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  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da: Dott. GALTERIO Donatella - Presidente Dott. SOCCI Angelo Matteo - Relatore Dott. LIBERATI Giovanni Dott. MENGONI Enrico Dott. ZUNICA Fabio ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Na.Da. nato il Omissis avverso la sentenza del 21/11/2022 della CORTE APPELLO di PERUGIA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO MATTEO SOCCI; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUIGI CUOMO che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso. L'avvocato RO.MA., sost. proc., per le PARTI CIVILI, chiede la conferma dell'impugnata sentenza. Deposita conclusioni e nota spese dichiarando che le parti civili sono ammesse al patrocinio a spese dello Stato. L'avvocato BI.FR., in difesa di Na.Da., si riporta al ricorso e ne chiede l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza della Corte di appello di Perugia del 21 novembre 2022, in parziale riforma della decisione del Tribunale di Perugia del 1 luglio 2021, si è dichiarato di non doversi procedere nei confronti di Na.Da. in ordine al reato di cui al capo 1 dell'imputazione (art. 609 bis cod. pen.; commesso il 15 gennaio 2009) per prescrizione ed è stata rideterminata la pena per il residuo reato (art. 609 bis, ultimo comma, cod. pen. commesso nei confronti di Er.Ma.; commesso il 23 aprile 2012) in anni 1 e mesi 8 di reclusione 2. L'imputato ha proposto ricorso in cassazione, per i motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen. 2. 1. Mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in relazione alle valutazioni di attendibilità delle dichiarazioni della parte offesa e ai ritenuti riscontri alle stesse (in ordine alla divisa di colore verde che avrebbe indossato il ricorrente per apparire un medico). Per la donna il ricorrente aveva indossato una divisa di colore verde (con una scritta "Servizio lavanderia"), per farsi scambiare per un medico. Il ricorrente invece esercitava nell'ospedale la professione di infermiere. In querela la donna non aveva riferito del particolare della divisa verde, solo in dibattimento, all'udienza dell'8 ottobre 2019 (dopo circa otto anni dai fatti) riferiva del camice verde. Il contrasto tra quanto dichiarato in querela e quanto riferito in dibattimento è rilevante in termini di valutazione della credibilità delle dichiarazioni della parte offesa. La Corte di appello non motiva sulla concreta possibilità per il ricorrente di procurarsi un camice verde; solo il personale medico ha accesso alle divise di colore verde. Il ricorrente è conosciuto nel reparto di urologia quale infermiere (lavorando ivi dal 2009) e con una divisa verde sarebbe stato notato e sottoposto a sanzioni disciplinari. Il Tribunale aveva indicato le dichiarazioni di Be.Ni. (caposala) e di Ci.Fr. (impiegato) per individuare il tipo di divisa indossato dagli operatori sanitari. Comunque, nessuno dei due testi aveva riferito della possibilità di accedere alle divise verdi da parte dell'imputato. Inoltre, la stessa parte offesa ha indicato sempre il ricorrente quale infermiere e non lo ha mai confuso con il personale medico. 2. 2. Difetto di motivazione sulla ritenuta attendibilità della parte offesa. Per le due sentenze la parte offesa avrebbe sempre raccontato i fatti in maniera dettagliata e costante. Per la sentenza di appello la donna sarebbe credibile anche per il comportamento tenuto immediatamente dopo i fatti di cui all'imputazione (sarebbe andata da una paziente in un'altra camera a piangere per l'accaduto e poi nell'aver riferito tutto alla caposala). Tutti i testi di riferimento, comunque, non sono stati mai escussi nel dibattimento. La sentenza, poi, non affronta nella motivazione le dichiarazioni rese dall'imputato alla caposala sullo svolgimento dei fatti, secondo la sua versione, nonostante la difesa dell'imputato avesse specificamente fatto riferimento alle dichiarazioni rese dall'imputato alla caposala. Inoltre, il ricorrente ha sempre svolto il suo lavoro con estrema professionalità come dichiarato da Be.Ni., caposala. La parte offesa in contraddizione con quanto denunciato con la querela in dibattimento negava l'effettuazione di paleggiamenti in due momenti distinti, come pure l'abbassamento dei pantaloni per toccamenti alle parti intime. Il racconto della donna risulta, quindi, estremamente incerto e contraddittorio tale da inficiare la sua attendibilità. Anche sulla reazione alle invasioni alla sua sfera sessuale la donna si contraddiceva tra quanto dichiarato in querela (non diceva nulla per paura) e quanto riferito, poi, in dibattimento (pensava di potersi fidare del ricorrente). Sulle origini etniche del ricorrente la donna si contraddiceva in quanto indicava il ricorrente come un filippino (le avevano riferito fosse filippino), mentre l'imputato è originario del Guatemala come tutti sapevano nel reparto. Conseguentemente, nessuno avrebbe potuto indicare alla donna l'imputato come un filippino. 2. 2. La parte offesa richiedeva un danno di euro 200.000,00 e il giudice di primo grado le riconosceva solo euro 2.000,00 di danni morali. La donna affermava di aver subito danni rilevanti in quanto dai fatti non avrebbe avuto più rapporti con il suo fidanzato; invece, emergeva dai social che la donna aveva avuto altre relazioni ed anche una gravidanza. Inoltre, aveva anche conseguito un diploma presso l'Istituto d'arte. 2. 3. Difetto di motivazione sulla valenza negativa attribuita dal Tribunale al mancato esame dell'imputato. Il Tribunale valorizzava negativamente l'omesso esame dell'imputato, che rendeva solo spontanee dichiarazioni. Il silenzio è un diritto dell'imputato e non può essere considerato negativamente per l'affermazione della sua responsabilità. Sul punto la decisione impugnata non motiva. 2. 4. Difetto di motivazione sulla valenza probatoria reciproca, ritenuta dal giudice di primo grado, in relazione al racconto delle due parti offese (capo 1 e capo 2 dell'imputazione). La sentenza di primo grado conferiva valore di conferma alle dichiarazioni delle parti offese la loro valutazione reciproca. Anche quest'aspetto era motivo di appello, ma la Corte di appello non motiva. Ha chiesto pertanto l'annullamento della sentenza impugnata. 2. 5. La Procura generale ha depositato richiesta scritta di inammissibilità del ricorso. 2. 6. L'imputato ha depositato memoria nella quale riprende i motivi del ricorso e ne chiede l'accoglimento. CONSIDERATO IN DIRITTO 3. Il ricorso è manifestamente infondato, in quanto i motivi sono generici e ripetitivi dell'appello, senza critiche specifiche di legittimità alle motivazioni della sentenza impugnata. Inoltre, il ricorso, articolato in fatto, valutato nel suo complesso, richiede alla Corte di Cassazione una rivalutazione, non consentita in sede di legittimità. La decisione della Corte di appello (e la sentenza dì primo grado, in doppia conforme) contiene ampia e adeguata motivazione, senza contraddizioni e senza manifeste illogicità, sulla responsabilità del ricorrente, e sulla piena attendibilità della donna, parte offesa. In tema di giudizio di Cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito. (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015 - dep. 27/11/2015, Musso, Rv. 265482). In tema di motivi di ricorso per Cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento. (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015 - dep. 31/03/2015, O., Rv. 262965). In tema di impugnazioni, il vizio di motivazione non può essere utilmente dedotto in Cassazione solo perché il giudice abbia trascurato o disatteso degli elementi di valutazione che, ad avviso della parte, avrebbero dovuto o potuto dar luogo ad una diversa decisione, poiché ciò si tradurrebbe in una rivalutazione del fatto preclusa in sede di legittimità. (Sez. 1, n. 3385 del 09/03/1995 - dep. 28/03/1995, Pischedda ed altri, Rv. 200705). 4. La Corte di appello (e il Giudice di primo grado), come visto, ha con esauriente motivazione, immune da vizi di manifesta illogicità o contraddizioni, dato conto del suo ragionamento che ha portato alla valutazione di attendibilità della parte offesa. Infatti, in tema di reati sessuali, poiché la testimonianza della persona offesa è spesso unica fonte del convincimento del giudice, è essenziale la valutazione circa l'attendibilità del teste; tale giudizio, essendo di tipo fattuale, ossia di merito, in quanto attiene il modo di essere della persona escussa, può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria. (Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006 - dep. 18/12/2006, Agnelli e altro, Rv. 235578). Le dichiarazioni della persona offesa possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. A tal fine è necessario che il giudice indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo così l'individuazione dell'iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata; mentre non ha rilievo, al riguardo, il silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame qualora si tratti di deduzione disattesa dalla motivazione complessivamente considerata, non essendo necessaria l'esplicita confutazione delle specifiche tesi difensive disattese ed essendo, invece, sufficiente una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione implicita di tale deduzione senza lasciare spazio ad una valida alternativa. (Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014 - dep. 14/01/2015, Pirajno e altro, Rv. 261730); le regole dettate dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012 - dep. 24/10/2012, Bell'Arte ed altri, Rv. 253214). 4. 1. Nel caso in giudizio le analisi delle due decisioni (conformi) sono precise, puntuali e rigorose nell'affrontare l'attendibilità della donna, rilevando come i fatti sono emersi dalle sue dichiarazioni lineari e dal suo comportamento immediatamente successivo ai fatti, ovvero era "andata in un'altra camera da una ragazza che ho conosciuto lì e sono scoppiata a piangere con la mamma, le ho raccontato più o meno i fatti e poi, niente, è venuto mio padre, ho spiegato un po' la situazione, ho spiegato la situazione alla capo reparto, nessuno mi voleva credere e alla fine ho fatto denuncia". Su questi aspetti il ricorso, articolato in fatto e in maniera del tutto generica, reitera le motivazioni dell'atto di appello senza confrontarsi con la sentenza impugnata. Sostanzialmente non contiene motivi di legittimità nei confronti delle motivazioni della sentenza impugnata. Ripropone acriticamente dubbi soggettivi, adeguatamente risolti dalle decisioni di merito. 4. 2. Dalla querela (nel ricorso si insiste sulla valutazione del contenuto della querela per l'inattendibilità della donna), del resto, non possono trarsi elementi per la valutazione di attendibilità della querelante e, al contrario, nemmeno elementi di inattendibilità, in mancanza di acquisizione al fascicolo per il dibattimento e di lettura ("In tema di letture consentite, ex artt. 431 e 511 cod. proc. pen., la querela può essere inserita nel fascicolo per il dibattimento ed è utilizzabile ai soli fini della procedibilità dell'azione penale, con la conseguenza che da essa il giudice non può trarre elementi di convincimento circa la valutazione di attendibilità della persona offesa, tranne che per circostanze o fatti imprevedibili, risulti impossibile la testimonianza dell'autore della denuncia-querela, perchè in tal caso la lettura è consentita ai sensi dell'art. 512 cod. proc. pen., anche per utilizzarne il contenuto ai fini della prova. (Nella specie, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che aveva tratto dalla querela valutazioni inerenti alla attendibilità e credibilità della persona offesa, confrontandone il contenuto con le dichiarazioni rese dallo stesso querelante in udienza)" Sez. 5, Sentenza n. 21665 del 16/02/2018 Ud. (dep. 16/05/2018) Rv. 273167 - 01). Comunque, la questione della divisa verde (in uso ai medici e indossata dal ricorrente), che non sarebbe stata indicata dalla donna nella querela, è un'argomentazione in fatto; inoltre, non sono stati indicati elementi certi che possano dimostrare l'impossibilità per l'imputato di procurarsi una divisa verde, momentaneamente. 4. 3. Anche sulle dichiarazioni relative al danno patito (che per il ricorrente sarebbero contraddittorie e non provate) non può ritenersi una complessiva inattendibilità delle dichiarazioni della donna sul contenuto essenziale delle stesse, riferibili alla violenza sessuale. Si tratta di elementi diversi: uno riferito al danno, l'altro alla commissione del reato. 5. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità ", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 3.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al gratuito patrocinio a spese dello Stato nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Perugia con separato decreto di pagamento ai sensi degli art. 82 e 83 d.P.R. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati significativi, a norma dell'art. 52 del D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 13 dicembre 2023. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Milena FALASCHI - Presidente Aldo CARRATO - Consigliere Rel. Antonio SCARPA - Consigliere Chiara BESSO MARCHEIS - Consigliere Remo CAPONI - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso (iscritto al N.R.G. 31743/2018) proposto da: BANFI LORENZO MAURO e REALI DAVID, rappresentati e difesi, in virtù di distinte procure speciali allegate al ricorso, dagli Avv.ti Claudio Bonora, Roberto Ferretti e Federico Sorrentino, elettivamente domiciliati presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, Lungotevere delle Navi, n. 30; - ricorrenti - contro BANCA D’ITALIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura rilasciata su separato foglio allegato materialmente al controricorso, dagli Avv.ti Stefani Ceci, Monica Marcucci e Nicola De Giorgi, elettivamente domiciliata presso i medesimi, in Roma, v. Nazionale, n. 91; - controricorrente - avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 4459/2018 (pubblicata il 2 luglio 2018); udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’11 aprile 2024 dal Consigliere relatore Aldo Carrato; R.G.N. 31743/2018 P.U. 11/04/2024 SANZIONI AMMINISTRATIVE udito il P.M., in persona del Sostituto P.G. Alberto Cardino, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso; udito l’Avv. Claudio Bonora, per i ricorrenti, e l’Avv. Nicola De Giorgi, per la controricorrente. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Con provvedimento del 23 ottobre 2012 n. 890349, approvato con deliberazione del Direttorio n. 689/2012, la Banca d’Italia definitiva il procedimento sanzionatorio instaurato, tra gli altri, contro Lorenzo Mauro Banfi e David Reali, quali componenti del collegio sindacale della Banca Network Investimenti spa, a seguito degli accertamenti ispettivi di vigilanza eseguiti dal 30 maggio al 30 settembre 2012, all’esito dei quali veniva irrogata, nei riguardi di ciascuno degli stessi, la sanzione pecuniaria di euro 15.000,00. Ai citati sanzionati era stato contestato l’illecito riconducibile alle carenze nei controlli imposti dall’art. 53, comma 1, lett. b) e d) del d. lgs. n. 385/1993, nonché delle norme contenute nel tit. IV cap. 11 delle Istruzioni di vigilanza delle banche – circ. 229/1999, nonché nel tit. I cap. I, parte IV, delle nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche, circ. 263/2006 – disposizioni di vigilanza del 4 marzo 2008 in materia di organizzazione e governo societario delle banche. Il Banfi e il Reali proponevano opposizione avverso la suddetta delibera sanzionatoria dinanzi al TAR Lazio, il quale – con sentenza del 25 febbraio 2015 – dichiarava il proprio difetto di giurisdizione. A seguito della riassunzione avanti alla Corte di appello di Roma, nella resistenza della Banca d’Italia e con l’intervento del PG presso la stessa Corte laziale, le opposizioni venivano integralmente respinte con sentenza n. 4459/2018, ravvisandosi l’insussistenza: a) della dedotta violazione dell’art. 14 della legge n. 689/1981, avuto riguardo all’asserita tardività della contestazione dell’addebito, avvenuta oltre il novantesimo giorno dall’accertamento del 30 settembre 2011; b) della denunciata violazione della mancata corrispondenza tra contestazione e condotta sanzionata; c) della prospettata carenza, erroneità e motivazione dell’impugnata delibera sanzionatoria; d) dell’erroneità dell’accertamento di condotte illecite ascrivibili a componenti del collegio sindacale della Banca Network Investimenti; e) della sproporzione ed incongruità della misura delle sanzioni irrogate. 2. Contro la suddetta sentenza di rigetto della Corte di appello di Roma hanno formulato un congiunto ricorso per cassazione Banfi Lorenzo Mauro e Reali David, affidato a otto motivi (di cui il primo riferibile, in via esclusiva, al solo Reali). Ha resistito con controricorso la Banca d’Italia. Il PG e i difensori di entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo David Reali denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 140 c.p.c., per aver la Corte di appello ritenuto – con la sentenza impugnata - tempestiva la notifica del verbale di avvio del procedimento sanzionatorio, da considerarsi, invece, affetta da nullità. In particolare, il Reali lamenta che la procedura notificatoria di cui all’art. 140 c.p.c. non era stata correttamente eseguita, in quanto esso ricorrente non aveva reperito l’avviso del deposito presso la Casa comunale, che avrebbe dovuto essere affisso sulla porta della sua casa di abitazione. Per contro, si evidenzia che la Corte di appello aveva preso in esame la questione della scissione degli effetti della notificazione fra mittente e destinatario, la quale, tuttavia, non era stata dallo stesso sollevata in giudizio con l’atto di opposizione. 1.1. Il motivo non coglie nel segno e va disatteso. Diversamente da quanto con esso prospettato, la Corte di appello non è incorsa nella dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., dal momento che ha posto riferimento alla richiamata rilevata distinzione relativa alla scissione degli effetti della notificazione fra notificante e notificatario proprio per desumerne che, nella fattispecie, non si era venuta a verificare la supposta violazione dell’art. 140 c.p.c. La Corte laziale, proprio sulla base di questo ormai pacifico presupposto giuridico (che trova applicazione anche nell’ambito dei procedimenti sanzionatori amministrativi: cfr. Cass. SU n. 12332/2017, Cass. n. 28388/2017 e Cass. n. 20515/2020), ha ritenuto legittima e tempestiva la notificazione dell’atto di contestazione dell’addebito nei confronti del Reali, rilevando che, a fronte della definizione dell’accertamento avvenuto il 30 settembre 2011, si era provveduto all’invio del suddetto atto di contestazione, da parte della Banca d’Italia, con la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario il 21 dicembre 2011 e, quindi, entro il termine decadenziale di legge. A tal proposito la Corte di appello ha opportunamente richiamato, considerandolo applicabile, quanto statuito dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 12332/2017, con cui è stato affermato che il principio della scissione degli effetti della notificazione tra il notificante ed il destinatario dell'atto trova applicazione anche per gli atti del procedimento amministrativo sanzionatorio - non ostandovi la loro natura recettizia – tutte le volte in cui dalla conoscenza dell'atto stesso decorrano i termini per l'esercizio del diritto di difesa dell'incolpato e, ad un tempo, si verifichi la decadenza dalla facoltà di proseguire nel procedimento sanzionatorio in caso di omessa comunicazione delle condotte censurate entro un certo termine, dovendo bilanciarsi l'interesse del notificante a non vedersi imputare conseguenze negative per il mancato perfezionamento della fattispecie "comunicativa" a causa del fatto di terzi che intervengano nella fase di trasmissione del contenuto dell'atto e quello del destinatario a non essere impedito nell'esercizio di propri diritti, compiutamente esercitabili solo a seguito dell'acquisita conoscenza del contenuto dell'atto medesimo. Pertanto, a questi fini, non rileva che l’esecuzione della notificazione sia avvenuta ai sensi dell’art. 140 c.p.c., senza trascurare il dato che lo stesso ricorrente ha attestato di aver ricevuto il plico, con effetto perciò sanante e tale da consentirgli il pieno dispiegamento delle sue attività difensive (cfr. Cass. n. 11713/2011 e Cass. n. 19522/2016). Oltretutto, per quanto evincibile dagli atti acquisiti in causa (esaminabili anche nella presente sede, vertendosi in un caso di denuncia di un vizio processuale), è emerso che il timbro apposto dall’ufficiale giudiziario che aveva proceduto alla notificazione dell’atto di contestazione degli addebiti ai sensi dell’art. 140 c.p.c. reca la data del 28 dicembre 2011 e nella stessa data il medesimo aveva compiuto le attestazioni relative all’affissione dell’avviso di deposito alla porta del destinatario e all’invio di altro avviso R.R. con spedizione presso il domicilio dello stesso Reali comunicandogli l’avvenuto deposito, così risultando completata la procedura notificatoria prevista dal citato art. 140 del codice di rito (peraltro, per vincere tali attestazioni effettuate dall’ufficiale giudiziario, occorreva proporre – rimedio che non risulta, invece, essere stato esperito dal Reali - querela di falso, stante la natura fidefaciente della relazione di notificazione: v., ad es., Cass. n. 1699/2019 e, già, Cass. n. 1125/1998). Pertanto, deve ritenersi che, ai fini del rispetto del termine di cui all’art. 14 della legge n. 689/1981, non costituisce elemento integrante della notificazione l’effettiva conoscenza acquisita dal destinatario in una data successiva, la quale – semmai – esercita la sua efficacia sulle attività di cui costui ha diritto di avvalersi, quali la presentazione delle proprie controdeduzioni, il cui termine di 30 giorni previsto dal TUB viene a decorrere dalla data di ricezione del plico, avvenuta, nel caso di specie, il 10 gennaio 2012 (come dallo stesso ricorrente ammesso: cfr. pag. 8 del ricorso). 2. Con il secondo motivo di ricorso sia il Banfi che il Reali deducono la violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della legge n. 241/1990 e dell'art. 97 Cost., sul presupposto che la Corte di appello avrebbe, erroneamente, ritenuto corretta la motivazione del provvedimento sanzionatorio. La censura è priva di pregio. A tale proposito, occorre rilevare che l’atto sanzionatorio, pur se sostanzialmente riproduttivo degli esiti delle operazioni ispettive, non può certo, per tale motivo soltanto, essere considerato insufficientemente motivato (v., ad es., Cass. n. 10745/2015), rispondendo, pertanto, per quanto in modo essenziale, alle doglianze mosse dai ricorrenti, non risultando, perciò, integrata la violazione del diritto di difesa ed al contraddittorio degli stessi. Va, oltretutto, ricordato che – sul piano generale – il provvedimento sanzionatorio con cui la P.A., disattendendone le deduzioni difensive, irroga al trasgressore una sanzione amministrativa è censurabile dal giudice dell'opposizione, sotto il profilo del vizio motivazionale, unicamente nel caso in cui sia del tutto privo di motivazione (ovvero quando questa sia solo apparente) e non anche se la stessa risulti insufficiente, atteso che l'eventuale giudizio di inadeguatezza motivazionale involge una valutazione di merito che non compete al giudice ordinario, concernendo il giudizio di opposizione non l'atto della P.A., ma il rapporto sottostante (Cass. SU n. 1786/2010, Cass. n. 2959/2016 e Cass. n. 12503/2018). Nel caso di specie, oltretutto, vengono in rilievo sanzioni amministrative irrogate ex art. 144 TUB, le quali non sono comparabili a quelle di cui all’art. 187-ter TUB, e quindi non possono considerarsi del tutto soggette al regime di garanzie proprio del processo penale (Cass. n. 3656/2016 e Cass. n. 16517/2020). 3. Con il terzo motivo i due ricorrenti denunciano la nullità della sentenza o del procedimento per omessa pronuncia sull’eccezione di violazione dei principi di colpevolezza e personalità, previsti dagli artt. 3 e 6 della legge n. 689/1981, stante l’uniformità degli addebiti mossi indistintamente a tutti i membri degli organi amministrativi e di controllo della BANCA NETWORK INVESTIMENTI – BNI S.p.a. Diversamente da quanto denunciato, il Collegio rileva che – per come chiaramente emergente dallo sviluppo motivazionale contenuto nelle pagg. 10-11 della sentenza impugnata - risultano essere stati evidenziati i puntuali doveri incombenti sugli organi di controllo societari e, in particolare, le carenze concretamente rilevate nello svolgimento di tale specifica attività rispetto agli organi di amministrazione. Da ciò consegue l’insussistenza del dedotto vizio di omessa pronuncia. 4. Con il quarto motivo i ricorrenti prospettano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2403 c.c., dell'art. 53, comma 1, lett. b) e d), TUB, nonché delle norme contenute nel Titolo IV, Capitolo 1 delle Istruzioni di vigilanza per le Banche di cui alla Circolare n. 229/99 della Banca d'Italia; nel Titolo I, Capitolo 1, parte quarta delle Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le Banche, di cui alla circolare n. 263/06 della Banca d'Italia e, infine, nelle Disposizioni di vigilanza in materia di organizzazione e governo societario delle banche, adottate dalla Banca d'Italia con provvedimento del 4 marzo 2008, in ordine al contenuto degli obblighi di controllo del Collegio sindacale. In sostanza, con tale censura, i ricorrenti denunciano, nel ripercorrere le motivazioni del provvedimento sanzionatorio, che la Corte di appello avrebbe avvalorato l’attribuzione ai sindaci della citata banca (qualità rivestita dal Banfi e dal Reali) della funzione di valutare nel merito la convenienza ed opportunità delle scelte gestorie societarie, obliterando, però, di considerare che al collegio sindacale non compete l’organizzazione delle funzioni di controllo interno, spettanti alla governance bancaria. La censura è priva di fondamento. La sentenza impugnata si è, infatti, uniformata alla giurisprudenza – ormai costante – di questa Corte, alla stregua della quale sono stati enunciati i seguenti principi: - in tema di sanzioni amministrative pecuniarie applicabili ai sensi degli artt. 144 e 145 TUB, il componente del collegio sindacale è imputabile a titolo di dolo o di colpa per l'omesso o il difettoso compimento, cosciente e volontario, dei doveri di controllo e di ispezione di cui all'art. 2403, terzo comma, c.c., non diversamente da quanto previsto dalla disciplina generale dell'illecito amministrativo di cui alla legge n. 689 del 1981 che esclude forme di responsabilità oggettiva; - in materia di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia bancaria, i componenti del collegio sindacale, i quali, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la corretta gestione societaria, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo "quoad functione", gravando sui sindaci, da un lato, l'obbligo di vigilanza in funzione non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche della verifica dell'adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno della società, secondo i parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare di vigilanza e, dall'altro lato, l'obbligo legale di denuncia immediata alla Banca d'Italia. In altri termini, diversamente da quanto prospettato con il motivo in esame, non si tratta di imputare ai sindaci una responsabilità per il compimento di operazioni irregolari o illecite da parte di altri, né di sottoporre gli organi amministrativi ad un controllo sul merito delle scelte gestionali, ma di esigere l’esercizio tempestivo dei poteri ispettivi che la legge pone a carico dei sindaci, esercizio che, nella specie, la Corte di appello di Roma ha accertato essere mancato con una motivazione del tutto logica e sufficiente, perciò insindacabile nella presente sede di legittimità. Al riguardo, la citata Corte (v., soprattutto, pagg. 13-14 della motivazione della sentenza qui impugnata) ha adeguatamente evidenziato l’assenza di iniziative volte a far emergere e a rimuovere le anomalie e le irregolarità rilevate (sul punto, v. Cass. SU n. 20934/2009 e, già con specifico riferimento alle sanzioni ex art. 144 TUB, Cass. n. 5239/2008), non essendosi i medesimi attivati per far emergere gli indici di criticità correlati all’attività gestoria bancaria (tra i quali la larga diffusione di condotte scorrette dei promotori, la vendita di prodotti rischiosi senza adeguate cautele, il ritardo nella segnalazione dell’applicazione della normativa antiriciclaggio). 5. Con il quinto motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione della disciplina normativa regolatrice del riparto dell’onere probatorio, di cui all’art. 2697 c.c. ed all'art. 3 della legge n. 689/1981 (in rapporto all’art. 115 c.p.c.), sostenendosi che la Corte di appello avrebbe conferito rilevanza unicamente alle risultanze degli accertamenti ispettivi, senza considerare le controdeduzioni documentali degli stessi ricorrenti, fra le quali il rapporto della BANCA D’ITALIA 18.10.2012 prot. 0873007/12, che aveva escluso qualsivoglia responsabilità, e degli organi gestori e degli organi di controllo, per le perdite patrimoniali subite da BNI. Contrariamente a quanto sostenuto con la formulata censura, deve evidenziarsi che la Corte di appello non si è limitata a recepire acriticamente e pedissequamente le risultanze degli accertamenti ispettivi, ma ha provveduto a vagliare autonomamente e in modo tra loro coordinato varie circostanze fattuali, fra cui: il significativo contenzioso sviluppatosi a seguito della offerta di prodotti finanziari non adeguati, nel periodo di operatività dell’organo sindacale di controllo; il non aver impedito, quindi, un’estesa diffusione di vendita incauta di prodotti ad elevata rischiosità per la clientela (oltretutto riferita ad una banca di piccole dimensioni) e – come già evidenziato - il ritardo nell’adozione della normativa antiriciclaggio. Peraltro, è appena il caso di aggiungere che il riferimento al su citato rapporto della Banca d’Italia concerne unicamente lo specifico problema della diminuzione della patrimonialità della BNI, ma non esclude in alcun modo che all’organo di controllo fossero addebitabili specifiche omissioni nelle loro funzioni. 6. Con il sesto motivo i ricorrenti denunciano l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, con riferimento all’arco temporale degli accertamenti ispettivi. Si deduce che tali accertamenti avrebbero posto riferimento unicamente a fatti occorsi fra il maggio 2010 e il settembre 2011, senza considerare quelli anteriori, sui quali la stessa Banca d’Italia aveva condotto un accertamento ispettivo diverso da quello oggetto della presente causa, riferibile sino alla data del 17.10.2008, conclusosi senza la contestazione di addebiti. Diversamente da quanto opinato dai ricorrenti, la Corte di appello ha adeguatamente chiarito che l’esclusione della responsabilità del sindaco Favalesi era giustificata dal fatto che egli aveva cominciato a svolgere il suo incarico dal 27 aprile 2010, nel mentre il Banfi e il Reali lo avevano assunto a far data dal 26.9.2007 e che le loro omissioni di vigilanza - nel corso del periodo in cui essi avevano rivestito tale qualità - erano state verificate con gli accertamenti ispettivi che erano stati poi posti a fondamento della impugnata delibera sanzionatoria. La circostanza della contestata “perimetrazione temporale” risulta, dunque, essere stata esaminata. 7. Con il settimo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 53, 144 e 145 TUB in relazione al rilievo ispettivo n. 11), con il quale si contestava la mancata osservanza delle prescrizioni antiriciclaggio, di cui all’art. 7, d.lgs. 231/2007, fattispecie estranea al potere di controllo degli Istituti di credito e di normazione secondaria della Banca d’Italia, di cui al citato art. 53 TUB. A tal proposito va rilevato che l’area applicativa dell’art. 53 TUB concerne il controllo interno (comma 1, lett. d) e il contenimento del rischio (comma 1, lett. b) e la violazione della relativa normativa secondaria trova la disciplina sanzionatoria nell’art. 144 TUB. Nel caso, non risulta essere stato applicato il procedimento sanzionatorio previsto dall’art. 56 del d.lgs. 231/2007, che pertanto non viene in rilievo nella vicenda dedotta in causa. 8. Con l’ottavo ed ultimo motivo i ricorrenti denunciano l’omessa pronuncia sulla dedotta incompetenza della Banca d’Italia all’irrogazione di sanzioni concernenti la prestazione di servizi di investimento, da intendersi, invece, devoluta alla competenza CONSOB dal TUF. La doglianza è priva di fondamento, dal momento che la Corte di appello ha preso specifica posizione sulla questione (v. ultima parte di pag. 11 e la prima della successiva pag. 12), rilevando che le sanzioni irrogate al Banfi e al Reali attenevano alla violazione della disciplina dell’attività di controllo interno e non invadevano, pertanto, la sfera di attribuzioni propria della CONSOB. Più specificamente nella sentenza impugnata è stato correttamente posto in risalto che non aveva rilievo che la contestata carenza nei controlli interni concernesse anche l’attività di collocamento tra i clienti della banca di prodotti finanziari soggetta a vigilanza della CONSOB, poiché la contestazione e la conseguente sanzione applicata avevano riguardato i controlli interni della banca e l’adeguatezza dell’attività di controllo da esercitarsi sulle funzioni societarie e non esorbitavano, quindi, dai compiti di vigilanza sulle banche assegnati alla Banca d’Italia. È da escludersi, quindi, la sussistenza della dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c. 9. In definitiva, il ricorso va integralmente respinto, con conseguente condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo. Infine, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 3.700,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali in misura del 15%. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1- bis dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte di cassazione, in data 11 aprile 2024. Il Consigliere estensore La Presidente Aldo Carrato Milena Falaschi

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente Dott. GIORDANO Emilia Anna - Consigliere Dott. ROSATI Martino - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ig.Gi. , nato a R il (Omissis); avverso l'ordinanza del 13/09/2023 emessa dal Tribunale di Roma visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Fabrizio D'Arcangelo; udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Silvia Salvadori, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso; udito il difensore, avvocato Vi.Ca., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza impugnata, il Tribunale di Roma ha rigettato l'appello cautelare proposto avverso il provvedimento del 19 gennaio 2023 con il quale la Corte di Appello di Roma ha rigettato la richiesta di revoca dell'ordinanza di ripristino della misura cautelare della custodia in carcere disposta nei confronti di Ig.Gi. Il ricorrente è stato condannato, all'esito del giudizio di primo grado, alla pena di due anni e sei mesi di reclusione per il delitto di maltrattamenti in famiglia ai danni di Ki.He. , di lesioni personali ai danni della stessa e di resistenza a pubblico ufficiale. 2. L'avvocato Vi.Ca., nell'interesse dell'Ig.Gi. , ricorre avverso tale ordinanza e ne chiede l'annullamento. Con un unico motivo, il difensore censura la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e all'adeguatezza della misura cautelare della custodia in carcere. Rileva il difensore che il Tribunale di Roma non avrebbe considerato che l'imputato, dopo la sentenza di condanna di primo grado, non ha tenuto condotte violente ai danni delle persone offese. Precisa, inoltre, il difensore che la persona offesa, nelle sommarie informazioni rese in data 26 novembre 2022, ha escluso che, in occasione dell'ultima violazione contestata del divieto di avvicinamento, l'imputato avesse usato violenza nei suoi confronti e ha precisato che era stata lei stessa a chiedergli di incontrarsi, per trascorre del tempo insieme e fargli conoscere il loro figlio, nato pochi mesi prima; la persona offesa, peraltro, avrebbe espresso "parere favorevole alla scarcerazione" del ricorrente, depositato personalmente in data 16 gennaio 2023 presso la cancelleria della Corte di appello di Roma. Ad avviso del difensore, dunque, anche in ragione dei sette mesi già trascorsi dall'imputato in carcere, non sussisterebbe più alcuna esigenza cautelare e, comunque, la misura della custodia cautelare in carcere si rivelerebbe, ormai, sproporzionata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile in quanto in quanto i motivi proposti sono manifestamente infondati e, comunque, diversi da quelli consentiti dalla legge. 2. Con un unico motivo, il difensore censura congiuntamente la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari e all'adeguatezza della misura cautelare della custodia in carcere. 3. Il motivo è, tuttavia, inammissibile, in quanto si risolve nella confutazione in fatto delle argomentazioni espresse dal Tribunale di Roma, senza dimostrarne la manifesta illogicità, e, dunque, in una sollecitazione a pervenire a nuovo esame in ordine alle esigenze cautelari ravvisabile nel caso di specie. Occorre, tuttavia, rilevare che esula dalle funzioni della Corte di cassazione la valutazione della sussistenza o meno dei gravi indizi e delle esigenze cautelari, essendo questo compito primario ed esclusivo dei giudici di merito. Il ricorso per cassazione che deduca l'assenza esigenze cautelari è, dunque, ammissibile solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ma non anche quando propone censure che riguardano la ricostruzione dei fatti, o che si risolvono in una diversa valutazione degli elementi esaminati dal giudice di merito (ex plurimis: Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, Paviglianiti, Rv. 270628; Sez. 4, n. 18795 del 02/03/2017, Di Iasi, Rv. 269884 - 01). Muovendo da tali premesse, deve rilevarsi che il Tribunale di Roma ha argomentato congruamente la permanente attualità delle esigenze cautelari in ragione della propensione a delinquere del ricorrente e della sua acclarata e costante inaffidabilità, in ragione delle plurime violazioni accertate alla misura coercitiva del divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa. Il Tribunale ha rilevato, infatti, che l'imputato ha maltrattato la persona offesa e cagionato lesioni alla stessa nelle date del 15 settembre 2021, del 27 ottobre 2021, del 28 novembre 2021, del 15 dicembre 2021 e del 10 marzo 2022, quando, in occasione dell'arresto, ha commesso anche il reato di resistenza a pubblico ufficiale; ulteriori episodi di aggressività e di violenza nei confronti anche dei familiari della persona offesa erano stati denunciati dalla stessa in data 27 dicembre 2021 e in data 8 gennaio 2022. In data 24 novembre 2022, inoltre, l'imputato ha violato il divieto di avvicinamento impostogli dall'autorità giudiziaria, accettando di incontrare la persona offesa e trascorrendo con lei un giorno e una notte. Il Tribunale ha, inoltre, congruamente ritenuto che tali elementi siano così significativi da rendere subvalente il consenso della persona offesa all'ultimo incontro e l'assenza di violenza e di maltrattamenti da parte dell'imputato nel corso dello stesso. D'altra parte, il consenso della persona offesa all'incontro con l'imputato, sottoposto al divieto di avvicinamento di cui all'art. 282 - ter cod. proc. pen. , non elide la volontarietà della violazione accertata, né la giustifica, in quanto non può derogare alla misura coercitiva imposta dall'autorità giudiziaria. Nella valutazione, non certo illogica, del Tribunale, dunque, le reiterate condotte violente poste in essere dall'imputato, anche quando la persona offesa era in stato di gravidanza e nei confronti dei suoi famigliari, rendono necessario il ricorso ad un presidio cautelare non rimesso all'autodisciplina dell'imputato e l'unica misura coercitiva adeguata e proporzionata all'intensità delle esigenze cautelari ravvisate nel caso di specie è la custodia cautelare in carcere. 4. Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. , al pagamento delle spese del procedimento. In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso siano stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata invia equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1 - ter, disp. att. cod. proc. pen. Così deciso il 7 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. VERGA Giovanna - Presidente Dott. DI PAOLA Sergio - Consigliere Dott. DE SANTIS Anna Maria - Consigliere Dott. CIANFROCCA Pierluigi - Consigliere Dott. COSCIONI Giuseppe - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Sa.Ga. nato a B il (Omissis) avverso l'ordinanza del 21/12/2023 della CORTE APPELLO di BOLOGNA udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE COSCIONI; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale PERLA LORI, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso; RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 21 dicembre 2023, la Corte di appello di Bologna dichiarava inammissibile l'istanza di revisione proposta nell'interesse di Sa.Ga. avverso la sentenza di condanna della Corte di appello di Trieste, che aveva confermato la decisione di primo grado di condanna di Sa.Ga. per il reato di circonvenzione di incapace; la Corte di appello non aveva ritenuto che potesse essere definita "prova nuova" ai sensi dell'art. 630 comma 1 lett. c) cod. proc. pen. una nuova perizia sullo stato psichico della persona offesa. 1.1 Avverso l'ordinanza ricorre per Cassazione il difensore di Sa.Ga., premettendo che per il giudizio proprio della fase rescindente o sull'ammissibilità, la prova nuova costituita dalle risultanze della perizia è dato in astratto idoneo a scalfire la pronuncia di condanna secondo sommaria delibazione, senza che, per ci vengano in considerazione quegli approfonditi esami riservati al giudizio rescissorio; ciò premesso, osserva che la Corte di appello, nell'affermare che la perizia non costituiva prova nuova e che nessun nuovo metodo scientifico era posto a sostegno della perizia di parte, non aveva formulato un giudizio prognostico sulla novità della metodologia e sulla efficacia della stessa, per cui non aveva proceduto ad una congrua valutazione della metodica adottata, avendo solo apoditticamente affermato che "nessun nuovo metodo scientifico è posto a sostegno della perizia di parte" ed avendo omesso ogni motivazione finalizzata a stabilire se il nuovo metodo applicato alle emergenze processuali già acquisite fosse in concreto produttivo di effetti diversi rispetto a quelli già ottenuti e potessero far sorgere il ragionevole dubbio sulla colpevolezza della persona di cui si era affermata la personale responsabilità. CONSIDERATO IN DIRITTO 1.11 ricorso è inammissibile. 1.1 Si deve infatti ribadire che "In tema di revisione, nella nozione di nuove prove rilevanti a norma dell'art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., ai fini dell'ammissibilità della relativa istanza, non rientrano quelle esplicitamente valutate dal giudice di merito, anche se erroneamente per effetto di travisamento, potendo, in tal caso, essere proposti gli ordinari mezzi di impugnazione". (Sez.3, Sentenza n. 34970 del 03/11/2020, Iorio, Rv. 280046-01; nella motivazione della sentenza si legge che ": Con la sentenza n. 6141 del 25/10/2018-dep. 2019, Milanesi, Rv. 27462701, le Sezioni Unite hanno ribadito il costante orientamento per cui, in tema di revisione, per "prove nuove", rilevanti a norma dell'art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., ai fini dell'ammissibilità della relativa istanza, devono intendersi le prove sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna, quelle scoperte successivamente ad essa, quelle non acquisite nel precedente giudizio e quelle acquisite nel precedente giudizio, però sempre che non siano valutate neppure implicitamente (purché non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue dal giudicante). 2.2. È pertanto inammissibile, per manifesta infondatezza, la richiesta di revisione fondata non sull'acquisizione di nuovi elementi di fatto, ma su una diversa valutazione di prove già conosciute ed esaminate nel giudizio)". A tale proposito si deve ribadire che la fase rescindente del giudizio di revisione ha ad oggetto la preliminare delibazione sulla non manifesta infondatezza della richiesta, da valutarsi apprezzando l'astratta capacità demolitoria del giudicato da parte del novum ; il compito affidato al giudice della revisione nella fase rescindente è quello di "valutare in astratto, e non in concreto, la sola idoneità dei nuovi elementi dedotti a dimostrare - ove eventualmente accertati - che il condannato, attraverso il riesame di tutte le prove, unitamente a quella "noviter producta", debba essere prosciolto a norma degli artt. 529, 530 e 531 cod. proc. pen.; detta valutazione preliminare, tuttavia, pur operando sul piano astratto riguarda pur sempre la capacità dimostrativa delle prove vecchie e nuove a ribaltare il giudizio di colpevolezza nei confronti del condannato e, quindi, concerne la stessa valutazione del successivo giudizio di revisione. Nel caso in esame, la Corte di appello ha applicato correttamente la costante giurisprudenza di questa Corte secondo la quale in tema di revisione, agli effetti dell'art. 630 lett. c) cod. proc. pen., una perizia può costituire prova nuova se basata su nuove acquisizioni scientifiche idonee di per sé a superare i criteri adottati in precedenza e, quindi, suscettibili di fornire sicuramente risultati più adeguati (vedi Sez. 5, n. 4255 del 22/01/2013, Valenti Rv. 256599) osservando che, nel caso in esame, la perizia di parte prodotta dalla difesa si limita a contestare il metodo procedurale seguito dal perito di ufficio. 2. Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile; ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro 3.000,00 così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Così deciso l'11 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. COSTANZO Angelo - Presidente Dott. RICCIARDELLI Massimo - Consigliere-Rel. Dott. SILVESTRI Pietro - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere Dott. DI GIOVINE Ombretta - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso presentato da Di.Ma., nato il (Omissis) a C avverso l'ordinanza in data 7 dicembre 2023 del Tribunale di Roma visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Ricciarelli Massimo; lette le conclusioni del Pubblico ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Piccirillo Raffaele, che ha concluso per l'inammissibilità o per il rigetto del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 7 dicembre 2023 il Tribunale di Roma ha confermato in sede di riesame quella del G.i.p. del Tribunale di Velletri in data 30 novembre 2023, con cui è stata applicata a Di.Ma. la misura cautelare della custodia in carcere per i delitti di cui agli artt, 572, 605, 582, 585 cod. pen. in danno di Se.Cl. 2. Ha proposto ricorso Di.Ma. tramite il suo difensore. Deduce vizio di motivazione e violazione di legge in relazione all'art. 275, comma 3-bis cod. proc. pen. Il Tribunale aveva fondato il proprio giudizio sull'efferatezza della condotta ritendo inidonea la condizione di incensuratezza ad attenuare il rischio di recidiva. Ma in tal modo aveva valorizzato contraddittoriamente tale profilo senza dar conto della tendenza del ricorrente a ripetere condotte simili. Inoltre, risultava che la stessa persona offesa aveva deciso di continuare ad avere rapporti con Di.Ma. in funzione dei suoi compiti genitoriali, risultando il ricorrente descritto come soggetto dipendente da alcool e droga. Ma in realtà non era il ricorrente a cercare la vittima, per cui non era logico ipotizzare un rischio di recidiva. Ed ancora, il Tribunale aveva omesso di precisare le ragioni per cui non era praticabile l'adozione di una misura cautelare diversa, rafforzata dall'utilizzo di strumento elettronico di controllo, essendo stato fatto riferimento all'impossibilità di fare affidamento sulla capacità di auto-controllo del ricorrente, che fa uso di sostanza stupefacente ed è soggetto ad improvvisi scatti d'ira, avendo il giorno dell'arresto manifestato violenza anche nei confronti del titolare dell'autofficina, che si era limitato a prestare soccorso alla vittima. Si trattava di rilievo non conferente, al fine di attestare l'idoneità della custodia in carcere a scongiurare il rischio di reiterazione, e incentrato in realtà su affermazione estemporanea e dai contorni moraleggianti. 3. Il Procuratore generale ha inviato la requisitoria, concludendo per la declaratoria di inammissibilità o per il rigetto del ricorso. 4. Il ricorso è stato trattato senza l'intervento delle parti, ai sensi dell'art. 23, comma 8, D.L. n. 137 del 2020, in base alla proroga disposta dall'art. 94, comma 2, D.Lgs. 150 del 2022, come via via modificato. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Va, invero, rimarcato come il Tribunale abbia dato conto della pluralità di condotte vessatone e maltrattanti, progressivamente aggressive e violente, tenute dal ricorrente nei confronti della persona offesa, vittima anche di non lievi lesioni personali. Il Tribunale ha in particolare segnalato che, pur a fronte dell'interruzione della convivenza, il rapporto tra la persona offesa e il ricorrente, connotato da un evidente squilibrio tra le rispettive capacità di azione e reazione, era destinato a proseguire ed era in concreto proseguito in ragione della presenza di una figlia minore, avendo costituito ogni occasione di incontro la fonte di litigi, sfociati nelle condotte aggressive e violente del ricorrente, come avvenuto da ultimo in data 26 novembre 2023, allorché il ricorrente, secondo la ricostruzione del Tribunale, aveva nuovamente colpito la persona offesa, danneggiato oggetti, chiuso in casa la donna e la bimba, al mattino essendosi allontanato con il cellulare della predetta. D'altro canto, è stato sottolineato come la ricostruzione dei fatti sia stata suffragata anche dalle dichiarazioni rese dalla datrice di lavoro della persona offesa e dal titolare di un'officina presso la quale la mattina del 27 novembre la donna aveva cercato riparo. 3. In tale prospettiva è stata tutt'altro che illogicamente rilevata la sussistenza del concreto e attuale pericolo di reiterazione di condotte analoghe, correlate alle occasioni di incontro, comunque prevedibili, ed è stata altresì rimarcata la necessità di una misura custodiale, tale da prevenire in radice quella reiterazione, non essendo bastevoli misure meno afflittive, in ragione della mancanza di autocontrollo del ricorrente, dedito all'uso di droghe e di alcool e soggetto a scatti di rabbia. Si tratta di un quadro che il motivo di ricorso ha contestato, adombrando ipotesi ricostruttive alternative e l'inattendibilità della persona offesa e prospettando l'insussistenza del pericolo di reiterazione, a fronte della pregressa incensuratezza del ricorrente e dell'insufficienza del riferimento alla gravità dei fatti, in assenza di elementi tali da attestare l'incapacità di autocontrollo. Ma, a ben guardare, si tratta di deduzioni assertive e aspecifiche, del tutto inidonee a vulnerare il giudizio formulato dal Tribunale con riguardo sia alla sussistenza del pericolo di reiterazione, correlato anche alla gravità delle condotte, sia all'adeguatezza della custodia in carcere, non arbitrariamente essendo stata reputata irrilevante la pregressa incensuratezza ed essendo stata invece valorizzata, anche al fine di escludere la possibilità di applicare una restrizione domiciliare, presidiata da strumento elettronico di controllo, la circostanza che il ricorrente risulti soggetto inaffidabile, in quanto dedito all'uso di sostanze e incline alla rabbia. 4. Di qui l'inammissibilità del ricorso cui consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in ragione dei profili di colpa sottesi alla causa dell'inammissibilità, a quello della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Cosi deciso in Roma, l'8 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. BORSELLINO Maria Daniela - Consigliere Dott. D'AURIA Donato - Relatore Dott. SGADARI Giuseppe - Consigliere Dott. LEOPIZZI Alessandro - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Mi.Na. nato a P il (omissis) Hu.Si. nato a P il (omissis) Fu.Do. nato a C il (omissis) Ri.Va. nata a A il (omissis) avverso la sentenza del 12/07/2023 della Corte di Appello di Venezia visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Donato D'auria; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Luigi Cuomo, che ha chiesto dichiararsi inammissibili i ricorsi; ricorsi trattati con contraddittorio scritto ai sensi dell'art. 23, comma 8, D. L. n. 137/2020. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Venezia con sentenza del 12/7/2023, in riforma della sentenza del Tribunale di Padova in data 25/5/2022, che aveva condannato - tra gli altri - Mi.Na., Hu.Si., Fu.Do. e Ri.Va. per i reati loro rispettivamente ascritti, dichiarava non doversi procedere in ordine a taluni dei reati contestati e rideterminava la pena. 2. Mi.Na., a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione, affidandolo ad un unico articolato motivo con cui deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica con riferimento alla dichiarazione di responsabilità per i reati di cui ai capi 7), 15) e 21). Rileva che in relazione al reato di cui al capo 7), la Corte territoriale non ha tratto dalla inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, evidenziata nei motivi di appello, le dovute conseguenze, tenuto conto che Pe.Ma. solo dopo circa tre mesi dai fatti, in sede di integrazione della denunzia, ha riferito delle minacce ricevute; che, anche in relazione al reato di cui al capo 15), i giudici di appello non hanno tenuto conto delle doglianze difensive, specie in punto di errata indicazione del numero di targa dell'autovettura, di talché hanno confermato la responsabilità del ricorrente solo sulla base di una generica compatibilità di luogo e di tempo con l'indicazione parziale di una targa, non compatibile con quella attribuibile ai rapinatori; che analoghe doglianze devono essere mosse con riferimento alla motivazione relativa al reato di cui al capo 21), atteso che anche in relazione a tale reato gli elementi a carico del ricorrente sarebbero inconsistenti, tenuto conto che l'indicazione del colore dell'autovettura utilizzata dagli autori del furto è errata e che le intercettazioni ambientali sono prive di concreto significato. 3. Hu.Si., a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione, affidandolo ad un unico motivo con cui deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per carenza e contraddittorietà della motivazione con riferimento alla dichiarazione di responsabilità per il reato di cui al capo 15). Ritiene che la Corte territoriale non si sia confrontata con i motivi di appello, specie con riferimento alla errata indicazione del numero di targa dell'autovettura, per cui ha fondato il giudizio di responsabilità solo sulla base di una generica compatibilità di luogo e di tempo con l'indicazione parziale di una targa, non compatibile con quella attribuibile ai rapinatori. 4. Fu.Do. a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione, affidandolo ad un unico motivo con cui deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per carenza della motivazione con riferimento alla applicazione della recidiva ed al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza. Osserva, quanto al primo profilo, che la motivazione del provvedimento impugnato non dà conto del perché la reiterazione dell'illecito sia sintomo effettivo di maggiore riprovevolezza, avendo invece ritenuto la recidiva sulla scotta dei precedenti penali, a seguito di un automatismo non consentito; quanto al secondo profilo, che la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche - giustificata in considerazione dell'età del ricorrente, del corretto comportamento processuale e della non particolare gravità del fatto - avrebbe consentito di irrogare una pena maggiormente aderente alle specifiche circostanze di fatto. 5. Ri.Va. a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione, affidandolo ad un unico motivo con cui deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per carenza e contraddittorietà della motivazione con riferimento al mancato contenimento della pena entro il minimo edittale. Evidenzia che risulta del tutto generico il riferimento alla concreta gravità dei fatti ed alla negativa personalità dell'imputata, specie se si considera che la pena inflitta è superiore a quella minima edittale; che, dunque, la Corte territoriale avrebbe dovuto adottare una motivazione più specifica e dettagliata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso di Mi.Na. è inammissibile. Invero, l'unico motivo cui è affidato non è consentito, atteso che è costituito da mere doglianze di fatto, tutte finalizzate a prefigurare una rivalutazione alternativa delle fonti probatorie, estranee al sindacato di legittimità. In particolare, sollecita una rivalutazione delle risultanze probatorie, discutendo il peso attribuito a questo o a quell'elemento vagliato, ma non evidenziando -contrariamente a quanto predicato - manifeste illogicità motivazionali, né travisamento della prova. A questo proposito, va ricordato che il controllo di legittimità concerne il rapporto tra motivazione e decisione, non già il rapporto tra prova e decisione; sicché il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di cassazione. Ne consegue che sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sezione 3, n. 17395 del 24/1/2023, Chen Wenjian, Rv. 284556 - 01; Sezione 5, n. 26455 del 9/6/2022, Dos Santos Silva, Rv. 283370 - 01; Sezione 2, n. 9106 del 12/2/21, Caradonna, Rv. 280747 - 01; Sezione 5, n. 48050 del 2/7/2019, S., Rv. 277758 - 01; Sezione 5, n. 19970 del 15/3/2019, Girardi, Rv. 275636 - 01; Sezione 3, n. 18521 del 11/1/2018, Ferri, Rv. 273217 - 01). Peraltro, la sentenza impugnata in relazione alla ricostruzione dei fatti ascritti all'imputato costituisce una c.d. doppia conforme della decisione di primo grado, con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, essendo stato rispettato sia il parametro del richiamo da parte della sentenza d'appello a quella del Tribunale, sia l'ulteriore parametro costituito dal fatto che entrambe le decisioni adottano i medesimi criteri nella valutazione delle prove (Sezione 2, n. 6560 del 8/10/2020, Capozio, Rv. 280654 - 01). Deve esser evidenziato, inoltre, che il motivo è reiterativo di medesime doglianze inerenti alla ricostruzione dei fatti e all'interpretazione del materiale probatorio già espresse in sede di appello ed affrontate in termini precisi e concludenti dalla Corte territoriale, che ha evidenziato - con riferimento al reato di cui al capo 7) - come costituisca mera illazione quella secondo la quale la persona offesa avrebbe riferito delle minacce ricevute perché indotta dalla polizia giudiziaria, tenuto conto che non ha mostrato ostilità nei confronti degli imputati, non si è costituita parte civile ed ha effettuato una puntuale ricostruzione dell'accaduto, che ha trovato conferma nelle risultanze delle intercettazioni ambientali; come il riferimento alle minacce ricevute solo in sede di integrazione della denunzia trovi spiegazione nella circostanza per cui, tenuto conto del valore modesto dei beni sottratti e del mancato uso di violenza fisica, la persona offesa si sia determinata a sporgere denunzia solo per senso civico e che solo successivamente abbia avuto modo di rivalutare l'accaduto. Quanto al reato di cui al capo 15), i giudici di appello hanno valorizzato - tra l'altro - i) gli esiti delle operazioni di captazione, che hanno consentito di ascoltare le conversazioni intercorse all'atto della partenza ("a cinesi dovremmo andare") ed al ritorno dalla spedizione predatoria, ii) la circostanza che l'autovettura utilizzata per commettere la rapina è stata ripresa dal sistema di videosorveglianza del comune del luogo in cui è avvenuta l'aggressione in danno della persona offesa in orario del tutto compatibile, iii) il tipo di autovettura cui ha fatto riferimento il cittadino cinese rapinato. Quanto, infine, al reato di cui al capo 21), il provvedimento impugnato ha ricostruito il furto praticamente "in diretta", grazie alle intercettazioni delle conversazioni intercorse all'interno dell'autovettura utilizzata, che contengono riferimenti inequivoci alla azione criminosa messa a segno, per cui ha ritenuto irrilevante la discrasia sulla tonalità del colore grigio dell'autovettura come riferita dalla persona offesa ed il riferimento alla somma di cinquanta Euro, inferiore a quella complessiva sottratta alla cittadina cinese, di cui ha ritenuto costituisse solo una parte, contenuta in una tasca della borsa. Trattasi di motivazione congrua, esaustiva e immune da vizi logici, per cui non è censurabile in sede di legittimità. 2. Il ricorso di Hu.Si. è inammissibile per le stesse ragioni indicate sub 1, cui sul punto integralmente si rinvia. Invero, contiene le stesse doglianze in fatto già sviluppate dal coimputato Mi.Na. relative al reato di cui al capo 15), che mirano ad ottenere una diversa rivalutazione delle prove, preclusa alla Corte di legittimità. 3. Il ricorso di Fu.Do. è inammissibile. Reputa il Collegio che il profilo relativo alla mancata disapplicazione della recidiva sia aspecifico, atteso che non si confronta con la trama argomentativa del provvedimento impugnato, che ha evidenziato come debba ritenersi sussistente il legame tra le condanne annotate nel certificato del casellario giudiziale ed i fatti per cui si procede, in ragione della inefficacia della comminatoria penale rispetto ad una personalità altamente trasgressiva, quale quella del ricorrente, tale da far ritenere accentuata e più intensa la sua pericolosità. In altri termini, la Corte territoriale ha valutato che le pregresse condotte criminose siano indicative "di una persistenza di stimoli criminogeni e, dunque, di una perdurante inclinazione al delitto atta a influire quale fattore criminogeno per la commissione della nuova azione delittuosa". Ebbene, a fronte di questo articolato percorso logico argomentativo, il difensore glissa, limitandosi genericamente a denunciare la carenza motivazionale. Come reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (Sezione 6, n. 23014 del 29/4/2021, B., Rv. 281521 - 01; Sezione 3, n. 50750 del 15/6/2016, Dantese, Rv. 268385 - 01; Sezione 4, n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv. 253849; Sezione 4, n. 34270 del 3/7/2007, Scicchitano Rv. 236945 - 01). Inammissibile, infine, è il profilo relativo al bilanciamento delle circostanze, essendo la motivazione esente da manifesta illogicità, con la conseguenza che è insindacabile in cassazione (Sezione 3, n. 1913 del 20/12/2018, Carillo, Rv. 275509 - 03; Sezione 6, n. 42688 del 24/9/2008, Caridi, Rv. 242419 - 01). Ed invero, il giudizio di comparazione tra opposte circostanze, che può legittimare la diminuzione della pena, presuppone una valutazione di fatto che, se adeguatamente motivata, si sottrae al sindacato di legittimità della Corte di cassazione (Sezioni Unite, n. 10713 del 25/2/2010, Contaldo, Rv. 245931 -01; Sezione 2, n. 31543 del 8/6/2017, Pennelli, Rv. 270450 - 01). Nel caso di specie, va evidenziato che la Corte territoriale ha negato la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche nel giudizio di bilanciamento con le contestate circostanze aggravanti, valorizzando la obbiettiva gravità del fatto, desunta dalle sperimentate modalità esecutive e dalla pluralità di circostanze aggravanti, oltre che dalla negativa personalità del ricorrente, desunta dai precedenti penali specifici da cui risulta gravato. Trattasi di motivazione all'evidenza né arbitraria, né illogica. 4. Il ricorso di Ri.Va. è inammissibile. Invero, il dedotto vizio motivazionale in ordine alla congruità della pena non è ammesso dalla legge in sede di legittimità: le statuizioni relative al quantum della pena, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione (Sezione 2, n. 36104 del 27/4/2017, Mastro, Rv. 271243 - 01), tale dovendo ritenersi quella dell'impugnata sentenza che ha stimato decisive - tra l'altro - le modalità allarmanti della condotta criminosa, anche considerato il coinvolgimento in plurimi delitti di un minore, pur a fronte di una pena determinata in misura di poco superiore al minimo edittale. Dunque, in tema di dosimetria della pena, per costante giurisprudenza non vi è margine per il sindacato di legittimità quando la decisione sia motivata in modo conforme alla legge ed ai canoni di logica, in aderenza ai principi enunciati dagli artt. 132 e 133 cod. pen. 5. All'inammissibilità dei ricorsi segue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della Cassa delle ammende della somma di Euro tremila ciascuno, così equitativamente fissata. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il giorno 8 maggio 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. COSTANZO Angelo - Presidente Dott. RICCIARDELLI Massimo - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere-Rel. Dott. DI GIOVINE Ombretta - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso presentato da Pubblico Ministero presso il Tribunale di Bari nel procedimento a carico di Sc.Ge., nato a B il (Omissis); avverso l'ordinanza del 14 dicembre 2023 emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione del consigliere D'Arcangelo Fabrizio; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Piccirillo Raffaele, che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'ordinanza impugnata il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, nel procedimento penale pendente nei confronti di Sc.Ge. per il delitto di maltrattamenti in famiglia, ha rigettato la richiesta di incidente probatorio presentata dal Pubblico Ministero, ai sensi dell'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen., per l'assunzione della testimonianza delle persone offese e, in particolare, della moglie della persona sottoposta ad indagine (La.Ma.) e delle due figlie minorenni (Sc.Vi. e Sc.Ca.). Il Giudice per le indagini preliminari nel provvedimento impugnato, citando i principi affermati da Sez. 1, n. 46821 del 08/06/2023, Favia, Rv. 285455 - 01, ha rilevato che la moglie e le figlie dell'indagato sono state già sentite nel corso delle indagini e non versano in condizioni di particolare vulnerabilità (in ragione dell'età prossima alla maggiore età delle figlie, dell'inserimento sociale e della reazione opposta all'aggressore); nel caso di specie, peraltro, la persona offesa sarebbe solo la moglie dell'indagato, in quanto il delitto di maltrattamenti in famiglia sarebbe aggravato solo dalla c.d. violenza assistita e non commessa ai danni delle figlie. L'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen., inoltre, non sancisce un obbligo per il giudice di accogliere la richiesta di prova anticipata in ragione dei reati per i quali si procede e/o delle condizioni di vulnerabilità della vittima e, comunque, il rigetto di tale richiesta, secondo l'ordinamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, non determina l'abnormità dell'atto. 2. Il Pubblico Ministero ricorre avverso tale ordinanza e ne chiede l'annullamento, deducendone l'abnormità. Il Pubblico Ministero ricorrente, citando i principi affermati dalle sentenze Sez. 3, n. 34091 del 16/05/2019, P., Rv. 277686 - 01, e Sez. 3, n. 47572 del 10/10/2019, P., Rv. 277756 - 01, deduce l'abnormità dell'ordinanza del giudice per le indagini preliminari che respinga la richiesta di incidente probatorio formulata del pubblico ministero ai sensi dell'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen. Il provvedimento impugnato, infatti, disapplicherebbe una regola generale di assunzione anticipata della prova, introdotta in ottemperanza agli obblighi assunti dallo Stato e derivanti dalle convenzioni internazionali, per evitare la vittimizzazione secondaria delle persone offese di reati sessuali e di maltrattamenti; il giudice per le indagini preliminari sarebbe, dunque, obbligato a disporre l'incidente probatorio sulla base del mero titolo di reato iscritto. Il Giudice per le indagini preliminari, peraltro, avrebbe errato nell'escludere che le vittime fossero in condizione di particolare vulnerabilità, in quanto le figlie hanno una dipendenza affettiva dall'autore del reato e tutte le persone offese dal reato per cui si procede subirebbero una dipendenza economica dall'indagato, che le costringerebbe a vivere in condizioni di estrema difficoltà. Errata sarebbe, inoltre, l'esclusione della qualità di persone offese delle figlie minori, in quanto l'art. 572, quarto comma, cod. pen., sancisce che "Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato". 3. Con la requisitoria e le conclusioni scritte depositate in data 23 aprile 2024, il Procuratore generale, Piccirillo Raffaele, ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso. Con memoria depositata in data 29 marzo 2023, l'avvocato Di.Sa., difensore della persona sottoposta ad indagine, ha chiesto di rigettare il ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Ritiene la Corte che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, in quanto il motivo proposto è manifestamente infondato. 2. L'art. 392, comma 1 -bis cod. proc. pen., contempla un'ipotesi di incidente probatorio ritenuto "speciale o atipico" (come rilevato anche da Corte Cost., sentenza n. 92 del 2018), in quanto, essendo svincolato dall'ordinario presupposto della non rinviabilità della prova al dibattimento, deroga rispetto agli ordinari presupposti che governano la formazione anticipata della prova rispetto a tale fase. Tale disposizione, introdotta con la L. 15 febbraio 1996 n. 66, di contrasto alla violenza sessuale, e sostituita dalla L. 1 ottobre 2012 n. 172, di ratifica ed esecuzione della Convenzione firmata a Lanzarote nel 2007, per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale, offre la possibilità alla persona sottoposta alle indagini e al pubblico ministero, anche su richiesta della persona offesa, di chiedere l'assunzione della testimonianza della persona offesa minorenne, ovvero maggiorenne, che sia stata vittima di gravi reati, tra i quali il delitto di maltrattamenti in famiglia di cui all'art. 572 cod. pen., "anche al di fuori delle ipotesi del comma 1". La disposizione in esame è stata integrata, da ultimo, dal D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212, che recepisce la direttiva 2012/29/UE, in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, consentendo l'audizione della vittima mediante incidente probatorio, indipendentemente dal reato per cui si procede, qualora essa "versi in condizione di particolare vulnerabilità". Come emerge dai lavori parlamentari, il legislatore, nel conformarsi all'assetto normativo sovranazionale con l'introduzione dell'incidente probatorio speciale, ha inteso perseguire una duplice finalità: anzitutto, evitare la vittimizzazione secondaria, ovvero "quel processo che porta il testimone persona offesa a rivivere i sentimenti di paura, di ansia e di dolore provati al momento della commissione del fatto" (come definito da C. Cost., sentenza n. 92 del 2018); in secondo luogo, salvaguardare, per quanto possibile, la genuinità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, specialmente là dove queste rappresentino la principale prova d'accusa, atteso che l'assunzione delle stesse in un momento quanto più prossimo alla commissione del fatto costituisce anche una garanzia per l'imputato, perché lo tutela dal rischio di deperimento dell'apporto cognitivo che contrassegna, in particolare, il mantenimento del ricordo del minore. 3. Controversa è statatila valutazione della giurisprudenza di legittimità la possibilità di considerare abnorme il provvedimento con cui il giudice delle indagini preliminari rigetti la richiesta di esame in incidente probatorio, ex art. 392, comma 1 - bis, cod. proc. pen., della persona offesa vulnerabile. Una sentenza della Terza Sezione ha ritenuto abnorme l'ordinanza del giudice per le indagini preliminari che, in ragione dell'assenza di motivi di urgenza che non consentano l'espletamento della prova nel dibattimento, respinga l'istanza del pubblico ministero di incidente probatorio presentata ai sensi dell'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen. per l'assunzione della testimonianza della vittima di uno dei reati elencati dalla disposizione citata (che nella specie era quello di violenza sessuale), con ciò sostanzialmente disapplicando una regola generale di assunzione della prova, prevista in ottemperanza agli obblighi dello Stato derivanti dalle convenzioni internazionali per evitare la vittimizzazione secondaria delle persone offese di reati sessuali (Sez. 3, n. 34091 del 16/05/2019, P., Rv. 277686). Il principio affermato da questa sentenza è stato ripreso da un'altra pronuncia della stessa Sezione che ha ritenuto parimenti abnorme il provvedimento di rigetto della richiesta di assunzione della testimonianza della persona offesa nelle forme dell'incidente probatorio ai sensi del citato art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen. perché non preceduta dall'acquisizione di sommarie informazioni testimoniali rese da parte della medesima persona offesa (Sez. 3, n. 47572 del 10/10/2019, P., Rv. 277756). Secondo tali pronunce l'art. 35 della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali, conclusa a L, in data 25 ottobre 2007, e ratificata dall'Italia con la L. 1 ottobre 2012, n. 172, l'art. 18 della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata ad I, in data 11 maggio 2011, ratificata dall'Italia con L. 23 giugno 2013, n. 77, gli artt. 18 e 20 della Direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime del reato e sostituisce la precedente Decisione-quadro 2001/220/GAI, recepita nel nostro ordinamento con il D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 imporrebbero l'obbligatoria assunzione dell'incidente probatorio al fine di salvaguardare l'integrità fisica psicologica del soggetto vulnerabile e di contenere il rischio di vittimizzazione secondaria legato alla reiterazione dell'atto istruttorio. Entrambe le pronunce affermano, dunque, un vero e proprio obbligo del giudice di ammettere l'incidente probatorio finalizzato all'assunzione della deposizione di un soggetto vulnerabile richiesto ai sensi dell'art. 392, comma 1-bis, cod. pen. pen., consentendogli di rigettare la relativa richiesta esclusivamente qualora rilevi il difetto dei presupposti normativamente configurati che legittimano l'anticipazione dell'atto istruttorio (e cioè che la richiesta provenga dal pubblico ministero o dall'indagato, venga presentata nel corso delle indagini preliminari per uno dei reati elencati dalla disposizione citata, che abbia ad oggetto la testimonianza di un minore ovvero di un maggiorenne, se si tratta della persona offesa del reato o di soggetto che versa in stato di particolare vulnerabilità) anche in assenza delle condizioni generali stabilite dal comma 1 dello stesso articolo. Il giudice, nella fattispecie prevista dall'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen., sarebbe titolare di un mero onere di verifica della legittimità della richiesta e, al contempo, privo di qualsiasi potere discrezionale di valutarne la fondatezza in riferimento agli ordinari indici di ammissione della prova previsti dall'art. 190, comma 1, cod. proc. pen. 4. Secondo l'orientamento prevalente e ormai largamente dominante nella giurisprudenza di legittimità, non è, invece, abnorme il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari rigetta la richiesta, ex art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen., di esame in incidente probatorio della persona offesa vulnerabile, trattandosi di provvedimento che non si pone al di fuori del sistema processuale, che rimette al potere discrezionale del giudice la decisione sulla fondatezza della istanza, né determina la stasi del procedimento (Sez. 3, n. 29594 del 28/05/2021, P. Rv. 281878; Sez. 3, n. 29594 del 28/05/2021, P., Rv. 281718; Sez. 6, n. 46109 del 28/10/2021, P., Rv. 282354 - 01; Sez. 4, n. 3982 del 21/01/2021, Pmt. contro Orlandini, Rv. 280378; Sez. 5, n. 2554 dell'I 1/12/2020, P., Rv. 280337; Sez. 6, n. 24996 del 15/07/2020, P., Rv. 279604). 5. Ritiene il Collegio di condividere quest'ultimo orientamento. Non ricorrono, infatti, nella specie gli estremi strutturali o funzionali dell'atto abnorme; secondo l'elaborazione delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 7 del 26/04/1989, Goria, Rv. 181303; Sez. U, n. 11 del 09/07/1997, Quarantelli, Rv. 208221; Sez. U, n. 17 del 10/12/1997, dep. 1998, Di Battista, Rv. 209603; Sez. Un., 24/11/1999, dep. 2000, Magnani, Rv 215094; Sez. U, n. 33 del 22/11/2000, Boniotti, Rv. 217244; Sez. U, n. 4 del 31/01/2001, Romano, Rv. 217760; Sez. Un., 31/5/2005 n. 22909, Minervini, Rv. 231163; Sez. U, n. 5307 del 20/12/2007, dep. 2008, P.M. in proc. Battistella, Rv. 238240; Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, P.M. in proc. Toni e altro, Rv. 243590; Sez. U, n. 21243 del 25/03/2010, P.G. in proc. Zedda, Rv. 246910; Sez. U, n. 40984 del 22/03/2018, Gianforte, Rv. 273581) può, infatti, ritenersi abnorme il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del suo contenuto, risulti avulso dall'intero ordinamento processuale, ovvero che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste al di là di ogni ragionevole limite; il vizio di abnormità può riguardare sia il profilo strutturale, allorché l'atto si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, sia il profilo funzionale, quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l'impossibilità di proseguirlo. Alla luce di tali consolidate coordinate interpretative il provvedimento di rigetto dell'incidente probatorio richiesto ai sensi dell'art. 392, comma 1 - bis, cod. proc. pen., risulta riconducibile ad uno schema tipico contemplato dalla legge processuale (e, segnatamente, dall'art. 398 cod. proc. pen.) ed il suo contenuto non diverge in maniera irragionevole dai limiti che la stessa pone al giudice; men che meno determina, poi, una stasi del procedimento e, dunque, non può essere considerato abnorme, costituendo l'estrinsecazione di un potere discrezionale del giudice che risulta inidoneo a paralizzare lo sviluppo processuale (ex multis: Sez. 4, n. 2678 del 30/11/2000, dep. 2001, PM in proc. D'Amiano ed altri, Rv. 218480; Sez. 2, n. 47075 del 13/11/2003, Manzi, Rv. 227086). Al fine della qualificazione dell'atto come abnorme, del resto, non può attribuirsi rilevanza all'interesse "terzo" della persona offesa, di per sé è estraneo alla nozione della abnormità funzionale (Sez. 3, n. 29594 del 28/05/2012, P. Rv. 281878) e strutturale. Per il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, l'ordinanza di rigetto della richiesta di incidente probatorio è, del resto, inoppugnabile (ex multis Sez. 5 n. 49030 del 17/07/2017, Palmeri e altri, Rv. 271776) e tale regola non subisce eccezione solo perché l'incidente probatorio viene promosso ai sensi dell'art. 392, comma 1 - bis, cod. proc. pen., come questa Corte ha già avuto occasione di affermare (Sez. 3, n. 21930 del 13/03/2013, P.M. in proc. Bertolini, Rv. 25548301). Deve, dunque, ribadirsi che il provvedimento di rigetto dell'incidente probatorio non è impugnabile e non può considerarsi abnorme, nemmeno qualora la relativa richiesta sia stata proposta ai sensi ed ai fini di cui all'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen. 6. L'interpretazione adottata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto in ordine all'esistenza di un sindacato discrezionale del giudice sull'ammissione dell'incidente probatorio di persona vulnerabile, del resto, è pienamente legittima. La deroga introdotta dall'art. 392, comma 1-bis, cod. proc. pen. alla disciplina generale dell'ammissione dell'incidente probatorio attiene, infatti, esclusivamente all'irrilevanza in tale fattispecie del presupposto della non rinviabilità della prova al dibattimento e non già agli ulteriori profili della delibazione richiesta al giudice. Nell'esercizio del suo potere discrezionale di bilanciamento dei contrastanti interessi legati, da un lato, alle esigenze di tutela della vittima e, dall'altro, alle garanzie processuali del diritto di difesa dell'imputato, il giudice, al quale è rimessa la decisione sulla richiesta presentata ai sensi dell'art. 392, comma 1-bis cod. proc. pen., è tenuto a vagliare, in un primo momento, i requisiti di ammissibilità della richiesta e, successivamente, la fondatezza della stessa; valutazione, quest'ultima, che egli compie, nella prospettiva della rilevanza della prova ai fini della decisione dibattimentale, sulla base sia delle argomentazioni addotte dalla parte istante (ex art. 393, comma 1, cod. proc. pen.), sia delle eventuali deduzioni presentate dalla parte avversa, in ragione del contraddittorio cartolare sviluppatosi sulla richiesta, quale diritto egualmente riconosciuto alle parti dall'art. 396, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 24996 del 15/07/2020, P., Rv. 279604). 7. Gli obblighi internazionali invocati dal Pubblico Ministero ricorrente, del resto, vincolano lo Stato italiano e il giudice quanto allo scopo di evitare la vittimizzazione secondaria del soggetto debole per effetto della reiterazione dell'atto istruttorio, ma non sanciscono l'obbligo incondizionato di assunzione delle dichiarazioni di tale soggetto nelle forme dell'incidente probatorio, escludendo ogni sindacato giudiziale sul punto. L'art. 20, par. 1, della direttiva 2012/29/UE sancisce, infatti, che "fatti salvi i diritti della difesa e nel rispetto della discrezionalità giudiziale, gli Stati membri provvedono a che durante le indagini penali: a) l'audizione della vittima si svolga senza indebito ritardo dopo la presentazione della denuncia relativa a un reato presso l'autorità competente". Il diritto dell'Unione Europea, come evidenziato anche dal considerando 58 di tale direttiva, pertanto, non elide ma anzi lascia espressamente integro l'ambito di discrezionalità del giudice nella decisione in ordine all'assunzione della prova nelle forme dell'incidente probatorio. Proprio l'indefettibile assunzione dell'incidente probatorio potrebbe, del resto, risultare sproporzionata rispetto allo scopo legittimo di tutelare la personalità e la dignità del soggetto vulnerabile, ad esempio nei casi in cui la sua escussione si riveli irrilevante o superflua, perché la prova sia stata raggiunta aliunde, o perché le condizioni della vittima, per effetto della condotta delittuosa o di altra causa, sconsiglino l'immediata assunzione della testimonianza nella fase delle indagini. Il diritto dell'Unione Europea, dunque, riserva al giudice il bilanciamento tra contrapposti interessi, quali quello alla tutela della dignità e della personalità della vittima, all'accertamento processuale dei reati e alla tutela del diritto fondamentale di difesa della persona sottoposta ad indagini. Tale bilanciamento deve prioritariamente tendere a scongiurare il rischio di vittimizzazione secondaria del soggetto vulnerabile chiamato a deporre ma il perseguimento di tale fondamentale fine non fonda un obbligo di incondizionata assunzione dell'incidente probatorio. 8. L'assenza di un obbligo, in capo al giudice, di disporre l'assunzione delle prove dichiarative della persona offesa vulnerabile a seguito della presentazione di una richiesta di incidente probatorio formulata ai sensi dell'art. 392, comma 1-bis, cod. proc. pen. non è neppure censurabile sul piano costituzionale. La scelta discrezionale del legislatore - legata alla necessità di speditezza della fase delle indagini e a quella di non "appesantire oltre modo una parentesi istruttoria che la ratio del sistema vuole quanto più possibile snella" - non si pone in contrasto con le fonti internazionali, dalle quali emerge esclusivamente "un interesse primario all'adozione di misure finalizzate alla limitazione delle audizioni della vittima" e non anche un "automatismo probatorio legato all'introduzione di un vero e proprio obbligo, in capo al giudice, di disporre l'assunzione delle prove dichiarative della persona offesa vulnerabile a seguito della mera presentazione di una richiesta di incidente probatorio" (Sez. 6, n. 24996 del 15/07/2020, P., Rv. 279604). La Corte costituzionale nella sentenza n. 529 del 2002, del resto, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale della formulazione originaria dell'art. 392, comma 1 -bis, cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 2 e 32 della Costituzione, nella parte in cui non prevedeva che si potesse procedere con incidente probatorio all'assunzione della testimonianza di un minore di anni sedici, ha significativamente affermato che "tutela della personalità del minore e genuinità della prova sono certo interessi costituzionalmente garantiti: non lo è però lo specifico strumento, consistente nell'anticipazione, con incidente probatorio, delle testimonianze in questione". Anche in tale prospettiva, dunque, il rilievo fondamentale accordato alla tutela della vittima vulnerabile non si traduce nella costituzionalizzazione dell'obbligo di procedere all'assunzione della prova nelle forme dell'incidente probatorio. 9. Una volta escluso che il provvedimento di rigetto della richiesta di incidente probatorio, anche se formulata ai sensi dell'art. 392, comma 1-bis, cod. proc. pen., possa integrare un atto abnorme, le modalità concrete di esercizio della discrezionalità accordata da tale disposizione al giudice esulano dal sindacato di legittimità della Corte di cassazione. 10. Alla stregua dei rilievi che precedono il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. P.Q.M. Dichiara il ricorso inammissibile. Così deciso in Roma, l'8 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • 1 REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto Trasporto spedizione GIACOMO TRAVAGLINO Presidente ENRICO SCODITTI Consigliere - Rel. LINA RUBINO Consigliere PAOLO SPAZIANI Consigliere Cron. R.G.N. 4745/2020 GIOVANNI FANTICINIConsigliere Ud.3/5/2024 PU Cron. R.G.N. 2304/2022 Ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 2304/2022 R.G. proposto da: AEROFLOT RUSSIAN AIRLINES, elettivamente domiciliato in Roma Giunio Bazzoni n. 3, presso lo studio dell’avvocato DELLA MARRA TATIANA (DLLTTN65L52A326W) che lo rappresenta e difende -ricorrente- contro LANZA SALVATORE -intimato- 2 avverso SENTENZA di TRIBUNALE CATANIA n. 4561/2021 depositata il 09/11/2021. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 3 maggio 2024 dal consigliere ENRICO SCODITTI Fatti di causa 1. Salvatore Lanza convenne in giudizio innanzi al Giudice di Pace di Catania Aeroflot Russian Airlines s.p.a. chiedendo il risarcimento del danno perché in data 28 aprile 2019, munito del biglietto aereo Pechino – Mosca - Milano, a causa del ritardo di un’ora nella prima tratta, aveva perso la connessione con il volo per Milano, con conseguente riprotezione su volo successivo ed arrivo con ritardo prolungato (di circa nove ore) alla destinazione finale. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda. 2. Il giudice adito accolse la domanda, con condanna al pagamento della somma di Euro 600,00, a titolo di compensazione pecuniaria, ed Euro 100,00, a titolo di danno morale per l’omessa assistenza. 3. Avverso detta sentenza propose appello la convenuta. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello. 4. Con sentenza di data 9 novembre 2011 il Tribunale di Catania, in parziale accoglimento dell’appello, condannò l’appellante al pagamento del solo importo di Euro 600,00. Osservò il Tribunale, premessa l’inapplicabilità sia della Convenzione di Montreal del 1999, mai ratificata dalla Federazione Russa, che del Regolamento Ce n. 261/04, non facendo parte la detta Federazione dell’UE, che trovava applicazione la Convenzione di Varsavia del 1929 (e successive integrazioni), la quale prevedeva la responsabilità del vettore per il caso del ritardo, ma non prevedeva alcuna quantificazione al pari della compensazione economica pecuniaria di cui al Regolamento Ce n. 261/04, e che pertanto, 3 mancando specificazioni nella Convenzione circa il ritardo rilevante, poteva farsi riferimento alla giurisprudenza unionale sul Regolamento, il quale prevedeva una compensazione pecuniaria – una sorta di penale legale analoga a quella di fonte convenzionale - e l’eventuale risarcimento supplementare (art. 12). Aggiunse che, sulla base di quest’ultimo quadro di riferimento, ricorreva l’inadempimento contrattuale rilevante ai sensi anche della Convenzione di Varsavia e che, stante l’inadempimento imputabile, doveva essere riconosciuto il diritto di ottenere la compensazione pecuniaria nella misura liquidata dal Giudice di Pace, anche in applicazione analogica dell’art. 7 del Regolamento Ce n. 261 del 2004, mentre non spettava l’ulteriore risarcimento, in assenza della prova di danni ulteriori, anche di natura morale, rispetto a quelli coperti dalla compensazione pecuniaria e risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c.. 5. Ha proposto ricorso per cassazione Aeroflot Russian Airlines s.p.a. sulla base di quattro motivi. E’ stata depositata memoria di parte. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 3 e 7 regolamento CE 261/04, 1223 cod. civ., 19 convenzione di Varsavia del 12 ottobre 1929, 12 prel., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che il Tribunale ha erroneamente applicato l’art. 7 del regolamento CE fuori dei casi contemplati dall’art. 3 del medesimo regolamento, in luogo dell’art. 1223 c.c., applicabile in base all’art. 19 convenzione di Varsavia del 12 ottobre 1929, né, in presenza di altra disposizione applicabile, può farsi applicazione del regolamento CE. 2. Con il secondo motivo si denuncia falsa applicazione dell’art. 1223 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che il Tribunale, riconoscendo il diritto alla compensazione pecuniaria anche in applicazione analogica dell’art. 7 4 del Regolamento Ce n. 261 del 2004, senza esplicitare il significato di “anche”, non ha applicato l’art. 1223, poiché il danno risarcito risulta estraneo ai concetti di danno emergente e lucro cessante. 3. Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 1223 e 2697 cod. civ., 115 e 112 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che nella decisione impugnata vi è soltanto il riferimento all’inadempimento, ma non anche al danno che ne sarebbe derivato, con violazione delle norme sull’onere della prova, e che la motivazione è pertanto assolutamente carente. 4. Con il quarto motivo si denuncia violazione degli artt. 2002, 1678, 1681 e 1341 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che il giudice di appello ha omesso di valutare l’art. 10 delle condizioni generali di contratto, che prevede quanto segue: «il vettore farà tutto il possibile per portare a termine il trasporto del passeggero e dei suoi bagagli in tempi ragionevoli. Le tempistiche indicate negli orari e altri documenti non sono garantite e non fanno parte del presente documento». 5. I primi tre motivi, da trattare congiuntamente, sono fondati. Il Collegio, condividendone integralmente la motivazione, dà continuità a Cass. n. 9474 del 2021 (cui sono conformi Cass. n. 27051 del 2021 e n. 34776 del 2023), la quale, in una fattispecie perfettamente sovrapponibile alla presente, anche per ciò che concerneva la motivazione della decisione impugnata, ha enunciato il seguente principio di diritto: in tema di trasporto aereo internazionale, gli artt. 5 e 7 del Regolamento CE n. 261 del 2004, nel prevedere a favore dei passeggeri un ristoro indennitario per il caso di cancellazione del volo (nonché, secondo la giurisprudenza europea, per il caso di ritardo superiore a tre ore), indipendentemente dall'esistenza di un effettivo pregiudizio, configurano una disciplina speciale che si applica, ai sensi dell'art. 3, par. 1, del regolamento medesimo, ai passeggeri in partenza da un aeroporto situato nel territorio di uno Stato membro e a quelli in 5 partenza da un aeroporto situato in un paese terzo con destinazione in un aeroporto situato nel territorio di uno Stato membro, se il vettore aereo operativo è un vettore dell'Unione; pertanto, la suddetta disciplina non è analogicamente estensibile oltre i predetti casi, al di fuori dei quali resta applicabile il principio generale di cui agli artt.1223 e 2697 c.c., secondo cui il debitore inadempiente risponde (solo) dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento, mentre il creditore è onerato della prova tanto delle conseguenze dannose quanto del loro collegamento causale con la condotta del debitore, secondo il nesso di cd. causalità giuridica. (nella specie, la Corte ha cassato la sentenza di merito che, in accoglimento della domanda risarcitoria di due passeggeri, aveva ritenuto analogicamente applicabile la disciplina euro-unitaria in un caso in cui il vettore aereo, responsabile del ritardo, proveniva da un paese non facente parte dell'Unione europea). 6. L’accoglimento dei primi tre motivi determina l’assorbimento del quarto motivo. 7. Poiché non sono necessari altri accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito. Il giudice del merito ha accertato che non spetta ulteriore risarcimento, in assenza della prova di danni ulteriori, anche di natura morale, rispetto alla compensazione pecuniaria e risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c.. Poiché il ristoro indennitario non spetta, per quanto sopra osservato, resta il giudizio di fatto di inesistenza di danni risarcibili, a parte la detta compensazione. Consegue a tale accertamento il rigetto della domanda. 8. Il consolidarsi della giurisprudenza determinante nel corso dei vari gradi processuali costituisce ragione di compensazione delle spese, sia per i gradi di merito che per il giudizio di legittimità. P. Q. M. Accoglie i primi tre motivi del ricorso, con assorbimento dell’ultimo motivo; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti e, decidendo la 6 causa nel merito, rigetta domanda, disponendo la compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il giorno 3 maggio 2024 Il consigliere estensore Dott. Enrico Scoditti Il Presidente Dott. Giacomo Travaglino

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. SABEONE Gerardo - Presidente Dott. MASINI Tiziano - Consigliere Dott. SESSA Renata - Relatore Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere Dott. MELE Maria Elena - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Di.El. nato a R il (Omissis) avverso la sentenza del 12/10/2023 della CORTE APPELLO di ROMA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere RENATA SESSA; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUIGI GIORDANO che ha concluso chiedendo udito il difensore RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 123,10,2023 la Corte dì Appello di Roma ha confermato la pronuncia emessa in primo grado nei confronti di Di.El., che lo aveva dichiarato colpevole del reato di lesione volontaria. 2. Avverso la suindicata sentenza, ricorre per cassazione l'imputato, tramite il difensore di fiducia, deducendo due motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.. 2.1. Col primo motivo deduce la nullità della sentenza impugnata per mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in riferimento alla ritenuta colpevolezza dell'imputato. Si rappresenta, dopo un breve excursus sul tenore delle dichiarazioni rese dai testi e dalla persona offesa, ritenute non esaustive ai fini della certa identificazione dell'imputato nell'autore dell'aggressione, che all'esito dell'articolata istruttoria sarebbe emerso unicamente che un soggetto sconosciuto sia alla persona offesa che ai suoi amici, all'esterno della discoteca e successivamente all'aggressione, aveva dichiarato di chiamarsi Di.El.. 2.2.Col secondo motivo deduce la nullità della sentenza impugnata per mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in riferimento alla eccessiva quantificazione della pena detentiva e pecuniaria inflitta. 3. Il ricorso è stato trattato - ai sensi dell'art. 23, comma 8, del d. l. n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, che continua ad applicarsi, in virtù del comma secondo dell'art. 94 del D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall'art. 11, comma 7, d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito con modificazioni dalla l. del 23.2.2024 n. 18, per le impugnazioni proposte sino al 30.6.2024 - senza l'intervento delle parti che hanno così concluso per iscritto: il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso; il difensore della parte civile ha chiesto rigettarsi il ricorso, allegando nota spese; CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato limitatamente al trattamento sanzionatorio, esso è inammissibile nel resto. 1.1. Il primo motivo è aspecifico e meramente reiterativo della questione della identificazione dell'imputato come autore dell'aggressione posta in essere ai danni della persona offesa, che è stata già ampiamente valutata dalla Corte d'appello nella sentenza impugnata. Il collegio di merito, in particolare, ha indicato gli elementi di prova che hanno permesso tale identificazione, precisando, tra l'altro, che lo stesso imputato si era presentato a uno dei testimoni, e ai suoi amici, il quale, per questa ragione, aveva potuto riferirne il nome alla vittima. 1.2. Quanto al trattamento sanzionatorio deve rilevarsi la illegalità della pena - di mesi quattro di reclusione - irrogata con riferimento al reato di lesione personale, ritenuta di tipo lieve - superiore ai venti giorni ma inferiore ai 41 - e non grave dai giudici di merito, rispetto alla quale devono essere applicate le più miti sanzioni previste dal D.Lgs. n. 274 del 2000. Ed invero, come ha avuto modo di affermare - tra le altre - Sez. 5, n. 41372 del 05/07/2023, Rv. 285876 - 01; Sez. 5, Sentenza n. 10669 del 31/01/2023, Rv. 284371 - 01, in tema di lesioni personali lievi, divenute procedibili a querela per effetto dell'art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, rientrando il delitto nella competenza per materia del giudice di pace, è illegale l'inflizione della pena della reclusione, anche nel caso in cui esso sia stato commesso prima dell'entrata in vigore della suddetta disposizione normativa o sia stato giudicato da un giudice diverso (in motivazione, questa Corte ha evidenziato un difetto di coordinamento tra l'art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 e l'art. 582, comma secondo, cod. pen., in quanto il primo, che non è stato modificato, continua a riferirsi al secondo che, invece, non individua più ipotesi procedibili a querela). Al riguardo sì sono di recente pronunciate, in data 14.12.2023, anche le Sezioni Unite di questa Corte che hanno affermato che appartiene al giudice di pace, dopo l'entrata in vigore delle modifiche introdotte dall'art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, la competenza per materia ex art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 in ordine al delitto di lesione personale di cui all'art. 582 cod. pen., nei casi procedibili a querela, anche quando comporti una malattia di durata superiore a venti giorni e fino a quaranta giorni, fatte salve le ipotesi espressamente escluse dall'ordinamento (in motivazione si è precisato che il mancato coordinamento di tale disposizione con quella di cui all'art. 4 comma 1 lett. a) del decreto legislativo 74/2000, deve essere risolto attraverso l'interpretazione estensiva di tale ultima disposizione conformemente alla volontà del legislatore riformatore di ampliare la competenza della predetta autorità giudiziaria a tutti i casi di lesione procedibile a querela). In motivazione le Sezioni Unite hanno altresì precisato che la soluzione non è però automaticamente quella dell'applicazione delle sanzioni previste per i reati di competenza del giudice di pace relativamente ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2022, potendo risultare in concreto più favorevole il trattamento sanzionatorio comminato per i reati di competenza del tribunale in caso di concedibilità della sospensione condizionale della pena e secondo una valutazione da compiere di volta in volta alla luce della singola vicenda processuale; sospensione condizionale della pena che nel caso di specie risulta essere stata riconosciuta dai giudici di merito, con la conseguenza che il giudice del rinvio dovrà procedere alle valutazioni del caso secondo i suindicati dettami delle Sezioni Unite. Sicché, trattandosi di reato punito con la sola pena della reclusione, ai sensi dell'art. 52, comma 2, lett. b), sarà applicabile la pena pecuniaria della specie corrispondente da Euro 516,00 ad Euro 2582,00 o la pena della permanenza domiciliare da quindici a quarantacinque giorni ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità da venti giorni a sei mesi, e, stante l'alternativa riguardo alla pena applicabile, e a monte la necessità di valutare in merito alla opportunità della modifica della pena inflitta tenendo conto delle circostanze del caso concreto, s'impone l'annullamento con rinvio affinché alla - eventuale - rideterminazione della stessa - vi proceda il giudice di merito a cui compete ogni valutazione al riguardo. 2. Dalle ragioni sin qui esposte deriva che la sentenza impugnata dev'essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma; che nel resto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Consegue altresì che l'imputato deve essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile liquidate in complessivi Euro 3.500, oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento devono essere omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma. Inammissibile il ricorso nel resto. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi Euro 3.500, oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 3 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da Dott. SABEONE Gerardo - Presidente Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere Dott. SCORDAMAGLIA Irene - Consigliere Dott. CUOCO Michele - Relatore Dott. RENOLDI Carlo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Al.Ra. nato a T il (Omissis); avverso la sentenza del 16 ottobre 2023 della Corte d'appello di Trieste; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Michele Cuoco; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Tomaso Epidendio, che ha concluso per l'annullamento, con rinvio, del provvedimento impugnato, limitatamente al trattamento sanzionatolo; udito l'avv. Vi.Vi., difensore di fiducia dell'imputato, che si associa alle richieste del Procuratore generale e insiste per l'accoglimento del ricorso; RITENUTO IN FATTO e CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Oggetto dell'impugnazione è la sentenza con la quale la Corte d'appello di Trieste, confermando la condanna pronunciata in primo grado (riformata solo quanto al trattamento sanzionatorio), ha ritenuto Al.Ra. responsabile del reato di lesioni personali commesse ai danni di Ma.Gu.. 2. Il ricorso si compone di un unico motivo d'impugnazione a mezzo del quale si deduce la sopravvenuta illegalità della pena irrogata (la reclusione), atteso che, a seguito del D.Lgs. N. 150 del 2022, il reato è divenuto procedibile a querela e, quindi, rientrando nella competenza del giudice di pace, doveva essere sanzionato con le pene previste dall'art. 52, comma 2, lett. b) del D.Lgs. N. 274 del 2000. 3. Il ricorso è fondato e la sentenza impugnata deve essere annullata. Per effetto dell'entrata in vigore del D.Lgs. 150/2022, risulta oggi mutato il quadro del regime di procedibilità e conseguentemente del trattamento sanzionatorio del reato di lesioni personali dolose, laddove queste arrechino una malattia di durata superiore a venti giorni ed inferiore a quaranta giorni. L'art. 2 comma 1 lett. b) del decreto in questione, infatti, ha novellato il comma 1 che il comma 2 dell'art. 582 cod. pen., così ingenerando, da un lato, la generale procedibilità a querela delle lesioni che hanno cagionato malattie con durate inferiori ai 40 giorni (salve le ipotesi aggravate esplicitate dal nuovo capoverso dell'art. 582), e dall'altro, in combinato disposto con l'art. 4 comma 1 D.Lgs. 274/2000, la competenza per materia del giudice di pace, posto che quest'ultima norma radica la competenza del giudice di pace sulle ipotesi di lesioni procedibili a querela di parte (Sez. U. del 14 dicembre 2023, inf. provv.). Ciò considerato, l'art. 52 comma 2 lett. b) del D.Lgs. 274/2000 chiarisce che per i reati di competenza del giudice di pace "quando il reato è punito con la sola pena della reclusione o dell'arresto, si applica la pena pecuniaria della specie corrispondente da lire un milione a cinque milioni o la pena della permanenza domiciliare da quindici giorni a quarantacinque giorni ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità da venti giorni a sei mesi". Sicché, per effetto della modifica del regime di procedibilità del reato di lesioni personali dolose - e sempre tenendo a mente il principio della retroattività della legge penale favorevole di cui all'art. 2 cod. pen. - l'eventuale pena detentiva irrogata per reato che oggi sarebbe di competenza del giudice di pace non è più conforme al tipo legale, che, allo stato, contempla, per quella violazione, solo la sanzione pecuniaria e quella della permanenza domiciliare. Ebbene, in concreto, dato atto della presentazione di una valida querela da parte della persona offesa (per come chiaramente rappresentato nella sentenza impugnata), la pena alla reclusione inflitta risulta illegale, in quanto irrogata rispetto ad un reato, le lesioni che arrecano malattia di durata superiore a venti giorni (ma inferiore a quaranta giorni), che oggi rientrerebbe nella fattispecie dell'art. 582 cod. pen. comma 1, mentre prima del 30 dicembre 2022 andava perimetrato nel comma 2 della medesima disposizione, per cui era prevista la procedibilità d'ufficio (e dunque la competenza del Tribunale e la pena detentiva). In conclusione, la sentenza deve essere annullata in relazione al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Trieste. In ragione della natura dei reati contestati e del rapporto esistente tra le parti deve essere disposto l'oscuramento del presente provvedimento. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte d'appello di Trieste. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 23 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. SABEONE Gerardo - Presidente Dott. MASINI Tiziano - Consigliere Dott. SESSA Renata - Relatore Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere Dott. MELE Maria Elena - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Za.Bo. nato il (Omissis) avverso la sentenza del 22/09/2023 della CORTE APP. SEZ. MINORENNI di ANCONA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere RENATA SESSA; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUIGI GIORDANO che ha concluso chiedendo udito il difensore RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 22.9.2023 la Corte di Appello di Ancona - Sezione Minori - in parziale riforma della pronuncia emessa in primo grado nei confronti di Za.Bo., che lo aveva dichiarato colpevole del reato di furto in abitazione, ha revocato la sospensione condizionale della pena concedendo il perdono giudiziale, confermando nel resto la decisione del primo giudice. 2. Avverso la suindicata sentenza, ricorre per cassazione l'imputato, tramite il difensore di fiducia, deducendo, con l'unico motivo articolato, di seguito enunciato nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., la nullità della sentenza del Tribunale dei minorenni e della Corte di appello di Ancona per violazione degli articoli 420 - bis e seguenti del codice di rito. L'imputato veniva rinviato a giudizio con decreto del P.m. del 3 ottobre 2021, notificato a mezzo P.e.c. in data 8 settembre 2022 al difensore di ufficio nominato in sede di notifica del decreto di convalida del decreto di perquisizione e sequestro eseguito il 1 ottobre 2020, il quale aveva telefonicamente accettato la domiciliazione degli atti ai sensi dell'art. 162, comma 4 - bis del codice di rito. All'esito dell'udienza preliminare celebrata il 4/10/2022, in eccepita, inconsapevole e involontaria assenza dell'imputato, il Presidente del Tribunale dei minori, ritenendo di non dover procedere né alla richiesta sospensione del processo ai sensi dell'allora vigente art. 420 - quater cod. proc. pen. né alla definizione del procedimento in via anticipata ai sensi dell'art. 32 D.P.R. 448/88 in mancanza del necessario consenso dell'imputato alla definizione del processo e dei presupposti per la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell'articolo 425 del codice di rito, disponeva il rinvio a giudizio del ricorrente. Anche il relativo decreto di fissazione dell'udienza dibattimentale veniva notificato all'imputato al domicilio eletto a mezzo P.e.c. inviata al suo difensore di ufficio domiciliatario il 26/11/2022. All'udienza dibattimentale del 23 Febbraio 2023 il Presidente, dopo aver rigettato l'eccezione preliminare sollevata ancora una volta dalla difesa in merito alla inidoneità, ai fini della celebrazione del processo in assenza, dell'elezione di domicilio presso il difensore di ufficio da parte dell'imputato, senza fissa dimora, con il quale il difensore non era riuscito ad instaurare alcun rapporto professionale ed informativo, procedeva alla celebrazione del giudizio in assenza dell'imputato. Ciò posto si osserva che l'art. 420 - bis, così come modificato dall'art. 23, comma 1, lett. c del decreto legislativo 152/22, a decorrere dal 30 dicembre 2022, consente tuttavia la celebrazione del processo in assenza nei soli casi in cui sia stata provata l'effettiva conoscenza della pendenza del processo da parte dell'imputato e la riconduzione della sua assenza ad una scelta volontaria e consapevole, recependo le direttive impartite dalla Corte di Strasburgo. La Suprema Corte dì Cassazione ha, d'altra parte, in merito più volte evidenziato che la sola elezione di domicilio presso il difensore di ufficio da parte dell'indagato non può costituire di per sé presupposto idoneo per la dichiarazione di assenza dovendo il giudice verificare, anche in presenza di altri elementi, che vi sia stata un'effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l'indagato, tale da fargli ritenere con certezza che quest'ultimo abbia conoscenza del procedimento ovvero si sia sottratto volontariamente alla conoscenza del procedimento stesso (Sezioni unite n. 23948 del 17 agosto 2020). Indi si citano le ulteriori pronunce di questa Cotte a sostegno della tesi rappresentata in ricorso, e si procede ad ulteriore analisi della vicenda processuale, evidenziando come, peraltro, l'eccezione in argomento veniva proposta anche dinanzi alla Corte di appello, tenuto conto che ancora una volta il relativo decreto di citazione dell'imputato era stato notificato nel domicilio eletto presso il difensore dì ufficio, ma anche in tal caso l'eccezione veniva rigettata sul rilievo che il difensore di ufficio aveva dato regolarmente consenso all'elezione di domicilio e che alcun dovere di verifica sussisteva all'epoca sull'effettività del rapporto con l'imputato, e che, d'altro canto, sarebbe stato eventualmente onere dello stesso difensore provvedere a prendere contatti con l'assistito. Indi, conclude il ricorso per l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale per i minorenni di Ancona. 3. Il ricorso è stato trattato - ai sensi dell'art. 23, comma 8, del d. l. n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, che continua ad applicarsi, in virtù del comma secondo dell'art. 94 del D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall'art. 11, comma 7, d. l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito con modificazioni dalla l. del 23.2.2024 n. 18, per le impugnazioni proposte sino al 30.6.2024 - senza l'intervento delle parti che hanno così concluso per iscritto: il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso; il difensore dell'imputato ha insistito nell'accoglimento del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato. Si deve premettere che, nel caso oggetto del presente ricorso, alla data dì entrata in vigore del d.igs. n. 150/2022, era già stata pronunciata una ordinanza con la quale sì era disposto di procedere in assenza. Pertanto, ai sensi dell'art, 89 del citato decreto, devono essere applicate "le disposizioni del codice di procedura penale e delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie dei codice di procedura penale in materia di assenza anteriormente vigenti, comprese quelle relative alle questioni di nullità in appello e alla rescissione del giudicato". La questione processuale qui sollevata deve pertanto essere valutata alla stregua delle disposizioni antecedenti alla c.d. Riforma Cartabia e della giurisprudenza di questa Corte formatasi in relazione ad esse. Ciò posto, premesso che nella fattispecie in esame non trova applicazione il nuovo disposto normativo di cui all'art. 161, comma 1, del codice di rito, relativo all'onere di comunicazione, da parte dell'imputato, al difensore di ogni recapito, anche telefonico, si deve riaffermare che, allo stato, la mera accettazione dell'elezione di domicilio da parte del difensore di ufficio ai sensi dell'art. 162, comma 4 - bis, cod. proc. pen., costituente una mera formalità a cui è subordinata l'efficacia dell'elezione di domicilio presso il difensore di ufficio, è di per sé inidonea a garantire l'effettiva conoscenza da parte dell'imputato degli atti successivi. Ed invero, così come affermato da Sez. 1 n. 3043 del 15.9.2023, dep. il 24.1.2024, Rv. 285711 - 01, l'esigenza della verifica dell'effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra difensore domiciliatario ed assistito, a dimostrazione della sua effettiva conoscenza del processo ovvero della sua volontaria sottrazione ad esso, resta ferma anche dopo l'introduzione dell'indicata disposizione di cui all'art. 162, comma 4 - bis. La disposizione di cui all'art. 162, comma 4 bis, cod. proc. pen., invero, non prevede espressamente che il consenso sia manifestato all'esito di un preventivo contatto tra difensore d'ufficio e imputato, sicché non si può dare per supposto che sia avvenuta una interlocuzione tra essi, tale da permettere al difensore di esprimere un consenso consapevole alla domiciliazione. E, sebbene sia auspicabile che il difensore d'ufficio, seppur non abbia ancora avuto modo di confrontarsi con l'assistito, quanto meno manifesti l'assenso alla domiciliazione nei soli casi in cui ritiene fondatamente di poter tenere aperto un canale di comunicazione con esso, ciò nondimeno non si può, in mancanza di elementi certi al riguardo, desumere dal solo fatto che il difensore abbia accettato la domiciliazione che si sia poi effettivamente instaurato il rapporto processuale tra lo stesso e l'assistito. Se è vero che col consenso il difensore viene in un certo qual modo onerato di compiti informativi in relazione al primo atto propulsivo del processo (solo a partire dalla intervenuta conoscenza dell'avvio del processo può ritenersi - anche - l'imputato onerato di informarsi sul suo sviluppo), è altrettanto vero che ciò non è ancora sufficiente ai fini della dimostrazione della conoscenza del processo da parte dell'imputato non potendo essa essere ricavata da tale compito che potrebbe comunque non essere stato adempiuto, a fronte del preciso dovere del giudice che procede dì verificare, d'ufficio, oltre che la regolarità della notificazione, anche l'effettiva conoscenza, da pare del destinatario, dell'atto contenente l'accusa, la data e luogo dell'udienza, e quindi del processo. Si ritiene pertanto che, mancando, nel caso di specie, in atti, quell'elemento ulteriore indice della effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra legale e proprio assistito, si deve ritenere nulla la dichiarazione di assenza intervenuta in primo grado sulla sola base della notificazione della vocatio in iudicium presso il difensore di ufficio domiciliatario (che aveva accettato la domiciliazione). Tenuto conto dello specifico tema che occupa, viene, altresì, in rilievo la pronuncia di questa Corte, Sez. 4, Sentenza n. 48776 del 15/11/2023, Rv. 285572 - 01, che ha avuto modo di ribadire che in tema di processo in assenza - nel caso in cui la relativa dichiarazione risulti emessa nella vigenza della disciplina antecedente all'entrata in vigore del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 - il giudice che, nel corso del giudizio, rileva la sussistenza di fatti da cui possa inferirsi, con ragionevole certezza, che l'imputato non ha avuto effettiva conoscenza del processo è tenuto a revocare, anche "ex officio", l'ordinanza dichiarativa dell'assenza (fattispecie relativa alla notifica al difensore d'ufficio dell'atto di citazione per il giudizio di appello, in cui la Corte ha precisato che non sussiste un onere del difensore di provare l'assenza di contatti con l'imputato, né di formulare istanza di revoca dell'ordinanza dichiarativa dell'assenza), laddove nel caso di specie, il giudice non solo ha erroneamente dichiarato l'assenza del ricorrente, nonostante il difensore di ufficio avesse rappresentato di non essere riuscito a mettersi in contatto con l'assistito, ma non ha ritenuto, neppure in seguito, di revocare tale dichiarazione, nonostante la sollecitazione in tal senso più volte effettuata dal difensore, appellandosi all'onere di informazione che incombeva sul difensore (in atti risulta anche una nota del Ministero della Giustizia, del 15.9.2022, indirizzata sia alla Procura che al Tribunale di Ancona, che dava atto del fatto che il difensore non fosse a conoscenza né di un domicilio o residenza né di un riferimento familiare dell'imputato, e che non era, quindi, mai riuscito a rintracciarlo). 2. Per quanto esposto, il ricorso è fondato. Ne consegue l'annullamento, senza rinvio, della sentenza impugnata e della sentenza di primo grado e la trasmissione degli atti, per nuovo giudizio, al Tribunale dei Minorenni di Ancona. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e quella di primo grado e dispone la trasmissione degli atti al Tribunale dei Minorenni di Ancona. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 3 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • Z20 11-Z 4 Composta da: REPUBBUCA ITAUANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE QUINTA SEZIONE PENALE ROSA PEZZULLO ALFREDO GUARDIANO GIUSEPPE DE MARZO PIERANGELO CIRILLO ROSARIA GIORDANO - Presidente - - Relatore - Sento n. sez. 530/2024 UP - 23/02/2024 R.G.N. 41626/2023 ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: SAlIR GHEORGHE LUCIAN nato il 05/11/2001 avverso la sentenza del 12/06/2023 della CORTE APPELLO di ROMA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ALFREDO GUARDIANO; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore PASQUALE SERRAO D'AQUINO che ha concluso chiedendo udito il difensore FATTO E DIRITTO 1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Roma confermava la sentenza con cui il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Tivoli, in data 9.6.2022, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato Batir Gheorghe Lucian alla pena ritenuta di giustizia, in relazione al reato ex art. 612 bis, co. 1 e 2, c.p., in rubrica ascrittogli. 2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l'annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione il Batir, lamentando: 1) nullità della sentenza di primo grado per nullità della citazione dell'imputato ex artt. 178, 179, c.p.p., derivante dalla mancata traduzione dell'imputato, detenuto per altra causa, in udienza (stato di detenzione per altra causa noto al giudice procedente) e conseguente erronea e illegittima dichiarazione di assenza; 2) nullità della sentenza di secondo grado per nullità della citazione dell'imputato ex art. 178, c.p.p., in quanto avvenuta in violazione degli artt. 156, co. 3 e 4, 157, c.p.p.; 3) vizio di motivazione e violazione di legge in punto di mancato accoglimento della richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, volta all'espletamento di una prova decisiva, sub specie di una perizia per accerta la capacità di intendere e di volere e la capacità di stare in giudizio del prevenuto; 4) violazione di legge in punto di ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del reato per cui si procede. 3. Con requisitoria scritta del 25.1.2024, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, dotto Pasquale Serrao d'Aquino, chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile. Con memoria del 18.2.2024, pervenuta a mezzo di posta elettronica certificata, il difensore di fiducia dell'imputato, nel replicare alla requisitoria scritta del pubblico ministero, insiste per l'accoglimento del- ricorso. 4. Il ricorso va accolto, essendo fondato il primo motivo di impugnazione, in esso assorbite le ulteriori censure. 5. Come si evince dalla lettura degli atti, consentita in questa sede di legittimità, essendo stato dedotto un error in procedendo, e comunque allegati al ricorso, in ossequio al principio della cd. autosufficienza, nei confronti dell'imputato era stato emesso decreto di giudizio immediato in data 21.7.2021, in relazione al quale era stata formulata, ai sensi dell'art. 458, c.p.p., richiesta di giudizio abbreviato, che veniva fissato dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Tivoli per la camera di consiglio del 3.2.2022. In tale data era stato disposto il rinvio della trattazione del giudizio alla successiva udienza del 9.6.2022, in presenza di un legittimo . impedimento a comparire dell'imputato, vittima di un gravissimo incidente stradale, al quale veniva notificato il verbale dell'udienza del 3.2.2022, con l'indicazione della data del rinvio, a cura della Tenenza dei Cc. di Guidonia Montecelio, il cui comandante, nella nota del 27.5.2022, indirizzata al Commissariato di P.S. di Tivoli e all'Ufficio del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Tivoli, trasmessa con successo il 28.5.2022 attraverso posta elettronica all'indirizzo telematico della suddetta autorità giudiziaria, segnalava che Batir "risulta sottoposto alla misura degli arresti domiciliari" e "in carico" alla menzionata Tenenza, per i relativi controlli. All'udienza del 9.6.2022 il Batir veniva dichiarato assente, non ravvisando il giudice procedente alcuna causa di legittimo impedimento a comparire dell'imputato, per cui, ammesso al giudizio abbreviato, quest'ultimo veniva condannato alla pena ritenuta di giustizia per il delitto di cui all'art. 612 bis, co. le 2, c.p. Evidente, dunque, l'errore in cui è incorso il giudice di primo grado, il quale, pur essendo stato formalmente edotto, tempestivamente rispetto alla data fissata per l'udienza, della circostanza che l'imputato si trovava in stato di restrizione agli arresti domiciliari per altra causa, dunque impossibilitato a essere presente per un legittimo impedimento, ne ha dichiarato l'assenza, procedendo alla celebrazione del giudizio abbreviato, violando il disposto dell'art. 420 ter, co. 1, c.p.p. Secondo tale norma, infatti, il giudice procedente avrebbe dovuto disporre il rinvio a una nuova udienza, disponendo la rinnovazione dell'avviso all'imputato e la traduzione per la nuova udienza, in modo da consentirgli di essere presente, norma applicabile al giudizio abbreviato in virtù del richiamo alle disposizioni previste per l'udienza preliminare operato dall'art. 441, co. 1, c.p.p., a sua volta richiamato dall'art. 458, co. 2, del codice di rito. In questo senso si è espressa la giurisprudenza di legittimità nella sua espressione più autorevole, rilevando che la restrizione dell'imputato agli arresti domiciliari per altra causa, documentata o, comunque, comunicata al giudice procedente, in qualunque tempo, integra un impedimento legittimo a comparire che impone il rinvio del procedimento ad una nuova udienza e la traduzione dell'imputato stesso. Il giudice che procede, infatti, alla luce dell'incondizionato diritto dell'imputato alla partecipazione al processo, come disegnato in maniera univoca anche dalle disposizioni internazionali e convenzionali, nell'ipotesi in cui emerga, in qualsiasi modo, dagli atti la circostanza che l'imputato, libero nel suo procedimento, sia in condizione di restrizione di qualsiasi natura per altra causa, deve attivarsi a disporre l'ordine di traduzione, ed il rinvio del procedimento, qualora tale ordine non sia eseguibile per l'udienza già fissata - nell'ipotesi in cui tale conoscenza sia acquisita nell'immediatezza della prima udienza e non sia possibile procedere utilmente all'emissione dell'ordine per quella data -con correlato obbligo di rinnovo dell'avviso. L'assenza dell'imputato, rilevano le Sezioni Unite, può costituire chiara espressione dell'abdicazione del diritto a partecipare solo ove non risulti in alcun modo la presenza di un impedimento e possa essere ricondotta univocamente ad una libera rinuncia dell'imputato ad esercitare il suo diritto. Tale condizione non sussiste in tutte le ipotesi nelle quali il giudice che procede ha conoscenza dell'esistenza di un impedimento dell'imputato a partecipare al processo a causa della limitazione della libertà personale e non sia stata manifestata da parte dell'interessato, in maniera inequivoca, la volontà di rinunciare a presenziare. In tal caso incombe al giudice procedente l'obbligo di esercitare, di ufficio e senza ulteriori sollecitazioni da parte dell'imputato, tutti i poteri che l'ordinamento gli conferisce al fine di assicurare la partecipazione dell'imputato non rinunciante. Diversamente, l'irrituale instaurazione del contraddittorio, non può che determinare, come nel caso che ci occupa, l'illegittimità della decisione di primo grado, in forza di quanto espressamente previsto dall'art. 604, comma 5-bis, c.p.p., per tutte le ipotesi in cui non siano state rispettate le disposizioni di cui agli art. 420-ter e 420-quater, c.p.p. (cfr. Sez. U, n. 7635 del 30/09/2021, Rv. 282806). Tanto premesso occorre stabilire la natura della nullità, il cui verificarsi, per le illustrate, ragioni non è revocabile in dubbio. In un recente arresto di questa sezione si è evidenziato che, in tema di giudizio dibattimentale, l'omessa traduzione dell'imputato detenuto, dovuta ad un errore percettivo circa la sua rinuncia a comparire, determina la nullità assoluta e insanabile dell'udienza irritualmente celebrata e la conseguente inutilizzabilità delle prove in essa assunte (cfr. Sez. S, n. 22115 del 22/03/2022, Rv. 283438). A sostegno di tale conclusione si rilevava come nel sistema accusatorio la partecipazione dell'imputato al processo è condizione indefettibile per il regolare esercizio della giurisdizione, afferendo al fondamentale diritto di difesa, che può solo essere oggetto di una rinuncia da parte del suo titolare attraverso una non equivoca manifestazione di volontà abdicativa in tale senso In questo senso si erano espresse in passato le Sezioni Unite Penali, osservando che la detenzione dell'imputato per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo e comunicata solo in udienza, integra un'ipotesi di legittimo impedimento a comparire e preclude la celebrazione del giudizio in contumacia, anche quando risulti che l'imputato medesimo avrebbe potuto informare il giudice del sopravvenuto stato di detenzione in tempo utile per la traduzione, in quanto non è configurabile a suo carico, a differenza di quanto accade per il difensore, alcun onere di tempestiva comunicazione dell'impedimento (cfr. Sez. U, n. 37483 del 26/09/2006, Rv. 234600). Consolidato, altresì, appare nella giurisprudenza 'di legittimità l'orientamento secondo cui la mancata traduzione all'udienza camerale d'appello, perché non disposta o non eseguita, dell'imputato che abbia tempestivamente manifestato in qualsiasi modo la volontà di comparire e che si trovi detenuto o soggetto a misure limitative della libertà personale, determina la nullità assoluta e insanabile del giudizio camerale e della relativa sentenza, ai sensi degli artt' 178 e 179, c.p.p. (cfr., ex plurimis, Sez. U, n. 35399 del 24/06/2010, Rv. 247836; Sez. 3, n. 9756 del 03/02/2022, Rv. 282923). Di particolare interesse, ai fini del ragionamento svolto in questa sede, risulta un passaggio della motivazione delle Sezioni Unite n. 35399 del 24/06/2010, richiamato, in forma adesiva, dalla successiva sentenza della Terza sezione n. 9756 del 03/02/2022, che appare opportuno riportare integralmente: "nell'ipotesi di indagato o imputato detenuto, la cui partecipazione all'udienza camerale è subordinata ad una positiva manifestazione di volontà in tal senso, l'ordine di traduzione e la sua esecuzione costituiscono, insieme con l'avviso dell'udienza camerale e la sua notificazione, atti indefettibili della procedura diretta alla regolare costituzione del contraddittorio. Senza di essi, infatti, l'avviso non può svolgere in concreto l'unica funzione che gli è propria, quella della vocatio in iudicium, che può definirsi tale solo in quanto rivolta a chi ad essa sia in grado di rispondere. Di conseguenza, la citazione dell'imputato detenuto realizza un'unica fattispecie complessa, costituita dall'avviso, dalla dichiarazione di volontà dell'interessato detenuto di comparire e dalla sua successiva traduzione, atti tutti da guardarsi, per il rapporto di stretta consequenzialità che li caratterizza, in una visione unitaria in funzione dello scopo loro proprio, la vocatio in iudicium per la valida instaurazione del contraddittorio, con la conseguenza che la mancata traduzione, perché non disposta o non eseguita, determina la nullità assoluta e insanabile della udienza e della successiva pronunzia, ai sensi dell'art. 178 cod. proc. pen., lett. c) e art.179 cod. proc. pen.". Orbene, ritiene il Collegio che tali principi debbano trovare applicazione nella fattispecie in esame, pur difettando una dichiarazione di volontà dell'imputato, ristretto agli arresti domiciliari, di voler presenziare all'udienza fissata innanzi al giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Tivoli. Non appare, infatti, applicabile al giudizio abbreviato di primo grado la disciplina dell'art. 127, co. 3 e co 4, c.p.p. in quanto, da un lato, l'art. 441, co. 3, c.p.p., fa riferimento al procedimento in camera di consiglio solo per escludere che il giudizio di svolga in pubblica udienza, a meno che non ne facciano richiesta tutti gli imputati; dall'altro, il rinvio esplicito alle forme previste dall'art. 127, c.p.p., è previsto solo per la celebrazione del giudizio abbreviato di appello, ai sensi dell'art. 443, co. 4, c.p.p. Pertanto, una volta affermata, come si è visto, la natura incondizionata del diritto dell'imputato alla partecipazione al processo, che prescinde da un onere a carico di quest'ultimo di comunicare al giudice procedente lo stato di restrizione agli arresti domiciliari, non è possibile subordinare l'esercizio di un diritto fondamentale, come quello di partecipare al processo, ad oneri che non siano espressamente previsti da una disposizione legislativa (nel caso che ci occupa la manifestazione della volontà del prevenuto di essere presente all'udienza di celebrazione del giudizio abbreviato di primo grado), avendo rilievo soltanto il fatto che il giudice abbia comunque conoscenza di una obiettiva situazione di impedimento e manchi un'esplicita rinuncia a comparire (cfr. la già richiamata Sez. U, n. 7635 del 30/09/2021, Rv. 282806, nonché Sez. U, n. 34483 del 26/09/2006, Arena). Non vi sono, di conseguenza, motivi per escludere che anche nel casò in esame l'ordine di traduzione e la sua esecuzione costituiscano, insieme con l'avviso dell'udienza camerale e la sua notificazione, atti indefettibili della procedura diretta alla regolare costituzione del contraddittorio, posto che senza di essi l'avviso non può svolgere in concreto l'unica funzione che gli è propria, quella della vocatio in iudicium. La natura di nullità assoluta ai sensi dell'art. 179, co. 1, c.p.p., in quanto attinente all'omessa citazione dell'imputato, determinando, ai sensi dell'art. 185, C.p.p., l'invalidità degli atti consecutivi, dipendenti da tale omessa citazione, impone di annullare senza rinvio le sentenze di primo e di secondo grado, con trasmissione degli atti al tribunale di Tivoli per l'ulteriore corso. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e quella di primo grado, disponendosi la trasmissione degli atti al tribunale di Tivoli per l'ulteriore corso. Q.y~tJ JGk· .j-- Così deciso in Roma il 23.2.2024. I .presidente~. Jh C . , l ;"1 . Il Consigliere Estensore o~::~ O~~ ~tat;t ~ ;1 r. -\' ~:' "" ... ~ Ci ~-~ ,"i ,a, ....3 1 MAG 2024'" 1~~~1iziarn

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. APRILE Stefano - Consigliere Dott. CENTONZE Alessandro - Consigliere Dott. MONACO Marco Maria - Consigliere Dott. RUSSO Carmine - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ig.Br. (C.U.I. (Omissis)) nato il (Omissis) avverso la sentenza del 27/09/2023 della CORTE di APPELLO, SEZ. MINORENNI, di MILANO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere CARMINE RUSSO; lette le conclusioni del PG, SIMONE PERELLI, che ha chiesto l'inammissibilità del ricorso. lette le conclusioni del difensore dell'imputato, avv. Pa.Mu., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 3 marzo 2023 il Tribunale per i minorenni di Milano, in rito abbreviato, ha condannato Ig.Br. alla pena di 6 anni di reclusione per i reati di tentato omicidio aggravato in danno di Yu.Pr. e di tentata estorsione in danno di Al.Ma., fatti commessi il 17 maggio 2022. Con sentenza del 27 settembre 2023 la Corte di appello di Milano, sezione per i minorenni, ha confermato la sentenza di primo grado. 2. Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso l'imputato, per il tramite del difensore, con unico motivo in cui deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al riconoscimento dell'aggravante dell'art. 576, comma 1, n. 1, cod. pen., in relazione all'art. 61, n. 2, cod. pen., atteso che il giudice del merito ha riconosciuto l'aggravante ritenendo che il reato mezzo, ovvero il tentato omicidio, sia stato commesso per realizzare il reato scopo, ovvero la tentata estorsione; però, ad avviso, del ricorrente, tale prova manca, perché la causa scatenante dell'utilizzo del coltello da parte del ricorrente era da attribuire a quanto verificatosi solo successivamente all'intervento di Pr. in difesa dell'amico Ma., intervento rapidamente degenerato prima in spintoni, e quindi in un reciproco scambio di pugni, infine nel ricorso da parte dell'imputato all'utilizzo dell'arma che aveva con sé; lo scontro fisico quindi si era verificato non in uno, ma in due momenti; la stessa sentenza riconosce che il coltello non è stato utilizzato fin dall'inizio; non è, pertanto, possibile pervenire alla conclusione che, senza l'intervento non preventivato di Pr., l'imputato avrebbe comunque estratto l'arma per minacciare Ma.; in definitiva, manca la volontà e rappresentazione della aggravante in quanto la condotta è stata tenuta soltanto come reazione estemporanea all'intervento da parte di un soggetto estraneo ai fatti. 3. Con requisitoria scritta il Procuratore generale, dr. Simone Perelli, ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. Con note scritte il difensore dell'imputato, avv. Pa.Mu., ha replicato alle conclusioni del P.G. ed insistito per l'accoglimento del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. Nel giudizio di legittimità il sindacato sul modo in cui il giudice del merito ha fatto concreta applicazione della regola legale dell'art. 192, comma, 1 cod. proc. pen., secondo cui "il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati", e di quella di cui al successivo comma 2, secondo cui "l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti" è molto ristretto, perché si limita al controllo logico e giuridico della struttura della motivazione dedicata all'interpretazione degli elementi probatori, con esclusione della possibilità di rivalutazione degli stessi. L'ambito di sindacato è ancora più ristretto in caso, quale quello in esame, in cui il giudizio sulla prova è oggetto di doppia conforme, atteso che nel caso in cui una statuizione della pronuncia di primo grado sia confermata in appello, ai fini del controllo di legittimità, la motivazione della sentenza di primo grado e quella della sentenza di appello si integrano vicendevolmente (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595). Nel caso in esame, l'unico motivo di ricorso affida la critica del percorso logico della sentenza impugnata e l'individuazione in esso di vizi logici alla circostanza che il coltello sia stato utilizzato dal ricorrente soltanto in un secondo momento dell'aggressione, ed in particolare soltanto dopo l'intervento di Pr., amico della persona offesa dell'estorsione. La pronuncia di appello ha affrontato questo argomento, già proposto nel giudizio di secondo grado, alle pagg. 4 e 5 della sentenza, ed ha ritenuto non sussistesse questa cesura che l'impugnazione pretende di introdurre nella lite, perché la presenza di un'arma indosso all'imputato fin dall'inizio della discussione tratteggia pienamente l'intento che animava la richiesta restitutoria, perché l'intervento di Pr. ha avuto come unica causa scatenante la condotta tenuta dall'imputato nei confronti della vittima dell'estorsione, e perché dalle dichiarazioni rese da questi si comprende che il successivo battibecco tra l'imputato e gli amici intervenuti a sostegno della vittima ha semplicemente avuto l'effetto di estendere anche a questi la condotta criminosa in atto. In questa ricostruzione effettuata dal giudice di secondo grado non ci sono vizi logici, perché il rapporto di stretta consequenzialità tra la minaccia perpetrata in danno di Ma., l'intervento degli amici di questi, l'immediata estensione dell'aggressione anche a danno di costoro - con l'utilizzo del coltello per riequilibrare i rapporto di forza che erano divenuti sbilanciati nel numero in favore degli aggrediti - rende non manifestamente illogico sia stato ritenuto dal giudice del merito la inesistenza di una cesura tra le condotte complessivamente tenute dall'imputato e sia stato ritenuto esistente, invece, un nesso teleologico tra l'aggressione in danno di Pr. e la estorsione in danno di Ma. che ne era stata la causa. Ne consegue che le doglianze mosse dal ricorrente si risolvono in una ricostruzione alternativa delle evidenze probatorie, che di per sé non è apprezzabile in sede di legittimità (Sez. 2, Sentenza n. 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747; Sez. 3, Sentenza n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217; Sez. 2, n. 29480 del 07/02/2017, Cammarata, Rv. 270519), il che conduce alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso. 2. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso non consegue la condanna alle spese processuali né la sanzione in favore della cassa delle ammende (Sez. U, Sentenza n. 15 del 31/05/2000, Radulovic, Rv. 216704) per effetto dell'art. 29 disp. att. c.p.m., norma ritenuta applicabile anche al giudizio di legittimità (Sez. 4, Ordinanza n. 11194 del 01/06/1999, Milanovic, Rv. 214385). 3. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso il 4 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. DI STEFANO Pierluigi - Presidente Dott. RICCIARELLI Massimo - Relatore Dott. GALLUCCI Enrico - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Consigliere Dott. DI GERONIMO Paolo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ma.Gi., nato il (Omissis) a C; avverso l'ordinanza in data 08/09/2023 della Corte di appello di Milano; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Massimo Ricciarelli; udite le conclusioni del Pubblico ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Perla Lori, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito il difensore Avv. El.Ma. in sost. dell'Avv. Ma.Na. per la parte civile, che ha depositato conclusioni e nota spese; udito il difensore Avv. Pa.Le. per il ricorrente, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso, riportandosi alla questione di illegittimità costituzionale. RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 08/09/2023 la Corte di appello di Milano ha dichiarato inammissibile per mancata allegazione di elezione o dichiarazione di domicilio l'appello presentato da Ma.Gi. avverso la sentenza del Tribunale di Pavia in data 02/02/2023, con cui il predetto è stato riconosciuto colpevole dei delitti di maltrattamenti e lesioni. 2. Ha proposto ricorso Ma.Gi. tramite il suo difensore. Deduce violazione dell'art. 581, comma 1-ter cod. proc. pen. in relazione agli artt. 6 CEDU, 3, 24, 27, 111 Cost. Il provvedimento impugnato non considera che l'imputato aveva eletto e mai modificato il domicilio e che nell'atto di appello era stato operato richiamo al domicilio fiduciario, risolvendosi in un mero formalismo la valorizzazione della mancata allegazione della dichiarazione o elezione di domicilio, tale da privare l'imputato del giudizio di appello a fronte di condanna per gravi reati. Ciò si risolveva in una violazione di garanzie, tale da determinare un contrasto con gli artt. 3, 24, 27, 111 Cost. e con l'art. 6 CEDU, sollevandosi in subordine questione di legittimità costituzionale dell'art. 581, comma 1-ter cod. proc. pen. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile. 2. L'art. 581, comma 1-ter cod. proc. pen., introdotto dall'art. 33, comma 1, lett. d) del D.Lgs. 150 del 2022 e applicabile, ai sensi dell'art. 89, comma 3, D.Lgs. 150 cit., alle sentenze pronunciate dopo l'entrata in vigore dello stesso decreto legislativo, prevede che con l'atto di impugnazione delle parti private e dei difensori è depositata a pena di inammissibilità la dichiarazione o elezione di domicilio, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio. L'art. 581, comma 1-quater, cod. proc. pen., anch'esso introdotto dal citato art. 33, comma 1, lett. d), D.Lgs. 150 del 2022 si riferisce invece all'impugnazione dell'imputato giudicato in assenza, stabilendo che a pena di inammissibilità è depositato specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente l'elezione o la dichiarazione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio. Ciò si correla alla previsione dell'art. 157-ter, comma 3, cod. proc. pen., inserito dallo stesso D.Lgs. 150 del 2022, secondo cui in caso di impugnazione proposta dall'imputato o nel suo interesse la notificazione dell'atto di citazione a giudizio è eseguita esclusivamente presso il domicilio dichiarato o eletto ai sensi dell'art. 581, comma 1-ter e 1-quater. Tali disposizioni devono essere lette alla luce delle direttive contenute nella legge delega 134 del 2021, che, oltre a prefiggersi lo scopo di evitare procedimenti inutili nei confronti dell'imputato inconsapevole, destinati ad essere travolti dalla rescissione - in tale prospettiva disciplinando il processo in assenza anche nei gradi di impugnazione -, aveva più in generale perseguito la finalità di rendere il processo più celere ed efficiente, prevedendo (art. 1, comma 6, lett. f) che nel caso di impugnazione proposta dall'imputato o nel suo interesse "la notificazione dell'atto di citazione a giudizio" nei suoi confronti deve essere effettuata presso il domicilio dichiarato o eletto e (art. 1, comma 13, lett. a) che "con l'atto di impugnazione, a pena di inammissibilità, sia depositata dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di impugnazione". Dai lavori preparatori e dalla relazione di accompagnamento si trae conferma dell'intendimento di facilitare la celebrazione dei giudizi di impugnazione, semplificando sia in via generale la "notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di impugnazione" attraverso l'onere imposto all'impugnante di dichiarare o eleggere domicilio, sia in modo specifico "la notificazione dell'atto di citazione a giudizio" per l'impugnazione proposta dall'imputato o nel suo interesse, utilizzando la dichiarazione o elezione di cui sopra. 3. Con specifico riguardo all'art. 581, comma 1-ter cod. proc. pen., a seguito della sua entrata in vigore, la giurisprudenza si è pronunciata in modo non sempre uniforme. Innanzi tutto, si è rilevato che la disposizione non è applicabile nel caso di imputato detenuto (Sez. 4, n. 4342 del 09/01/2024, Shala Rafael, Rv. 285749; Sez. 2, n. 51273 del 10/11/2023, Savoia, Rv. 285546; Sez. 2, n. 33355 del 28/06/2023, Quattrocchi, Rv. 285021), ma, in un caso, è stata distinta la posizione dell'imputato detenuto per altra causa, rispetto al quale la norma è stata ritenuta applicabile (Sez. 5, n. 4606 del 28/11/2023, D'Amuri, Rv. 285973), essendosi inoltre ritenuto in una circostanza che la restrizione agli arresti domiciliari parimenti non valga ad impedire l'applicabilità della disposizione (Sez. 4, n. 41858 del 08/06/2023, Andrioli, Rv. 285146). In secondo luogo, si è posto il problema di stabilire se l'allegazione dell'elezione o dichiarazione di domicilio all'atto di appello implichi una specifica dichiarazione o elezione successiva alla sentenza impugnata ovvero possa aver ad oggetto una dichiarazione o elezione effettuata nella fase precedente: nel primo senso si è rilevato che "la dichiarazione o elezione di domicilio che, ai sensi dell'art. 581, comma 1-ter, cod. proc. pen., va depositata, a pena di inammissibilità, unitamente al gravame delle parti private e dei difensori, dev'essere successiva alla pronuncia della sentenza impugnata, poiché, alla luce della nuova formulazione dell'art. 164 cod. proc. pen., quella effettuata nel precedente grado non ha più una durata estesa ai gradi successivi" (così Sez. 6, n. 7020 del 16/01/2024, Mirabile, Rv. 285985; Sez. 5, n. 3118 del 10/01/2024, Mohamed Ahmad Hasan, Rv. 285805), ma nel secondo senso si è sottolineato che "nel caso di imputato non processato" in absentia", la dichiarazione o l'elezione di domicilio richieste ex art. 581, comma 1-ter, cod. proc. pen. possono essere effettuate anche nel corso del procedimento di primo grado, e non necessariamente in un momento successivo alla pronuncia della sentenza impugnata, a condizione che siano depositate unitamente all'atto di appello, atteso che la contraria interpretazione ostacolerebbe indebitamente l'accesso al giudizio di impugnazione, in violazione dei diritti costituzionalmente e convenzionalmente garantiti" (Sez. 2, n. 8014 del 11/01/2024, El Janati, Rv. 285936). Peraltro, in altra occasione, si è sottolineato sullo specifico tema che è ammissibile l'appello che contenga, senza materiale allegazione, la domiciliazione, anche al fine della notifica dell'atto di citazione (Sez. 2, n. 16480 del 29/02/2024, Miraoui Mohamed, non massimata). 4. Ciò posto, si rileva che, nel caso in esame, non viene in rilievo né l'ipotesi dell'imputato assente né quella dell'imputato detenuto. In concreto, l'atto di appello indicava la domiciliazione dell'imputato, ma senza che fosse allegato l'atto che la conteneva, senza che l'atto recasse la firma anche dell'imputato e senza che fosse specificata la precisa collocazione della dichiarazione di domicilio nel fascicolo processuale. La Corte di appello, facendo applicazione dell'art. 581, comma 1-ter cod. proc. pen., ha ritenuto l'appello inammissibile, in quanto privo dell'allegazione della dichiarazione di domicilio e della firma dell'imputato, pur non ritenendo necessario che tale domiciliazione fosse intervenuta dopo la sentenza impugnata. 5. Orbene, richiamando quanto osservato in ordine alla ratio della disposizione, che è quella di assicurare la celerità ed efficienza del processo e dunque, in primo luogo, l'individuazione sicura del luogo di notifica, non di rado fonte di incertezze, da cui possono discendere nullità processuali, deve ritenersi che la valutazione della Corte territoriale non si esponga in alcun modo alle censure proposte nel motivo di ricorso. Va infatti rimarcato come l'adempimento previsto a pena di inammissibilità consista nel deposito della dichiarazione o elezione di domicilio e come tale adempimento sia funzionale alla notifica dell'atto di citazione. La norma non chiarisce se la dichiarazione o elezione debba essere successiva alla sentenza impugnata, come previsto invece espressamente nel caso di imputato assente e come, nondimeno, ritenuto da una parte della giurisprudenza. Sta di fatto che la nozione di deposito implica un'attività di materiale produzione, avente ad oggetto la dichiarazione o elezione di domicilio, quale atto proveniente specificamente dall'imputato e recante dunque la sua firma, al fine di consentire l'inequivoca individuazione del luogo della notifica. Anche volendo ritenere sufficiente una dichiarazione o elezione anteriore alla sentenza impugnata, si tratta tuttavia di stabilire se tale produzione comporti un'allegazione all'atto di appello o possa risolversi nella sua riproduzione nel corpo dell'atto. Quel che pare certo è, da un lato, che debba emergere la provenienza sicura dell'atto e che dunque possa con certezza attribuirsi la dichiarazione o elezione all'imputato e, dall'altro, che ciò possa farsi senza equivoci fin dal momento della presentazione dell'atto di impugnazione. In tale prospettiva deve escludersi che possa ritenersi bastevole il generico richiamo del luogo della domiciliazione nell'atto di appello, ove la stessa non sia corroborata e accompagnata dalla firma dell'imputato, giacché quel richiamo, al di là dell'assunzione di responsabilità da parte del legale, non varrebbe comunque a conferire certezza alla domiciliazione fin dal momento della presentazione dell'impugnazione. Tutt'al più, in una prospettiva volta, sul piano interpretativo, a ridimensionare la portata dell'onere previsto ma, nel contempo, ad assicurare in pari misura la provenienza e la certezza della domiciliazione, potrebbe ritenersi se del caso idonea, alla stregua di una produzione, la puntuale, specifica e precisa indicazione della collocazione della domiciliazione nel fascicolo processuale, così da inverarne l'attualità senza la necessità di imporre una incerta esplorazione dell'incartamento, tanto più problematica nel caso di fascicoli particolarmente ponderosi. Sta di fatto che nel caso di specie, come detto, non ricorre neppure tale ipotesi, dovendosi dunque ribadire la valutazione formulata dalla Corte di appello. 6. Una siffatta conclusione non si pone in contrasto con la tutela dei diritti difensivi e in conflitto con garanzie costituzionali, sia pur mediate da norme convenzionali. La prospettata questione di legittimità costituzionale, peraltro formulata in termini generici, risulta, invero, anche manifestamente infondata. È stato più volte rilevato come le nuove disposizioni introdotte dagli artt. 581, comma 1-ter e 1-quater cod. proc. pen., non si pongano in contrasto con le invocate garanzie (Sez. 6, n. 3365 del 20/12/2023, dep. 2024, Terrasi, Rv. 285900; Sez. 4, n. 43718 del 11/10/2023, Ben Khalifa Mohamed, Rv. 285324; cfr. anche Sez. 6, n. 223 del 07/11/2023, dep. 2024, Sechovcov, non massimata). Con particolare riguardo all'art. 581, comma 1-ter cod. proc. pen. va infatti richiamata la nitida ratio sottesa alla disposizione, funzionale alla salvaguardia di un'esigenza che trova tutela e riconoscimento nella Carta costituzionale: la norma non è volta a limitare il diritto di difesa e si risolve nella definizione di una modalità strutturale dell'atto di impugnazione, che non implica un adempimento irragionevole e inutile, in quanto volto, semmai, a rafforzare il rispetto delle garanzie senza un aggravio intollerabile e tale da costituire di fatto una limitazione nell'esercizio delle facoltà difensive. Si tratta infatti di assicurare una permanente vigilanza da parte dell'imputato in ordine all'indicazione del luogo della notifica, senza peraltro pretenderne una non esigibile collaborazione, tale da eccedere il limite di quella minima vigilanza e da interferire con gli adempimenti, per contro, esigibili dagli organi deputati all'amministrazione della giustizia. Ciò non determina alcuna tensione con il principio di uguaglianza, con il diritto di difesa e con il diritto di impugnazione e dunque con la facoltà di accesso ai rimedi previsti, essendo introdotta una modalità che non si risolve in un vuoto formalismo tale da comprimere irragionevolmente quella facoltà, al contrario idoneamente calibrata in modo assicurare il contemperamento di tutte le esigenze, senza tuttavia incidere sul ruolo del difensore, creando un'indebita frattura con la sua pregressa azione. Ciò vale a fortiori ove l'adempimento richiesto sia inteso riduttivamente non come nuova elezione o dichiarazione ma come allegazione di una dichiarazione precedente o addirittura come mera puntale indicazione della collocazione nel fascicolo della dichiarazione precedente, essendo evidente come un siffatto adempimento possa essere agevolmente assicurato dalla parte interessata o dal suo difensore, a fronte di uno scopo legittimo e della concreta proporzione della prescrizione, rispettosa dei canoni evocati in generale dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (sul punto Corte edu, 28 ottobre 2021, Succi et al. c. Italia, ric. nn. 55064/11, 37781/13 e 26049/14). 7. Su tali basi deve concludersi che la questione di illegittimità costituzionale è manifestamente infondata e che radicalmente infondato risulta il ricorso nel suo complesso. 8. All'inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, ma non anche quella al pagamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, dovendosi valutare la peculiarità della situazione, coinvolgente il diritto di difesa avverso ordinanza emessa, pur legittimamente, de plano. Proprio la peculiarità della questione devoluta con il ricorso, non immediatamente coinvolgente i profili civilistici, induce a ritenere compensate le spese di costituzione e difesa sostenute nel presente grado dalla parte civile. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Compensa integralmente le spese di costituzione del grado della parte civile. Così deciso il 16 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7538 del 2023, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Fr. Ca., Fi. La., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Fr. Ca. in Roma, via (...); contro Sapienza Università di Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Ru., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Terza n. -OMISSIS- Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Sapienza Università di Roma; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 febbraio 2024 il Cons. Sergio Zeuli e uditi per le parti gli avvocati Fi. La. e Gi. Ru.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso proposto dalla parte appellante avverso il provvedimento del -OMISSIS- n. -OMISSIS- con cui l'Università degli Studi di Roma "La Sapienza" le ha irrogato, ai sensi dell'art. 87 del T.U. 1592 del 1993, nonché dell'art. 3 commi 4 e 5 del Regolamento di Ateneo, la sanzione disciplinare della sospensione dall'ufficio e dallo stipendio, per un periodo di due mesi. A supporto del gravame, la parte espone le seguenti circostanze di fatto: - con la nota n. -OMISSIS- del -OMISSIS- l'Università comunicava l'avvio del procedimento disciplinare contestando - sulla base del decreto di rinvio a giudizio del GIP presso il Tribunale di Roma - di aver confezionato un bando su misura per il prof. -OMISSIS-; - nel corso di detto procedimento, l'organo istruttore disattendeva la richiesta di sospensione pregiudiziale del procedimento disciplinare in attesa della definizione del processo penale e deferiva, per la gravità dei fatti contestati, il procedimento al Collegio di Disciplina che procedeva all'audizione dell'incolpato; - anche il Collegio di disciplina disattendeva la richiesta di sospensione per pregiudizialità ; - in seguito l'incolpato veniva in possesso di file audio riproducenti una conversazione fra terzi che conteneva elementi a suo carico e veniva quindi nuovamente escusso, su convocazione, dall'organo, il -OMISSIS-; - il -OMISSIS- successivo - precedentemente, il -OMISSIS-, la parte aveva presentato una memoria - il Collegio comunicava di aver concluso il -OMISSIS- le proprie attività ; - il -OMISSIS- l'Università trasmetteva il decreto impugnato, con il quale irrogava la sanzione disciplinare della sospensione dall'ufficio e dallo stipendio per un periodo di due mesi, a decorrere dall'-OMISSIS-, senza effettuare alcun riferimento alle richieste ed alle difese presentate dall'incolpato e fondando la propria decisione su di una consistente attività istruttoria, a dire di questi, non resagli nota. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso proposto avverso detto decreto. La parte deduce i seguenti motivi di appello: 1. Errores in procedendo e in iudicando: violazione e/o falsa applicazione dell'art. 10 della L. n. 240/2010, dell'art. 117 del DPR n. 3/1957 e dell'art. 12 della legge n. 311/1958. 2. Errores in iudicando: violazione e/o falsa applicazione dell'art. 10 comma 1 della Legge n. 240/2010 e ss. mm. ii.; artt. 6 e 7 del Regolamento di Ateneo; art. 41 CDFUE e art. 6 CEDU. 3. Errores in procedendo e in iudicando: sulla violazione del divieto di mutatio libelli. Violazione del principio del giusto procedimento e del contraddittorio. Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 24 e 97 della Cost.; violazione e/o falsa applicazione dell'art. 3 della l. 241/1990 ss. mm. ii.; eccesso di potere per sviamento ed erroneità della motivazione. 4. Errores in procedendo e in iudicando: sull'inutilizzabilità in sede disciplinare delle registrazioni audio effettuate dal dott. -OMISSIS-. 5. Errores in iudicando: sulla infondatezza dell'addebito disciplinare eccesso di potere per erroneità, carenza e perplessità dell'istruttoria e della motivazione; violazione del principio della prova; travisamento dei presupposti di fatto e di diritto. Ingiustizia manifesta. Violazione del principio di proporzionalità . 2. Si è costituita in giudizio l'Università degli Studi "La Sapienza" di Roma, contestando l'avverso dedotto e chiedendo il rigetto del gravame. DIRITTO 3. Il primo motivo di appello contesta l'omessa applicazione alla fattispecie controversa della cd. "pregiudiziale penale" di cui all'art. 117 del D.P.R. n. 3/1957. La parte appellante sostiene, in primo luogo, che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure, questa disposizione sarebbe applicabile al procedimento disciplinare celebrato nei confronti dei professori universitari, ancorché il relativo rapporto di lavoro abbia sempre presentato delle particolarità rispetto al resto del pubblico impiego, e che, in ogni caso, le ragioni di garanzia sostanziale e processuale che ispirano il suddetto principio imporrebbero comunque di applicarlo, anche se non fosse espressamente contemplato. Il secondo motivo di appello - che può essere trattato congiuntamente al primo - deduce in via principale che nel procedimento controverso sarebbe stato violato l'articolo 10 della legge n. 240 del 2010, e, in subordine, che se quest'ultimo fosse interpretato nei sensi ritenuti dal giudice di prime cure, sarebbe in contrasto con gli articoli 3 e 97 della Costituzione, oltre che, per norma interposta, ex art. 117 Cost., con l'articolo 6 par. CEDU. 3.1. Il primo motivo è infondato per una serie di ragioni, prima delle quali è che il suddetto articolo 117 D.P.R. n. 3 del 1957 è ricompreso, al n. VI 1 a) dell'allegato B, richiamato dal comma 1 dell'art. 71 del d.lgs. 165/2001, tra le previsioni che cessano di avere efficacia, dal momento della stipulazione dei contratti collettivi, per ciascun ambito di riferimento. Diversamente da quanto ritenuto dalla parte appellante, la sopravvenuta inefficacia ivi prevista va applicata - come testualmente precisato sia dall'articolo 71 che dal precedente articolo 69 del d.lgs. n. 165 del 2001 - " a ciascun ambito di riferimento", e non al solo personale del comparto dirigenziale, per il quale ultimo, la sola differenza è in relazione al quadriennio dei contratti collettivi preso in considerazione quale evento caducante, che, per i soli dirigenti, è quello del 1994-1997, mentre per tutti gli atri - fra essi compresi i docenti universitari - è quello successivo del 1998-2001. 3.2. La conferma dell'inapplicabilità della pregiudiziale penale ai professori universitari, si ricava altresì dalla previsione contenuta nell'art. 12 della legge n. 311 del 1958 che tra le norme ritenute applicabili ai predetti, sin da allora, non richiamava il citato articolo 117 DPR n. 3/1957. 3.3. In terzo luogo - evidenziando l'autonomia del procedimento disciplinare nei confronti dei pubblici impiegati - l'articolo 55-ter del d.lgs. n. 165 del 2001 prevede oggi espressamente che "il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l'autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale ". 3.3. Infine l'articolo 10 della legge n. 240 del 2010 - in tema di competenza disciplinare nei confronti dei professori universitari - nulla prevede a proposito della cd. pregiudiziale penale, così implicitamente autorizzando, diversamente da quanto sostenuto dal motivo in esame, che ne assume la violazione, i singoli Atenei, in occasione dell'adozione dei relativi Regolamenti, ad orientarsi come meglio credono. Or bene la suddetta prerogativa è stata puntualmente esercitata dall'Università appellata che, al comma 1 dell'articolo 12 del Regolamento disciplinare dell'Ateneo (D.R. 438/2020) ha escluso l'operatività del suddetto principio. 3.4.1. Come anticipato, la parte appellante sostiene, con il secondo motivo d'appello, che - essendo posto a presidio di una garanzia essenziale, sulla quale l'autonomia regolamentare non avrebbe potuto incidere, in quanto strettamente connessa allo status di professore universitario di ruolo, ed alla relativa tutela costituzionale del professore universitario, ai sensi degli articoli 3 e 97 della Costituzione - il suddetto principio andrebbe comunque salvaguardato in una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 10 della legge n. 240 del 2010. In questa prospettiva il motivo in analisi rivendica l'esigenza di una disciplina unitaria - necessariamente per via legislativa - dei relativi procedimenti disciplinari, pena la creazione di inammissibili disparità di trattamento tra i professori universitari, a seconda dell'ateneo di appartenenza, chiedendo alternativamente, con il primo motivo di annullare per violazione del citato articolo 10 l.240 la suddetta norma regolamentare, con il secondo, in subordine, di rilevare il contrasto dell'articolo 10, se non interpretato come proposto, con i principi costituzionali di cui agli articoli 3, e 97 della Costituzione. 3.4.2. L'obiezione è infondata nei suoi presupposti. Essa dà infatti per scontato che, quello della pregiudizialità del processo penale rispetto al procedimento disciplinare, rappresenti un principio generalmente applicabile all'intero pubblico impiego, quando è al contrario evidente che, a seguito dell'introduzione nel testo unico del p.i. dell'art. 55 ter, il legislatore - optando per gli opposti principi di autosufficienza ed autonomia delle due procedure - ha espresso l'intendimento esattamente opposto. Il che è peraltro conclamato dalla giurisprudenza unanime della Cassazione che, per l'appunto in materia di procedimento disciplinare nei confronti dei pubblici dipendenti, ha escluso la sopravvivenza dell'istituto della pregiudiziale, venuta meno dopo l'introduzione del citato articolo 55-ter del d.lgs. 165 del 2001, ed ha espressamente affermato, per quel che più interessa in questa sede, che "l'amministrazione è libera di valutare autonomamente gli atti del procedimento penale, ai fini della contestazione, senza necessità di una ulteriore ed autonoma istruttoria, (così come NdR) di avvalersi dei medesimi atti, in sede d'impugnativa giudiziale, per dimostrare la fondatezza degli addebiti" (cfr. Cass. civ., sez. lav., 1 marzo 2017 n. 5284 e 26 ottobre 2017 n. 25485). Dunque l'amministrazione, quale datrice di lavoro deve ritenersi libera di valutare se e quando sussistano motivi per sospendere il relativo procedimento, a causa della contemporanea pendenza di un processo penale, e, quindi, anche di presumere, in astratto, fatta salva la possibilità di scelta del caso per caso, la normale non pregiudizialità . Né può fondatamente sostenersi che tale discrezionalità - ripetesi - attribuita oramai dalla legge- non sia riferibile anche alla categoria dei professori universitari, ancorché non privatizzata, a maggior ragione laddove si consideri che, già in vigenza dell'originario assetto ordinamentale di questi ultimi, risalente al 1958, si dubitava, peraltro, con valide argomentazioni, che suddetto principio operasse per questa categoria di lavoratori. 3.4.3. Quanto al prospettato vulnus che, per questa via, si recherebbe ai suddetti principi costituzionali si osserva che - a voler seguire l'interpretazione di cui al motivo in analisi che propugna la necessità di una disciplina legislativa unica su tutto il territorio nazionale - risulterebbe senz'altro vulnerato un altro fondamentale principio costituzionale, ossia l'autonomia organizzativa dell'Università di cui all'art. 33 comma 6 della Costituzione, che ne risulterebbe irreparabilmente compressa. 3.4.4. Quanto invece alla contestata lesione dei principi costituzionali di parità di trattamento e buon andamento, l'obiezione non considera che la non operatività della pregiudiziale, nella legge come nel regolamento di ateneo, è da intendersi come previsione solo "di massima" che, come tale, non impedisce che, in casi specifici, quest'ultima possa operare, come pure che la decisione che ne nega l'applicazione sarebbe comunque pur sempre sindacabile in sede giurisdizionale. Il che significa che, a tutto concedere, la previsione denunciata presenterebbe una lesività tutto sommato modesta rispetto ai suddetti principi, e comunque rimediabile, che, come tale, giammai può ritenersi con essi in contrasto. 3.4.5. Dimostrata l'inconferenza delle relative obiezioni, si palesa con ciò la manifesta infondatezza del prospettato contrasto dell'articolo 10 della legge n. 240 del 2010 con le norme costituzionali, evocato nel secondo motivo di appello. 3.5. In definitiva, va ribadita la legittimità dell'articolo 12 del Regolamento di Ateneo dell'Università La Sapienza di Roma, in tema di procedimento disciplinare nei confronti dei professori universitari, nella parte in cui esclude l'operatività della pregiudiziale penale, disposizione che risulta altresì essere stata correttamente applicata nella vicenda controversa. D'altro canto le considerazioni che precedono escludono che con l'inciso - "fatti salvi i casi di sospensione previsti dalla legge" ivi contenuto - questa disposizione si sia voluta riferire alla pregiudiziale, in quanto la stessa, come si è visto, è stata definitivamente espunta, persino quale principio generale, dalle norme regolative del pubblico impiego e non è tampoco evincibile dall'articolo 10 della legge n. 240 del 2010, come pure appena osservato. 4. Il terzo motivo d'appello contesta la violazione dei principi generali di garanzia del giusto procedimento disciplinare, anche in contrasto con il diritto europeo e quello convenzionale, lamentando che l'attività dell'autorità procedente sarebbe censurabile per più ragioni, e cioè, per la violazione dei principi del contraddittorio e della corrispondenza fra incolpazione e condanna e per l'omesso esame delle ultime memorie depositate dall'incolpato, al quale, così operando, l'amministrazione non avrebbe lasciato l'ultima parola. 4.1. Sotto altro profilo il terzo motivo d'appello contesta la non corrispondenza tra imputazione e condanna. Specificamente con questa doglianza la parte appellante deduce che, in sede di contestazione iniziale, le era stata addebitata una condotta attiva, consistente nell'indebito confezionamento di un bando su misura, e che nella condanna, al contrario, la sanzione è stata irrogata per ragioni diverse, ossia per avere omesso di esercitare i poteri di verifica, controllo e segnalazione su di lei incombenti. 4.2. Il quarto motivo d'appello - che può essere trattato congiuntamente a quello che lo precede- contesta in aggiunta che le registrazioni effettuate dal dr. -OMISSIS- del dia con il dr. -OMISSIS- sarebbero inutilizzabili nei confronti di terzi estranei alla conversazione, quale è in questo caso la parte appellante. 5. Il terzo motivo di appello è infondato, innanzitutto nei presupposti, basandosi su di una pretesa assimilabilità tra le garanzie offerte dall'imputato nel processo penale - che gli consentono di assistere a tutte le fasi del procedimento al momento del "farsi" della prova in dibattimento - e quelle, senz'altro più dimensionate rispetto alle prime, che spettano all'incolpato nel procedimento disciplinare. E' evidente infatti che, trattandosi di due procedimenti con finalità diverse, e, soprattutto, suscettibili di incidere su situazioni soggettive di diverso spessore - giuridicamente molto più delicate sono quelle coinvolte nel primo - non si può pretendere per essi il medesimo tasso di garantismo, pena l'introduzione di una disparità di trattamento al contrario, e, soprattutto, il rischio di appesantire eccessivamente il secondo, in contrasto con il principio di efficienza dell'azione amministrativa. Da ciò consegue che il prospettato diritto di seguire, per così dire, "da presso" tutte le acquisizioni testimoniali che la parte appellante rivendica, è - almeno nella ipotizzata estensione - insussistente nel procedimento disciplinare. 5.2. Si deve anche osservare, in fatto, che nel procedimento controverso risulta rispettata la procedura prescritta dal Regolamento di Ateneo in tema di procedimento disciplinare, conformato nell'esercizio dei poteri attribuiti all'università dal ricordato articolo 10 della legge n. 240 del 2010, il che consente di escludere che sia stato indebitamente conculcato il diritto di difesa della parte appellante. 5.2.1. Infatti il contraddittorio procedimentale, e il suo presupposto partecipativo, sono stati adeguatamente assicurati a quest'ultimo tanto da consentirgli di: produrre due memorie al Collegio, ed una all'organo istruttore; essere esaminato due volte dal Consiglio di disciplina, il -OMISSIS- ed il -OMISSIS-, anche concordando, nella prima occasione, la data della sua audizione, ed essendo stato convocato di ufficio, dal Collegio, al termine dell'istruttoria. In entrambe le occasioni egli ha avuto modo di difendersi dai fatti che gli erano stati contestati, controreplicando in fatto ed in diritto. Che avesse piena contezza di questi ultimi, e dunque che fosse stato messo nella piena condizione di difendersi, è dimostrato dal contenuto delle dette audizioni. Del resto aveva precedentemente acquisito i file audio della registrazione riproducente il dia intercorso tra il dr. -OMISSIS- ed il dr. -OMISSIS-, ossia il documento che rappresenta la prova principale, e del processo penale, e di quello disciplinare. 5.2.2. Tanto meno trova conferma in atti la doglianza che all'incolpato non furono comunicate le nuove circostanze emergenti dalle testimonianze acquisite in istruttoria lo stesso -OMISSIS-. Infatti dal relativo verbale si evince che la parte appellante, anche grazie alla previa acquisizione dei suddetti audio file, aveva un apprezzabile grado di conoscenza degli elementi di prova a suo carico. Aggiungasi che si trattava di fatti storici non particolarmente articolati e sostanzialmente coincidenti con quelli acquisiti nel corso del procedimento penale, che gli erano ben noti a maggior ragione dopo che era stato rinviato a giudizio. 5.2.3. Il sub-motivo al terzo motivo d'appello è infondato in fatto perché, a leggere la motivazione del provvedimento impugnato vi è coincidenza e sovrapponibilità fra contestazione iniziale e fatto posto a fondamento della condanna. Infatti nella contestazione iniziale, estratta dall'imputazione contenuta nel decreto che dispone il giudizio del GIP, l'organo istruttore aveva contestato alla parte soprattutto il risultato della sua condotta, consistente nell'aver emanato un bando su misura per il professor -OMISSIS-, controparte nella controversia pre-processuale iniziata con la diffida, nonché presunto creditore dell'università . L'evento era addebitato all'incolpato, senza precisare la tipologia di condotta causale da lui posta in essere, ossia se commissiva o omissiva, come è evincibile dai generici riferimenti alle "condotte (id est: senza ulteriore aggettivazione) rilevanti sotto il profilo disciplinare" da lui tenute e all'iniziativa "da lui promossa ed attivata" contenuti nella contestazione. Del resto, dall'intero contenuto del procedimento disciplinare palesatosi nel corso del suo svolgimento (come si dirà anche infra), era evidente che l'incolpato fosse stato chiamato in causa dall'amministrazione, sia come co-autore di condotte materiali che, più in generale, come responsabile gestionale e di spesa dei procedimenti che avevano dato luogo alla controversia, dunque la condanna per questo secondo profilo non poteva ex ante ritenersi imprevedibile, ma anzi rappresentava un fatto implicitamente ricompreso nella contestazione, così come uno dei possibili esiti dell'istruttoria. 4.2.4. Quanto alla contestata inutilizzabilità dei file, l'eccezione sollevata con il ricordato quarto motivo non ha pregio perché si trattava di un documento, nel senso di elemento rappresentativo di una circostanza- appunto il dia tra -OMISSIS- ed -OMISSIS- - confermata da quest'ultimo, da questi spontaneamente consegnato. Delle registrazioni eseguite in questo modo la Cassazione unanimemente riconosce la piena utilizzabilità in giudizio (vedasi per tutte Cassazione civile, sez. lav., 29/09/2022, n. 28398) senza limitazioni quanto ai soggetti a carico dei quali farle valere. Con principio che, a maggior ragione, deve valere nel caso di specie, dove si procedeva nell'ambito del meno garantito procedimento disciplinare. A definitiva confutazione dell'obiezione si consideri poi che l'eventuale interdizione all'uso della registrazione nei diretti confronti dell'incolpato, non ne impedirebbe l'uso nei confronti del suo correo, in quanto altro interlocutore della conversazione, ossia il dr. -OMISSIS-, il che finirebbe per avere una valenza indiziaria pressoché analoga anche a carico dell'odierna parte appellante, che è accusata (e che è stata sanzionata in sede disciplinare) di aver agito in concerto con quest'ultimo. 5. Il quinto motivo d'appello contesta l'inveridicità, in fatto, dell'addebito disciplinare. 5.1. Il motivo è infondato. Alla parte appellante è stato contestato di aver fatto approvare un bando per il conferimento di un incarico retribuito, confezionato sui requisiti del prof. -OMISSIS-, allo scopo di ricompensarlo delle prestazioni da lui effettuate nell'ambito di un progetto di ricerca condotto dal Dipartimento di -OMISSIS- dell'Università, di cui era Responsabile Scientifico la parte appellante. Le dette prestazioni non erano state pagate al professor -OMISSIS- che pertanto si era indotto ad inoltrare al Dibattimento una diffida di adempimento. Per indurlo a rinunciare alle sue pretese - secondo l'accusa - la parte appellante avrebbe, per interposta persona, proposto al suddetto docente di far emanare un Bando dall'Università "cucito" sul suo profilo professionale, a tacitazione della sua pretesa. Senonché - dopo aver rifiutato la proposta - il predetto -OMISSIS- ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Roma, dal quale è stato occasionato il procedimento penale che ha condotto al rinvio a giudizio della parte appellante per i reati p. e p. dagli articoli 110 e 322 comma 4 del codice penale. La registrazione di cui sopra fornisce la prova che effettivamente il dottor -OMISSIS-, collaboratore della parte appellante, che lo avrebbe incaricato del relativo incombente, abbia chiesto ad -OMISSIS- di convincere -OMISSIS- a partecipare alla procedura concorsuale, procedura che quest'ultimo avrebbe prevedibilmente vinto, ottenendo così l'attribuzione dell'incarico per il quale era previsto un corrispettivo di euro 31.400, rinunciando al contempo alla diffida inoltrata all'Ateneo e, con essa, al pagamento delle somme spettantigli in ragione della collaborazione al precedente progetto. E' altresì accertato (deposizione della funzionaria -OMISSIS-) che fu la parte appellante a modificare gli atti attuativi conseguenti alla delibera del Dipartimento di -OMISSIS- del -OMISSIS-. Del resto, in quanto vertice dell'ufficio, era solo l'incolpato che avrebbe potuto intervenire, sia da un punto di vista tecnico che amministrativo sulla relativa procedura, così come è altrettanto indubbio che egli rappresentava l'autorità dotata dell'ultima parola a decidere in ordine alla gestione dei fondi. Risulta ancora che la procedura presentava una configurazione anomala, quanto al contenuto, rispetto ad altri bandi consimili emessi dal dipartimento e che, altri sintomi con valenza indiziaria, il primo bando andò deserto, mentre al secondo partecipò, significativamente il solo professor -OMISSIS- che effettivamente possedeva, e non casualmente, i titoli specialistici esattamente richiesti dalla procedura. Né è fondatamente sostenibile che le funzionarie amministrative che redassero il bando avrebbero potuto autonomamente intervenire sulle specifiche tecniche per l'aggiudicazione che, al di là di ogni ragionevole dubbio, furono inserite nel Bando dalla parte appellante, come del resto confermato dalle stesse impiegate, escusse dal Collegio di disciplina. La stessa parte appellante ne nominò i membri e per di più presiedette la Commissione di concorso. 5.2. Tanto premesso, si tratta - come è evidente - di fatti gravi che, oltre a dimostrare che la parte appellante, almeno in due occasioni, ha platealmente violato i suoi doveri di ufficio - prima non corrispondendo al -OMISSIS- le somme dovute a titolo di collaborazione, quindi successivamente distraendo altre somme per uno scopo diverso da quello previsto - ledono al contempo la dignità e la credibilità della funzione docente e l'immagine pubblica dell'Istituzione universitaria alla quale ella apparteneva integrando i presupposti che consentono l'applicazione della sanzione. Quanto precede, peraltro, stante l'obiettiva gravità della condotta - che sarebbe integrata anche dal solo fatto di aver disegnato un bando sul profilo professionale dell'unico candidato, oltretutto soggetto controparte in una vicenda precontenziosa che sarebbe presumibilmente presto sfociata in un giudizio civile, altra circostanza opaca della vicenda- rende irrilevante anche l'obiezione di parte appellante che rivendica la carenza di dolo della sua condotta. Invero - in disparte la considerazione che di tale assenza di colpevolezza non v'è traccia né negli atti né nel decreto che dispone il giudizio e che, anzi, tutto lascia deporre, al contrario, per la presenza di una condotta intenzionale - la negligenza grave che comunque emerge dai fatti passati in rassegna, giustificherebbe di per sé la sanzione irrogata, Anche a voler trascurare che si trattava, nell'occorso, di un potere largamente permeato da discrezionalità che, nell'occorso, non risulta essere stato esercitato, ad un giudizio estrinseco, in modo abusivo o anche solo dis-funzionale. 6. Conclusivamente questi motivi inducono al rigetto dell'appello. Le concrete circostanze del fatto, unitamente alla relativa novità della questione in diritto, rappresentano giustificate ragioni per compensare le spese di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Compensa le spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Marco Lipari - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Daniela Di Carlo - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere, Estensore Rosaria Maria Castorina - Consigliere

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