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 ottobre 2013, che istituisce il Codice doganale dell’Unione, non sono soddisfatti allorquando il mezzo di trasporto immatricolato al di fuori del territorio doganale dell’Unione a nome di una persona giuridica stabilita fuori da tale territorio è utilizzato da soggetto residente, e dunque “stabilito”, all’interno del territorio doga- nale dell’Unione, anche se ricopre la carica di legale rappresen- tante della persona giuridica extra UE.». In applicazione del principio, il Collegio ritiene che correttamente il giu- dice d’appello a pag.6 della sentenza impugnata ha ritenuto che la con- dizione per fruire del beneficio di cui all’art.212 cit. non sussistesse nella fattispecie, in quanto il veicolo in questione al momento del con- trollo è pacificamente stato utilizzato da una persona, Antonio Papadia, cittadino italiano residente in Italia e, dunque, persona “stabilita” all’in- terno del territorio doganale dell’Unione e non al di fuori di esso. 11. Venendo al secondo motivo di ricorso e così alle eccezioni alla re- gola dell’art.212 previste all’articolo 215 paragrafo 3 del Regolamento Delegato, la CTR a pag.7 della sentenza censurata ha accertato che non vi è il presupposto del rapporto di lavoro dipendente tra società e contribuente. Non si tratta di una motivazione apparente, contraddit- toria o perplessa e quindi nulla come sostiene parte ricorrente, in quanto il ragionamento seguito dal giudice non si risolve in una statui- zione apodittica né contiene alcun contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili né è perplessa o apparente essendo la ratio immediata- mente comprensibile al lettore. 12. Piuttosto, la statuizione è fondata sul principio di non contestazione e determina un accertamento fattuale che non è neppure stato speci- ficamente impugnato dai ricorrenti sul piano fattuale, ma solo conte- stato sul piano interpretativo. A questo proposito, non è condivisibile la linea difensiva di parte ricorrente, perché la nozione di “dipendente” non coincide con quella di legale rappresentante della persona giuri- dica, come conferma anche il fatto che l’art.215 paragrafo 3 del Rego- lamento Delegato prevede espressamente che la prova di tale causa di esclusione ai fini del godimento dell’agevolazione doganale possa es- sere data attraverso una copia del “contratto di lavoro”. Al proposito va affermato l’ulteriore principio di diritto: «Ai fini dell’agevolazione doganale dell’esenzione totale dai dazi all’importazione per i mezzi di trasporto oltre i sei mesi del regime di ammissione temporanea, l’eccezione alla regola fis- sata dall’art. 212 del Regolamento Delegato (UE) 2015/2446 della Commissione del 28 luglio 2015, contenuta nel paragrafo 3 dell’art.215 del Regolamento va interpretata nel senso che il legale rappresentante della persona giuridica stabilita fuori da tale territorio intestataria del mezzo di trasporto non può es- sere considerato “dipendente” del proprietario, del locatario o dell’affittuario dei mezzi di trasporto ai fini della fruizione del beneficio.». 13. Il terzo motivo, ex art.360 primo comma n.3 cod. proc. civ., pro- spetta la violazione o falsa applicazione dell’art.115 cod. proc. civ. con riferimento alla misura della determinazione della sanzione, rapportata al valore del veicolo determinato sulla base di indici ritenuti non atten- dibili. 14. Il mezzo di impugnazione è inammissibile, per più concorrenti pro- fili. Innanzitutto, perché ripropone in sede di legittimità una questione di merito coperta dall’accertamento fattuale della CTR, che ha espresso una argomentazione razionale basata su una fonte editoriale speciali- stica di stima di una comune autovettura (AutoScout24). In secondo luogo, perché non impugna tale accertamento sotto l’angolo del vizio motivazionale nei limiti in cui ciò è ammesso dall’art.360 primo comma n.5 cod. proc. civ.. Infine, perché non allega specificamente neppure e tanto meno dimostra il fatto decisivo e contrario, ossia il fatto che il valore dell’automezzo sarebbe stato davvero sostanzialmente diverso da quello fatto proprio dalla CTR. 15. In conclusione il ricorso dev’essere rigettato e le spese di lite se- guono la soccombenza, liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte: rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese di lite, liquidate in Euro 2.500 per compensi, oltre Spese preno- tate a debito. Si dà atto che, ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1- quater, sussistono i presupposti per il versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis, se dovuto. Così deciso in Roma in data 14 febbraio 2024 Il Relatore est. Il Presidente Pierpaolo Gori Biagio Virgilio

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MANNA Antonio - Presidente Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa - Relatore Dott. MAROTTA Caterina - Consigliere Dott. ZULIANI Andrea - Consigliere Dott. TRICOMI Irene - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 14594-2023 proposto da: Tr.Ma., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA (...), presso lo studio dell'avvocato MA.PI., che lo rappresenta e difende; - ricorrente - contro ROMA CAPITALE (già COMUNE DI ROMA), in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA (...), presso gli uffici dell'AVVOCATURA CAPITOLINA, rappresentata e difesa dall'avvocato AL.RI.; - controricorrente - avverso la sentenza n. 5056/2022 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 20/12/2022 R.G.N. 3684/2021; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/04/2024 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA, che ha concluso per il rigetto del ricorso udito l'avvocato MA.PI. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d'Appello di Roma ha respinto l'appello proposto da Tr.Ma. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accertato la legittimità del licenziamento intimato all'appellante da Roma Capitale con determina dirigenziale n. 2553 del 12 novembre 2019, notificata il 18 novembre 2019. Il Tr.Ma. era stato sottoposto a procedimento penale, unitamente ad altri dipendenti assegnati al medesimo servizio, per i delitti previsti e puniti dagli artt. 110, 81, 640 n. 1 cod. pen. e 55 quinquies D.Lgs. n. 165/2001 per avere effettuato, nell'arco temporale compreso fra i mesi di giugno e ottobre 2018, numerose timbrature fraudolente, finalizzate a far risultare, contrariamente al vero, la presenza in servizio propria o dei colleghi. Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma con ordinanza del 26 giugno 2019 aveva disposto la misura cautelare interdittiva della sospensione dal pubblico servizio per mesi dodici e, pertanto, l'UPD di Roma Capitale, ricevuta comunicazione della misura, aveva avviato, con lettera del 16 settembre 2019, il procedimento disciplinare, concluso, poi, con l'irrogazione della sanzione espulsiva. 2. La Corte territoriale, per quel che in questa sede rileva, ha ritenuto infondata l'eccezione di tardività del procedimento, respinta dal giudice di prime cure e reiterata in appello, ed ha rilevato che la conoscenza piena dei fatti si era avuta a seguito della notificazione dell'ordinanza cautelare, perché in precedenza all'ente era stata solo rappresentata una prassi illegittima che coinvolgeva più dipendenti assegnati alla manutenzione dei giardini, dei quali, peraltro, non era nota l'identità, così come non era ancora emerso in quali occasioni e con quali modalità gli stessi si fossero allontanati attestando falsamente la loro presenza. Si trattava, quindi, di una notitia criminis idonea a consentire l'avvio di indagini preliminari, che il Comune aveva sollecitato con la denuncia del 14 marzo 2018, ma non sufficiente a fondare la contestazione che, infatti, era poi avvenuta in relazione a fatti verificatisi in epoca successiva alla denuncia penale. Il giudice d'appello ha aggiunto che la conoscenza piena non si era avuta neppure allorquando sulla stampa era apparsa la notizia inerente all'avvio di indagini preliminari nei confronti di 30 giardinieri, perché gli articoli non riportavano né i nominativi né gli episodi, appresi solo a seguito della lettura della motivazione dell'ordinanza cautelare e del capo di imputazione. 3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso Tr.Ma. sulla base di un unico motivo, al quale ha opposto difese con controricorso Roma capitale. L'Ufficio della Procura Generale ha depositato requisitoria ed ha concluso per il rigetto del ricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Il ricorso denuncia, con un unico motivo formulato ai sensi dell'art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la "violazione ed errata applicazione dei termini previsti dagli artt. 55 bis e 55 quater del D.Lgs. n. 165/2001, essendo la contestazione disciplinare avvenuta a distanza di un anno dalla conoscenza degli addebiti, con conseguente lesione del diritto di difesa del lavoratore". Il ricorrente addebita alla Corte territoriale di avere erroneamente fatto decorrere il termine dalla comunicazione della notizia all'UPD perché dei fatti di rilievo disciplinare l'amministrazione aveva avuto conoscenza già nel marzo 2018, allorquando aveva inoltrato la denuncia alla Procura della Repubblica, sicché l'ente avrebbe dovuto avviare il procedimento disciplinare per poi, eventualmente, sospenderlo. 2. Il ricorso presenta profili di inammissibilità, nella parte in cui sollecita un accertamento di merito non consentito nel giudizio di legittimità, ed è per il resto infondato. A partire da Cass. n. 20733 del 2015 questa Corte ha costantemente affermato che, ai fini del decorso dei termini perentori fissati dall'art. 55 bis D.Lgs. n. 165 del 2001, non assumono alcun rilievo comunicazioni pervenute ad articolazioni dell'amministrazione di appartenenza diverse dall'UPD e dalla struttura alla quale l'incolpato è assegnato. Infatti, la scansione del procedimento stesso e la decadenza dall'azione disciplinare richiedono necessariamente un'individuazione certa ed oggettiva del dies a quo, impossibile ove si ritenesse di agganciarlo ad una qualsiasi notizia pervenuta a qualunque ufficio dell'amministrazione. È stato rimarcato al riguardo che le esigenze di certezza sono poste a tutela di entrambe le parti del rapporto perché, se, da un lato, occorre evitare che il dipendente pubblico possa rimanere esposto senza limiti temporali all'iniziativa disciplinare, dall'altro occorre anche assicurare il buon andamento della pubblica amministrazione, che risulterebbe vulnerato da un'interpretazione che lasciasse nel vago il dies a quo del procedimento, rimettendolo - in ipotesi - anche a notizie informali o pervenute ad uffici privi di competenza quanto alla materia disciplinare e con i quali il dipendente non abbia alcuna relazione diretta (cfr. in motivazione fra le tante Cass. n. 20730/2022, Cass. n. 16842/2019 nonché Cass. n. 8943/2023 che, richiamati detti principi, li ha estesi al dies a quo per la riattivazione del procedimento disciplinare sospeso). 2.1. È altresì consolidato l'orientamento secondo cui la decorrenza del termine di decadenza di cui all'art. 55 bis, comma 4, del D.Lgs. n. 165 del 2001 presuppone l'acquisizione di una notizia "qualificata" ed idonea a supportare l'apertura del procedimento disciplinare con la formulazione della contestazione (cfr. fra le più recenti Cass. n. 18362/2023 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione), sicché il termine medesimo non può decorrere a fronte di una notizia che non consenta la formulazione dell'incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l'addebito (cfr. Cass. n. 35061/2023 ed i richiami ivi contenuti). Ciò perché, come è stato pure osservato, un fatto è rilevante sul piano disciplinare soltanto se corredato da elementi narrativi e conoscitivi sufficientemente articolati, dettagliati e circostanziati in quanto " è a tutela dello stesso lavoratore evitare che vengano promosse iniziative disciplinari ancora prive di sufficienti dati conoscitivi; né risponde ad un'esigenza di economia ed efficienza dell'agire amministrativo l'apertura di procedimenti disciplinari in assenza di significativi elementi di riscontro della responsabilità" (Cass. n. 33236/2022). 2.2. Il richiamato orientamento, che si è formato nella vigenza dell'art. 55 bis D.Lgs. n. 165/2001 nel testo formulato dal D.Lgs. n. 150/2009, non ha perso attualità all'esito della riformulazione operata dall'art. 15 del D.Lgs. n. 75 del 25 maggio 2017 (applicabile ratione temporis alla fattispecie nella quale si discute di fatti verificatisi in epoca successiva alla novella normativa). Il legislatore, infatti, oltre a ribadire che il termine per l'avvio del procedimento disciplinare decorre dal momento in cui l'UPD riceve la segnalazione, ha aggiunto "ovvero dal momento in cui abbia altrimenti avuto piena conoscenza dei fatti ritenuti di rilevanza disciplinare", in luogo dell'originaria formulazione che valorizzava la "data nella quale l'ufficio ha altrimenti acquisito notizia dell'infrazione". In tal modo è stata avallata l'interpretazione alla quale questa Corte era già pervenuta quanto al significato da attribuire al termine "notizia", perché la "piena conoscenza" che, secondo il testo vigente fa decorrere i termini del procedimento, è solo quella che consente l'immediato avvio dello stesso e si realizza allorquando l'amministrazione è posta in condizione di formulare una contestazione specifica quanto al fatto, al suo autore ed alle modalità di realizzazione della condotta. 2.3. Dai richiamati principi non si è discostata la Corte territoriale la quale, come si è evidenziato nello storico di lite, ha accertato, esaminando la documentazione in atti, che al momento della denuncia indirizzata alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma l'amministrazione aveva avuto notizia solo "di un sistema di irregolarità delle presenze dei dipendenti nell'orario di ufficio" ma non "dei singoli episodi contestati e, soprattutto, dell'identità dei lavoratori coinvolti". Ha aggiunto che il procedimento era stato avviato in relazione a fatti verificatisi in epoca successiva alla denuncia medesima e che anche le notizie apparse sulla stampa locale non erano circostanziate, tanto che, proprio a seguito di quelle notizie, l'UPD aveva richiesto all'autorità giudiziaria di conoscere i nominativi dei dipendenti coinvolti nonché le imputazioni formulate a carico dei medesimi, dati, questi, indispensabili ai fini dell'avvio del procedimento ed appresi solo a seguito della notificazione dell'ordinanza cautelare. Il ricorso, infondato nella parte in cui assume che la conoscenza dei fatti andava accertata in relazione a tutti gli uffici dell'ente che "non possono essere scollegati tra loro", è inammissibile lì dove contesta l'accertamento di merito compiuto dalla Corte territoriale e sollecita una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, preclusa in sede di legittimità. 3. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e vanno poste a carico del ricorrente nella misura liquidata in dispositivo. 4. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto. Roma, così deciso nella camera di consiglio del 3 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2024.

  • N. 28155/22 R.G. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto Opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. – Improcedibilità del ricorso FRANCO DE STEFANO Presidente PASQUALINA A.P. CONDELLO Consigliere AUGUSTO TATANGELO Consigliere RAFFAELE ROSSI Consigliere PU. 20/03/2024 Cron. R.G.N. 28155/2022 SALVATORE SAIJA Consigliere - Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso N. 28155/2022 R.G. proposto da: IVAN SIRENA e NADIA MO, elettivamente domiciliati in Roma, Via Bruno Buozzi n. 109, presso lo studio dell’avv. Giuseppe Mario Militerni, che li rappresenta e difende come da procura in calce al ricorso, domicilio digitale [email protected] - ricorrenti - contro INTRUM ITALY s.p.a., in persona della procuratrice Dora Russo, nella qualità di procuratrice di PENELOPE SPV s.r.l., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la cancelleria della Corte di cassazione, rappresentata e difesa dall’avv. Filippo Testa, come da procura in calce al controricorso, domicilio digitale [email protected] - controricorrente – e contro N. 28155/22 R.G. MAGGESE s.r.l., SUGHERIFICIO PIEMONTESE s.r.l. e FALLIMENTO MONDIAL SUGHERO s.r.l. - intimati – avverso la sentenza n. 900/2022 della Corte d’appello di Torino, depositata in data 9.8.2022; udita la relazione sulla causa svolta nella pubblica udienza del 20 marzo 2024 dal consigliere Salvatore Saija; udite le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale dott.ssa Anna Maria Soldi, che ha chiesto il rigetto del ricorso; uditi gli avv.ti Antonio Esposito e Lucio Laurita Longo; FATTI DI CAUSA Italfondiario s.p.a., quale procuratore di Intesa San Paolo s.p.a., pignorò beni immobili siti in Canelli di proprietà di Nadia Mo per la quota di 2/3 e di Ivan Sirena per la quota di 1/3, instaurando dinanzi al Tribunale di Asti la procedura esecutiva N. 215/2015 R.G.E., in forza di titolo esecutivo costituito da contratto di mutuo fondiario stipulato con atto notarile del 13.12.2012 tra Sugherificio Sirena s.a.s. di Sirena Ivan & C. e Intesa San Paolo s.p.a.; con detto atto, la Banca erogò la somma di € 200.000,00, a garanzia della cui restituzione Ivan Sirena e Nadia Mo concessero ipoteca sugli immobili ut supra pignorati. Poiché detti beni erano stati già pignorati (procedura esecutiva iscritta al N. 181/2013 R.G.E.), le procedure esecutive vennero riunite; spiegarono intervento la Cassa di Risparmio di Asti s.p.a. (sulla base di n. 3 decreti ingiuntivi), nonché Sugherificio Piemontese s.r.l. e Mondial Sughero s.r.l. In seguito, la procedura più risalente venne dichiarata estinta e l’esecuzione proseguì nel resto. Nadia Mo e Ivan Sirena proposero distinte opposizioni all’esecuzione ex art. 615, comma N. 28155/22 R.G. 2, c.p.c., successivamente riunite, entrambi eccependo: a) la nullità delle clausole determinative degli interessi corrispettivi per contrarietà al divieto di anatocismo, ormai di portata generale in conseguenza delle modifiche apportate all’art. 120 TUB dalla legge n. 157/2013; b) la nullità delle clausole determinative del tasso degli interessi corrispettivi per contrarietà al divieto di usura dettato dall’art. 644 c.p. e dall’art. 2 della legge 108 del 1996; c) la nullità delle clausole di cui agli articoli del contratto di mutuo indicati nell’articolo 1 del medesimo contratto perché non specificamente sottoscritte dal cliente e di conseguenza la nullità dell’intero contratto. La sola Nadia Mo, inoltre, invocò la propria qualità di consumatore ed eccepì la nullità delle clausole determinative del tasso degli interessi moratori in misura manifestamente eccessiva, e quindi da ritenersi abusive ai sensi dell’art. 33 del Codice del consumo. Gli opponenti, infine, eccepirono che Nadia Mo era titolare di diritto di abitazione ai sensi dell’art. 540, comma 2, c.c., sull’immobile censito nel catasto fabbricati del Comune di Canelli al f. 14 par. 306 sub. 3, Viale Risorgimento piano primo, nonché del diritto di uso sui mobili che lo corredavano, deducendo l’opponibilità di tale diritto ai creditori in ragione della trascrizione della sua accettazione nei RR.II. in data 26.10.2015 (dopo la trascrizione del pignoramento) e della precedente registrazione della denuncia di successione nel 2008. Il Tribunale di Asti – nel contraddittorio con Italfondiario s.p.a. (in qualità di procuratore prima di Intesa Sanpaolo s.p.a. e poi di Penelope SPV s.r.l., a sua volta cessionaria di quest’ultima), Cassa Risparmio di Asti s.p.a., nonché con Prelios Credit Servicing s.p.a. (quale procuratore di Maggese s.r.l., a sua volta cessionaria di Cassa di Risparmio di Asti s.p.a.) - con sentenza n. 343/2020 del N. 28155/22 R.G. 23.6.2020 rigettò le opposizioni, condannando gli opponenti alla rifusione delle spese processuali. Ivan Sirena e Nadia Mo proposero appello avverso detta decisione. Costituitesi, resistendo al gravame, Penelope SPV s.r.l. (tramite il procuratore Intrum Italy s.p.a.), Maggese s.r.l. (e per essa Prelios Credit Servicing s.p.a., rappresentata da Prelios Credit Solutions s.p.a.), la Corte d’appello di Torino, con sentenza del 9.8.2022, rigettò l’appello. Osservò la Corte sabauda: 1) che l’intervento spiegato dalla Cassa di Risparmio di Asti era fondato su tre decreti ingiuntivi regolarmente notificati e che comunque non era possibile dedurre, nel giudizio di merito dell’opposizione esecutiva, motivi non proposti col ricorso originario; 2) che il contratto di mutuo azionato da Banca Intesa non conteneva pattuizioni usurarie, neanche in relazione al tasso di mora, e che ai fini della verifica non era utilizzabile la commissione di estinzione anticipata; 3) che del pari il contratto non recava clausole in contrasto col divieto di anatocismo, anche perché non era applicabile ratione temporis l’art. 120 TUB, come modificato dalla lelle n. 147/2013; 4) che non occorreva la duplice sottoscrizione delle clausole che si assumevano vessatorie, ex art. 1341 c.c., perché il mutuo era stato stipulato con atto notarile e che Nadia Mo non poteva considerarsi consumatore; infine 5) che Nadia Mo, ai fini dell’invocato diritto di abitazione, non aveva dimostrato in quale tra gli immobili pignorati ricadesse l’abitazione coniugale e che comunque ella risultava proprietaria degli immobili per 2/3, acquisiti in parte in successione ereditaria del marito Mario Sirena, ma in parte per acquisto fattone dal figlio Pietro, con conseguente estinzione del diritto invocato. N. 28155/22 R.G. Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione Ivan Sirena e Nadia Mo, sulla scorta di cinque motivi, cui resiste con controricorso Intrum Italy s.p.a., quale procuratrice di Penelope SPV s.r.l. Le parti hanno depositato memoria. I restanti intimati non hanno resistito. Il P.G. ha depositato requisitoria scritta, chiedendo il rigetto del ricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.1 - Non mette conto illustrare i motivi del ricorso, giacché esso è improcedibile ai sensi dell’art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c., non risultando agli atti la copia notificata della sentenza impugnata, pubblicata il 9.8.2022, che i ricorrenti affermano essere stata loro notificata in data 23.9.2022. La difesa dei ricorrenti ha infatti depositato soltanto una copia della sentenza impugnata, estratta dal fascicolo informatico e attestata conforme all’originale contenuto nello stesso, ma non corredata da alcuna dimostrazione di avvenuta notifica nei loro confronti. Più in dettaglio, per quanto la copia della relata della notifica della sentenza a mezzo PEC sia stata indicata in calce al ricorso come allegato “a)”, dalla correlativa cartella depositata telematicamente dai ricorrenti, e segnatamente dalla sottocartella denominata “doc. a) Copia della notifica a mezzo pec della sentenza impugnata” non è affatto possibile estrapolare nessuna copia notifica della sentenza, o quantomeno la sua relata, la cartella stessa contenendo esclusivamente file relativi alla notifica del ricorso che occupa, o alla procura speciale. Né, del resto, la documentazione occorrente è rinvenibile aliunde nella stessa produzione dei ricorrenti, fermo restando che non può certo attribuirsi alla Corte il compito di ricercare documenti necessari ai fini della decisione del N. 28155/22 R.G. ricorso, ove gli stessi dovessero essere versati in atti alla rinfusa, anziché esattamente corrispondere all’indice contenuto nel ricorso medesimo, o alla stessa denominazione delle cartelle del fascicolo informatico. 1.2 – Ciò posto, sul punto in discussione deve ribadirsi la oramai costante giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio e alla quale si intende dare continuità (di recente, ribadendo consolidati approdi ermeneutici, Cass. n. 15832/2021), che, riguardo alla produzione della copia notificata della sentenza e più in generale di decorrenza dei termini di impugnazione, afferma: “In tema di notificazione del provvedimento impugnato ad opera della parte, ai fini dell’adempimento del dovere di controllare la tempestività dell’impugnazione in sede di giudizio di legittimità, assumono rilievo le allegazioni delle parti, nel senso che, ove il ricorrente non abbia allegato che la sentenza impugnata gli è stata notificata, si deve ritenere che il diritto di impugnazione sia stato esercitato entro il c.d. termine "lungo" di cui all’art. 327 c.p.c., procedendo all’accertamento della sua osservanza, mentre, nella contraria ipotesi in cui l’impugnante abbia allegato espressamente o implicitamente che la sentenza contro cui ricorre gli sia stata notificata ai fini del decorso del termine breve di impugnazione (nonché nell’ipotesi in cui tale circostanza sia stata eccepita dal controricorrente o sia emersa dal diretto esame delle produzioni delle parti o del fascicolo d’ufficio), deve ritenersi operante il termine di cui all’art. 325 c.p.c., sorgendo a carico del ricorrente l’onere di depositare, unitamente al ricorso o nei modi di cui all’art. 372, comma 2, c.p.c., la copia autentica della sentenza impugnata, munita della relata di notificazione, entro il termine previsto dall’art. 369, comma 1, c.p.c., la cui mancata osservanza comporta l’improcedibilità del N. 28155/22 R.G. ricorso, escluso il caso in cui la notificazione del ricorso risulti effettuata prima della scadenza del termine breve decorrente dalla pubblicazione del provvedimento impugnato e salva l’ipotesi in cui la relazione di notificazione risulti prodotta dal controricorrente o presente nel fascicolo d’ufficio”. Tale conclusione è ribadita, con alcune precisazioni, i cui presupposti fattuali di applicazione peraltro non ricorrono nella specie, anche dalla più recente giurisprudenza nomofilattica (Cass., Sez. Un., n. 21349/2022). 1.3 - Nella specie, peraltro, il ricorso di Ivan Sirena e Nadia Mo risulta essere stato notificato il 21.11.2022 e quindi ben oltre i sessanta giorni dalla pubblicazione della sentenza della Corte d’appello di Torino, avvenuta in data 9.8.2022, così neppure operando l’eccezione all’obbligo di deposito della sentenza (e della relata, se la prima è stata notificata) individuata fin da Cass. n. 17066/2013; né una copia notificata della sentenza stessa, ritualmente formata, risulta comunque dagli atti di causa legittimamente esaminabili da questa Corte. 2.1 - In definitiva, il ricorso è improcedibile, restando conseguentemente esclusa la possibilità, per la Corte, di pronunciare nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., sulle pur rilevanti questioni nomofilattiche poste dal ricorso, tanto essendo possibile fare solo in caso di inammissibilità o infondatezza del ricorso stesso. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza nei rapporti tra i ricorrenti e Intrum Italy s.p.a. n.q., mentre nulla va disposto nei rapporti con gli altri intimati, che non hanno svolto difese. N. 28155/22 R.G. In relazione alla data di proposizione del ricorso (successiva al 30 gennaio 2013), può darsi atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n.115 (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228). P.Q.M. la Corte dichiara il ricorso improcedibile e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente n.q., che liquida in € 8.500,00 per compensi, oltre € 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario spese generali in misura del 15%, oltre accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n.115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, al competente ufficio di merito, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il giorno 20.3.2024. Il Consigliere est. Salvatore Saija Il Presidente Franco De Stefano

  • AULA 'B' 2024 1526 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ANTONIO MANNA - Presidente - Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO - Rel. Consigliere - Dott. CATERINA MAROTTA - Consigliere - Dott. ANDREA ZULIANI - Consigliere - Dott. IRENE TRICOMI - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 8266-2023 proposto da: MINISTERO DELL'ISTRUZIONE E DEL MERITO, in persona del Ministro pro tempore, UFFICIO SCOLASTICO REGIONALE PER L'UMBRIA - AMBITO TERRITORIALE DI PERUGIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi ope legis dall'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domiciliano in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12; - ricorrenti - contro DISDETTI MILENA, FANGACCI MARTA, FRILLICI MARIA ASSUNTA, GILDONI NADIA, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA CARLO MIRABELLO 19, presso lo studio dell'avvocato VALERIO FEMIA, che le rappresenta e difende; - controricorrenti - avverso la sentenza n. 237/2022 della CORTE D'APPELLO di PERUGIA, depositata il 06/10/2022 R.G.N. 160/2021; Oggetto Mansioni superiori DGSA Differenziale retributivo R.G.N. 8266/2023 Cron. Rep. Ud. 03/04/2024 PU udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/04/2024 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l'avvocato VALERIO FEMIA. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d’Appello di Perugia ha respinto l’appello proposto dal Ministero dell’Istruzione (già Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca e ora Ministero dell’Istruzione e del Merito) e dall’Ufficio Scolastico Regionale per l’Umbria avverso la sentenza del Tribunale che aveva accolto parzialmente il ricorso di Milena Disdetti, Marta Fangacci, Maria Assunta Frillici e Nadia Gildoni e aveva condannato il Ministero al pagamento delle somme a ciascuna spettanti a titolo di posizione economica connessa con il profilo di assistente amministrativo, in aggiunta alla indennità liquidata per lo svolgimento delle mansioni superiori di direttore dei servizi generali e amministrativi ( DSGA). 2. La Corte territoriale ha richiamato la disciplina dettata dall’art. 1, commi 44 e 45 della legge 24 dicembre 2012 n. 228, e ha evidenziato che l’assegnazione temporanea alle mansioni di DSGA dà diritto a percepire un’indennità che deve essere quantificata tenendo conto, da un lato, del trattamento previsto per la qualifica superiore al livello iniziale della progressione economica e, dall’altro, di quello «complessivamente in godimento», che comprende tutte le voci retributive maturate dal dipendente, ivi compresa la posizione economica. Esaminata la documentazione in atti il giudice d’appello ha rilevato che l’amministrazione, ai fini della quantificazione dell’indennità di mansioni superiori, non si era discostata da detto criterio e ciò si desumeva, oltre che dal prospetto depositato dal Ministero in adempimento di quanto imposto dalla ordinanza dell’11 maggio 2022, anche dai decreti di assegnazione delle funzioni di DSGA. Peraltro emergeva dai cedolini dello stipendio depositati dalle ricorrenti che la retribuzione liquidata era stata computata tenendo conto dello stipendio tabellare previsto per la qualifica di inquadramento e dell’indennità di funzioni superiori, mentre non era stata inclusa la voce «ATA valorizzazione professionale area B posizione 2», che il Ministero, anche in sede giudiziale, aveva ritenuto di non dover corrispondere perché incompatibile con la maggiorazione riconosciuta ex lege n. 228 del 2012. 3. Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso il Ministero dell’Istruzione (ora Ministero dell’Istruzione e del Merito) e l’Ufficio Scolastico Regionale per l’Umbria – Ambito territoriale di Perugia sulla base di un unico motivo, al quale le litisconsorti indicate in epigrafe hanno opposto difese con controricorso illustrato da memoria. 4. L’Ufficio della Procura Generale ha depositato requisitoria ed ha concluso per il rigetto del ricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Il ricorso denuncia, con un unico motivo formulato ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 52 del d.lgs. n. 165/ 2001 nonché dell’art. 1, commi 44 e 45 della legge 24 dicembre 2012 n. 228 e, attraverso il richiamo alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 71/2021, rileva che il lavoratore preposto a mansioni superiori ha diritto a percepire una retribuzione che sia proporzionata alla qualità della prestazione resa ma il giudizio da rendere ex art. 36 Cost. deve tener conto del trattamento retributivo complessivamente riconosciuto dal datore di lavoro e, pertanto, non determina alcuna violazione della norma costituzionale la previsione di « una retribuzione aggiuntiva via via decrescente fino all’azzeramento per il dipendente più anziano dotato sì di maggiori esperienze ma per esse già remunerato». Ciò premesso aggiunge il Ministero che nella fattispecie l’importo dell’indennità aggiuntiva era stato determinato dall’amministrazione nel rispetto della norma di legge, ossia detraendo dal trattamento retributivo previsto per la posizione iniziale di DSGA, l’intero ammontare della retribuzione percepita dalle controricorrenti, ivi compresa la posizione economica. Sostiene, di conseguenza, che la Corte territoriale nell’accogliere la domanda ha finito per riconoscere alle dipendenti un trattamento economico superiore a quello del direttore al livello iniziale e per duplicare il compenso dovuto in conseguenza della posizione economica. 2. Il ricorso è infondato. L’art. 1 della legge 24 dicembre 2012 n. 228 ai commi 44 e 45 disciplina il trattamento economico spettante al personale incaricato di svolgere negli istituti scolastici le mansioni superiori di direttore dei servizi generali amministrativi (DGSA) e, dopo aver previsto, al comma 44, le modalità di conferimento dell’incarico e di imputazione della spesa, mediante rinvio alle disposizioni dettate dalla legge n. 549/1995 (A decorrere dall'anno scolastico 2012 2013, l'articolo 1, comma 24, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, trova applicazione anche nel caso degli assistenti amministrativi incaricati di svolgere mansioni superiori per l'intero anno scolastico ai sensi dell'articolo 52 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, per la copertura di posti vacanti o disponibili di direttore dei servizi generali e amministrativi),al successivo comma 45 aggiunge che «La liquidazione del compenso per l'incarico di cui al comma 44 è effettuata ai sensi dell'articolo 52, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, in misura pari alla differenza tra il trattamento previsto per il direttore dei servizi generali amministrativi al livello iniziale della progressione economica e quello complessivamente in godimento dell'assistente amministrativo incaricato». Si tratta di una disposizione speciale rispetto alla disciplina generale dettata dal d.lgs. n. 165/2001, perché deroga al principio della riserva in favore della contrattazione collettiva in materia di trattamento retributivo (artt. 2 e 45 del richiamato decreto), principio che ispira anche il sesto comma dell’art. 52 del decreto, nella parte in cui, in tutte le versioni succedutesi nel tempo, legittima la contrattazione medesima a regolare gli effetti che derivano, sul piano economico, dall’esercizio di mansioni superiori. Avvalendosi di detta delega i CCNL per il personale del comparto della scuola, a partire da quello sottoscritto il 25 agosto 1995 per il quadriennio normativo 1994/1997, avevano disciplinato l’indennità di funzioni superiori, da attribuire, tra gli altri, all'assistente amministrativo chiamato a sostituire il direttore o il responsabile amministrativo e ne avevano quantificato l’ammontare in misura «pari al differenziale dei relativi livelli iniziali di inquadramento». La norma sopravvenuta, invece, se, da un lato, lascia immutato il minuendo, costituito dal trattamento previsto in favore del DGSA al livello iniziale della progressione economica, dall’altro modifica, rispetto alla previsione contrattuale, il sottraendo, perché valorizza, ai fini della quantificazione del differenziale, l’intero trattamento retributivo goduto dall’assistente chiamato a svolgere le mansioni superiori. Ciò comporta che, calandosi in un sistema che valorizza l’anzianità di servizio ai fini della quantificazione del trattamento retributivo, previsto secondo fasce progressive di anzianità, l’indennità differenziale da corrispondere in caso di esercizio di mansioni superiori è destinata a ridursi a mano a mano che aumenta l’anzianità del dipendente assegnato allo svolgimento di compiti propri della qualifica superiore e può azzerarsi del tutto nel caso in cui sia chiamato ad effettuare la sostituzione un assistente che abbia già superato i 21 anni di anzianità di servizio (cfr. anche Corte Cost. n. 108/2016). 2.1. La disposizione in commento, dichiarata incostituzionale dalla pronuncia sopra citata « nella parte in cui non esclude dalla sua applicazione i contratti di conferimento delle mansioni superiori di direttore dei servizi generali ed amministrativi stipulati antecedentemente alla sua entrata in vigore», ha per il resto superato il vaglio di costituzionalità ed il Giudice delle leggi, dopo aver osservato che «il riconoscimento di una progressione economica indubbiamente valorizza - e, quindi, già in parte remunera - la maggior esperienza e professionalità maturata dal dipendente nel corso degli anni di lavoro», ha ritenuto non in contrasto con l’art. 36 Cost. né «manifestamente irragionevole che, nel caso di conferimento dell'incarico di DSGA, l'ordinamento preveda una retribuzione aggiuntiva via via decrescente, fino all'azzeramento, per il dipendente più anziano, dotato, sì, di maggiori esperienze, ma per esse già remunerato. A diversamente opinare, peraltro, si giungerebbe ad affermare che, a parità di mansioni svolte, sia costituzionalmente necessario riconoscere all'assistente amministrativo con un'anzianità maggiore ai 21 anni un compenso più elevato di quello previsto per il DSGA a livello iniziale, sebbene quest'ultimo «sia titolare di quelle funzioni appartenendo ad un ruolo diverso ed essendo stata oggettivamente accertata con apposita selezione concorsuale la maggiore qualificazione professionale, significativa di una più elevata qualità del lavoro prestato» (sentenze n. 115 del 2003 e n. 273 del 1997).» ( Corte Cost. n. 71/2021). 2.2. All’esito della novella normativa, dunque, ai fini della quantificazione dell’indennità di mansioni superiori occorre tener conto dell’intero trattamento goduto dal dipendente assegnato a svolgere le funzioni di DGSA, nel quale deve essere inclusa, oltre allo stipendio tabellare già proporzionato all’anzianità di servizio, la posizione economica acquisita ai sensi dell’art. 2 del CCNL 25 luglio 2008. L’indennità in parola sarà pertanto pari al differenziale fra quest’ultimo trattamento e quello spettante al direttore amministrativo di prima assunzione, differenziale che, lo si ripete, è destinato a ridursi a mano a mano che, per effetto dell’anzianità di servizio, si incrementa il sottraendo. Una volta determinata con le modalità sopra indicate, fatta eccezione per i casi in cui l’operazione aritmetica dia esito negativo, l’indennità spettante per l’esercizio delle mansioni superiori va corrisposta in aggiunta al trattamento complessivo goduto dall’assistente, con la conseguenza che l’importo da liquidare deve comprendere lo stipendio tabellare per la qualifica di inquadramento in ragione della fascia di anzianità acquisita, la posizione economica e l’indennità aggiuntiva. 2.3. Dai richiamati principi non si è discostata la Corte territoriale la quale, dopo avere correttamente interpretato le disposizioni normative e contrattuali che vengono in rilievo ed indicato nei medesimi termini sopra specificati le modalità di calcolo, ha accertato, in punto di fatto ed esaminando le buste paga prodotte, che l’amministrazione per il periodo di svolgimento delle mansioni superiori, pur avendo quantificato esattamente il differenziale, aveva poi errato al momento della liquidazione dello stipendio mensile, perché aveva omesso di corrispondere la posizione economica spettante per la qualifica di inquadramento, ritenendo, erroneamente, che la stessa fosse assorbita dalla indennità di mansioni superiori (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata). Che detta conclusione sia erronea lo si desume agevolmente dal rilievo che la posizione economica entra a far parte del sottraendo e, quindi, il differenziale fra i trattamenti retributivi non può essere comprensivo della stessa, che va, di conseguenza, liquidata in quanto parte integrante della retribuzione spettante, in relazione alla qualifica di inquadramento, al dipendente assegnato a mansioni superiori. La Corte territoriale, quindi, non ha operato alcuna duplicazione e, al contrario, è l’amministrazione che prospetta una duplicazione, questa volta in danno del dipendente, da un lato inserendo la progressione economica nel sottraendo (con conseguente riduzione di pari importo dell’indennità di funzioni superiori) e dall’altro omettendone la corresponsione in aggiunta allo stipendio tabellare ed all’indennità, con l’effetto finale di un totale azzeramento della stessa. 3. Il ricorso, che per il resto sollecita inammissibilmente un accertamento di fatto non consentito nel giudizio di legittimità, va, pertanto, rigettato con conseguente condanna del Ministero al pagamento delle spese, liquidate come da dispositivo, da distrarre in favore dell’avvocato Valerio Femia che ha reso la prescritta dichiarazione. 4. Non sussistono le condizioni di cui all’art. 13 c. 1 quater d.P.R. n. 115 del 2002 perché la norma non può trovare applicazione nei confronti di quelle parti che, come le Amministrazioni dello Stato, mediante il meccanismo della prenotazione a debito siano istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo (Cass. S.U. n. 9938/2014; Cass. n. 1778/2016; Cass. n. 28250/2017). P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in € 200,00 per esborsi ed € 4.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dell’avvocato Valerio Femia. Roma, così deciso nella camera di consiglio del 3 aprile 2024 Il Consigliere estensore Il Presidente Annalisa Di Paolantonio Antonio Manna

  • REPUBBLLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Oggetto Dott. FELICE MANNA - Presidente - USUCAPIONE Dott. LINALISA CAVALLINO - Consigliere - Dott. VINCENZO PICARO - Consigliere - Ud. 23/05/2024 - PU Dott. GIUSEPPE FORTUNATO - Consigliere - R.G.N. 2075/2020 Dott. MAURO CRISCUOLO - Rel. Consigliere - Rep. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 2075-2020 proposto da: MULAS DANIEL JOSEPH JUANITO, rappresentato e difeso dall’avvocato ALESSANDRO CORDA, giusta procura in calce al ricorso; - ricorrente - contro MULAS ADRIANA, MULAS CARLO, MULAS EFISIO, MULAS FRANCESCO, MULAS GIUSEPPE, MULAS IGNAZIO, rappresentati e difesi dall’avvocato RAIMONDO SOLLAI, giusta procura in calce al controricorso; Ric. 2020 n. 2075 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -2- - controricorrenti - nonché contro MULAS MARIA ROSARIA, MULAS SARAH, EREDI ROBERT RAYMOND; - intimati - avverso la sentenza n. 822/2019 della CORTE D'APPELLO di CAGLIARI, depositata il 14/10/2019; lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. FULVIO TRONCONE, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso; lette le memorie delle parti; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/05/2024 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO; Udite le conclusioni del Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. FULVIO TRONCONE, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso; udito l’avvocato Alessandro Corda per il ricorrente; FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Mulas Giuseppe, Adriana, Carlo, Efisio, Giorgio, Francesco, ed Ignazio convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Cagliari i germani Mulas Maria Rosaria e Brunello per sentire dichiarare lo scioglimento della comunione del bene relitto caduto nella successione materna. Si costituiva Mulas Brunello che concludeva per il rigetto della domanda, asserendo in via riconvenzionale di avere posseduto il bene per un periodo di tempo utile ad assicurare l’usucapione, della quale chiedeva l’accertamento, chiedendo in via subordinata la condanna degli attori e dell’altra convenuta al rimborso delle Ric. 2020 n. 2075 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -3- spese di miglioria e dei costi sostenuti per la costruzione della maggior parte della consistenza immobiliare. Alla domanda aderiva Clark Annie, moglie del convenuto. Riunito il giudizio a quello separatamente proposto da Mulas Maria Rosaria, la quale deduceva che, oltre all’immobile oggetto di causa, andavano considerati anche quelli interessati da compravendite simulate che avevano leso la propria quota di legittima, e di cui chiedeva la reintegra, nelle more del giudizio decedeva Mulas Brunello, cui subentravano gli eredi, tra cui anche l’odierno ricorrente. Il Tribunale con la sentenza non definitiva n. 2658/2010 rigettava la domanda di usucapione coltivata dagli eredi di Mulas Brunello e disponeva la prosecuzione del giudizio. Con la successiva sentenza n. 3178/2017 il Tribunale dichiarava inammissibile la domanda di riduzione proposta da Mulas Maria Rosaria e liquidava le spese di lite relativamente alla domanda di reintegra della quota di legittima ed alla domanda di usucapione, condannando Mulas Sarah, Daniel Joseph Juanito e Robert Raymond, quali eredi dell’originaria parte convenuta, al rimborso delle spese di lite in favore delle controparti, ritenendo che il valore della controversia dovesse essere determinato ai sensi dell’art. 15 c.p.c., sulla base della rendita catastale moltiplicata per 200. Con la medesima sentenza il Tribunale rimise la causa in istruttoria per la prosecuzione del giudizio di divisione. Avverso tale sentenza gli eredi di Mulas Brunello hanno proposto appello esclusivamente per il capo relativo alla condanna alle spese di lite, e la Corte d’Appello di Cagliari con la sentenza n. 822 del 14 ottobre 2019 ha rigettato il gravame. Ric. 2020 n. 2075 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -4- Quanto alla deduzione secondo cui la prima sentenza non definitiva aveva previsto che la liquidazione delle spese sarebbe dovuta avvenire con la sentenza non definitiva (mentre non era tale quella impugnata che aveva dato ulteriori disposizioni per il prosieguo del giudizio di divisione), la Corte distrettuale reputava che, quanto alla domanda di usucapione, già la prima sentenza aveva carattere definitivo così che la successiva sentenza aveva ovviato ad una omissione nella quale era incorso il Tribunale. Quanto alla contestazione del valore della controversia, la sentenza impugnata osservava che era stata fatta corretta applicazione dell’art. 15 c.p.c., che stabilisce che il valore della causa si determina in base al reddito dominicale o alla rendita catastale e che, solo in assenza di tali elementi, è dato attenersi alle risultanze degli atti, ovvero in caso di tale ulteriore carenza, ritenere la causa di valore indeterminabile. Inoltre, gli elementi su cui il giudice può individuare il valore ex actis devono essere già precostituiti e disponibili fin dall’inizio del processo, essendo irrilevanti quelli acquisiti nel corso dell’istruzione. Ciò implicava che non poteva attribuirsi rilevanza alla successiva relazione tecnica redatta nel prosieguo del giudizio ed ai fini della divisione, né alla relazione di parte predisposta da un tecnico degli appellanti. Per l’effetto era corretta l’individuazione del valore della causa operata dal Tribunale e l’appello doveva essere rigettato. 2. Mulas Daniel Joseph Juanito ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza d’appello sulla base di un motivo. Mulas Adriana, Carlo, Efisio, Francesco, Giorgio, Giuseppe ed Ignazio hanno resistito con controricorso. Ric. 2020 n. 2075 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -5- Gli altri intimati non hanno svolto difese in questa fase. 3. Con ordinanza interlocutoria n. 3905 dell’8 febbraio 2022 la Sesta Sezione civile ha rimesso la causa alla pubblica udienza. 4. Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte e le parti hanno depositato memorie. 5. Il motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 15, 91 e 115 c.p.c., dell’art. 6 del DM n. 55/2014 e dell’art. 1 della legge n. 228/2012, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3, c.p.c. Si deduce che è erronea l’applicazione dell’art. 15 c.p.c., in quanto il prosieguo del giudizio di divisione avrebbe potuto permettere di appurare con maggiore precisione il valore dell’immobile oggetto di causa. Lo stesso Tribunale nel disporre una consulenza tecnica d’ufficio sul bene ha peraltro riconosciuto di non avere sufficienti elementi per determinare il valore del bene. La perizia espletata dal CTU aveva consentito di appurare che dei vani oggetto di causa solo quattro erano regolari dal punto di vista urbanistico, in quanto la maggior parte erano stati edificati in carenza di provvedimento autorizzatorio. Ne consegue la violazione delle norme indicate in rubrica. Il motivo è infondato. 5.1 In primo luogo, deve sostanzialmente reputarsi abbandonata la contestazione mossa in appello in ordine al fatto che le spese di lite erano state liquidate con la seconda sentenza non definitiva, sebbene la prima sentenza del Tribunale, che aveva rigettato la domanda di usucapione, avesse rimesso la liquidazione delle relative spese alla sentenza definitiva. Ric. 2020 n. 2075 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -6- Depone in tal senso la circostanza che le norme di cui si denuncia la violazione nella rubrica del motivo non consentono di inferire la loro attinenza con la questione dedotta con il motivo di appello, concernente l’impossibilità di poter liquidare le spese con la sentenza non definitiva. Conforta poi tale convincimento il fatto che la risposta data dalla Corte d’appello, e fondata sul fatto che già la sentenza che aveva rigettato la domanda di usucapione aveva sul punto carattere definitivo, così che la sentenza del Tribunale del 2017 aveva ovviato ad una colpevole omissione del Tribunale, non risulta in alcun modo attinta dalle critiche del ricorrente, così che, ove anche volesse ipotizzarsi la reiterazione della censura la stessa si palesa evidentemente inammissibile in quanto non presenta alcuna specifica critica al ragionamento che è alla base della decisione della Corte distrettuale in parte qua. Le pur apprezzabili considerazioni in punto di diritto, svolte nella memoria del Pubblico Ministero, quanto ai limiti al potere di liquidare le spese per la sentenza non definitiva, supportate da una puntuale disamina della giurisprudenza di questa Corte, tuttavia, non tengono conto del fatto che la relativa censura era stata disattesa dal giudice di appello, senza che sia stata validamente attinta dal motivo di ricorso, e senza che possa supplire a tale omissione quanto esposto in sede di discussione orale dal difensore del ricorrente. 5.2 La critica invece investe la scelta del valore della causa sulla scorta del quale sono state poi liquidate le spese di lite, sostenendosi da parte del ricorrente l’erroneità del rinvio ai criteri di cui al primo comma dell’art. 15 c.p.c., che contempla la Ric. 2020 n. 2075 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -7- moltiplicazione del valore della rendita catastale per il coefficiente previsto per le cause relative al diritto di proprietà. Al riguardo occorre richiamare la disposizione di cui all’art. 5 del DM n. 55/2014 (che sul punto risulta riproduttivo delle analoghe previsioni contenute anche nei precedenti DM con i quali risultavano fissate le tariffe per la liquidazione dei compensi professionali degli avvocati), il quale prevede che per la liquidazione delle spese a carico del soccombente si ha riguardo al valore della controversia come determinato ai sensi delle norme del codice di procedura civile. Poiché la controversia per la quale risultano liquidate le spese di lite è relativa ad una domanda di usucapione, risulta incensurabile il richiamo alla previsione di cui all’art. 15 c.p.c., che al primo comma prevede appunto che il valore delle cause sia determinato in base alla rendita catastale moltiplicata secondo i coefficienti ivi indicati dal legislatore (nella specie per 200, trattandosi di causa relativa alla proprietà). La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che solo in assenza degli elementi richiamati dal primo comma dell’art. 15 c.p.c. è possibile per il giudice attenersi alle risultanze degli atti e, non emergendo da essi concreti ed attendibili elementi per la stima, ritenere la causa di valore indeterminabile, con l’ulteriore precisazione che gli elementi su cui fondare il giudizio di valore "ex actis" devono, peraltro, risultare precostituiti e disponibili fin dall'inizio del processo (essendo irrilevanti quelli acquisiti in corso di istruzione), nonché specifici, concreti, obbiettivi ed idonei a fornire un razionale fondamento di stima, tale non potendosi ritenere, nella specie, la mera indicazione delle ridotte dimensioni Ric. 2020 n. 2075 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -8- della zona controversa (Cass. n. 7615/1997, richiamata anche dalla Corte d’Appello; Cass. n. 13567/1999; Cass. n. 3802/1995). E’ stato altresì specificato che la presunzione del valore indeterminabile delle cause relative a diritti reali su beni immobili opera solo qualora l'immobile oggetto della domanda non sia accatastato ed agli atti non risultino elementi per la stima, mentre non trova applicazione quando la domanda riguarda un immobile che, pur catastalmente frazionato in varie parti, alcune delle quali senza reddito dominicale, costituisce un'unitaria entità immobiliare, il cui valore, ai fini della competenza, va calcolato moltiplicando per i coefficienti di cui all'art. 15 cod. proc. civ. (nel testo fissato dall'art. 7 della legge 30 luglio 1984 n. 349) il reddito dominicale delle particelle per le quali esso risulta indicato (Cass. n. 1488/1995; Cass. n. 8745/1990). Alla luce di tali principi, atteso il pacifico accatastamento del bene per il quale era stata avanzata domanda riconvenzionale di usucapione, e stante il carattere sussidiario dei criteri di determinazione del valore posti dal terzo comma dell’art. 15 c.p.c., si palesa incensurabile la determinazione del valore avvenuta in base alla rendita catastale. Né può invocarsi la circostanza che sia stata disposta una consulenza tecnica d’ufficio onde pervenire alla stima del bene ai fini della divisione, in quanto, oltre a doversi rilevare che la consulenza d’ufficio ai fini della divisione mira non solo alla determinazione del valore del bene, ma anche alla verifica circa la fattibilità di una divisione in natura, occorre ribadire il carattere sussidiario dei criteri di cui al terzo comma, destinati a recedere ove in atti sia stata fornita la prova della rendita catastale dell’immobile. Ric. 2020 n. 2075 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -9- Così come del pari risulta irrilevante il richiamo alla pretesa natura abusiva di parte del bene comune. Questa Corte ha, infatti, affermato che nelle cause relative alla divisione di un bene immobile, non può considerarsi l'immobile privo di rendita catastale e determinare il valore della causa secondo quanto emerge dagli atti solo perché lo stabile sia stato ampliato, essendo invece necessaria ai fini indicati, una totale trasformazione a seguito di modifiche talmente radicali da farlo considerare una entità distinta dalla preesistente non più confondibile ne identificabile con quella (Cass. n. 10573/1998). Lo stesso ricorrente riferisce di una parziale abusività del bene aggiungendo che in ogni caso, anche per le parti realizzate in assenza di provvedimento autorizzativo, sarebbe stata avanzata domanda di condono, circostanza questa che ben potrebbe assicurarne la commerciabilità. Ma quel che appare ancor più rilevante è che il preteso carattere abusivo di alcune delle parti dell’immobile può incidere solo laddove l’immobile sia interessato dal compimento di alcuni degli atti per i quali la legge prevede espressamente la sanzione della nullità, come per le ipotesi di nullità comminate dall'art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della l. n. 47 del 1985 (per la cui disciplina si veda Cass. S.U. n. 8230/2019). La deduzione difensiva del ricorrente trascura però che la liquidazione è stata operata per una controversia avente ad oggetto la domanda di usucapione del bene, e cioè un’ipotesi di acquisto a titolo originario, sottratta, in ragione del carattere formale della nullità relativa ad immobili abusivi, alla previsione di nullità, così che sul punto diviene irrilevante la circostanza che la domanda abbia ad oggetto l’usucapione di beni in tutto o in Ric. 2020 n. 2075 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -10- parte abusivi, rilevando unicamente il disposto del primo comma dell’art. 15 c.p.c. ai fini della determinazione del valore della causa, cui ragguagliare la liquidazione delle spese di lite. 6. Il ricorso è pertanto rigettato e le spese seguono la soccombenza, quanto ai controricorrenti, e si liquidano come da dispositivo, con attribuzione al difensore antistatario. Nulla a disporre relativamente alle parti rimaste intimate. 7. Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. PQM La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio in favore dei controricorrenti che liquida in complessivi € 4.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15 % sui compensi, ed accessori di legge, con attribuzione all’avvocato Raimondo Sollai, dichiaratosene anticipatario. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore somma pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13. Così deciso nella camera di consiglio del 23 maggio 2024 Ric. 2020 n. 2075 sez. S2 - ud. 23-05-2024 -11- Il Presidente Il Consigliere Estensore Felice Manna Mauro Criscuolo

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA Presidente ENRICO MANZON Consigliere GIOVANNI LA ROCCA Consigliere-Rel. LUNELLA CARADONNA Consigliere MARIA GIULIA PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Consigliere Oggetto: TRIBUTI Ud.06/12/2023 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 260/2019 R.G. proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE E DEL TERRITORIO, domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (ADS80224030587) che la rappresenta e difende; -ricorrente- contro FORNO ETTORE, domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato DI PAOLA NUNZIO SANTI GIUSEPPE (DPLNZS67B25C351B); -controricorrente- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. CALTANISSETTA n. 2303/2018 depositata il 04/06/2018. Udita la relazione svolta dal Consigliere Giovanni La Rocca nella pubblica udienza del 6 dicembre 2023; Sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alberto Cardino, che ha concluso per l’accoglimento del secondo e terzo motivo di ricorso, non essendo comparso nessuno per le altre parti. FATTI DI CAUSA 1. Ettore Forno, titolare di omonima ditta individuale esercente il commercio di prodotti di telefonia, ha impugnato l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate contenente la determinazione di maggiori ricavi e minori costi deducibili per il 2009 con conseguente recupero di imposte. 2. L'accertamento era fondato, tra l’altro, su accertamenti bancari che il contribuente ha contestato; la Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Enna ha accolto il ricorso, osservando che l’ingente imponibile accertato (circa 7.000.000,00 di euro) non poteva riferirsi all’attività commerciale svolta dal Forno, titolare di una ditta individuale di telefonia in un piccolo centro in provincia di Enna, ma doveva essere ricondotto ad altre attività e a categorie di reddito non indicate dall’Ufficio che, inoltre, non aveva esaminato le giustificazioni rese dal Forno in ordine alle movimentazioni bancarie contestate. 3. Il gravame erariale è stato rigettato dalla Commissione Tributaria Regionale (CTR) della Sicilia la quale ha confermato che il rilevante imponibile accertato doveva essere imputato non solo alla ditta di telefonia ma anche ad altre attività che non erano state accertate dall’Ufficio, sebbene indicate dal contribuente; quindi, secondo la CTR, l’art. 32 d.P.R. n. 600/1973 non era stato rispettato in quanto le giustificazioni documentali fornite dal contribuente avrebbero meritato una più attenta disamina e un riscontro mediante l’estensione delle indagini alle ulteriori attività commerciali svolte dal contribuente, il quale aveva indicato una serie di circostanze di fatto, riferibili alle sue movimentazioni bancarie, che non erano state verificate dall’Ufficio. 4. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate fondato su cinque motivi. 5. Ha resistito con controricorso il contribuente. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 nn. 3 e 4 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 21 d.lgs. n. 546/1992 e dell’art. 6 d.lgs. n. 218/1997 in quanto il ricorso iniziale era inammissibile per tardività: notificato l’atto impugnato il 23.2.2012, il ricorso era stato presentato soltanto il 20.7.2012 confidando nel termine di sospensione di gg. 90 di cui all’accertamento con adesione, che era stato proposto con chiari intenti dilatori in quanto l'istanza non conteneva alcuna proposta e il contribuente, invitato al contraddittorio, non si era presentato. 1.1. Il motivo non solo è inammissibile, come eccepito dal controricorrente, in quanto nuovo e non proposto nei precedenti gradi di giudizio, ma è pure infondato. 1.2. Va osservato che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la mancata comparizione del contribuente alla data fissata per la definizione, in via amministrativa, della lite, sia essa giustificata o meno, non interrompe la sospensione del termine di novanta giorni per l'impugnazione dell'avviso di accertamento, in quanto detto comportamento non è equiparabile alla formale rinuncia all'istanza né è idoneo a farne venir meno ab origine gli effetti (Cass. n. 27274 del 2019). L’effetto sospensivo del termine di impugnazione è automatico (Cass. n. 21096 del 2018) e non può dipendere da indagini sulla effettiva intenzione del contribuente di addivenire ad un accordo transattivo, pena l’intollerabile incertezza sulla operatività della sospensione e sul verificarsi della decadenza dall’impugnazione che, per loro stessa natura, debbono essere ancorate unicamente ad eventi oggettivi e immediatamente verificabili. 2. Con il secondo motivo deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione degli artt. 36 d.lgs. n. 546/1992, 132 comma 2 n. 4) c.p.c., 118 disp. att. c.p.c. e 112 c.p.c., in quanto la motivazione era inidonea a rivelare la ratio decidendi, essendosi la CTR limitata ad accogliere genericamente le ragioni del ricorrente in ordine alle movimentazioni bancarie, in sostanza riproducendo la sintetica motivazione del Giudice di prime cure, senza dar conto di quanto dedotto ed eccepito dall’Ufficio e rendendo così una motivazione apparente; a riprova di ciò, osserva che, oltre ai maggiori ricavi da movimentazioni bancarie, erano stati recuperati ulteriori ricavi per euro 72.299,93 e costi indeducibili per euro 35.337,00 su cui nessuna pronuncia era stata resa dalla CTR. 2.1. Il motivo è infondato. 2.2. E’ noto chenon essendo più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi - che si convertono in violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale", di "motivazione apparente", di "manifesta ed irriducibile contraddittorietà" e di "motivazione perplessa od incomprensibile", purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata (Cass. n. 23940 del 2018; Cass. sez. un. 8053 del 2014), a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (v., ultimamente, anche Cass. n. 7090 del 2022). Questa Corte ha, altresì, precisato che «la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da "error in procedendo", quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture» (Cass., sez. un., n. 22232 del 2016; conf. Cass. n. 9105 del 2017). 2.3. In questo caso la motivazione della sentenza raggiunge il c.d. “minimo costituzionale”, presenta una ratio decidendi chiaramente intelligibile con un percorso logico – giuridico chiaramente delineato: secondo i Giudici di merito, il contribuente aveva fornito giustificazioni riguardo alle movimentazioni bancarie contestate e aveva indicato le attività diverse da quella di telefonia cui si riferivano quelle operazioni (gestione di un distributore di carburante, attività di compravendita immobiliare) ma l'Agenzia non aveva svolto alcuna verifica o accertamento in merito; il silenzio della CTR su specifici recuperi, quindi, non dimostra la mancanza di motivazione della sentenza ma rappresenta, tutt’al più, una ipotesi di omessa pronuncia da censurare ex art. art. 112 c.p.c. 3. Con il terzo motivo deduce, in relazione agli artt. 360 comma 1 nn. 3 e 4, nullità della sentenza per assoluto difetto di motivazione, violazione e falsa applicazione dell’art. 32 d.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 51 del d.P.R. n. 633/1972 nonché dell’art. 2697 c.c., per aver la CTR erroneamente applicato la presunzione iuris tantum che pone a carico del contribuente l’onere di giustificare prelevamenti e versamenti sui conti correnti, aggravando l’Ufficio di oneri di verifica e riscontro che non sono previsti dalle norme, in un contesto in cui l’Ufficio aveva richiesto giustificazioni su una serie di operazioni bancarie, dettagliate per autosufficienza in ricorso (v. pagg. 29 e segg.), non giustificate o giustificate senza produzione di idonea documentazione probatoria da parte del contribuente. 3.1. Il motivo è ammissibile, denunziando una falsa applicazione di legge riconducibile al n. 3 dell’art. 360 comma 1 c.p.c. e non ricade nella preclusione di cui all’art. 348 ter comma 5 c.p.c. (c.d. “doppia conforme”), eccepita dal controricorrente, che riguarda soltanto il paradigma censorio al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. Infondata, poi, è l’ulteriore questione sollevata dal contribuente circa l’acquiescenza dell’Agenzia a quella parte della sentenza d’appello in cui si è accertata la mancata indicazione della categoria di reddito a cui ascrivere l’imponibile recuperato a tassazione; tale argomento non costituisce autonoma ratio decidendi ma è uno dei profili che ha indotto il Giudice d’appello a concludere che l’Agenzia non avesse assolto il suo onere di prova con riferimento agli accertamenti bancari; la censura in esame, dolendosi dell’applicazione della presunzione legale effettuata dalla CTR, involge anche quell’aspetto. 3.2. Ciò premesso, il motivo è fondato. 3.3. Va rammentato il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui «Le presunzioni legali in favore dell'erario derivanti dagli accertamenti bancari determinano in capo al contribuente un preciso ed analitico onere della prova contraria che non può essere assolto solo attraverso il ricorso a dichiarazioni di terzi, non potendo queste ultime assurgere né a rango di prove esclusive della provenienza del reddito accertato, né essere idonee, di per sé, a fondare il convincimento del Giudice» (Cass. n. 6405 del 2021; Cass. n. 22302 del 2022). Incombeva, quindi, sul contribuente l’onere di superare la presunzione di legge attraverso la dimostrazione in modo analitico dell'estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili mentre il giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all'efficacia dimostrativa delle prove fornite, avuto riguardo ad ogni singola movimentazione e dandone conto in motivazione (Cass. n. 35258 del 2021; Cass. n. 11696 del 2021; Cass. n. 4428 del 2020); in questo caso ha errato la CTR, che invece di valutare analiticamente le giustificazioni fornite dal contribuente, ha aggravato gli oneri di allegazione e prova in capo all’Amministrazione, che è soltanto tenuta a dare la prova dei movimenti in entrata e in uscita operati dal contribuente su conto corrente bancario, anche intestato a terzi, trattandosi di elemento costitutivo della pretesa creditoria (Cass. n. 34638 del 2022). 4. Con il quarto motivo deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2425 e 2425 bis c.c. in quanto non era stato istituito il conto/banca e le operazioni bancarie poste in essere dal contribuente non risultavano contabilizzate sul libro giornale con conseguente inattendibilità delle scritture contabili. 4.1. Il motivo resta assorbito nell’accoglimento del precedente. 5. Con il quinto motivo deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 n,. 3 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 42 del d.P.R. n. 600/1973 nonché degli artt. 18 e 24 del d.lgs. n. 546/1992 per infondatezza dell’eccezione del contribuente in ordine alla nullità dell’avviso di accertamento a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 37 del 2015. 5.1. Il motivo, dedotto in subordine, è comunque inammissibile per carenza di interesse poiché la questione non è stata neppure trattata dal Giudice del merito. 6. Conclusivamente, accolto il terzo motivo, assorbito il quarto e rigettati gli altri, la causa deve essere rinviata alla Corte di merito per gli accertamenti del caso e per la decisione sulle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. accoglie il terzo motivo di ricorso, assorbito il quarto e rigettati gli altri; cassa di conseguenza la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, il 06/12/2023. Il Consigliere estensore Il Presidente GIOVANNI LA ROCCA ERNESTINO LUIGI BRUSCHETTA

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CATALDI Michele - Presidente Dott. LENOCI Valentino - Consigliere Dott. DI MARZIO Paolo - Consigliere Dott. LUME Federico - Consigliere rel. Dott. CHIECA Danilo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 12656/2022 R.G. proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato, elettivamente domiciliata presso gli uffici dell'Avvocatura in Roma alla via del Portoghesi n. 12; - ricorrente - contro De.An., rappresentato e difeso dall'avv. An.Ba. in forza di procura in calce al controricorso e domiciliato presso la cancelleria della Corte di cassazione, indirizzo PEC: (...) - controricorrente - avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Liguria n. 322/2022, depositata in data 15/03/2022; udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 19/04/2024 dal consigliere dott. Federico Lume; udito il PM in persona del sostituto Procuratore generale dott. Tommaso Basile che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; udito l'avv. Da.Pi. per l'Avvocatura Generale dello Stato; udito l'avv. An.Ba. per parte controricorrente. FATTI DI CAUSA 1. De.An., godendo dello status di soggetto equiparato alle vittime del dovere, ai sensi dell'art. 1, comma 564, della L. n. 266/2005 in quanto aveva contratto patologia asbestosica nel servizio svolto quale sottufficiale della Marina Militare, invocando la disposta equiparazione legislativa tra le vittime del dovere e le vittime della criminalità organizzata e del terrorismo, di cui all'art. 1, comma 211, della L. n. 232/2016, chiedeva il rimborso della maggior Irpef trattenuta sulla propria pensione a decorrere dall'1/01/2017. 2. Formatosi il silenzio rifiuto, la Commissione Tributaria Provinciale della Spezia accolse la domanda. La Commissione Tributaria Regionale della Liguria rigettò l'appello della Agenzia delle Entrate; in particolare affermò la legittimazione esclusiva dell'Agenzia delle Entrate nella controversia attinente al rapporto d'imposta e non al rapporto pensionistico; e che dagli atti emergeva che il Comitato di verifica aveva ritenuto sussistenti le condizioni previste dalla specifica normativa per l'attribuzione all'interessato della speciale elargizione unica in quanto equiparato a vittima del dovere, con liquidazione dell'indennità in euro 24.530,00; tale elargizione era prevista dall'art. 5, comma 1, della L. n. 206/2004, in materia di vittime del terrorismo, e l'art. 8 prevedeva che l'erogazione della indennità era esente da imposte dirette o indirette; identica era la ratio della norma successiva sulla stessa materia, la L. n. 232/2016, art. 1, comma 211, che ribadiva che ai trattamenti spettanti alle vittime del dovere si applicassero gli stessi benefici della L. n. 206/2004; escludeva la validità della tesi dell'ufficio secondo cui la norma era riferita ai soli trattamenti pensionistici e non alla speciale elargizione. 3. Contro tale sentenza l'Agenzia delle Entrate propone ricorso, affidato a un motivo. Il contribuente resiste con controricorso, notificato anche all'Inps, illustrato da successiva memoria. Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 10/10/2023 e poi per la pubblica udienza del 19/04/2024, per le quali il controricorrente ha depositato memorie. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con l'unico motivo di ricorso l'Agenzia deduce violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1, comma 211, della L. n. 232/2016 e dell'art. 2697 cod. civ., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., con riferimento alla ritenuta spettanza dell'esenzione Irpef in relazione a qualsiasi trattamento pensionistico corrisposto a soggetto rientrante nella categoria delle vittime del dovere; evidenzia in particolare che l'esenzione Irpef estesa alle vittime del dovere dall'art. 1, comma 211, della L. n. 232/2006, vada riferita ai soli trattamenti pensionistici che trovino il loro presupposto nel particolare status di soggetto equiparato a vittima del dovere, come chiarito anche nel Messaggio INPS n. 3274 del 10/08/2017, e quindi in definitiva alle sole pensioni privilegiate correlate all'evento che aveva dato luogo al riconoscimento dello stato di soggetto equiparato; in tal senso deporrebbero sia l'interpretazione letterale, imposta dalla natura agevolativa dei benefici in parola, che l'interpretazione sistematica, dovendosi fare riferimento agli stessi trattamenti agevolativi previsti per le vittime del terrorismo; evidenzia infine che nel caso di specie la parte non aveva provato, come suo onere, di godere di trattamenti pensionistici privilegiati. 1.1. Occorre appena premettere che correttamente la CTR ha ritenuto, con statuizione non censurata, l'INPS privo di legittimazione processuale (Cass. 22/02/2023, n. 5531; Cass. 30/11/2022, n. 35254; Cass. 15/12/2020, n. 28570; Cass. 24/10/2019, n. 27377; Cass. 12/12/2018, n. 32082), in quanto si tratta di controversia che ha ad oggetto esclusivamente il rapporto fiscale tra i contribuenti e l'Amministrazione finanziaria, in relazione al quale l'INPS si è limitato alle trattenute fiscali quale sostituto d'imposta, senza con questo costituire parte di un contenzioso relativo all'entità del debito fiscale. 2. Il motivo non è fondato, anche se la motivazione deve essere integrata e corretta nei termini che seguono. La L. n. 266/2005, nel ridefinire ed ampliare la nozione di vittime del dovere, originariamente prevista dall'art. 3 della L. n. 466/1980, ha previsto le vittime del dovere (art. 1, comma 563) e i soggetti equiparati alle vittime del dovere (art. 1, comma 564). Più precisamente, come già ritenuto da questa Corte (Cass., Sez. U., 24/02/2022, n. 6214), essa ha individuato, nel comma 563, talune attività che, ritenute dalla legge pericolose, nel caso in cui abbiano comportato l'insorgenza di infermità, possono automaticamente portare ad attribuire alle vittime i benefici quali vittime del dovere; ha elencato, nel comma 564, i "soggetti equiparati", ossia coloro che non abbiano riportato le lesioni o la morte in una delle attività che il legislatore ha ritenuto per loro natura pericolose, ma in altre attività che pericolose lo fossero o lo fossero diventate per circostanze eccezionali. La legge ha altresì programmato una progressiva estensione in favore di (entrambe) tali categorie dei benefici già previsti in favore delle vittime della criminalità e del terrorismo (art. 1, comma 562), rinviando in primo luogo ad un regolamento per disciplinare le modalità di corresponsione delle "provvidenze". Il regolamento è stato emanato con D.P.R. n. 243/2006 che ha provveduto all'estensione di taluni benefici e provvidenze. In materia fiscale, (alcuni de) i benefici sui trattamenti pensionistici previsti dalle norme in tema di vittime del terrorismo sono stati estesi dall'art. 1, comma 211, della L. n. 232/2016, a decorrere dall'1/01/2017 (su tale specifico punto v. Cass. 11/07/2023, n. 1978; Cass. 25/10/2023, n. 29549; Cass. 05/10/2023, n. 28051); in particolare la disposizione ha esteso (entrambi) i benefìci fiscali di cui all'art. 2, commi 5 e 6, della L. n. 407/1998, e quelli di cui all'art. 3, comma 2, della L. n. 206/2004, in materia di esenzione dall'imposta sui redditi. 2.1. I giudici di merito hanno ritenuto che il beneficio dell'esenzione dall'Irpef valga per la pensione di cui gode la persona riconosciuta vittima del dovere o soggetto ad essa equiparato, come nel caso di specie, a prescindere dalla correlazione con l'evento che ha dato luogo a tale riconoscimento; in definitiva hanno ritenuto che si tratti di un beneficio di natura esclusivamente soggettiva. 2.2. La difesa erariale, nel censurare tale interpretazione, ritiene invece che l'agevolazione dell'esenzione dall'Irpef valga solo per le pensioni attribuite in conseguenza dell'evento che ha dato luogo al riconoscimento dello status di vittima del dovere e quindi alle sole pensioni di privilegio; a tal fine fa riferimento alla necessità di un'interpretazione letterale delle norme rilevanti e fa leva altresì su un'interpretazione di carattere sistematico, fondata sulla considerazione che il riconoscimento di tale ampia portata del beneficio determinerebbe un beneficio più ampio in favore delle vittime del dovere rispetto a quello spettante alle vittime del terrorismo, andando quindi la norma, se interpretata in tal senso, ben oltre la programmata estensione; evidenzia altresì la necessità che le norme che prevedono agevolazioni fiscali non possano essere oggetto di interpretazione estensiva o di applicazione analogica. 2.3. Il motivo non è fondato. In ordine alla lettera delle disposizioni rilevanti occorre osservare quanto segue. L'art. 1, comma 211, cit. prevede, in primo luogo, l'estensione dei benefici "ai trattamenti pensionistici spettanti alle vittime del dovere e ai loro familiari superstiti, di cui alla legge 13 agosto 1980, n. 466, alla legge 20 ottobre 1990, n, 302, all'art. 1, commi 563 e 564, della legge 23 dicembre 2005, n. 266". Poiché né la L. n. 466/1980 né la L. n. 302/1990 né, infine, l'art. 1, commi 563 e 564, della L. n. 266/2005, questi ultimi già sopra riportati, prevedono alcun trattamento pensionistico ma regolano la nozione di vittime del dovere, gli istituti della cd. speciale elargizione e dell'assegno vitalizio nonché altri benefici, come l'esenzione dai ticket sanitari o il diritto di assunzione presso le pp. aa., deve evidentemente ritenersi che i richiami normativi operati siano funzionali esclusivamente a delimitare l'ambito dei destinatari dell'estensione e non dei trattamenti pensionistici beneficiati. Ciò premesso, deve quindi evidenziarsi che la lettera dell'art. 1, comma 211, cit. estende i benefici, di cui si dirà, a tutti i "trattamenti pensionistici", senza indicare alcuna necessaria correlazione della pensione con l'evento che ha determinato il riconoscimento dello status di vittima del dovere. Né alcun argomento in tal senso si ricava dalle norme regolative dei benefici estesi, in particolare dall'art. 3, comma 2, della L. n. 206/2004. La prima estensione (operata dal richiamo all'art. 2, commi 5 e 6, della L. n. 407/1998) riguarda l'esenzione dall'Irpef: a) del trattamento speciale di reversibilità corrisposto ai superstiti dei caduti; b) delle pensioni privilegiate dirette di prima categoria erogate ai soggetti di cui all'art. 1, comma 2, della stessa legge, che siano anche titolari dell'assegno di superinvalidità di cui all'articolo 100 del D.P.R. n. 1092/1973. La seconda estensione (quella della misura dell'art. 3, comma 2, della L. n. 206/2004 e che è quella pertinente al caso di specie) riguarda "la pensione maturata ai sensi del comma 1" che "è esente dall'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF)". È pacifico che anche in tal caso non vi sia un riferimento, ai fini dell'esenzione, al fatto che si tratti di pensione correlata al fatto che ha dato luogo al riconoscimento dello status. Del resto il comma 1 dell'art. 3 della L. n. 206/2004, richiamato dal comma 2, nella formulazione dovuta alla novella operata dall'art. 1, commi 794 e 795, della L. n. 296/2006, a decorrere dal 1° gennaio 2007, prevede che "A tutti coloro che hanno subito un'invalidità permanente di qualsiasi entità e grado della capacità lavorativa, causata da atti di terrorismo e dalle stragi di tale matrice e ai loro familiari, anche superstiti, limitatamente al coniuge ed ai figli anche maggiorenni, ed in mancanza, ai genitori, siano essi dipendenti pubblici o privati o autonomi, anche sui loro trattamenti diretti, è riconosciuto un aumento figurativo di dieci anni di versamenti contributivi utili ad aumentare, per una pari durata, l'anzianità pensionistica maturata, la misura della pensione, nonché il trattamento di fine rapporto o altro trattamento equipollente". L'aumento figurativo dell'anzianità, ulteriore e diverso beneficio rispetto all'esenzione Irpef, anche in tal caso non è relativo alla pensione maturata a seguito dell'evento lesivo. La tesi dell'ufficio non appare pertanto supportata dalla lettera delle citate disposizioni; tale considerazione, del resto, esclude la validità del riferimento alla costante giurisprudenza di questa Corte secondo la quale le norme che prevedono agevolazioni tributarie non possano essere oggetto di interpretazione estensiva né analogica, poiché alla luce di quanto evidenziato non vengono in rilievo né l'una né l'altra. 2.4. Ne appare deporre in senso diverso l'interpretazione sistematica proposta dalla difesa erariale laddove fa riferimento al rischio che l'interpretazione accolta dalla CTR attribuisca alle vittime del dovere e ai soggetti equiparati un beneficio maggiore di quello spettante alle vittime del terrorismo, andando quindi ben oltre la programmata estensione ai primi dei benefici previsti per le seconde. In primo luogo, la piana lettura dell'art. 3, commi 1 e 2, della L. n. 204/2006 depone nel senso che l'esenzione, anche per le vittime del terrorismo, concerna il trattamento pensionistico in quanto tale e neanche quello conseguito a seguito dell'aumento figurativo di cui al comma 1. E tale conclusione è avallata anche dai documenti di prassi. Infatti l'Agenzia delle Entrate, con la risoluzione 29/07/2005, n. 108/E (richiamata anche dalla Circ. 19/10/2005, n. 113, dell'INPS), in sede di prima interpretazione della portata del beneficio, ebbe a ritenere che l'esenzione dell'art. 3, comma 2, valesse solo per la parte di pensione maturata in base all'aumento figurativo, diversamente dal beneficio previsto dall'art. 4 per le pensioni dirette in favore di chi avesse conseguito una invalidità pari o superiore all'80%, richiamando il parere reso il 10 settembre 2003 dalla Commissione Finanze della Camera dei Deputati. Però, successivamente, con la risoluzione 01/12/2008, n. 453/E la stessa Agenzia, richiamando la Direttiva P.C.M. 27/07/2007, ebbe a ritenere non solo che il beneficio spettasse sull'intero trattamento pensionistico e non sulla quota oggetto dell'aumento figurativo, ma anche che esso spettasse su tutti i trattamenti pensionistici goduti, deponendo in tal senso, in primo luogo, il dato letterale che, nel prevedere l'esenzione in esame, ne individua l'oggetto nella "pensione di cui al comma 1" e cioè nella pensione che abbia goduto dell'aumento figurativo, e non nella quota di detta pensione dovuta all'aumento figurativo. In secondo luogo, la modifica operata dal comma 794 della legge finanziaria per il 2007, dell'art, 3, comma 1, della legge n. 206 del 2004 medesima, ha sostituito, con riguardo al grado di invalidità, le parole "inferiori all'80 per cento" con quelle di "qualsiasi entità", con conseguente venir meno del trattamento fiscale di minor favore riservato alle pensioni corrisposte a fronte di una invalidità inferiore all'80 per cento. In terzo luogo, la ratio legis sottesa alla normativa di cui alla L. n. 206/2004, è individuabile nell'intento di garantire alle vittime ed ai loro familiari, anche superstiti, strumenti più adeguati di tutela e sostegno, in termini morali ed economici, che non siano meramente simbolici. 2.5. Le conclusioni raggiunte appaiono in linea non solo con la citata giurisprudenza che ha ritenuto la decorrenza dei benefici fiscali a far data dall'1/01/2017 (Cass. 11/07/2023, n. 19789; Cass. 25/10/2023, n. 29549; Cass. 05/10/2023, n. 28051 che ha in motivazione espressamente evidenziato che in tema pensionistico l'equiparazione tra le vittime del dovere e quelle della criminalità organizzata ed il terrorismo è stata effettivamente realizzata dal legislatore italiano da tale data), ma anche con la giurisprudenza di questa Corte che ha evidenziato che, ove alle vittime del dovere sia esteso uno dei benefici previsti per le vittime del terrorismo, la misura del beneficio debba essere analoga, per evitare ingiustificate disparità di trattamento (Cass., Sez. U., 27/03/2017, n. 7761, con richiami di giurisprudenza amministrativa) nonché con la considerazione espressa da Cass. 16/11/2016, n. 23300, secondo cui il diritto spettante alla vittima del dovere non rientra nell'ambito di quelli inerenti il rapporto di lavoro subordinato dei dipendenti pubblici, potendo esso riguardare anche coloro che non abbiano con l'amministrazione un siffatto rapporto, ma abbiano in qualsiasi modo svolto un servizio, in quanto il comma 564 dell'art. 1 della legge 266/2005, che estende la disciplina dettata per i dipendenti pubblici (dal comma 563 e dalla legge 466/1980) anche a "coloro" che abbiano subito infermità dipendenti da causa di servizio, delinea un'area che si estende al di là del rapporto di impiego pubblico e che ingloba, ad esempio, i militari di leva, o che potrebbe estendersi a forme regolate di volontariato, prevedendo diritti anche in favore loro o dei familiari superstiti. 3. Concludendo, il ricorso va respinto. Alla soccombenza segue condanna al pagamento delle spese di lite. Poiché risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l'art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 30/05/2002, n. 115. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; condanna l'Agenzia delle entrate al pagamento delle spese di lite in favore del controricorrente, spese che liquida in euro 1.900,00 per compensi, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie al 15 per cento, e accessori se dovuti, con distrazione in favore dell'avv. An.Ba. Così deciso in Roma, il 19 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.

Ricerca rapida tra migliaia di sentenze
Trova facilmente ciò che stai cercando in pochi istanti. La nostra vasta banca dati è costantemente aggiornata e ti consente di effettuare ricerche veloci e precise.
Trova il riferimento esatto della sentenza
Addio a filtri di ricerca complicati e interfacce difficili da navigare. Utilizza una singola barra di ricerca per trovare precisamente ciò che ti serve all'interno delle sentenze.
Prova il potente motore semantico
La ricerca semantica tiene conto del significato implicito delle parole, del contesto e delle relazioni tra i concetti per fornire risultati più accurati e pertinenti.
Tribunale Milano Tribunale Roma Tribunale Napoli Tribunale Torino Tribunale Palermo Tribunale Bari Tribunale Bergamo Tribunale Brescia Tribunale Cagliari Tribunale Catania Tribunale Chieti Tribunale Cremona Tribunale Firenze Tribunale Forlì Tribunale Benevento Tribunale Verbania Tribunale Cassino Tribunale Ferrara Tribunale Pistoia Tribunale Matera Tribunale Spoleto Tribunale Genova Tribunale La Spezia Tribunale Ivrea Tribunale Siracusa Tribunale Sassari Tribunale Savona Tribunale Lanciano Tribunale Lecce Tribunale Modena Tribunale Potenza Tribunale Avellino Tribunale Velletri Tribunale Monza Tribunale Piacenza Tribunale Pordenone Tribunale Prato Tribunale Reggio Calabria Tribunale Treviso Tribunale Lecco Tribunale Como Tribunale Reggio Emilia Tribunale Foggia Tribunale Messina Tribunale Rieti Tribunale Macerata Tribunale Civitavecchia Tribunale Pavia Tribunale Parma Tribunale Agrigento Tribunale Massa Carrara Tribunale Novara Tribunale Nocera Inferiore Tribunale Busto Arsizio Tribunale Ragusa Tribunale Pisa Tribunale Udine Tribunale Salerno Tribunale Verona Tribunale Venezia Tribunale Rovereto Tribunale Latina Tribunale Vicenza Tribunale Perugia Tribunale Brindisi Tribunale Mantova Tribunale Taranto Tribunale Biella Tribunale Gela Tribunale Caltanissetta Tribunale Teramo Tribunale Nola Tribunale Oristano Tribunale Rovigo Tribunale Tivoli Tribunale Viterbo Tribunale Castrovillari Tribunale Enna Tribunale Cosenza Tribunale Santa Maria Capua Vetere Tribunale Bologna Tribunale Imperia Tribunale Barcellona Pozzo di Gotto Tribunale Trento Tribunale Ravenna Tribunale Siena Tribunale Alessandria Tribunale Belluno Tribunale Frosinone Tribunale Avezzano Tribunale Padova Tribunale L'Aquila Tribunale Terni Tribunale Crotone Tribunale Trani Tribunale Vibo Valentia Tribunale Sulmona Tribunale Grosseto Tribunale Sondrio Tribunale Catanzaro Tribunale Ancona Tribunale Rimini Tribunale Pesaro Tribunale Locri Tribunale Vasto Tribunale Gorizia Tribunale Patti Tribunale Lucca Tribunale Urbino Tribunale Varese Tribunale Pescara Tribunale Aosta Tribunale Trapani Tribunale Marsala Tribunale Ascoli Piceno Tribunale Termini Imerese Tribunale Ortona Tribunale Lodi Tribunale Trieste Tribunale Campobasso

Un nuovo modo di esercitare la professione

Offriamo agli avvocati gli strumenti più efficienti e a costi contenuti.