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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 494, 495 e 496, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025), promosso dalla Regione autonoma Sardegna con ricorso notificato il 27 febbraio 2023, depositato in cancelleria il 28 febbraio 2023, iscritto al n. 9 del registro ricorsi 2023 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2023. Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 19 marzo 2024 il Giudice relatore Angelo Buscema; uditi gli avvocati Massimo Luciani e Sonia Sau per la Regione autonoma Sardegna e l’avvocato dello Stato Giammario Rocchitta per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 19 marzo 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso iscritto al n. 9 del registro ricorsi 2023 la Regione autonoma Sardegna ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 494 e 495, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 197 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025), nella parte in cui non riconosce, nel triennio 2023-2025, alla stessa Regione autonoma Sardegna adeguate risorse per garantire un completo ed efficace sistema di collegamenti aerei da e per il territorio regionale, per violazione del principio di ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione, del principio di «leale collaborazione» ex artt. 5 e 117 Cost., degli artt. 81, 116, 117, terzo comma, 119 e 136 Cost.; degli artt. 3, 7 e 8 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), anche in relazione all’art. 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione) e all’art. 1, comma 837, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)». L’art. 1, commi 494, 495 e 496, della legge n. 197 del 2022 violerebbe altresì gli artt. 3 e 23 Cost. e il principio di legalità, in uno con quello di ragionevolezza. La ricorrente ritiene altresì costituzionalmente illegittimo l’art. 1, comma 496, della legge n. 197 del 2022 – nella parte in cui non prevede che le modalità e i criteri per l’utilizzo del fondo di cui al comma 494 siano stabilite «previa intesa con le Regioni interessate» o, in via del tutto subordinata, «sentite le Regioni interessate» – per violazione del principio di leale collaborazione ex artt. 5 e 117 Cost.; dell’art. 117, terzo comma, Cost., degli artt. 3, 7 e 8 dello statuto speciale, anche in relazione all’art. 1, comma 837, della legge n. 296 del 2006. 2.– Assume la difesa regionale che l’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022, anzitutto, violerebbe l’art. 119 Cost., in quanto il legislatore statale avrebbe disatteso l’obbligo di approntare adeguate risorse per superare gli svantaggi derivanti dalla condizione d’insularità. Evidenzia che la revisione costituzionale apportata con la legge costituzionale 7 novembre 2022, n. 2 (Modifica all’articolo 119 della Costituzione, concernente il riconoscimento delle peculiarità delle Isole e il superamento degli svantaggi derivanti dall’insularità) avrebbe riconosciuto la peculiarità delle isole e l’obbligo per lo Stato di prevedere misure effettive per rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità, con la conseguenza che rimedi solo formali e apparenti determinerebbero la violazione dell’art. 119 Cost. Assume ancora la ricorrente che, tenuto conto della finalità solidaristica e perequativa dell’art. 119 Cost., tra gli enti che compongono la Repubblica non potrebbe che essere lo Stato ad assumere il compito di rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità, soprattutto nei confronti di una regione, come nel caso di specie, il cui territorio insulare coincide con quello regionale. Inoltre, lo stesso art. 119 Cost., al quinto comma, attribuirebbe allo Stato il compito – sostanzialmente analogo a quello previsto nel sesto comma – di destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali in favore di determinati comuni, province, città metropolitane e regioni per promuoverne lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale; per tale motivo, non potrebbe che essere lo Stato il soggetto tenuto ad attivarsi per approntare le risorse necessarie a superare lo svantaggio derivante dall’insularità. L’illegittimità costituzionale dei commi 494 e 495 dell’art. 1 della legge n. 197 del 2022 per violazione dell’art. 119 Cost. sarebbe desumibile da elementi sintomatici, quali: la differenza tra le somme stanziate dalla disposizione impugnata e il contributo di finanza pubblica imposto alla Regione autonoma Sardegna (differenza che costituirebbe elemento sintomatico dell’irragionevolezza e dell’insufficienza dello stanziamento); l’aver stabilito l’entità delle risorse da destinare alla rimozione degli svantaggi dell’insularità senza una specifica istruttoria consensuale (o, quantomeno, partecipata). Inoltre, evidenzia la Regione che il legislatore statale, già con l’art. 27 della legge n. 42 del 2009, aveva stabilito che le regolazioni economico-finanziarie dei rapporti fra lo Stato e le regioni autonome dovessero contemplare anche l’impatto della condizione di insularità, mentre un’adeguata e complessiva stima dei relativi costi e del loro impatto sull’autonomia finanziaria della Regione autonoma Sardegna non sarebbe stata ancora effettuata, né sarebbe stato ancora emanato il dPCm di cui al comma 1-bis dell’art. 22 della legge n. 42 del 2009, come modificato dall’art. 15 del decreto-legge 10 settembre 2021, n. 121 (Disposizioni urgenti in materia di investimenti e sicurezza delle infrastrutture, dei trasporti e della circolazione stradale, per la funzionalità del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, del Consiglio superiore dei lavori pubblici e dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali) convertito, con modificazioni, nella legge 9 novembre 2021, n. 156. Infine, l’accordo tra il Governo e la Regione autonoma Sardegna in materia di finanza pubblica del 14 dicembre 2021 avrebbe previsto, agli artt. 3 e 4, l’attribuzione alla Regione di un contributo, per gli anni 2021 e 2022, «a titolo di concorso alla compensazione degli svantaggi strutturali derivanti dalla condizione di insularità», insufficiente e destinato a essere integrato sulla scorta di quanto emerso dai lavori del tavolo tecnico istituito dal precedente accordo tra il Governo e la Regione autonoma Sardegna del 7 novembre 2019. Il rapporto tra l’esigua somma stanziata nei commi impugnati e quella attribuita sulla base dei predetti accordi confermerebbe che lo Stato si sarebbe sottratto dall’obbligo costituzionale di rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità di cui all’art. 119 Cost. 2.1.– L’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022 violerebbe altresì il principio di leale collaborazione sancito dagli artt. 5 e 117 Cost., in quanto il contributo previsto dalle impugnate disposizioni sarebbe stato determinato dopo che lo Stato aveva interrotto i lavori del tavolo tecnico, sottraendosi a un’istruttoria consensuale, sostanzialmente respingendo ogni tentativo collaborativo della Regione. E del resto, le suddette disposizioni non richiamano alcun momento di confronto tra lo Stato e la Regione. 2.2.– Sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., attesa l’esiguità e l’inidoneità delle risorse previste a perseguire le finalità stabilite dallo stesso legislatore statale. La somma stanziata, pari a 5 milioni di euro per l’anno 2023 e a 15 milioni di euro a decorrere dal 2024 per le regioni insulari, non potrebbe essere utilmente impiegata in un’azione di sistema per compensare lo svantaggio derivante dall’insularità (anche solo per l’ambito del trasporto aereo), pur volendo sommare tali importi al contributo di 100 milioni di euro previsto dall’accordo tra il Governo e la Regione autonoma Sardegna in materia di finanza pubblica del 14 dicembre 2021. L’insufficienza degli stanziamenti si coglierebbe anche in ragione degli attuali costi per il finanziamento degli obblighi di servizio pubblico per il collegamento aereo, la cui stima finanziaria annua, secondo i calcoli dell’Assessorato ai trasporti della Regione autonoma Sardegna, indicherebbe un fabbisogno che oscilla tra i 170 e i 200 milioni di euro. In ogni caso, rimarrebbe inattuabile la finalità indicata dalla legge statale di «garantire un completo ed efficace sistema di collegamenti aerei […] da e per la Sardegna» a tutela della «mobilità dei cittadini residenti nel territorio […] della Sardegna» (sul punto viene richiamata la sentenza di questa Corte n. 6 del 2019). 2.3.– L’esiguità delle risorse previste dai commi 494 e 495 dell’art. 1 della legge n. 197 del 2022 ridonderebbe nella lesione dell’autonomia finanziaria regionale, garantita dagli artt. 7 e 8 dello statuto speciale. La Regione subirebbe lo svantaggio derivante dall’insularità sia in termini di costi, sia in termini di minore gettito erariale provocato dalla depressione del reddito prodotto sul territorio regionale. 2.4.– L’insufficienza delle risorse stanziate dalle disposizioni impugnate comporterebbe anche l’irragionevole compressione della competenza legislativa concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. in materia di «coordinamento della finanza pubblica» e «grandi reti di trasporto e di navigazione». La difesa regionale lamenta un pregiudizio nell’esercizio della competenza legislativa nelle predette materie in conseguenza del mancato stanziamento delle risorse necessarie a far fronte agli svantaggi derivanti dalla condizione di insularità, che influirebbe direttamente sulle indicate materie. 2.5.– L’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022 inciderebbe altresì negativamente sulla competenza legislativa primaria in materia di «turismo [e] industria alberghiera» ex art. 3, primo comma, lettera p), dello statuto speciale, direttamente incisa dagli interventi in materia di trasporto e continuità territoriale. 2.6.– L’art. 3 dello statuto della Regione autonoma Sardegna sarebbe violato dalle disposizioni impugnate anche in relazione all’art. 1, comma 837, della legge n. 296 del 2006 – il quale prevede che «[a]lla regione Sardegna sono trasferite le funzioni relative al trasporto pubblico locale (Ferrovie Sardegna e Ferrovie Meridionali Sarde) e le funzioni relative alla continuità territoriale»: in forza del cosiddetto “principio del parallelismo”, ex art. 6 dello statuto speciale, la devoluzione di competenze amministrative comporterebbe anche la correlata competenza legislativa (sul punto è richiamata la sentenza di questa Corte n. 51 del 2006). 2.7.– Per lo stesso motivo, i predetti commi 494 e 495 dell’art. 1 della legge n. 197 del 2022 violerebbero l’art. 116 Cost., avendo determinato lo svilimento della sfera di autonomia costituzionalmente riconosciuta alle regioni a statuto speciale. 2.8.– Le disposizioni indicate si porrebbero in contrasto con gli artt. 81 e 136 Cost., anche in riferimento al principio di leale collaborazione ex artt. 5 e 117 Cost. In particolare, sarebbe violato l’art. 81 Cost., in quanto il legislatore statale si sarebbe sottratto all’obbligo di disporre a un prioritario intervento finanziario in ossequio al principio di equilibrio dinamico di bilancio (è richiamata sul punto ancora la sentenza n. 6 del 2019). Le medesime disposizioni avrebbero poi sostanzialmente protratto l’efficacia di una norma già dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 6 del 2019 (sono citate le sentenze di questa Corte n. 215 del 2021 e n. 252 del 2017), ponendosi così in contrasto con l’art. 136 Cost. Gli impugnati commi 494 e 495 violerebbero, infine, il principio di leale collaborazione per essersi il legislatore statale discostato dal punto di equilibrio negli interessi e nelle attribuzioni costituzionali delle parti elaborato dalla giurisprudenza costituzionale. 3.– La ricorrente lamenta inoltre la violazione dell’art. 1, commi 494, 495 e 496, della legge n. 197 del 2022 in riferimento agli artt. 3 e 23 Cost. per lesione del principio di legalità, in uno con quello di ragionevolezza. In primo luogo, sarebbero state parificate situazioni e circostanze oggettivamente diverse, senza offrire alcun criterio ragionevole e proporzionato per il distinto trattamento delle due Regioni insulari, le quali rappresenterebbero realtà differenti quanto a estensione territoriale, popolazione e distanza dalle aree più sviluppate del Paese, presentando caratteristiche geografiche, economiche, demografiche e sociali del tutto specifiche. Inoltre, il legislatore statale avrebbe stanziato il fondo senza delimitare adeguatamente la discrezionalità dell’amministrazione ai fini del riparto del finanziamento tra le due circoscrizioni regionali. Sotto questo profilo, la ricorrente richiama l’orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui la riserva di legge contenuta nell’art. 23 Cost. avrebbe carattere “relativo”, cosicché la legge non potrebbe limitarsi a conferire un potere regolativo attraverso una “norma in bianco”, dovendo invece individuare «sufficienti criteri direttivi e traccia[re] le linee generali della disciplina» (è citata la sentenza di questa Corte n. 269 del 2017). Non sarebbe dunque sufficiente che il legislatore individui la finalità del contributo tramite «un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione amministrativa» (è richiamata ancora la sentenza n. 269 del 2017). L’impiego del contributo previsto dalle disposizioni in esame sarebbe, ad avviso della ricorrente, sostanzialmente rimesso all’arbitrio del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, che dovrebbe rispettare un solo limite: impiegarlo per il trasporto aereo da e per la Sardegna e da e per la Sicilia. 4.– La ricorrente lamenta, infine, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 496, della legge n. 197 del 2022 per violazione del principio di leale collaborazione ex artt. 5 e 117 Cost., e degli artt. 117, terzo comma, Cost., 3, 7 e 8 dello statuto speciale, anche in relazione all’art. 1, comma 837, della legge n. 296 del 2006. 4.1.– Tale disposizione attribuisce al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, la competenza a stabilire modalità e criteri per l’utilizzo del fondo introdotto dal comma 494 impugnato, prevedendo che tale competenza sia esercitata, lamenta la ricorrente, senza alcuna forma di suo coinvolgimento, né delle regioni interessate, estromettendole dal relativo processo decisionale. In tal modo il comma 496 si porrebbe in contrasto con il principio di leale collaborazione ex artt. 5 e 117 Cost. 4.2.– L’impugnato comma 496, intersecherebbe, anzitutto, la competenza legislativa concorrente della Regione autonoma Sardegna nelle materie «coordinamento della finanza pubblica», «grandi reti di trasporto e di navigazione» e «porti e aeroporti civili», violando l’art. 117, terzo comma, Cost., applicabile alla Regione ricorrente ex art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione). 4.3.– La stessa disposizione impatterebbe, altresì, sull’autonomia finanziaria regionale, garantita dagli artt. 7 e 8 dello statuto speciale, e su competenze primarie direttamente incise dalla disciplina del servizio di trasporto aereo, come quelle in materia di «turismo [e] industria alberghiera» (art. 3, primo comma, lettera p, dello statuto di autonomia), nonché sulla competenza amministrativa attribuita dallo Stato alla Regione con l’art. 1, comma 837, della legge n. 296 del 2006 nella materia «continuità territoriale», che, in virtù dell’art. 6 dello statuto speciale, comporterebbe anche la titolarità della correlata competenza legislativa. Si sarebbe dunque in presenza di una concorrenza di competenze statali e regionali per cui dovrebbero essere garantite adeguate forme di coinvolgimento a salvaguardia delle competenze regionali incise. Il coinvolgimento della Regione sarebbe necessario anche ove si ammettesse che la disciplina in esame trovi giustificazione nell’attrazione in sussidiarietà, ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost. Anche nella suddetta ipotesi, il legislatore statale non avrebbe potuto sottrarsi all’obbligo di coinvolgere la Regione autonoma Sardegna, nella forma dell’intesa, e nel rispetto del principio di leale collaborazione, soprattutto in considerazione del fatto che criteri e modalità di ripartizione del fondo sono demandate a un decreto ministeriale. In via subordinata, ove si ritenesse non necessaria la previsione dell’intesa, il coinvolgimento delle regioni interessate dovrebbe essere garantito almeno nella forma del parere. 5.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito in giudizio chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate. Premette l’Avvocatura che la condizione di insularità sarebbe stata affrontata nell’ambito del tavolo tecnico istituito in attuazione degli accordi in materia di finanza pubblica del 7 novembre 2019 e del 14 dicembre 2021, prendendo in considerazione sia il ritardo della dotazione infrastrutturale, sia la compensazione degli extra costi permanenti sostenuti dai cittadini sardi e dalle imprese, a causa della discontinuità territoriale della Regione. Per il finanziamento delle infrastrutture necessarie ad attutire il divario infrastrutturale era istituito, nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze, il Fondo perequativo infrastrutturale, con una dotazione complessiva di 4,6 miliardi di euro per gli anni dal 2022 al 2033 (100 milioni di euro per il 2022, 300 milioni di euro per ciascun anno dal 2023 al 2027, 500 milioni di euro per ciascun anno dal 2028 al 2033). Oltre al Fondo perequativo infrastrutturale sarebbero stati predisposti anche altri strumenti finanziari in aggiunta alle risorse ordinariamente stanziate nel bilancio dello Stato: il Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Piano nazionale complementare, il Fondo per lo sviluppo e la coesione (FSC), i fondi strutturali europei (in particolare, il Fondo europeo di sviluppo regionale). Gli interventi previsti dall’art. 1, commi da 494 a 496, della legge n. 197 del 2022, oggetto di impugnativa, avrebbero previsto un contributo aggiuntivo facente parte di un insieme di azioni finalizzate alla perequazione infrastrutturale. La difesa statale osserva inoltre, in relazione al quantum dello stanziamento, che l’intervento normativo in oggetto riguarderebbe il solo settore del trasporto aereo, cosicché la valutazione di adeguatezza dovrebbe essere riferita alla specifica finalità del fondo e tenendo conto dell’intero ammontare dei trasferimenti a sostegno dell’isola. Peraltro, con riguardo allo specifico settore del trasporto aereo, i fondi di cui all’impugnato comma 494 non costituirebbero le uniche risorse statali trasferite alla Regione, in quanto il legislatore statale avrebbe previsto, in varie occasioni, diversi finanziamenti per gli oneri di servizio pubblico sardi. Con il decreto-legge 25 novembre 2015, n. 185 (Misure urgenti per interventi nel territorio), convertito, con modificazioni, in legge 22 gennaio 2016, n. 9, è stato previsto, all’art. 10, uno stanziamento di 30 milioni di euro per il 2015 al fine di garantire un completo ed efficace sistema di collegamenti aerei e, con la delibera CIPE n. 54 del 1° dicembre 2016, sono state destinate alla Regione risorse pari a 90 milioni di euro per sostenere gli oneri del servizio pubblico sulle rotte sarde. Inoltre, il legislatore statale, nel prevedere il trasferimento in capo alla Regione delle funzioni relative alla continuità territoriale, avrebbe stabilito con l’art. 1, comma 840, della legge n. 296 del 2006, che i relativi oneri sarebbero posti a carico dello Stato per gli anni 2007, 2008 e 2009, e solo a partire dall’annualità 2010 a carico della Regione. Quanto evidenziato consentirebbe di superare le censure di illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate sotto i diversi profili dedotti dalla ricorrente, per non aver considerato la parzialità dell’intervento ivi previsto. La difesa statale ritiene inoltre inconferente il richiamo alla sentenza di questa Corte n. 6 del 2019, in quanto la fattispecie ivi esaminata era diversa da quella odierna. Quanto, infine, alle censure di illegittimità costituzionale del comma 496 per violazione del principio di leale collaborazione, l’Avvocatura generale osserva che, nell’approntare lo schema del decreto di ripartizione delle risorse, sarebbero state sentite le regioni interessate e, pertanto, la violazione del principio di leale collaborazione non sarebbe ravvisabile. La partecipazione delle regioni nel procedimento relativo all’emanazione del decreto attuativo consentirebbe di superare anche le censure di irragionevolezza della disciplina in relazione alla mancata individuazione dei criteri per differenziare le destinatarie del contributo. 6.– L’associazione “per l’Insularità” ha depositato, in qualità di amicus curiae, opinione scritta – ammessa con decreto presidenziale del 13 febbraio 2024 – nella quale è stata evidenziata la necessità che lo Stato destini risorse adeguate per garantire un completo ed efficace sistema di collegamenti aerei da e per le Regioni insulari e che le modalità e i criteri per l’utilizzo del fondo di cui al comma 494 siano stabilite «previa intesa con le Regioni interessate» o in via del tutto subordinata «sentite le Regioni interessate». L’associazione ricalca gli argomenti della ricorrente e sollecita la Corte a sollevare dinanzi a sé la questione di legittimità costituzionale dell’art. l, commi 806 e 807, della legge n. 197 del 2022 – nella parte in cui, nell’istituire il «[f]ondo nazionale per il contrasto degli svantaggi derivanti dall’insularità» (art. 1, comma 806), non riconosce alla Regione Siciliana, come alla Regione autonoma Sardegna, adeguate risorse per garantire l’avvio della rimozione degli svantaggi derivanti dell’insularità (art. 119, sesto comma, Cost.) – e dell’art. 11 della legge n. 197 del 2022, e della relativa Tabella A), in parte qua, per violazione del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. e degli artt. 81, 117, primo comma, e 119, sesto comma, Cost., in relazione al principio di coesione di cui agli artt. 174, 175 e 349 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché degli artt. 14, 17, 36 e 38 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello lo statuto della Regione siciliana), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2. 7.– Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la ricorrente ha ribadito le conclusioni già rassegnate e ha replicato alle argomentazioni della parte resistente. La difesa regionale ha fatto presente che, nelle more del giudizio, è intervenuto l’art. 7-quater, comma 1, della legge 27 novembre 2023, n. 170 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 settembre 2023, n. 132), il quale prevede che «[i]l fondo di cui all’articolo 1, comma 494, della legge 29 dicembre 2022, n. 197, è rifinanziato nella misura di 8 milioni di euro per l’anno 2023». Ha poi precisato che, con decreto del 26 settembre 2023, n. 241 del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono stati stabiliti le modalità e i criteri di utilizzo del fondo di cui all’art. 1, commi 494, 495 e 496 della legge n. 197 del 2022, e che nell’adozione di detto decreto sono state sentite le Regioni interessate. La stessa difesa ritiene, tuttavia, che il fatto che vi sia stata una prassi virtuosa di interlocuzione tra le parti non sanerebbe il vizio delle disposizioni impugnate, al quale si potrebbe porre rimedio solo con una sentenza “additiva di meccanismo”, atta a ricondurre l’impiego del fondo sui binari del principio di leale collaborazione tra Stato e regioni. Ad avviso della Regione, inoltre, la previsione del fondo non costituirebbe esecuzione degli accordi bilaterali Stato-Regione autonoma Sardegna in merito al superamento degli svantaggi relativi all’insularità (ai sensi dell’art. 1, comma 867, della legge n. 160 del 2019), né rappresenterebbe uno strumento di attuazione del novellato art. 119 Cost. La ricorrente ha infine evidenziato, con riferimento alla delibera CIPE n. 54 del 2016 relativa ai FSC 2014-2020, che le risorse stanziate non coprirebbero l’intero fabbisogno della continuità territoriale aerea. Tale delibera avrebbe ad oggetto solamente gli oneri del servizio pubblico dei vettori del settore aereo, e comunque il riparto del FSC non potrebbe rappresentare uno strumento normativo idoneo a dare attuazione all’art. 119 Cost., in quanto difetterebbe di una precisa previsione di legge che renda obbligatoria tale linea d’intervento e che imponga al CIPE di stanziare risorse adeguate. Considerato in diritto 1.– Con il ricorso indicato in epigrafe la Regione autonoma Sardegna ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 494, 495 e 496, della legge n. 197 del 2022, in riferimento a plurimi parametri costituzionali, suddividendole in tre gruppi. Il comma 494 stabilisce che: «[i]n attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, al fine di riconoscere le peculiarità delle isole e promuovere le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità, è istituito nello stato di previsione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti un fondo per garantire un completo ed efficace sistema di collegamenti aerei da e per la Sicilia e da e per la Sardegna, con una dotazione di 5 milioni di euro per l’anno 2023 e di 15 milioni di euro a decorrere dall’anno 2024». Il comma 495 stabilisce che: «[i]l fondo di cui al comma 494 è destinato al finanziamento di interventi per la mobilità dei cittadini residenti nel territorio della Sicilia e della Sardegna». Il comma 496 prevede che: «[c]on decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono stabiliti le modalità e i criteri per l’utilizzo del fondo di cui al comma 494». 1.1.– Il primo gruppo di censure riguarda l’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022 ai sensi dei quali, ad avviso della ricorrente, per il triennio 2023-2025, non sarebbero riconosciute alla Regione autonoma Sardegna adeguate risorse per garantire un completo ed efficace sistema di collegamenti aerei da e per la Sardegna, così determinando la violazione del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., del principio di «leale collaborazione» ex artt. 5 e 117 Cost., degli artt. 81, 116, 117, terzo comma, 119 e 136 Cost., nonché degli artt. 3, 7 e 8 dello statuto speciale, anche in relazione all’art. 27 della legge n. 42 del 2009 e all’art. 1, comma 837, della legge n. 296 del 2006. 1.2.– Il secondo gruppo di censure riguarda l’art. 1, commi 494, 495 e 496, della legge n. 197 del 2022 per violazione degli artt. 3 e 23 Cost., con riguardo ai principi di legalità e di ragionevolezza. 1.3.– Il terzo gruppo di censure è rivolto all’art. 1, comma 496, della medesima legge, nella parte in cui non prevede che le modalità e i criteri per l’utilizzo del fondo siano stabiliti «previa intesa con le Regioni interessate» o, in via subordinata, «sentite le Regioni interessate», violando in tal modo il principio di «leale collaborazione» di cui agli artt. 5 e 117 Cost.; l’art. 117, terzo comma, Cost., nonché gli artt. 3, 7 e 8 dello statuto speciale, anche in relazione all’art. 1, comma 837, della legge n. 296 del 2006. Prima di procedere all’esame delle singole censure occorre precisare che la ricorrente non chiede la caducazione delle disposizioni impugnate bensì invoca una pronuncia additiva, che imponga al legislatore statale di riconoscere alla Regione adeguate risorse per garantire un completo ed efficace sistema di collegamenti aerei da e per la Sardegna e di prevedere il suo coinvolgimento al fine di stabilire i criteri di ripartizione delle risorse. 2.– L’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022 violerebbe anzitutto l’art. 119 Cost., in quanto il legislatore statale avrebbe disatteso l’obbligo di approntare risorse adeguate per superare gli svantaggi derivanti dalla condizione d’insularità. La ricorrente sostiene che l’illegittimità costituzionale dei predetti commi per violazione dell’art. 119 Cost. sarebbe desumibile da elementi sintomatici, quali la differenza tra le somme stanziate dalle disposizioni impugnate e il contributo di finanza pubblica imposto alla Regione autonoma della Sardegna nonché la determinazione dell’ammontare del contributo senza una specifica istruttoria, consensuale o partecipata, volta a stabilire l’entità delle risorse necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità. 2.1.– La ricorrente afferma, altresì, che l’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022 violerebbe il principio di leale collaborazione sancito dagli artt. 5 e 117 Cost. in quanto il contributo ivi previsto sarebbe stato determinato senza alcuna forma di coinvolgimento delle regioni interessate. 2.2.– Le disposizioni in esame violerebbero anche il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. in quanto l’esiguità del contributo e la sua conseguente inidoneità, rispetto alle effettive necessità per sostenere il sistema economico-sociale sardo, si tradurrebbero nella non ragionevolezza della stessa normativa. Tale vizio si coglierebbe anche in forza della contraddittorietà tra gli stanziamenti e la specifica finalità indicata dalla legge di «garantire un completo ed efficace sistema di collegamenti aerei […] da e per la Sardegna» a tutela della «mobilità dei cittadini residenti nel territorio». 2.3.– L’esiguità delle risorse approntate dalle disposizioni impugnate ridonderebbe altresì sull’autonomia finanziaria regionale, garantita dagli artt. 7 e 8 dello statuto speciale, in quanto la Regione subirebbe gli effetti negativi relativi agli svantaggi derivanti dall’insularità, sia in termini di costi sopportati per sopperire a tali svantaggi, sia in termini di minore gettito erariale derivante dagli effetti di depressione del reddito prodotto sul territorio regionale, che comporterebbero una minore compartecipazione alle entrate erariali. 2.4.– L’insufficienza delle risorse stanziate dalle predette disposizioni comporterebbe anche una non ragionevole compressione della competenza legislativa concorrente in materia di «coordinamento della finanza pubblica» e «grandi reti di trasporto e di navigazione» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. La Regione lamenta un pregiudizio nell’esercizio della competenza legislativa nelle predette materie derivante dal fatto che lo Stato non avrebbe provveduto a stanziare le risorse necessarie a far fronte agli svantaggi conseguenti alla condizione di insularità. 2.5.– L’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022 inciderebbe altresì sulla competenza legislativa primaria nella materia «turismo e industria alberghiera» di cui all’art. 3, primo comma, lettera p), dello statuto speciale. Le disposizioni impugnate inciderebbero inoltre sulla competenza amministrativa attribuita alla Regione dall’art. 1, comma 837, della legge n. 296 del 2006 nella materia «continuità territoriale» e sulla relativa potestà legislativa regionale in forza del cosiddetto “principio del parallelismo” di cui all’art. 6 dello statuto speciale. 2.6.– Sarebbe violato anche l’art. 116 Cost., in quanto la normativa in esame determinerebbe uno svilimento della sfera di autonomia costituzionale riconosciuta alla Regione dallo statuto speciale. 2.7.– L’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022 violerebbe, altresì, gli artt. 81 e 136 Cost., anche in riferimento al principio di leale collaborazione ex artt. 5 e 117 Cost. Quanto all’art. 81 Cost., il precetto costituzionale sarebbe violato perché il legislatore statale si sarebbe sottratto all’obbligo di disporre un prioritario intervento finanziario in ossequio al principio di equilibrio dinamico di bilancio. Con riferimento all’art. 136 Cost., la Regione lamenta il mancato adempimento di quanto stabilito nella sentenza di questa Corte n. 6 del 2019 con la quale era stato imposto allo Stato di procedere a una ragionevole e proporzionata quantificazione degli oneri derivanti dallo svantaggio per il regime di insularità al fine di dare sollecita applicazione alle disposizioni statutarie e costituzionali che garantiscono l’autonomia della ricorrente. Le disposizioni in esame determinerebbero la violazione del giudicato costituzionale, avendo sostanzialmente protratto l’efficacia di una norma già dichiarata costituzionalmente illegittima. 3.– La Regione autonoma Sardegna ha impugnato inoltre l’art. 1, commi 494, 495 e 496, della legge n. 197 del 2022, per violazione degli artt. 3 e 23 Cost. con riguardo ai principi di ragionevolezza e legalità. Asserisce la ricorrente che, in primo luogo, con i commi impugnati sarebbero state parificate situazioni e circostanze oggettivamente diverse senza offrire alcun criterio ragionevole e proporzionato per il distinto trattamento delle due Regioni insulari, le quali rappresenterebbero realtà differenti quanto all’estensione territoriale, alla popolazione e alla distanza dalle aree più sviluppate del Paese e presenterebbero caratteristiche geografiche, economiche, demografiche e sociali del tutto specifiche. Inoltre, il legislatore statale, con le disposizioni impugnate, non avrebbe delimitato adeguatamente la discrezionalità dell’amministrazione circa il riparto del finanziamento tra le due circoscrizioni regionali. Su questo specifico aspetto la ricorrente richiama la giurisprudenza costituzionale secondo cui la riserva di legge ex art. 23 Cost. avrebbe carattere “relativo” e la legge non potrebbe limitarsi a conferire un potere regolativo attraverso una “norma in bianco”, dovendo invece individuare sufficienti criteri direttivi e tracciare le linee generali della disciplina (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 269 del 2017). 4.– La Regione autonoma Sardegna ha impugnato infine l’art. 1, comma 496, della legge n. 197 del 2022 per violazione del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 117, terzo comma, Cost. nonché degli artt. 3, 7 e 8 dello statuto speciale anche in relazione all’art. 1, comma 837, della legge n. 296 del 2006. 4.1.– L’art. 1, comma 496, attribuisce al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell’economia e della finanze, la competenza a stabilire modalità e criteri per l’utilizzo del fondo introdotto dal comma 494, prevedendo che tale competenza sia esercitata senza alcuna forma di coinvolgimento delle regioni interessate ed estromettendo quindi la Regione ricorrente dal relativo processo decisionale in violazione del principio di leale collaborazione ex artt. 5 e 117 Cost. 4.2.– Il comma 496, inoltre, omettendo di fornire qualsiasi indicazione sulla ripartizione delle somme tra la Regione Siciliana e la Regione autonoma Sardegna e sulle modalità del loro impiego intersecherebbe la competenza legislativa concorrente della ricorrente nelle materie «coordinamento della finanza pubblica», «grandi reti di trasporto e di navigazione» e «porti e aeroporti civili», tutte presidiate dall’art. 117, terzo comma, Cost., applicabile alla medesima Regione ai sensi dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001. 4.3.– La disposizione impugnata violerebbe, altresì, l’autonomia finanziaria regionale, garantita dagli artt. 7 e 8 dello statuto speciale. Sostiene la difesa regionale, con riguardo alle risorse stanziate ai sensi del novellato art. 119 Cost., che gli squilibri dovuti alla condizione d’insularità dovrebbero essere tenuti in debito conto nella determinazione degli spazi finanziari da riconoscere alla Regione nell’ambito delle regolazioni economico-finanziarie con lo Stato, con il coinvolgimento dell’ente territoriale. 4.4.– Da ultimo, la Regione autonoma Sardegna afferma che la disposizione in esame violerebbe la propria competenza legislativa nella materia «turismo [e] industria alberghiera» (art. 3, primo comma, lettera p, dello statuto di autonomia), direttamente incisa dalla disciplina del servizio di trasporto aereo, e quella nella materia «continuità territoriale» attribuita alla Regione autonoma Sardegna dall’art. 1, comma 837, della legge n. 296 del 2006, per effetto del principio del parallelismo sancito dall’art. 6 dello statuto speciale. 5.– In via preliminare occorre valutare l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale alla luce della giurisprudenza di questa Corte. 5.1.– La censura promossa nei confronti dell’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022 in riferimento all’art. 119 Cost., anche in relazione all’art. 27 della legge n. 42 del 2009, è inammissibile per insufficiente motivazione. La Regione si limita ad affermare genericamente che il legislatore statale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 42 del 2009, avrebbe dovuto contemplare l’impatto della propria condizione insulare oltre che quella della Regione Siciliana mentre lo Stato si sarebbe sottratto «arbitrariamente agli obblighi derivanti dall’art. 119 Cost.», in quanto una stima complessiva dei costi e dei loro effetti sull’autonomia finanziaria della ricorrente non sarebbe stata ancora effettuata e le risorse stanziate dalle disposizioni impugnate non sarebbero sufficienti né adeguate. La ricorrente, tuttavia, non fornisce una compiuta dimostrazione del pregiudizio patito. In particolare, non considera il complesso dei contributi e dei finanziamenti disposti dalla legislazione statale per rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità e neppure tiene conto che il fondo e le risorse di cui ai commi 494 e 495 sono destinati unicamente al finanziamento di interventi per la mobilità aerea dei cittadini residenti nel territorio siciliano e sardo. Questa Corte è costante nel ritenere che sul ricorrente grava l’onere di provare l’irreparabile pregiudizio lamentato ritenendo quindi inammissibili le questioni di legittimità costituzionale in cui si denunci la violazione dell’autonomia finanziaria e i principi contenuti nell’art. 119 Cost. a causa dell’inadeguatezza delle risorse a disposizione delle regioni, senza puntuali riferimenti a dati più analitici relativi alle entrate e alle uscite (in tal senso, sentenze n. 63 del 2024, n. 83 del 2019 e n. 5 del 2018). La genericità e l’insufficienza della motivazione circa l’asserito contrasto delle disposizioni impugnate con i parametri evocati comporta, per costante orientamento di questa Corte, l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale (ex multis, sentenza n. 171 del 2021). 5.2.– Anche la censura promossa nei confronti dell’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022 in riferimento al principio di ragionevolezza sancito dall’art. 3 Cost. si palesa inammissibile per carente ricostruzione del quadro normativo (sentenza n. 84 del 2022). La Regione, difatti, nel lamentare l’irragionevolezza delle disposizioni impugnate non fornisce una completa ricostruzione del complessivo quadro normativo di riferimento, in particolare, come evidenziato dalla difesa statale, non considera che, per il recupero del divario infrastrutturale tra le diverse aree geografiche del territorio nazionale, determinato anche dall’insularità, sono previste, oltre a quelle attribuite dalle disposizioni impugnate, ulteriori risorse quali, tra le altre, quelle stanziate nel Fondo perequativo infrastrutturale, nel Piano nazionale complementare, nel Fondo per lo sviluppo e la coesione, nei Fondi strutturali europei e nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Alla luce dell’esigenza – più volte ribadita da questa Corte (tra le altre, sentenze n. n. 83 del 2019 e n. 205 del 2016) – di non considerare gli interventi legislativi che incidono sull’assetto finanziario degli enti territoriali in maniera atomistica, ma nel contesto delle altre disposizioni di carattere finanziario, la lacunosa ricostruzione del composito quadro normativo e del complesso dei contributi e finanziamenti previsti dalla normativa statale determina l’inammissibilità della questione (ex multis, sentenza n. 63 del 2024). 5.3.– Anche le questioni di legittimità costituzionale promosse nei confronti dei commi 494, 495 e 496 dell’art. 1 della legge n. 197 del 2022, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost. e agli artt. 3, primo comma, lettera p), 7 e 8 dello statuto speciale, anche in relazione all’art. 1, comma 837, della legge n. 296 del 2006, sono inammissibili per carenza di motivazione. La Regione non motiva in alcun modo la lesione dei parametri costituzionali evocati limitandosi ad affermare in modo generico e assertivo che le disposizioni in esame violerebbero l’art. 117, terzo comma, Cost. per irragionevole compressione della competenza legislativa concorrente nelle materie «coordinamento della finanza pubblica» e «grandi reti di trasporto e di navigazione», nonché della sfera di autonomia regionale garantita dagli artt. 7 e 8 dello statuto speciale e della competenza legislativa primaria nella materia «turismo [e] industria alberghiera» di cui all’art. 3, primo comma, lettera p), dello statuto di autonomia, altresì per violazione delle competenze nella materia «continuità territoriale» attribuite alla Regione dall’art. 1, comma 837, della legge n. 296 del 2006 e dall’art. 6 dello statuto speciale. In conseguenza della genericità e insufficiente motivazione circa l’asserito contrasto delle disposizioni impugnate con i parametri evocati, anche queste censure, alla luce della già richiamata giurisprudenza costituzionale, sono inammissibili (sentenze n. 68 del 2024 e n. 217 del 2022). 5.4.– Considerazioni analoghe valgono per la censura promossa nei confronti dell’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022, in riferimento all’art. 116 Cost., per violazione della sfera di autonomia costituzionalmente garantita alle regioni a statuto speciale. Anche con riguardo a questa censura la ricorrente si limita ad affermare che le disposizioni impugnate violerebbero la propria sfera di autonomia, senza tuttavia fornire adeguata motivazione e soprattutto senza spiegare in che modo l’attribuzione delle risorse prevista dalle disposizioni impugnate possa inficiare l’autonomia della Regione a statuto speciale. La genericità e insufficienza della motivazione sull’asserita violazione del parametro costituzionale evocato determina l’inammissibilità della censura. 5.5.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022 promossa in riferimento all’art. 81 Cost. con riguardo al principio di equilibrio del bilancio è anch’essa inammissibile. La Regione si limita ad affermare che il legislatore statale si sarebbe «sottratto all’obbligo di disporre un prioritario intervento finanziario in ossequio al principio di equilibrio dinamico di bilancio», senza chiarire in che modo le risorse attribuite dalle disposizioni impugnate possano determinare la violazione dell’evocato parametro costituzionale. La censura non raggiunge la «soglia minima di chiarezza e di completezza» e pertanto deve essere dichiarata inammissibile (ex plurimis, sentenze n. 123 del 2022, n. 176, n. 95, n. 52 e n. 42 del 2021; nello stesso senso, sentenza n. 125 del 2023). 6.– Ciò posto, nel procedere ad esaminare il merito delle restanti censure, questa Corte, avvalendosi della facoltà di decidere l’ordine delle questioni di legittimità costituzionale da affrontare (sentenze n. 120 del 2022, n. 260 del 2021, n. 246 del 2020 e n. 258 del 2019), ritiene di valutare primariamente quella promossa nei confronti dell’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022 in riferimento all’art. 136 Cost., per violazione del giudicato costituzionale formatosi nella sentenza n. 6 del 2019. Tale censura, infatti, «riveste carattere di priorità logica rispetto alle altre» in quanto «attiene all’esercizio stesso del potere legislativo, che sarebbe inibito dal precetto costituzionale di cui si assume la violazione» (sentenze n. 245 del 2012 e n. 350 del 2010). Nel merito la questione di legittimità costituzionale non è fondata. Sin da epoca risalente, la giurisprudenza costituzionale non ha mancato di sottolineare il significato della norma contenuta nell’art. 136 Cost., sulla quale poggia il sistema delle garanzie costituzionali in quanto toglie immediatamente efficacia alla norma costituzionalmente illegittima (ex plurimis, sentenza n. 57 del 2019). Nel chiarire la portata dell’art. 136, primo comma, Cost., questa Corte ha affermato che la violazione del giudicato costituzionale sussiste non solo laddove il legislatore intenda direttamente ripristinare o preservare l’efficacia di una norma già dichiarata costituzionalmente illegittima, ma ogniqualvolta una disposizione di legge intenda mantenere in vita o ripristinare, sia pure indirettamente, gli effetti della struttura normativa che aveva formato oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale. Pertanto, il giudicato costituzionale è violato non solo quando è adottata una disposizione che costituisce una mera riproduzione di quella già ritenuta lesiva della Costituzione, ma anche quando la nuova disciplina mira a perseguire e raggiungere, anche se indirettamente, esiti corrispondenti (ex multis, sentenza n. 256 del 2020). Difatti, l’efficacia preclusiva, nei confronti del legislatore, del giudicato costituzionale riguarda ogni disposizione che intenda mantenere in piedi o ripristinare, sia pure indirettamente, gli effetti di quella struttura normativa che aveva formato oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale, ovvero che ripristini o preservi l’efficacia di una norma già dichiarata costituzionalmente illegittima (sentenze n. 57 del 2019 e n. 5 del 2017). Nel caso deciso con la predetta sentenza n. 6 del 2019, l’art. 1, comma 851, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, nel triennio 2018-2020 e nelle more della definizione dell’accordo di finanza pubblica, non riconosceva alla Regione autonoma Sardegna adeguate risorse per consentire una fisiologica programmazione delle funzioni regionali. Con le disposizioni sottoposte al vaglio di costituzionalità nell’odierno giudizio, il legislatore statale ha invece previsto l’attribuzione di risorse destinate a un limitato intervento settoriale nel campo del trasporto aereo; intervento che peraltro si aggiunge ad altre misure (Fondo perequativo infrastrutturale, Piano nazionale complementare, Fondo per lo sviluppo e la coesione, Fondi strutturali europei, Piano nazionale di ripresa e resilienza) finalizzate alla rimozione degli svantaggi derivanti dall’insularità. Non vi è dunque una «mera riproduzione» della normativa dichiarata costituzionalmente illegittima e neppure la realizzazione, in modo indiretto, di esiti corrispondenti (ex multis sentenza n. 250 del 2017), e pertanto le disposizioni in esame non risultano lesive del giudicato costituzionale. 7.– Vanno ora prese in esame le questioni di legittimità costituzionale promosse nei confronti dei commi 494, 495 e 496 dell’art. 1 della legge n. 197 del 2022 in riferimento agli artt. 5 e 117 Cost., con riguardo al principio di «leale collaborazione», e agli artt. 3, 7 e 8 dello statuto speciale, anche in relazione all’art. 1, comma 837, della legge n. 296 del 2006. Le questioni non sono fondate. La ricorrente ha impugnato le disposizioni in esame nella parte in cui non prevedono il coinvolgimento della Regione nella determinazione del quantum da attribuire e nella definizione dei criteri e delle modalità di erogazione del contributo. Questa Corte ha più volte affermato la necessità di applicare il principio di leale collaborazione nelle ipotesi in cui lo Stato preveda un finanziamento, con vincolo di destinazione, che incida su materie di competenza legislativa regionale residuale o concorrente. È stato altresì specificato che la necessità del parere o dell’intesa si ravvisa principalmente in due evenienze: in primo luogo, quando vi sia un intreccio (ovvero una interferenza o concorso) di competenze legislative che non permetta di individuare un «ambito materiale che possa considerarsi nettamente prevalente sugli altri» (sentenze n. 114 del 2022 e n. 71 del 2018; in senso analogo, sentenze n. n. 40 del 2022, n. 104 del 2021, n. 74 e n. 72 del 2019 e n. 185 del 2018); in secondo luogo, nei casi in cui la disciplina del finanziamento trovi giustificazione nella cosiddetta attrazione in sussidiarietà della stessa allo Stato, ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 123, n. 114 e n. 40 del 2022, n. 71 e n. 61 del 2018). Nelle predette ipotesi, ai fini della salvaguardia delle competenze regionali, la legge statale deve prevedere strumenti di coinvolgimento delle regioni nella fase di attuazione della normativa, nella forma dell’intesa o del parere, in particolare quanto alla determinazione dei criteri e delle modalità del riparto delle risorse destinate agli enti territoriali (da ultimo, sentenze n. 179, n. 123 e n. 114 del 2022). La ricorrente sostiene che le disposizioni in esame inciderebbero sulla competenza legislativa concorrente nelle materie «coordinamento della finanza pubblica», «grandi reti di trasporto e di navigazione» e «porti e aeroporti civili», oltre che sull’autonomia finanziaria regionale garantita dagli artt. 7 e 8 dello statuto speciale e sulle competenze primarie connesse alla disciplina del servizio di trasporto aereo, come «turismo [e] industria alberghiera» (art. 3, primo comma, lettera p, dello statuto di autonomia). La normativa in esame inciderebbe, inoltre, su competenze amministrative che lo Stato, con l’art. 1, comma 837, della legge n. 296 del 2006, ha attribuito alla medesima Regione nella materia «continuità territoriale»; competenza, quest’ultima, che, in virtù dell’art. 6 dello statuto speciale, comporterebbe la titolarità della correlata competenza legislativa, la quale sarebbe egualmente incisa dalle disposizioni impugnate. 7.1.– Al fine di valutare se sussista la lesione del principio di leale collaborazione nell’istituzione di un fondo statale destinato a finanziare uno specifico settore, occorre, per costante giurisprudenza costituzionale, verificare anzitutto a quale ambito materiale afferisce il fondo, la cui natura va esaminata con riguardo «all’oggetto, alla ratio e alla finalità» della norma che lo prevede (sentenze n. 78 del 2020 e n. 164 del 2019). Nella fattispecie in esame, la finalità del fondo è quella di garantire un completo ed efficace sistema di collegamenti aerei da e per la Sicilia e da e per la Sardegna; la ratio della normativa impugnata consiste nel riconoscimento della peculiarità delle isole e nella promozione delle misure per rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità; l’oggetto riguarda il finanziamento di interventi per la mobilità dei cittadini residenti nel territorio delle due isole. A ben vedere, l’intervento finanziario delineato dall’art. 1, commi 494, 495 e 496, della legge n. 197 del 2022, si configura come un intervento statale “speciale”, finalizzato a promuovere la riduzione degli svantaggi derivanti dall’insularità ai sensi dell’art. 119 Cost., da inquadrare nell’ambito di “aiuti sociali”, ai sensi dell’art. 107, paragrafo 2, lettera a), TFUE – il quale stabilisce che sono compatibili con il mercato interno gli aiuti concessi dagli Stati a carattere sociale concessi ai singoli consumatori, a condizione che siano accordati senza discriminazioni determinate dall’origine dei prodotti – e dell’art. 51 del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione del 17 giugno 2014, che dichiara alcune categorie di aiuti compatibili con il mercato interno in applicazione degli artt. 107 e 108 TFUE da attuare attraverso un contributo sul prezzo del biglietto, fino ad esaurimento delle risorse finanziarie disponibili, per le rotte di collegamento tra gli aeroporti situati in Sicilia e in Sardegna e gli aeroporti situati all’interno dello spazio economico europeo, a favore dei soggetti residenti nei territori delle due regioni che maggiormente subiscono gli svantaggi derivanti dall’insularità. È questo, dunque, il contesto in cui devono essere considerate le disposizioni impugnate. Si tratta di interventi riconducibili a una duplice direttrice: a) promuovere, nell’ambito degli aiuti di Stato compatibili con il diritto dell’Unione europea, misure finalizzate a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità; b) attribuire, nell’ambito di tali misure, un contributo per la mobilità aerea dei cittadini residenti nelle due isole che maggiormente subiscono detti svantaggi. 7.2.– Tanto premesso, le questioni promosse nei confronti dell’art. 1, commi 494, 495 e 496, della legge n. 197 del 2022, non sono fondate. Il finanziamento previsto dalle disposizioni impugnate – che consiste in un contributo sul prezzo del biglietto che i cittadini residenti nel territorio siciliano e sardo sostengono per i collegamenti aerei tra aeroporti situati nelle due regioni e aeroporti situati all’interno dello Spazio economico europeo – è ascrivibile alla competenza legislativa esclusiva dello Stato di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), nella materia «perequazione delle risorse finanziarie». L’intervento statale pertanto non incide sulle competenze regionali evocate dalla ricorrente nella materia «coordinamento della finanza pubblica», «grandi reti di trasporto e di navigazione», «porti e aeroporti civili», «turismo [e] industria alberghiera» e neppure incide sull’autonomia finanziaria della Regione. Da ciò discende che, non sussistendo, in relazione alle disposizioni impugnate, quell’inestricabile intreccio di competenze statali e regionali (sentenza n. 78 del 2020) che in altre occasioni ha condotto questa Corte ad affermare la necessità della leale collaborazione, risulta non fondata la censura svolta in tal senso dalla Regione. Peraltro, nelle premesse del decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze n. 241 del 2023 di attuazione delle disposizioni impugnate, si dà atto che le determinazioni assunte sono state adottate con il coinvolgimento della Regione Siciliana e della Regione autonoma Sardegna. Non è quindi ravvisabile la violazione del principio di leale collaborazione e va pertanto dichiarata la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale promosse nei confronti dei commi 494, 495 e 496 dell’art. 1 della legge n. 197 del 2022. 8.– L’art. 1, commi 494, 495 e 496, della legge n. 197 del 2022 è stato impugnato anche in riferimento agli artt. 3 e 23 Cost. con riguardo al principio di legalità, in uno con quello di ragionevolezza. Occorre pertanto verificare se sia irragionevole l’istituzione di un fondo da destinare al finanziamento di interventi per la mobilità dei cittadini residenti nel territorio della Sardegna e della Sicilia, tenuto conto che la definizione dei criteri di ripartizione delle risorse è effettuata con decreto interministeriale. Con riguardo al principio di ragionevolezza va innanzitutto ricordato che la giurisprudenza costituzionale ha desunto dall’art. 3 Cost. un canone di razionalità, in relazione al quale, per valutare la legittimità costituzionale di una legge, è necessario svolgere un sindacato di conformità a criteri di coerenza logica, teleologica e storico-cronologica (sentenza n. 86 del 2017). Il principio di ragionevolezza, per costante giurisprudenza di questa Corte, risulta leso quando si accerti l’esistenza di una irrazionalità intra legem, intesa come contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore e la disposizione espressa dalla norma censurata. Tuttavia, non ogni incoerenza o imprecisione di una normativa può venire in questione ai fini dello scrutinio di costituzionalità, consistendo il giudizio di ragionevolezza in un apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la causa normativa che la deve assistere che, quando è disgiunto dal riferimento ad un tertium comparationis, può trovare ingresso solo se l’irrazionalità o l’iniquità delle conseguenze della norma sia manifesta e irrefutabile (ex plurimis, sentenze n. 195 del 2022, n. 6 del 2019 e n. 86 del 2017). Per le disposizioni di cui ai commi 494, 495 e 496 non è ravvisabile alcuna intrinseca contraddittorietà tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore – «riconoscere le peculiarità delle isole e promuovere le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità» – e l’istituzione di un fondo «per garantire un completo ed efficace sistema di collegamenti aerei da e per la Sicilia e da e per la Sardegna», destinato «al finanziamento di interventi per la mobilità dei cittadini residenti nel territorio della Sicilia e della Sardegna». Con riguardo all’asserita violazione del principio di legalità, posto che è inconferente il riferimento all’art. 23 Cost., non può essere condiviso quanto sostiene la ricorrente, secondo cui le disposizioni in esame avrebbero conferito al Governo un potere regolativo con una norma “in bianco”. Le disposizioni impugnate non sono composte da un precetto indeterminato, avendo il legislatore statale specificato in modo chiaro e preciso le finalità del fondo (interventi per la mobilità aerea), l’ammontare delle risorse da destinare agli obiettivi predefiniti, i soggetti destinatari dei contributi (i cittadini residenti nelle due Regioni insulari) e lo strumento attraverso il quale devono essere stabiliti i criteri e le modalità di assegnazione delle risorse (decreto interministeriale). Anche sotto questo profilo, dunque, la questione di legittimità costituzionale non è fondata. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 494 e 495, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025), promossa, in riferimento all’art. 119 della Costituzione, in relazione all’art. 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione), dalla Regione autonoma Sardegna, con il ricorso indicato in epigrafe; 2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022, promossa, in riferimento al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., dalla Regione autonoma Sardegna, con il ricorso indicato in epigrafe; 3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 494, 495 e 496, della legge n. 197 del 2022, promossa in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost. e agli artt. 3, primo comma, lettera p), 7 e 8 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Regione Sardegna), anche in relazione all’art. 1, comma 837, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», dalla Regione autonoma Sardegna, con il ricorso indicato in epigrafe; 4) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022, promossa, in riferimento all’art. 116 Cost., dalla Regione autonoma Sardegna, con il ricorso indicato in epigrafe; 5) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022, promossa, in riferimento all’art. 81 Cost., dalla Regione autonoma Sardegna, con il ricorso indicato in epigrafe; 6) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 494 e 495, della legge n. 197 del 2022, promossa, in riferimento all’art. 136 Cost., dalla Regione autonoma Sardegna, con il ricorso indicato in epigrafe; 7) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 494, 495 e 496, della legge n. 197 del 2022, promosse in riferimento agli artt. 5 e 117, terzo comma, Cost., con riguardo al principio di leale collaborazione, e agli artt. 3, 7 e 8 dello statuto speciale anche in relazione all’art. 1, comma 837, della legge n. 296 del 2006, dalla Regione autonoma Sardegna, con il ricorso indicato in epigrafe; 8) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 494, 495 e 496, della legge n. 197 del 2022, promossa in riferimento agli artt. 3 e 23 Cost., dalla Regione autonoma Sardegna, con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 marzo 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Angelo BUSCEMA, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera f), ultimo periodo, della legge della Regione Valle d’Aosta 18 luglio 2023, n. 11 (Disciplina degli adempimenti amministrativi in materia di locazioni brevi per finalità turistiche), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 2 ottobre 2023, depositato in cancelleria il 5 ottobre 2023, iscritto al n. 30 del registro ricorsi 2023 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2023. Visto l’atto di costituzione della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste; udita nell’udienza pubblica del 21 febbraio 2024 la Giudice relatrice Antonella Sciarrone Alibrandi; uditi l’avvocato dello Stato Roberta Guizzi per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Francesco Saverio Marini per la Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste; deliberato nella camera di consiglio del 21 febbraio 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso depositato il 5 ottobre 2023 (reg. ric. n. 30 del 2023), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato l’art. 4, comma 1, lettera f), ultimo periodo, della legge della Regione Valle d’Aosta 18 luglio 2023, n. 11 (Disciplina degli adempimenti amministrativi in materia di locazioni brevi per finalità turistiche), in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione e all’art. 2, primo comma, lettere g) e q), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta). 1.1.– Il ricorrente premette che la Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, nell’esercizio della competenza legislativa primaria in materia di urbanistica e turismo (riconosciutale dall’art. 2, primo comma, lettere g e q, dello statuto speciale), con la legge reg. Valle D’Aosta n. 11 del 2023 ha disciplinato gli adempimenti amministrativi relativi alle locazioni per finalità turistiche. In particolare, al fine di consentire la verifica della corretta applicazione dell’imposta di soggiorno e di assicurare l’effettivo svolgimento dell’attività di vigilanza e controllo, ha stabilito l’obbligo – in capo al locatore – di rendere una dichiarazione sostitutiva, attestante – tra l’altro – i periodi di esercizio dell’attività di locazione turistica. La difesa statale precisa che la dichiarazione relativa alla durata dell’attività locativa – e la conseguente fissazione, compiuta dall’impugnato art. 4, comma 1, lettera f), ultimo periodo, in centottanta giorni annui della complessiva durata massima di tale attività – è richiesta, però, solo nel caso di cui all’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), della medesima legge regionale: vale a dire quando la locazione abbia a oggetto camere arredate ubicate in unità abitative rientranti nella categoria di destinazione d’uso ad abitazione permanente o principale, ai sensi della legge urbanistica regionale (legge della Regione Valle d’Aosta 6 aprile 1998, n. 11, recante «Normativa urbanistica e di pianificazione territoriale della Valle d’Aosta»). La richiamata previsione, ad avviso del Governo, con il predeterminare il periodo massimo annuo di esercizio dell’attività locatizia, realizzerebbe un’indebita compressione delle facoltà proprietarie e quindi dell’autonomia privata, così esorbitando dalle competenze legislative regionali primarie in materia di urbanistica e turismo, attribuite alla Regione dallo statuto speciale. La disciplina dei contratti di locazione turistica, come quella di tutti i contratti, sarebbe, infatti, da ricondursi alla materia dell’ordinamento civile, riservata dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Quest’ultimo, peraltro, l’avrebbe in effetti esercitata: dapprima escludendo che a tali contratti si applichino alcune disposizioni relative alle locazioni di immobili adibiti ad uso abitativo (di cui alla legge 9 dicembre 1998, n. 431, recante «Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo»), in quanto non coerenti con la specifica funzione economico-sociale dei medesimi; poi rinviando alle «disposizioni del codice civile in tema di locazione» mediante l’art. 53 del decreto legislativo 23 maggio 2011, n. 79 (Codice della normativa statale in tema di ordinamento e mercato del turismo, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246, nonché attuazione della direttiva 2008/122/CE, relativa ai contratti di multiproprietà, contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine, contratti di rivendita e di scambio). Né tale conclusione potrebbe essere contraddetta dalla circostanza che la disposizione, ora impugnata in parte qua, andrebbe a introdurre meri adempimenti amministrativi funzionali all’attività di vigilanza e controllo sulle locazioni turistiche, come riconosciuto nella sentenza n. 84 del 2019 di questa Corte: adempimenti che, come tali, dovrebbero ricondursi alla competenza legislativa regionale primaria in materia di turismo. Anche alla luce di quanto affermato dalla appena richiamata sentenza, la difesa statale ritiene che, nel caso della disposizione valdostana ora impugnata, la predeterminazione del periodo massimo di locazione nulla abbia a che vedere con un adempimento amministrativo analogo a quello allora oggetto di scrutinio, necessario per l’identificazione della locazione a fini turistici ed esterno al contratto, ma, all’opposto, investa la regolamentazione stessa della locazione, incidendo quindi sulla libertà negoziale e sulla sfera contrattuale riservata alla uniforme disciplina privatistica. 2.– La Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste si è costituita in giudizio e ha chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile e comunque non fondato. 2.1.– In primo luogo, la difesa regionale ritiene la questione inammissibile per genericità delle censure, in quanto non sarebbe stata fornita un’adeguata motivazione a sostegno del preteso travalicamento delle competenze assegnate alla Regione dallo statuto speciale in materia di urbanistica e di turismo. Il ricorso sarebbe, poi, inammissibile anche sotto un altro profilo e cioè per errata o comunque incompleta individuazione delle norme ritenute lesive del riparto costituzionale delle competenze. Secondo la difesa regionale, infatti, la lesione paventata dal Governo discenderebbe anzitutto dall’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), della legge reg. Valle d’Aosta n. 11 del 2023, non impugnato, là dove sono posti limiti alla locazione turistica degli immobili con destinazione d’uso ad abitazione permanente o principale, che può riguardare solo «camere arredate» e a condizione che l’utilizzo dell’immobile ad abitazione principale o permanente risulti «prevalente». Di tale previsione la disposizione regionale impugnata – e cioè l’art. 4, comma 1, lettera f), ultimo periodo – costituirebbe mera attuazione, individuando in centottanta giorni all’anno il periodo massimo di destinazione delle camere arredate a locazione turistica compatibile con la destinazione ad abitazione principale dell’immobile. Dall’indicata ragione di inammissibilità ne discenderebbe un’altra, inerente al difetto di interesse a ricorrere avverso il citato art. 4, comma 1, lettera f), ultimo periodo, della legge reg. Valle d’Aosta n. 11 del 2023. La difesa regionale osserva, a tal proposito, che, quand’anche la questione promossa dal Governo venisse accolta, in ogni caso permarrebbe il vincolo di utilizzo prevalente dell’immobile al fine di abitazione principale di cui all’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), della medesima legge regionale: vincolo al quale sarebbe subordinata la stessa possibilità di considerare l’immobile destinato ad abitazione permanente o principale come alloggio a uso turistico. Con la conseguenza che, anche nel caso in cui la disposizione impugnata fosse dichiarata costituzionalmente illegittima, l’interprete potrebbe utilizzare un criterio analogo, se non identico, a quello da essa previsto. 2.2.– Quanto al merito, la difesa regionale ritiene che il ricorso muova da un erroneo presupposto interpretativo. Lungi dall’incidere sulla disciplina dei contratti di locazione turistica e dal comprimere le facoltà proprietarie e l’autonomia privata, così da invadere la sfera di competenza legislativa statale in materia di ordinamento civile, la disposizione regionale contestata costituirebbe, infatti, esercizio della potestà legislativa primaria regionale nella materia «urbanistica [e] piani regolatori per zone di particolare importanza turistica», di cui all’art. 2, lettera g), dello statuto speciale. Essa, infatti, si limiterebbe a individuare il presupposto al cui ricorrere l’immobile con destinazione d’uso ad abitazione permanente o principale può conservare la suddetta destinazione anche in caso di utilizzo per una diversa finalità. Ciò sarebbe dimostrato dal fatto che, nel caso di superamento del limite dei centottanta giorni di destinazione delle camere arredate ad attività di locazione turistica breve, non si determinerebbe alcun divieto di locare a uso turistico l’immobile, né vi sarebbe alcuna incidenza sulla validità ed efficacia del contratto di locazione. L’unico effetto dell’indicato superamento del limite sarebbe costituito dal mutamento della destinazione d’uso dell’immobile stesso, da abitazione permanente o principale ad abitazione temporanea, ai sensi dell’art. 73, comma 2, lettera d[-]bis), della legge reg. Valle d’Aosta n. 11 del 1998, con le relative conseguenze sia a livello di vigilanza e controlli ed eventualmente di perdita di benefici collegati all’abitazione principale o prevalente, sia ai fini del monitoraggio e della programmazione e pianificazione regionale e comunale. 3.– La Confederazione italiana della proprietà edilizia (Confedilizia) ha depositato, in qualità di amicus curiae, un’opinione scritta, ammessa con decreto presidenziale del 12 gennaio 2024. Confedilizia segnala che alle locazioni a uso abitativo di carattere e finalità turistica neppure la legge statale si spinge a imporre limiti di durata, incidendo sulla libera contrattazione tra le parti. La legge regionale scrutinata, invece, stabilendo un termine di durata alle locazioni turistiche brevi, violerebbe la riserva allo Stato della disciplina dei rapporti tra privati, in contrasto con la garanzia di cui all’art. 41 Cost., e con il principio di libera circolazione delle persone e delle cose fra le Regioni enunciato nell’art. 120 Cost. 4.– All’udienza pubblica, le parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate negli atti difensivi. Considerato in diritto 1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 4, comma 1, lettera f), ultimo periodo, della legge reg. Valle d’Aosta n. 11 del 2023, nella parte in cui fissa in centottanta giorni annui la durata massima della locazione degli alloggi a uso turistico, come definiti dall’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), della medesima legge regionale, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., e all’art. 2, primo comma, lettere g) e q), dello statuto speciale. Più precisamente, il ricorrente ritiene che il legislatore regionale – prevedendo, fra gli adempimenti amministrativi relativi alle locazioni per finalità turistiche, l’obbligo del locatore di attestare, fra l’altro, i periodi di esercizio dell’attività di locazione – abbia fissato la complessiva durata massima di tale attività in centottanta giorni annui. Ciò con esclusivo riferimento all’ipotesi in cui la locazione abbia a oggetto «camere arredate ubicate in unità abitative rientranti nella categoria di destinazione d’uso ad abitazione permanente o principale» (art. 2, comma 1, lettera a, numero 1, della legge reg. Valle d’Aosta n. 11 del 2023), ai sensi della legge urbanistica regionale (legge reg. Valle d’Aosta n. 11 del 1998). Con la disposizione impugnata, il legislatore valdostano avrebbe travalicato le proprie competenze legislative in materia di urbanistica e turismo, di cui all’art. 2, primo comma, lettere g) e q), dello statuto speciale. La disposizione regionale impugnata sarebbe, infatti, indebitamente intervenuta sulla durata massima della locazione, incidendo sulla libertà negoziale, come pure avrebbe compresso in modo indebito le facoltà proprietarie, sotto forma di limitazione del godimento dell’immobile adibito ad abitazione principale, in violazione della sfera di competenza legislativa statale esclusiva in materia di ordinamento civile, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. 2.– In via preliminare, occorre esaminare le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dalla difesa regionale. 2.1.– Quest’ultima eccepisce, in primo luogo, la genericità delle censure promosse dal ricorrente, il quale non avrebbe adeguatamente spiegato le ragioni per cui la disposizione regionale impugnata – là dove definisce i presupposti qualitativi e quantitativi affinché un alloggio con destinazione d’uso ad abitazione permanente o principale possa rimanere tale anche se adibito a locazioni turistiche di breve durata – oltrepasserebbe il perimetro della competenza legislativa regionale primaria in materia di urbanistica, intervenendo sulla materia dei contratti. 2.1.1.– L’eccezione non è fondata. È ormai costante la giurisprudenza di questa Corte secondo cui, nei giudizi in via principale, è «necessario […] che la motivazione addotta a supporto delle censure, per quanto sintetica, raggiunga quella “soglia minima di chiarezza e di completezza” (sentenza n. 64 del 2016), che consenta a questa Corte di esaminare il merito dell’impugnativa proposta (tra le molte, sentenze n. 123 del 2022, n. 195 e n. 29 del 2021, n. 273 e n. 194 del 2020, n. 201 e n. 83 del 2018)» (sentenza n. 114 del 2023). Nella specie, tale soglia risulta superata. Dal tenore letterale del ricorso, pur formulato in maniera sintetica, si desume, infatti, che il ricorrente muove dall’assunto che la «predeterminazione del periodo massimo di locazione», stabilita dalla disposizione regionale impugnata, «investe la regolamentazione stessa della locazione, incidendo quindi sulla libertà negoziale e sulla sfera contrattuale riservata alla uniforme disciplina privatistica» e, pertanto, ne desume l’indebita invasione nella materia dell’ordinamento civile, «ambito che l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato». 2.2.– Un ulteriore motivo di inammissibilità del ricorso, dedotto dalla resistente, attiene alla asseritamente non corretta, e comunque non completa, individuazione delle norme oggetto del giudizio, ritenute lesive della sfera di competenza statale. Tale lesione, infatti, discenderebbe non tanto e non solo dalla disposizione regionale impugnata (l’art. 4, comma 1, lettera f, ultimo periodo, della legge reg. Valle d’Aosta n. 11 del 2023), quanto dal precedente art. 2, comma 1, lettera a), numero 1) – non oggetto di censure –, nella parte in cui, nell’individuare gli «alloggi a uso turistico», prescrive che, quando la locazione turistica breve riguarda «camere arredate ubicate in unità abitative rientranti nella categoria di destinazione d’uso ad abitazione permanente o principale», il predetto uso deve risultare «prevalente». La disposizione regionale impugnata si limiterebbe a dare applicazione al concetto di “prevalenza”, precisando che la destinazione d’uso ad abitazione permanente o principale non muta solo in caso di locazione di camere arredate all’interno dell’unità immobiliare per un periodo compreso in centottanta giorni all’anno. 2.2.1.– Anche tale eccezione si rivela priva di fondamento. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, è motivo di inammissibilità del ricorso promosso in via principale l’erronea individuazione della disposizione in ordine alla quale sono formulate le censure di illegittimità costituzionale (di recente, sentenza n. 48 del 2023) e da cui si assume derivino le lesioni denunciate. Nella specie tale ragione di inammissibilità non sussiste. L’art. 4, comma 1, lettera f), ultimo periodo, legge reg. Valle D’Aosta n. 11 del 2023 è – infatti – impugnato proprio nella parte in cui definisce in centottanta giorni la durata complessiva massima dei periodi in cui il locatore può esercitare l’attività di locazione turistica breve, nell’ipotesi in cui quest’ultima abbia a oggetto gli alloggi turistici individuati dall’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), della medesima legge regionale: vale a dire, le «camere arredate ubicate in unità abitative rientranti nella categoria di destinazione d’uso ad abitazione permanente o principale», per cui «risulti prevalente il predetto uso». Quest’ultima previsione, pertanto, pur contribuendo a integrare il contenuto della disposizione impugnata mediante l’individuazione della tipologia di alloggi cui si riferisce il limite temporale allo svolgimento dell’attività di locazione turistica breve, risulta tuttavia estranea alla questione di legittimità costituzionale promossa con il ricorso indicato in epigrafe: questione che, come affermato dal ricorrente, verte specificamente sulla «predeterminazione del periodo massimo di locazione», operata dall’impugnato art. 4, comma 1, lettera f), ultimo periodo, ritenuta lesiva della libertà negoziale e della «sfera contrattuale riservata alla uniforme disciplina privatistica». 2.3.– Parimenti va rigettata l’ulteriore eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa regionale per difetto di interesse a ricorrere avverso l’art. 4, comma 1, lettera f), ultimo periodo, della legge regionale n. 11 del 2023. Una volta accertato, infatti, che il ricorrente lamenta la lesione della sfera di competenza legislativa esclusiva statale in materia contrattuale derivante dalla predeterminazione, da parte del legislatore regionale, del periodo massimo di locazione turistica consentito (centottanta giorni annui), risulta evidente la sussistenza dell’interesse a impugnare la disposizione che espressamente stabilisce il predetto limite. 3.– Nel merito, la questione non è fondata. 3.1.– Al fine di cogliere l’esatta portata della disposizione impugnata e individuare la materia cui ricondurre la disciplina in essa contenuta, occorre, in via preliminare, ricostruire il quadro normativo di riferimento in cui essa si inserisce. Ciò in linea con il costante indirizzo di questa Corte, secondo cui «nell’individuazione della materia cui ascrivere una determinata norma, […] occorre considerarne ratio, finalità e contenuti, tralasciando aspetti marginali ed effetti riflessi (ex plurimis, sentenza n. 193 del 2022)» (sentenza n. 267 del 2022). 3.1.1.– La disposizione impugnata si inserisce nel contesto della legge reg. Valle d’Aosta n. 11 del 2023, che reca la «[d]isciplina degli adempimenti amministrativi in materia di locazioni brevi per finalità turistiche» e cioè in materia di «locazion[i] per finalità turistiche, esercitat[e] anche in forma di impresa, di durata pari anche a un solo giorno di pernottamento e comunque non superiore a trenta giorni consecutivi, di alloggi a uso turistico» (art. 1). Obiettivo generale della legge regionale in esame – come risulta dalla relazione illustrativa – è l’identificazione dei citati adempimenti in una forma «chiara e semplice», così da «consentire contezza del fenomeno della locazione per finalità turistiche e l’esatto dimensionamento degli arrivi e delle presenze relativi a tale tipologia di ospitalità», al fine di «sviluppare politiche in materia di turismo sempre più mirate» e in grado di rispondere alla molteplicità di esigenze correlate alla crescita di un «fenomeno turistico nuovo», quale è quello della «locazione per finalità turistiche di camere, appartamenti o case arredati a ospiti che scelgono tale soluzione di ricettività, dietro pagamento di un corrispettivo […] anche tramite offerte su portali telematici specializzati». 3.1.2.– Si tratta del cosiddetto home sharing, diffusosi in particolare grazie alla creazione di piattaforme on line, volte a mettere in contatto – come si sottolinea nella già citata relazione illustrativa al disegno di legge regionale – privati (proprietari) che dispongono di spazi abitativi sottoutilizzati da concedere in locazione con altri privati in cerca di un alloggio o di una camera per brevi periodi e che non intendono ricorrere al circuito delle strutture ricettive tradizionali. La conseguente «trasformazione della dimora, permanente (prima casa) e soprattutto secondaria (seconda casa), in una struttura turistico-ricettiva estemporanea» ha generato, alla luce dei molteplici interessi coinvolti, problematiche giuridiche di varia natura (negoziali, fiscali, urbanistiche, turistiche, di tutela della concorrenza e di corretta gestione e trasparenza dei dati), sollecitando numerosi interventi regolatori, di provenienza statale, regionale e finanche europea, in ragione delle diverse competenze normative chiamate in causa. Il legislatore statale inizialmente si era limitato a escludere l’applicabilità alle locazioni con finalità meramente turistiche di alcune delle disposizioni generali relative alle locazioni degli immobili a uso abitativo, dettate dalla legge n. 431 del 1998, in quanto non compatibili con la specifica causa. Solo successivamente disposizioni statali hanno individuato nella disciplina del codice civile in tema di locazione la relativa regolamentazione (art. 53 del d.lgs. n. 79 del 2011). Alcuni anni più tardi – al principale scopo di delinearne il regime fiscale e i relativi adempimenti (come si evince dalla stessa rubrica dell’art. 4 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, recante «Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo», convertito, con modificazioni, nella legge 21 giugno 2017, n. 96) – si è poi provveduto a definire le locazioni turistiche brevi alla stregua di «contratti di locazione di immobili ad uso abitativo di durata non superiore a 30 giorni […] stipulati da persone fisiche, al di fuori dell’esercizio di attività d’impresa, direttamente o tramite soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare, ovvero soggetti che gestiscono portali telematici, mettendo in contatto persone in cerca di un immobile con persone che dispongono di unità immobiliari da locare». Ulteriori adempimenti e limiti sono stati introdotti, ancor più di recente, con disposizioni specifiche, ancora per finalità fiscali (come ad esempio nel caso dell’art. 1, comma 595, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, recante «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023»); come pure a tutela della sicurezza (si veda, in particolare, l’art. 109, regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, recante «Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza», la cui applicabilità alle locazioni di appartamenti ad uso abitativo per le permanenze turistiche brevi è stata confermata dalla circolare del Ministero dell’interno 26 giugno 2015, n. 4023); fino ad arrivare alle previsioni contenute nell’art. 13-ter del decreto-legge 18 ottobre 2023, n. 145 (Misure urgenti in materia economica e fiscale, in favore degli enti territoriali, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella legge 15 dicembre 2023, n. 191, adottate «[a]l fine di assicurare la tutela della concorrenza e della trasparenza del mercato, il coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale e la sicurezza del territorio e per contrastare forme irregolari di ospitalità». Nella medesima linea di tutela della trasparenza del mercato si pone il recentissimo regolamento (UE) 2024/1028 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 aprile 2024, relativo alla raccolta e alla condivisione dei dati riguardanti i servizi di locazione di alloggi a breve termine e di modifica del regolamento (UE) 2018/1724, approvato sulla base della proposta formulata dalla Commissione dell’Unione europea il 7 novembre 2022. Tale regolamento segna l’introduzione di un quadro normativo omogeneo e armonizzato per gli Stati membri dell’Unione europea, in materia di generazione e di condivisione dei dati inerenti ai citati servizi, al fine di migliorarne l’accesso da parte delle autorità pubbliche e garantirne la qualità, consentendo a queste ultime di valutare correttamente l’impatto dei medesimi servizi sui propri territori e di elaborare le relative politiche in modo efficace e proporzionato. Ciò in vista dello scopo ultimo di assicurare una prestazione corretta, inequivocabile e trasparente di servizi di locazione di alloggi a breve termine nel mercato interno, nel quadro di un ecosistema del turismo equilibrato. Come la stessa formulazione delle disposizioni più recenti del legislatore statale ed europeo in tema di locazioni turistiche brevi lascia trasparire, anche per il legislatore regionale è previsto uno spazio di intervento, che viene in rilievo con particolare riferimento all’ambito del turismo, nonché a quello del governo del territorio e dell’urbanistica. Con riguardo al primo ambito, proprio in relazione alle locazioni turistiche brevi, questa Corte ha avuto già occasione di affermare che «gli aspetti turistici anche di queste ultime ricadono nella competenza residuale delle Regioni (sentenza n. 80 del 2012)» (sentenza n. 84 del 2019) e comprendono tutti gli adempimenti amministrativi, purché precedenti ed esterni al contratto in quanto tale (come, ad esempio, quello, introdotto dalla disposizione regionale lombarda allora scrutinata, relativo ad un codice identificativo di riferimento delle singole unità ricettive), che siano utili al fine di «creare una mappa del rilevante nuovo fenomeno della concessione in godimento a turisti di immobili di proprietà a prescindere dallo svolgimento di un’attività imprenditoriale, e ciò al fine precipuo di esercitare al meglio le proprie funzioni di promozione, vigilanza e controllo sull’esercizio delle attività turistiche» (ancora sentenza n. 84 del 2019). Ancora più evidente è l’incidenza della forte crescita delle locazioni turistiche brevi sulla competenza legislativa regionale concorrente in materia di governo del territorio. È, infatti, un dato di esperienza che dalla moltiplicazione delle stesse e dal connesso aumento dei flussi turistici possa derivare la trasformazione urbanistica di interi quartieri e centri, con ricadute di rilievo anche sulla gestione dei servizi pubblici locali, la cui disciplina è peraltro riservata alla competenza legislativa regionale. Ne consegue che rientra nella competenza del legislatore regionale intervenire sulla destinazione d’uso degli immobili – in linea con i principi fondamentali fissati dal legislatore statale all’art. 23-ter del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)» – considerato che essa «connota l’immobile sotto l’aspetto funzionale, condiziona il carico urbanistico, legato al fabbisogno di strutture e di spazi pubblici, e incide sull’ordinata pianificazione del territorio» (sentenza n. 124 del 2021; in senso analogo, sentenze n. 2 del 2021 e n. 247 del 2020). 3.1.3.– È in questo quadro che va intesa la portata dell’impugnato art. 4, comma 1, lettera f), ultimo periodo, della legge reg. Valle d’Aosta n. 11 del 2023. Tale previsione si colloca nell’ambito della disciplina degli adempimenti amministrativi inerenti alle locazioni turistiche brevi, che l’art. 1 espressamente dichiara essere stata adottata nell’esercizio della competenza legislativa regionale primaria in materia di urbanistica e di turismo e «in armonia con la legislazione eurounitaria e statale in materia di locazioni a uso abitativo», come peraltro confermato dalla relazione illustrativa nonché dal recepimento della definizione di locazione turistica breve di cui all’art. 4 del d.l. n. 50 del 2017, come convertito. In particolare, il disposto dell’art. 4, comma 1, lettera f), ultimo periodo, della citata legge regionale rientra nella generale previsione dell’obbligo del locatore di trasmettere al comune, nel cui territorio è ubicato l’alloggio a uso turistico, una dichiarazione sostitutiva contenente una serie di dati (fra cui, ad esempio, l’indirizzo e gli estremi catastali, il numero di camere o vani destinati a finalità turistiche e dei relativi posti letto). La specifica parte della disposizione oggetto di censura è quella in cui, nel richiedere fra tali dati anche l’indicazione del periodo di esercizio dell’attività locatizia, si fissa in centottanta giorni all’anno la durata massima di tale attività, limitatamente – però – all’ipotesi in cui la medesima abbia a oggetto «camere arredate ubicate in unità abitative rientranti nella categoria di destinazione d’uso ad abitazione permanente o principale» (art. 2, comma 1, lettera a, numero 1, della medesima legge regionale). Queste ultime rientrano, infatti, fra gli «alloggi a uso turistico» solo «a condizione che risulti prevalente il predetto uso». Tale previsione si collega, a sua volta, all’art. 3 della medesima legge regionale, ove viene dettata espressamente la «[d]isciplina urbanistica» delle locazioni turistiche brevi, precisando che non costituisce mutamento di destinazione d’uso, ai sensi dell’art. 74 della legge urbanistica regionale (legge reg. Valle d’Aosta n. 11 del 1998), l’attività di locazione per finalità turistiche, purché «esercitata nel rispetto delle disposizioni della presente legge». D’altro canto, la legge urbanistica regionale cui il citato art. 3 rinvia, dopo aver precisato che la destinazione d’uso corrisponde all’«uso cui l’immobile o parte di esso è destinato, sotto il profilo delle attività da svolgere nell’immobile stesso» (art. 73, comma 1), dispone che «[s]i ha mutamento della destinazione d’uso quando l’immobile, o parte di esso, viene ad essere utilizzato, in modo non puramente occasionale e momentaneo, per lo svolgimento di attività appartenenti ad una categoria di destinazioni, fra quelle elencate all’art. 73, comma 2, diversa da quella in atto» (art. 74, comma 1). E, fra le varie categorie di destinazione d’uso, distingue quella «ad abitazione permanente o principale» (art. 73, comma 2, lettera d), da quella «ad abitazione temporanea» (art. 73, comma 2, lettera d[-]bis). Risulta, pertanto, evidente che il legislatore regionale – nell’esercizio della competenza legislativa primaria in materia di urbanistica a esso affidata dall’art. 2, primo comma, lettera g), dello statuto speciale – ha inteso dare applicazione e concretizzazione a quanto già stabilito nella legge urbanistica regionale, ravvisando un mutamento di destinazione d’uso dell’immobile, da abitazione principale ad abitazione temporanea, nell’ipotesi di locazioni turistiche brevi di parti dello stesso (le «camere arredate») per un tempo superiore a centottanta giorni annui, ritenute dare luogo a un uso «non puramente occasionale e momentaneo» (così l’art. 74, comma 1, della legge urbanistica regionale). Ciò, peraltro, anche in linea con i compiti, propri della Regione e degli enti locali, di «continuo monitoraggio» e «permanente conoscenza del territorio e delle sue trasformazioni» (art. 9, comma 4, della citata legge urbanistica regionale), in specie con riferimento ai casi di «sovraccarico ambientale prodotto dai flussi turistici nelle aree che esercitano maggior attrazione e presentano nel contempo particolare sensibilità» (lettera f), nonché di «distribuzione delle presenze turistiche nel territorio» (lettera m), nell’ottica del rispetto di tutte le misure previste nel piano territoriale paesaggistico. Coerentemente, in caso di violazione di tale prescrizione, sono previste specifiche conseguenze di natura amministrativa, quali l’irrogazione della sanzione contemplata dall’art. 9 della medesima legge reg. Valle d’Aosta n. 11 del 2023, oltre all’esclusione del particolare regime di agevolazione, in materia edilizia, previsto per le abitazioni principali. Resta da aggiungere che, ai fini del mutamento di destinazione d’uso dell’immobile in cui siano collocate le camere arredate oggetto della locazione turistica breve, il legislatore regionale avrebbe potuto scegliere un differente criterio di concretizzazione, magari non limitato al mero fattore temporale. Ma non è oggetto del ricorso la compatibilità della soluzione adottata sul punto dal legislatore con le ragioni di tutela del diritto di proprietà, di cui all’art. 42 Cost. In definitiva, alla luce della disciplina regionale in esame considerata nel suo complesso, è certo che il superamento dei centottanta giorni non determina alcun effetto sui contratti di locazione turistica breve, che conservano la loro piena validità ed efficacia e restano disciplinati dalle previsioni del codice civile a norma dell’art. 53 del d.l. n. 50 del 2017, come convertito. Né, in questo quadro, può considerarsi in alcun modo rilevante in senso difforme l’espressione letterale utilizzata dal legislatore regionale «[i]n ogni caso, la durata complessiva dei predetti periodi non può superare i centottanta giorni all’anno»: tale disposizione, semplicemente, fissa il limite temporale oltre il quale l’immobile oggetto del contratto si ritiene, in armonia con le previsioni della legge regionale urbanistica, destinato ad un utilizzo diverso rispetto a quello originario, legittimando interventi di natura amministrativa che, senza pregiudizio per la validità e l’efficacia dei contratti stipulati tra i privati, rientrano pienamente nelle competenze regionali. La disposizione regionale impugnata, in sostanza, lungi dall’incidere sulla disciplina della durata dei contratti di locazione turistica breve e quindi sulla materia dell’ordinamento civile, come sostenuto dal ricorrente, si pone al crocevia delle materie dell’urbanistica e del turismo, assegnate alla competenza legislativa primaria della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste dall’art. 2, primo comma, lettere g) e q), dello statuto speciale, come affermato in modo esplicito nell’art. 1 della citata legge regionale n. 11 del 2023. Essa, dunque, si inserisce coerentemente nel quadro di previsioni regionali il cui esclusivo orizzonte – che coincide con la sfera di competenza – è quello di governare le trasformazioni urbanistiche connesse alla moltiplicazione delle locazioni turistiche brevi, in un’ottica di tutela del territorio e di realizzazione di una sua ordinata pianificazione (sentenza n. 124 del 2021), che si coniuga con quell’attività di «promozione, vigilanza e controllo sull’esercizio delle attività turistiche» che questa Corte ha già riconosciuto appartenere alla competenza legislativa residuale regionale (sentenza n. 84 del 2019). per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera f), ultimo periodo, della legge della Regione Valle d’Aosta 18 luglio 2023, n. 11 (Disciplina degli adempimenti amministrativi in materia di locazioni brevi per finalità turistiche), promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione e all’art. 2, primo comma, lettere g) e q), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta), dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Redattrice Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli nel procedimento penale a carico di G. S., con ordinanza del 3 luglio 2023, iscritta al n. 119 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2023. Udito nella camera di consiglio del 5 marzo 2024 il Giudice relatore Franco Modugno; deliberato nella camera di consiglio del 5 marzo 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 3 luglio 2023, iscritta al n. 119 del registro ordinanze 2023, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del GIP a partecipare al giudizio di opposizione alla richiesta di archiviazione «di cui all’art. 410 cod. proc. pen.» dopo che, nel rigettare una richiesta di emissione di decreto penale di condanna, si sia espresso in merito alla sussistenza di una causa di non punibilità, per contrasto con gli artt. 3, 24, secondo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. 1.1.– L’ordinanza di rimessione premette che il giudice aveva respinto la richiesta di emissione di decreto penale di condanna, avanzata dal pubblico ministero, con riguardo al reato di cui all’art. 612, secondo comma, del codice penale, e gli aveva restituito gli atti, ritenendo sussistente la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. (Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto). Il provvedimento indicava le specifiche ragioni per cui il fatto era espressivo di «un grado di offensività particolarmente tenue»: sarebbe stato commesso per l’ira determinata da un sinistro stradale, non avrebbe prodotto danni gravi e non costituirebbe una condotta abituale dell’indagato. Il pubblico ministero, facendo propria la prospettazione del GIP, chiedeva l’archiviazione per la particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis cod. pen., procedendo alle notifiche di rito all’indagato e alla persona offesa. Quest’ultima proponeva, nei termini di legge, l’opposizione all’archiviazione, rilevando l’allarmante propensione a delinquere dell’indagato e la consistenza dei danni morali arrecati; chiedeva, così, che si disponesse l’imputazione coatta o si svolgessero ulteriori indagini, in specie ascoltando le informazioni in possesso del figlio della vittima del reato. Veniva fissata la camera di consiglio, e il difensore della persona offesa eccepiva l’incompatibilità dello stesso GIP persona fisica a decidere sull’opposizione all’archiviazione, poiché quest’ultimo avrebbe già espresso le proprie valutazioni sull’illecito commesso. Il GIP chiedeva, dunque, di potersi astenere, ma il presidente del Tribunale respingeva tale richiesta, osservando che l’incompatibilità a decidere il giudizio di opposizione «non sussiste neppure nei casi di declaratoria di nullità del decreto di archiviazione». 1.2.– Lo stesso GIP, a questo punto, ha ritenuto di sollevare le presenti questioni di legittimità costituzionale, rilevando, anzitutto, che il «deficit di terzietà del giudice» il quale, pur essendosi espresso sull’esistenza di una causa di non punibilità in sede di rigetto della richiesta di decreto penale di condanna, debba poi decidere sull’opposizione, non potrebbe essere superato in via interpretativa, in assenza di apposita previsione normativa. In circostanze come quelle verificatesi nel procedimento a quo – si afferma – il giudizio di opposizione potrebbe essere condizionato dalla “forza della prevenzione”, avendo lo stesso magistrato già compiuto valutazioni sulla medesima res iudicanda; la terzietà del giudice sarebbe, tuttavia, condizione imposta dall’art. 111, secondo comma, Cost., nonché dall’art. 117, primo comma, Cost., che rende efficace nell’ordinamento italiano i precetti dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU, secondo cui «[o]gni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente e imparziale e costituito per legge, che decide sia in ordine alla controversia sui suoi diritti e obblighi di natura civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale derivata contro di lei». Il giudice rimettente rileva che i due momenti nei quali è chiamato a pronunciarsi non apparterrebbero alla stessa «fase del procedimento» – circostanza, questa, che, secondo la giurisprudenza costituzionale, escluderebbe l’esistenza dell’incompatibilità – poiché la restituzione degli atti al pubblico ministero, a seguito del rigetto della richiesta di decreto penale, avrebbe determinato la regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari (è citata la sentenza di questa Corte n. 16 del 2022). Osserva, inoltre, che la persona offesa, pur essendo parte eventuale del processo, avrebbe un legittimo interesse all’affermazione della responsabilità penale dell’autore del reato, da parte di un giudice imparziale, non influenzato dalle proprie precedenti determinazioni. Questa Corte avrebbe già affermato che, nel procedimento per decreto, il controllo del GIP attiene non solo ai presupposti di rito, ma anche alla sussistenza del fatto e della responsabilità dell’indagato; alla richiesta di decreto penale potrebbe, peraltro, fare seguito una sentenza di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. (sono citate le sentenze di questa Corte n. 502 del 1991 e n. 346 del 1997). L’omessa previsione dell’incompatibilità del GIP che, nel rigettare la richiesta di decreto penale di condanna, abbia espresso un convincimento in merito alla sussistenza di una causa di non punibilità e sia successivamente chiamato a decidere sull’opposizione della persona offesa, in definitiva, violerebbe gli artt. 3, 24, secondo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, CEDU. 1.3.– Ad avviso del giudice a quo, la rilevanza delle questioni sarebbe lampante: egli dovrebbe procedere alla trattazione dell’opposizione all’archiviazione, pur avendo espresso il proprio convincimento sulla res iudicanda. Considerato in diritto 1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 119 del 2023), il GIP del Tribunale di Napoli ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., chiedendo a questa Corte di riconoscere una nuova ipotesi di incompatibilità del giudice penale che, in diversa e precedente fase del medesimo procedimento, si sia già espresso nel merito della res iudicanda. Ritiene il rimettente che la disposizione censurata violi gli artt. 3, 24, secondo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, CEDU, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a decidere sull’opposizione all’archiviazione del giudice per le indagini preliminari che, nel rigettare una richiesta di emissione di decreto penale di condanna, abbia espresso il convincimento che sussista una causa di esclusione della punibilità: nella specie, la particolare tenuità del fatto. Nel provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero, il GIP ha osservato che il fatto criminoso sottoposto al suo esame esprimeva «un grado di offensività particolarmente tenue», perché sarebbe stato commesso per l’ira determinata dal sinistro stradale, non avrebbe prodotto danni gravi e non rappresenterebbe una condotta abituale dell’indagato. Facendo proprie le argomentazioni del GIP, il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione per la particolare tenuità del fatto (art. 131-bis cod. pen.), e proceduto alle notifiche di rito all’indagato e alla persona offesa. Quest’ultima ha proposto opposizione all’archiviazione, ritenendo esistente la propensione a delinquere da parte dell’indagato e consistenti i danni morali cagionati dalla sua condotta. A questo punto, lo stesso GIP ha sollevato le presenti questioni di legittimità costituzionale, deducendo il «deficit di terzietà», e denunciando di sentirsi “prevenuto” nell’esame degli elementi probatori del reato che ha già ritenuto sussistente, ma non punibile. La neutralità del giudice sarebbe condizione richiesta dall’art. 111, secondo comma, Cost., nonché dall’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai precetti dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU; non sarebbe, inoltre, possibile superare il problema in via interpretativa, in assenza di apposita previsione normativa che riconosca, in questi casi, l’incompatibilità del giudice. 2.– Va, anzitutto, circoscritto l’oggetto del presente scrutinio, rispetto all’ampio petitum formulato, in chiusura, dall’ordinanza di rimessione. Il giudice a quo chiede di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del GIP a partecipare al giudizio di opposizione alla richiesta di archiviazione «di cui all’art. 410 cod. proc. pen.», dopo che, nel rigettare una richiesta di emissione di decreto penale di condanna, si sia espresso in merito alla sussistenza di una causa di non punibilità. È, tuttavia, evidente che l’unica fattispecie rilevante nel giudizio principale è la situazione del giudice che abbia ritenuto il fatto commesso non punibile per la sua particolare tenuità e che si trovi, poi, a dover novamente pronunciare sulla sussistenza della particolare tenuità dello stesso fatto. Dalle motivazioni dell’ordinanza di rimessione si evince che le doglianze s’attagliano esattamente alle circostanze verificatesi nel procedimento a quo. Il giudice rimettente denuncia, infatti, di essere condizionato dalla “forza della prevenzione” in ragione delle specifiche valutazioni che ha compiuto sulla tenuità del fatto: nel decidere di rigettare la richiesta di decreto penale, avrebbe già esaminato compiutamente l’offensività della condotta e la propensione a delinquere dell’indagato. Dà, peraltro, conto che il pubblico ministero, nel chiedere l’archiviazione, ha dato avviso all’indagato e alla persona offesa, al fine di consentir loro di proporre opposizione, secondo quanto prevede la specifica disciplina dell’archiviazione per particolare tenuità del fatto, dettata dall’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. L’interpretazione del petitum, alla luce della motivazione complessiva dell’atto introduttivo, consente, dunque, di circoscriverlo «onde garantirne l’aderenza alla fattispecie soggettiva del giudizio a quo» (ex multis, sentenza n. 267 del 2020). Il tema del decidere si limita, così, allo scrutinio della legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare all’opposizione all’archiviazione per particolare tenuità del fatto del giudice che abbia già espresso il proprio convincimento in ordine alla sussistenza della suddetta causa di esclusione della punibilità. 3.– Le questioni riferite agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost. devono dichiararsi inammissibili, per carenza assoluta di motivazione delle censure. 4.– La questione promossa in riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost. è, invece, fondata. 4.1.– Come questa Corte ha più volte affermato, la disciplina sull’incompatibilità del giudice trova la sua ratio nella salvaguardia dei valori della terzietà e imparzialità del giudice – presidiati dagli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, in riferimento ai quali le questioni di legittimità costituzionale sono ammissibili –, mirando a escludere che questi possa pronunciarsi condizionato dalla “forza della prevenzione”, cioè dalla tendenza a confermare una decisione o a mantenere un atteggiamento già assunto, derivante da valutazioni che sia stato precedentemente chiamato a svolgere in ordine alla medesima res iudicanda. È necessario «che le funzioni del giudicare siano assegnate a un soggetto “terzo”, scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto e anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia su cui pronunciarsi» (sentenza n. 172 del 2023; nello stesso senso, sentenze n. 64, n. 16 e n. 7 del 2022 e precedenti ivi citati). 4.2.– Il censurato art. 34, comma 2, cod. proc. pen. disciplina la “incompatibilità orizzontale”, attinente alla relazione tra la fase del giudizio e quella che immediatamente la precede. Tale disposizione è costruita secondo la tecnica della casistica tassativa: «[n]on può partecipare al giudizio il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare o ha disposto il giudizio immediato o ha emesso decreto penale di condanna o ha deciso sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere». Essa è stata colpita, nel corso del tempo, da declaratorie di illegittimità costituzionale di tipo additivo, che hanno esteso l’operatività dell’istituto anche a ipotesi non espressamente contemplate. 4.3.– Nelle più recenti pronunce in materia, questa Corte ha indicato, per punti, quali siano le condizioni al ricorrere delle quali si possa configurare l’incompatibilità del giudice. Ha difatti affermato che, per ritenersi sussistente l’incompatibilità endoprocessuale del giudice, devono concorrere le seguenti condizioni: a) le preesistenti valutazioni cadano sulla medesima res iudicanda; b) il giudice sia stato chiamato a compiere una valutazione (e non abbia avuto semplice conoscenza) di atti anteriormente compiuti, strumentale all’assunzione di una decisione; c) quest’ultima abbia natura non “formale”, ma “di contenuto”, ovvero comporti valutazioni sul merito dell’ipotesi di accusa; d) la precedente valutazione si collochi in una diversa fase del procedimento (sentenze n. 172 e n. 91 del 2023 e n. 64 del 2022). 4.3.1.– Ove s’afferma che il giudice non possa esprimersi più volte sulla medesima res iudicanda, deve intendersi per “giudizio” ogni processo che, in base a un esame delle prove, pervenga a una decisione di merito: il giudizio dibattimentale, ma anche il giudizio abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta delle parti, l’udienza preliminare e talora l’incidente di esecuzione, nonché il decreto penale di condanna (da ultimo, sentenza n. 16 del 2022). All’interno di ciascuna delle fasi – intese come sequenze ordinate di atti che possono implicare apprezzamenti incidentali, anche di merito, su quanto in esse risulti, prodromici alla decisione conclusiva – va, in ogni caso, preservata l’esigenza di continuità e di globalità, venendosi altrimenti a determinare una frammentazione del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere (sentenza n. 64 del 2022 e precedenti ivi citati). 5.– Volgendo a esaminare le valutazioni che il GIP rimettente è stato (ed è) chiamato a effettuare nel caso odierno, si deve richiamare il dettato dell’art. 131-bis cod. pen., secondo cui il reato non è punibile quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, e «anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale»; lo stesso articolo esclude che la disciplina in parola possa applicarsi ove si proceda per taluni delitti (elencati al terzo comma) o al ricorrere di determinate circostanze (indicate al secondo comma). Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il giudizio sulla particolare tenuità del fatto richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 25 febbraio-6 aprile 2016, n. 13681). Oggetto di accertamento è, in effetti, la commissione del reato – che, per essere ritenuto di “particolare tenuità”, deve, com’è logico, ricorrere –; reato che si può decidere, tuttavia, di non punire poiché ha causato danni o pericoli non gravi. La Corte di legittimità qualifica, perciò, il fatto particolarmente lieve ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. come un fatto in ogni modo tipico, antigiuridico e colpevole (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 gennaio-12 maggio 2022, n. 18891). Questa Corte ha già avuto occasione di richiamare tali affermazioni, stabilendo, peraltro, che al giudice penale, che intenda prosciogliere per la particolare tenuità del fatto, deve riconoscersi la possibilità di pronunciarsi anche sulla domanda di risarcimento del danno (sentenza n. 173 del 2022). 5.1.– La decisione che riconosce la particolare tenuità del fatto può trovare ingresso lungo l’intero arco del procedimento: all’esito delle indagini preliminari, nella fase predibattimentale, o a seguito del dibattimento. In particolare, l’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. stabilisce che, «[s]e l’archiviazione è richiesta per particolare tenuità del fatto, il pubblico ministero deve darne avviso alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, precisando che, nel termine di dieci giorni, possono prendere visione degli atti e presentare opposizione in cui indicare, a pena di inammissibilità, le ragioni del dissenso rispetto alla richiesta. Il giudice, se l’opposizione non è inammissibile, procede ai sensi dell’articolo 409, comma 2, e, dopo avere sentito le parti, se accoglie la richiesta, provvede con ordinanza. In mancanza di opposizione, o quando questa è inammissibile, il giudice procede senza formalità e, se accoglie la richiesta di archiviazione, pronuncia decreto motivato. Nei casi in cui non accoglie la richiesta il giudice restituisce gli atti al pubblico ministero, eventualmente provvedendo ai sensi dell’articolo 409, commi 4 e 5». Sull’assunto che l’archiviazione per particolare tenuità del fatto possa avere effetti potenzialmente pregiudizievoli, sia per gli interessi della persona offesa, sia per l’interesse dell’indagato – che potrebbe mirare a ottenere l’archiviazione per causa più favorevole –, la legge ha inteso assicurare un pieno contraddittorio su questo possibile esito, che deve, per l’appunto, essere preannunciato in termini espliciti dal pubblico ministero (in tal senso, già Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 7 luglio-5 settembre 2016, n. 36857). Riconosciuti i tratti caratteristici di tale sequenza processuale, questa Corte ha, dunque, recentemente affermato che «una pronuncia di non punibilità ex art. 131-bis cod. pen., in qualunque fase procedimentale o processuale sia collocata, presuppone logicamente la valutazione che un reato, completo di tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi, sia stato commesso dalla persona sottoposta a indagini o dall’imputato» (sentenza n. 116 del 2023). 6.– Nel caso in esame, risulta sussistente ogni condizione richiesta dalla giurisprudenza di questa Corte affinché si configuri l’incompatibilità del giudice. 6.1.– È stata, infatti, assunta una prima decisione – cosiddetta “pregiudicante” – nell’ambito della quale, valutando le prove, il giudice ha respinto la richiesta di decreto penale di condanna, convincendosi che il fatto non fosse punibile, ex art. 131-bis cod. pen., per la sua particolare tenuità. Si deve ricordare che, nel procedimento per decreto, al momento di valutare la richiesta del pubblico ministero, il giudice effettua un esame completo dell’accusa, sotto i profili oggettivo e soggettivo; perciò, questa Corte ne ha affermato la natura di vero e proprio giudizio: il controllo demandato al GIP attiene, infatti, «non solo ai presupposti del rito, ma anche al merito dell’ipotesi accusatoria, postulando una verifica del fatto storico e della responsabilità dell’imputato» (sentenza n. 16 del 2022; così pure sentenza n. 346 del 1997). 6.2.– Poi, con la restituzione degli atti al pubblico ministero, s’è determinata la regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari, ricorrendo, così, la condizione della diversità della fase processuale (sentenze n. 16 del 2022 e n. 18 del 2017). 6.3.– Va, in ultimo, verificato se la sede decisoria che il rimettente assume “pregiudicata” dalla formazione del precedente convincimento sia qualificabile anch’essa come giudizio sulla responsabilità penale dell’imputato. Nel caso dell’opposizione all’archiviazione per particolare tenuità del fatto, la risposta è positiva. Sebbene, infatti, nelle tradizionali dinamiche dell’inazione, le decisioni del giudice abbiano natura sommaria e interlocutoria, connotando l’archiviazione come un procedimento dalla struttura agile, il provvedimento motivato dalla particolare tenuità del fatto è preceduto da compiute valutazioni sulla responsabilità penale dell’indagato e, di conseguenza, l’opposizione all’archiviazione per particolare tenuità del fatto possiede i caratteri di un giudizio che investe il merito dell’imputazione. Ciò risulta in modo chiaro da quanto già osservato supra (punto 5.1.) sull’oggetto dell’accertamento richiesto al GIP e sulle garanzie del contraddittorio previste dall’art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen. Perfettamente in linea con questi rilievi, la Corte di cassazione ha affermato che l’ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto emessa, ex art. 411, comma 1-bis, cod. proc. pen., a seguito di opposizione dell’indagato, è impugnabile con ricorso per cassazione per violazione di legge, ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost. (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 31 maggio-31 agosto 2023, n. 36468). Tale pronuncia, pur non avendo forma di sentenza, ha all’evidenza carattere decisorio e capacità di incidere, in via definitiva, su situazioni di diritto soggettivo; non essendo previsto altro mezzo d’impugnazione, è stata, dunque, riconosciuta la possibilità di ricorrere per cassazione per il vaglio sulla riforma di tale decisione. Va, inoltre, osservato che – proprio perché l’archiviazione ex art. 131-bis cod. pen. implica l’accertamento della commissione del reato – la Corte di legittimità ha stabilito che il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto debba essere iscritto nel casellario giudiziale, producendo così effetti diretti nella sfera soggettiva della persona indagata (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 30 maggio-24 settembre 2019, n. 38954): ai fini della valutazione della non abitualità del comportamento (elemento, questo, che deve sussistere affinché si possa dichiarare la particolare tenuità del fatto), è infatti necessario che vi sia “memoria” di altri eventuali reati commessi dal medesimo autore, già ritenuti non punibili ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. Per tutte queste ragioni, si deve ritenere che, trovandosi il giudice due volte a valutare lo stesso fatto criminoso, dapprima in sede di esame della richiesta di decreto penale di condanna e successivamente in sede di opposizione all’archiviazione per particolare tenuità del fatto, possa essere condizionato dalla decisione assunta in precedenza, in contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost., per il quale il processo si deve svolgere dinanzi a un giudice terzo e imparziale. L’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. va, pertanto, dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a decidere sull’opposizione all’archiviazione per particolare tenuità del fatto del giudice persona fisica che, nel rigettare la richiesta di decreto penale di condanna, abbia già espresso il proprio convincimento in ordine alla sussistenza della suddetta causa di esclusione della punibilità. 7.– Rimane assorbito l’esame dell’ulteriore censura riferita alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, CEDU. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità, a decidere sull’opposizione all’archiviazione per particolare tenuità del fatto, del giudice persona fisica che abbia rigettato la richiesta di decreto penale di condanna, ritenendo sussistere la suddetta causa di esclusione della punibilità; 2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 marzo 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Franco MODUGNO, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 600-ter, primo comma, numero 1), del codice penale, promosso dal Tribunale ordinario di Bologna, seconda sezione penale, nel procedimento a carico di P. B., con ordinanza del 15 settembre 2023 iscritta al n. 139 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2023. Udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2024 il Giudice relatore Filippo Patroni Griffi; deliberato nella camera di consiglio del 16 aprile 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 15 settembre 2023, iscritta al n. 139 del registro ordinanze 2023, il Tribunale ordinario di Bologna, seconda sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 600-ter, primo comma, numero 1), del codice penale, nella parte in cui non prevede, per il reato di produzione di materiale pornografico mediante l’utilizzazione di minori di anni diciotto (da ora in poi, anche: materiale pedopornografico), l’attenuante per i casi di minore gravità. 1.1.– Il giudice rimettente espone di dover giudicare su un’imputazione di produzione di materiale pedopornografico, reato che sarebbe stato commesso con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, nonché di adescamento di minori. In particolare, l’imputato, mediante l’utenza telefonica del padre e con uno pseudonimo, contattava ragazze minorenni, inviando foto dei propri organi genitali ed ottenendo da alcune delle interlocutrici, su sua richiesta, foto ritraenti i loro «organi sessuali secondari», così inducendo le vittime a inviargli materiale pedopornografico. 1.2.– In punto di rilevanza, il giudice a quo assume la diretta e attuale incidenza della censurata disposizione al fine di definire il giudizio. E ciò in quanto l’imputato è chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 600-ter, primo comma, numero 1), cod. pen., fattispecie nella quale rientrerebbe la condotta da questi tenuta di realizzazione di materiale pedopornografico tramite l’«utilizzazione» di ragazze minorenni all’epoca dei fatti. Nel caso in esame, però, si tratterebbe di condotte di minore gravità, come evincibile da una serie di elementi: la contenuta differenza di età tra l’imputato (appena diciottenne) e le persone offese (tredicenni e quattordicenni); l’oggetto delle immagini pedopornografiche, ritraenti unicamente «organi sessuali secondari»; l’assenza di finalità commerciali o divulgative; la mancanza di particolari tecniche di manipolazione psicologica o seduzione affettiva, o comunque pressioni subdole e infide sintomatiche di un più riprovevole sfruttamento della propria posizione di supremazia in termini di età ed esperienza, essendo, l’istigazione, avvenuta tramite un’opera di persuasione non connotata da particolare ostinazione o insidia (la produzione e l’inoltro delle fotografie avevano luogo, rispetto alla prima vittima, pressoché su semplice richiesta, pur preceduta dall’inganno sull’età, e, rispetto alla seconda, a seguito di mera richiesta, «sia pure “insistente”», da parte dell’imputato). 1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva che l’art. 600-ter, primo comma, numero 1), cod. pen., prevedendo quale trattamento sanzionatorio la reclusione da sei a dodici anni e la multa da 24.000 a 240.000 euro, senza prevedere attenuanti in casi di minore gravità, violerebbe gli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost. Innanzitutto, viene sostenuta l’irragionevolezza del trattamento sanzionatorio che, nella sua eccesiva severità, precluderebbe al giudice di adeguare la sanzione al caso concreto, mitigando la risposta punitiva, assai severa, in presenza di elementi oggettivi – relativi a mezzi, modalità esecutive, grado di compressione della dignità e del corretto sviluppo sessuale della vittima, condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima anche in relazione all’età, occasionalità o reiterazione delle condotte e consistenza del danno arrecato, anche in termini psichici – indicatori di una minore gravità del fatto. La formulazione della censurata disposizione, che include nel proprio ambito applicativo situazioni significativamente diverse sul piano del grado di offesa al bene giuridico tutelato, in assenza della previsione di una “valvola di sicurezza”, non consentirebbe, dunque, l’irrogazione di una pena adeguata al caso concreto. Né sarebbe di ausilio l’eventuale applicazione delle attenuanti generiche, che, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale (è citata la sentenza n. 63 del 2022), sono volte a mitigare la misura della pena in presenza di taluni indicatori soggettivi e oggettivi e non a correggere l’eventuale sproporzione dei minimi edittali. La disposizione censurata violerebbe, inoltre, i princìpi di personalità della responsabilità penale e della finalità rieducativa della pena, sanciti rispettivamente dal primo e terzo comma dell’art. 27 Cost., in quanto la sproporzione derivante dall’omissione censurata, da un lato, ostacolerebbe l’individualizzazione della pena, corollario del carattere personale della responsabilità penale, e, dall’altro, ne svilirebbe la funzione rieducativa posto che una pena sproporzionata rischia di venire percepita dal condannato come ingiusta. Per tali ragioni, il rimettente ritiene doversi estendere alla disposizione censurata la possibile attenuazione in misura non eccedente i due terzi, per i casi di minore gravità, già prevista per le figure delittuose di violenza sessuale e atti sessuali con minorenne di cui agli artt. 609-bis e 609-quater cod. pen. 2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri non è intervenuto in giudizio e in esso non si è costituito l’imputato. Considerato in diritto 1.– Con ordinanza iscritta al n. 139 del registro ordinanze 2023, il Tribunale di Bologna, seconda sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 600-ter, primo comma, numero 1), cod. pen., nella parte in cui non prevede, per il reato di produzione di materiale pedopornografico, l’attenuante per i casi di minore gravità. 1.1.– Il rimettente espone di dover giudicare su un’imputazione di produzione di materiale pedopornografico, sottolineando che la condotta oggetto di imputazione debba considerarsi di minore gravità, alla luce di una serie di elementi: la contenuta differenza di età tra l’imputato (appena diciottenne) e le persone offese (tredicenni e quattordicenni), l’oggetto delle immagini pedopornografiche, ritraenti unicamente «organi sessuali secondari», l’assenza di finalità commerciali o divulgative, la mancanza di particolari tecniche di manipolazione psicologica o seduzione affettiva, o comunque pressioni subdole e infide sintomatiche di un più riprovevole sfruttamento della propria posizione di supremazia in termini di età ed esperienza, essendo l’istigazione avvenuta tramite un’opera di persuasione non connotata da particolare ostinazione o insidia (la produzione e l’inoltro delle fotografie avevano luogo, rispetto alla prima vittima, pressoché su semplice richiesta, pur preceduta dall’inganno sull’età, e, rispetto alla seconda, a seguito di mera richiesta, «sia pure “insistente”», da parte dell’imputato). Il giudice a quo si duole dell’irragionevolezza del trattamento sanzionatorio sancito dall’art. 600-ter, primo comma, numero 1), cod. pen. che, nella sua eccesiva severità e in assenza di una “valvola di sicurezza”, anche in considerazione della significativa asprezza del minimo edittale (pari a sei anni di reclusione), gli precluderebbe di graduare il trattamento punitivo; gli sarebbe impedito, quindi, di adeguare la sanzione al caso concreto in presenza di elementi oggettivi – relativi a mezzi, modalità esecutive, grado di compressione della dignità e del corretto sviluppo sessuale della vittima, condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima anche in relazione all’età, occasionalità o reiterazione delle condotte e consistenza del danno arrecato, anche in termini psichici – indicatori di una minore gravità del fatto. La disposizione censurata violerebbe, inoltre, i princìpi di personalità della responsabilità penale e della finalità rieducativa della pena, sanciti rispettivamente dal primo e terzo comma dell’art. 27 Cost., in quanto la sproporzione derivante dall’omissione censurata, da un lato, ostacolerebbe l’individualizzazione della pena, corollario del carattere personale della responsabilità penale, e, dall’altro, ne svilirebbe la funzione rieducativa posto che una pena sproporzionata rischia di venire percepita dal condannato come ingiusta. Per tali ragioni, il rimettente ritiene doversi estendere alla disposizione censurata la possibile attenuazione in misura non eccedente i due terzi, per i casi di minore gravità, già prevista per le figure delittuose di violenza sessuale e di atti sessuali con minorenne di cui agli artt. 609-bis e 609-quater cod. pen. 2.– Le questioni – aventi ad oggetto il solo reato di produzione di materiale pedopornografico, con esclusione quindi della diversa fattispecie di realizzazione di esibizioni o spettacoli pornografici prevista dal medesimo numero 1) del primo comma dell’art. 600-ter cod. pen. – sono fondate. 3.– Per costante giurisprudenza costituzionale, le valutazioni discrezionali di dosimetria della pena – in quanto massima espressione di politica criminale – spettano al legislatore, con il solo limite delle scelte sanzionatorie che si rivelino arbitrarie o manifestamente irragionevoli (ex multis, tra le ultime, sentenze n. 46 del 2024, n. 120 del 2023, n. 260 e n. 95 del 2022, n. 62 del 2021). Nella perimetrazione del proprio sindacato di legittimità costituzionale, questa Corte, quanto meno a partire dalla sentenza n. 343 del 1993, ha sviluppato un modello di sindacato sulla proporzionalità “intrinseca” della pena, in modo da assicurare che questa sia adeguatamente calibrata sul fatto concreto; e ciò anche indipendentemente dalla individuazione di un preciso tertium comparationis alla cui luce condurre lo scrutinio di proporzionalità (si vedano, più di recente, tra le altre, le sentenze n. 136 del 2020 e n. 284 del 2019). In particolare, nello scrutinio di legittimità costituzionale sulla proporzionalità della pena, assume rilievo centrale la formulazione particolarmente ampia della disposizione censurata, la cui latitudine normativa sia tale da ricomprendere fattispecie significativamente diversificate sul piano criminologico e del tasso di disvalore; e proprio in tali ipotesi è stata sottolineata la necessità di prevedere delle diminuenti al fine di garantire la possibilità di graduare e individualizzare la sanzione rispetto allo specifico disvalore della singola condotta e assicurare il rispetto dei princìpi fissati dagli artt. 3 e 27 Cost. (ex multis, sentenze n. 120 del 2023, n. 244 del 2022, n. 117 del 2021, n. 88 del 2019, n. 106 del 2014 e n. 68 del 2012). In alcune ipotesi è stata, altresì, presa in considerazione l’eccessiva asprezza del minimo editale, idonea, in quanto tale, a precludere al giudice di graduare la sanzione per adattarla al caso concreto e allo specifico disvalore della condotta incriminata (ex multis, sentenze n. 46 del 2024, n. 120 del 2023, n. 244 e n. 63 del 2022, n. 143 del 2021 e n. 68 del 2012). 3.1.– Entrambi i profili – estesa latitudine normativa e minimo edittale particolarmente elevato – sono stati valorizzati, da ultimo, dalla sentenza n. 120 del 2023, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 629 cod. pen. – per violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. – nella parte in cui non prevedeva una diminuzione di pena (in misura non eccedente un terzo) quando, per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risultasse di lieve entità; e ciò sulla base della considerazione che «la mancata previsione di una “valvola di sicurezza” che consenta al giudice di modulare la pena, onde adeguarla alla gravità concreta del fatto estorsivo, può determinare l’irrogazione di una sanzione non proporzionata ogni qual volta il fatto medesimo si presenti totalmente immune dai profili di allarme sociale che hanno indotto il legislatore a stabilire per questo titolo di reato un minimo edittale di notevole asprezza». Richiamando anche la sentenza n. 68 del 2012 – che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen., nella parte in cui non prevedeva una diminuzione di pena per il fatto di lieve entità – è stato altresì rimarcato che la disposizione era «capace di includere nel proprio ambito applicativo “episodi marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, rispetto a quelli avuti di mira dal legislatore dell’emergenza”». Analoghe considerazioni sono alla base della sentenza n. 244 del 2022, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., dell’art. 167, primo comma, del codice penale militare di pace (che punisce il cosiddetto sabotaggio militare), nella parte in cui non prevedeva che la pena potesse essere diminuita se il fatto di rendere temporaneamente inservibili, in tutto o in parte, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle Forze armate dello Stato poteva essere in concreto considerato, per la particolare tenuità del danno causato, di lieve entità. Al di là delle argomentazioni legate alla specificità della fattispecie, anche in tale caso questa Corte ha posto in rilievo tanto la «tessitura semantica particolarmente lata delle espressioni utilizzate dal legislatore» – idonea a includere anche fatti di lieve entità (in relazione in particolare alla modestia del pregiudizio cagionato alla efficienza operativa delle res oggetto della condotta) – quanto la eccezionale asprezza del minimo edittale. Ha dunque concluso che la disposizione censurata poteva condurre a un trattamento sanzionatorio «manifestamente sproporzionato rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto, e comunque incapace di adeguarsi al suo concreto disvalore, con pregiudizio allo stesso principio di individualizzazione della pena e alla sua necessaria funzione rieducativa». 4.– Alla luce delle coordinate giurisprudenziali sopra riportate, le questioni di legittimità costituzionale – come si è detto – si rivelano fondate con riferimento a tutti i parametri evocati. 5.– Il primo comma, numero 1), dell’art. 600-ter cod. pen. punisce, con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 24.000 a euro 240.000, chi, utilizzando minori di anni diciotto, produce materiale pornografico. Con la stessa pena edittale sono punite, ai sensi del medesimo art. 600-ter cod. pen., altre condotte, quali la realizzazione di esibizioni o spettacoli pornografici mediante l’utilizzazione di minori di anni diciotto (primo comma, numero 1) ovvero il reclutamento o l’induzione di minori di anni diciotto a partecipare a esibizioni o spettacoli pornografici ovvero il trarre profitto dai suddetti spettacoli (primo comma, numero 2), o, ancora, il commercio del materiale pedopornografico di cui al primo comma (secondo comma). Per converso, sono sanzionate con pene edittali minori condotte che possono avere un disvalore non inferiore rispetto alla mera produzione del materiale pedopornografico, soprattutto se la stessa sia realizzata in maniera tale da mantenere il materiale prodotto nella sfera privata di colui che lo produce. Si pensi alla distribuzione, divulgazione, diffusione e pubblicizzazione del predetto materiale pedopornografico, o anche alla distribuzione e divulgazione di notizie o informazioni finalizzate all’adescamento o allo sfruttamento sessuale di minori (terzo comma), condotte punite con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 2.582 a euro 51.645. Ma è all’interno della medesima fattispecie della produzione del materiale pedopornografico che possono essere ricomprese condotte e modalità esecutive del reato assai eterogenee tra loro. Con la conseguenza che, in tale contesto, la mancata previsione di una “valvola di sicurezza” che consenta al giudice di modulare la pena, onde adeguarla alla concreta gravità della singola condotta, può determinare l’irrogazione di una sanzione non proporzionata, in quanto la formulazione normativa del censurato art. 600-ter, primo comma, numero 1), cod. pen., nella sua ampiezza, è idonea a includere, nel proprio ambito applicativo, condotte marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, alcune delle quali anche estranee alla ratio sottesa alla severa normativa in materia di pedopornografia; situazione resa più delicata, sul piano della legittimità costituzionale, da una cornice edittale del reato caratterizzata – proprio nella giusta considerazione del disvalore di tale tipologia di reati e per i pericoli agli stessi correlati – da un minimo di significativa asprezza. 6.– Invero, la perimetrazione del reato di produzione di materiale pedopornografico previsto dall’art. 600-ter, primo comma, numero 1), cod. pen. è particolarmente ampia. La disposizione si caratterizza per una notevole latitudine descrittiva («utilizzando minori […] produce materiale pornografico»), atta a coinvolgere una vasta gamma di condotte dal diversificato disvalore, idonee cioè a compromettere il bene giuridico tutelato in maniera profondamente differente. La norma, d’altronde, colpisce indistintamente condotte relative all’utilizzazione di minori di anni diciotto, senza operare alcuna graduazione (come, invece, avviene, ad opera dell’art. 609-quater cod. pen.) in base ad una serie di elementi idonei ad incidere sul disvalore della condotta e sul pregiudizio del bene giuridico tutelato, quali, ad esempio, l’età della vittima, il rapporto tra quest’ultima e l’agente o la differenza di età tra i due, o, ancora, il contenuto delle immagini prodotte; essendo peraltro irrilevante, perché sia integrato il reato in parola, che la produzione del materiale sia destinato alla successiva distribuzione, divulgazione o diffusione: condotte, queste, sanzionate come fattispecie autonome dal terzo comma, peraltro (come già ricordato) con una cornice edittale minore. 6.1.– Per comprenderne l’attuale formulazione, va considerato che la disposizione censurata è stata oggetto di una significativa evoluzione normativa e giurisprudenziale, volta al rafforzamento della prevenzione e della repressione di un reato di particolare gravità, sia che si abbia riguardo alla sfera psico-emotiva e quindi allo sviluppo della personalità del minore, sia per il pericolo che il reato in questione, al pari di altre condotte sanzionate nella stessa disposizione incriminatrice, possa favorire un sistema criminale che faccia leva sull’uso dei minori per illecite finalità di ordine lato sensu sessuale. In particolare, la legge 6 febbraio 2006, n. 38 (Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet), nel modificare l’art. 600-ter cod. pen., ha eliminato, per la configurazione del reato, il riferimento allo “sfruttamento” del minore, sostituendolo con la nozione di “utilizzazione”, nonché la finalità «di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre materiale pornografico». Come chiarito dalla Corte di cassazione, tale modifica ha comportato, per un verso, che per la consumazione dei delitti sia sufficiente l’utilizzazione dei minori per la produzione di esibizioni o di materiale pornografico, a prescindere da qualsiasi finalità lucrativa o commerciale, per un altro verso, che per l’individuazione dell’elemento soggettivo debba farsi riferimento al dolo generico (occorrendo, comunque, la consapevolezza che i soggetti utilizzati siano minorenni) e non più al dolo specifico richiesto in passato (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 31 maggio - 15 novembre 2018, n. 51815). Inoltre, con la legge 1° ottobre 2012, n. 172 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno), è stata introdotta la nozione di pornografia minorile, con essa intendendosi «ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto per scopi sessuali». A fronte di una formulazione così «volutamente molto ampia», è stato di conseguenza ritenuto che, per la qualificazione del materiale rappresentativo come pedopornografico, sia sufficiente «“ogni rappresentazione”, realizzata “con qualunque mezzo”, e soprattutto oggettiva, da cui deriva la definizione giuridica di materiale pedopornografico, intendendosi per questo qualunque rappresentazione del minore che ne effigi la nudità con finalità sessuale o che ne ritragga il coinvolgimento in atti sessuali» (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 8 giugno-19 luglio 2018, n. 33862) e che l’accertamento del reato prescinda da qualsivoglia soglia quantitativa, rientrando nel concetto di “materiale” qualsiasi rappresentazione pedopornografica di un minore, anche se costituita solo da poche foto o addirittura da una sola immagine (Cass., sez. un., n. 51815 del 2018; Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 11 maggio-13 ottobre 2023, n. 41572). Infine, la Corte di cassazione – alla luce delle modifiche normative intervenute nel tempo e dei mutamenti del contesto tecnologico e dello sviluppo del web – ha mutato orientamento sulla stessa natura del reato di cui all’art. 600-ter cod. pen. Diversamente da quanto sostenuto in passato, la medesima Corte ha, infatti, escluso la necessità dell’accertamento del pericolo concreto della diffusione del materiale prodotto nel perverso circuito della pedofilia, in quanto – essendo ormai insita nei nuovi strumenti tecnologici la potenzialità diffusiva di qualsiasi produzione di immagini o video, sì da rendere anacronistico il presupposto del pericolo concreto di diffusione del materiale realizzato – ha ritenuto che la produzione comporti in re ipsa il pericolo di diffusione (Cass., sez. un., n. 51815 del 2018; da ultimo, Cass., n. 41572 del 2023). 6.2.– Se dunque la disposizione censurata è stata oggetto di un’evoluzione normativa e giurisprudenziale che ne ha, in parte, ampliato l’ambito di applicazione, per le giuste finalità di prevenzione e repressione di questo reato e dei reati consimili, al contempo deve ritenersi che è proprio tale ampliamento a far emergere, sul piano della legittimità costituzionale, la necessità di una “valvola di sicurezza” che, fermo il minimo edittale elevato che il legislatore nella sua discrezionalità ha voluto porre, consenta al giudice comune, attraverso la previsione di un’attenuante speciale, di graduare e “personalizzare” la pena da irrogare in concreto con riferimento ai casi di minore gravità, al fine di assicurare la proporzionalità della sanzione in una con la individualizzazione della pena e la sua finalità rieducativa. Questa Corte, d’altro canto, già in precedenti occasioni ha tenuto conto dell’evoluzione normativa delle disposizioni prese in esame al fine di affermare la necessità di assicurare una “valvola di sicurezza” (per esempio, con riferimento all’art. 609-bis cod. pen., la cui evoluzione normativa è stata presa in considerazione nelle pronunce n. 106 del 2014 e n. 325 del 2005, per garantire la proporzionalità della pena dopo la concentrazione in un unico reato di condotte dalla marcata differente portata lesiva del medesimo bene giuridico; ma anche con riferimento agli artt. 629 e 630 cod. pen., rispettivamente esaminati dalle già citate sentenze n. 120 del 2023 e n. 68 del 2012). 7.– I rilevati profili di contrasto con i princìpi costituzionali di cui agli artt. 3 e 27 Cost., in conseguenza della mancata previsione della diminuente, si palesano ancor più considerando l’asprezza del minimo edittale, pari a sei anni; asprezza già ravvisata da questa Corte per il minimo edittale pari a cinque anni di reclusione per il reato di estorsione nonché per il minimo edittale di otto anni di reclusione stabilito dall’art. 167, primo comma, cod. pen. mil. pace (rispettivamente nelle già citate sentenze n. 120 del 2023 e n. 244 del 2022). Né può assumere alcun rilievo, al fine di escludere il vulnus ai princìpi costituzionali evocati, che la pena del reato in esame potrebbe essere comunque mitigata tramite l’applicazione delle circostanze attenuanti comuni, giacché, come già chiarito dalla costante giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 46 del 2024, n. 120 del 2023 e n. 63 del 2022), tali attenuanti hanno la funzione di adeguare la misura concreta della pena in forza di una serie di elementi, anche di ordine soggettivo, e non anche quella di correggere di fatto la mancanza di proporzionalità della pena quale deriva da un minimo edittale particolarmente significativo e dalla mancata previsione di una diminuente che, peraltro, il legislatore contempla per fattispecie di reato simili. 8.– D’altronde, il caso concreto all’esame del giudice a quo è emblematico delle irragionevoli conseguenze che possono derivare dall’assenza di una “valvola di sicurezza” che consenta al giudice di sanzionare in maniera proporzionata una condotta che – secondo quanto rilevato dal rimettente – potrebbe essere riconducibile, pur nel suo innegabile disvalore, a un’ipotesi di minore gravità, alla luce di una pluralità di elementi, individuati dal giudice a quo – nella valutazione di sua esclusiva pertinenza – nella contenuta differenza di età tra l’imputato e le persone offese, nell’oggetto delle immagini pedopornografiche scambiate e nell’assenza di particolari tecniche di pressione, manipolazione psicologica o seduzione affettiva. 9.– Tutto quanto sin qui esposto conduce in definitiva a ritenere sussistente la violazione del principio di proporzionalità della pena desumibile dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., con pregiudizio anche del principio di individualizzazione della stessa, alla luce del carattere «personale» della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.). 10.– Per l’individuazione della diminuente, questa Corte ritiene ragionevole fare riferimento – come peraltro richiesto dal giudice a quo – alla figura delittuosa di cui all’art. 609-quater cod. pen., che presenta significativi tratti in comune con quella ora all’esame, mirando anch’essa a tutelare il libero e armonico sviluppo della personalità del minore nella sfera sessuale. Tale figura delittuosa prevede la medesima cornice sanzionatoria dell’art. 600-ter cod. pen., ma al tempo stesso dispone che, nei casi di minore gravità, la pena sia diminuita in misura non eccedente i due terzi. Siffatta soluzione sanzionatoria, già esistente nell’ordinamento, costituisce una soluzione costituzionalmente adeguata (ex multis, sentenze n. 6 del 2024, n. 95 e n. 28 del 2022 e n. 63 del 2021), idonea a porre rimedio al vulnus riscontrato. Ciò ovviamente non esclude – secondo i princìpi – una generale riconsiderazione da parte del legislatore della tematica in esame, sotto il profilo sistematico delle fattispecie criminose, delle norme incriminatrici e dei trattamenti sanzionatori; riconsiderazione sistematica che dovrà ovviamente tener conto dei canoni costituzionali di proporzionalità e di individualizzazione della pena. Va, infine, sottolineato che l’invocata diminuente potrà trovare ragionevole giustificazione limitatamente alle ipotesi di disvalore significativamente inferiore a quello normalmente associato alla realizzazione di un fatto conforme alla figura astratta del reato, trattandosi di condotta che incide comunque sull’equilibrato sviluppo e sul benessere psicofisico del minore, nonché sulla sua libertà sessuale e sulla sua dignità. Al fine della sua applicazione è quindi richiesta, da parte del giudice del caso concreto, una prudente valutazione globale del fatto – in cui assumono rilievo le modalità esecutive e l’oggetto delle immagini pedopornografiche, il grado di coartazione esercitato sulla vittima (anche in riferimento alla mancanza di particolari tecniche di pressione e manipolazione psicologica o seduzione affettiva), nonché le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, pure in relazione all’età (e alla contenuta differenza con l’età del reo) e al danno, anche psichico, arrecatole – in applicazione anche dei criteri adottati dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento all’attenuante di minore gravità del reato di atti sessuali con minorenne (di recente, Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenze 10 maggio - 24 ottobre 2023, n. 43225 e 24 novembre 2022 - 1 marzo 2023, n. 8735). In tale valutazione particolare rilievo assumerà, infine, l’estraneità della condotta incriminata rispetto a quei profili di particolare allarme sociale – ovverosia la riconducibilità del fatto, o anche solo la sua mera contiguità, al circuito della diffusione di immagini o video pedopornografici e, a maggior ragione, al relativo mercato – che hanno indotto il legislatore a stabilire per questo titolo di reato un minimo edittale di notevole asprezza e, più in generale, a colpire qualsiasi condotta comunque idonea ad alimentare l’offerta di pornografia minorile destinata al relativo mercato, mercato che è all’origine dello sfruttamento sessuale dei minori. 11.– Alla luce di quanto sin qui detto, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 600-ter, primo comma, numero 1), cod. pen., per violazione degli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., nella parte in cui non prevede, per il reato di produzione di materiale pornografico mediante l’utilizzazione di minori di anni diciotto, che nei casi di minore gravità la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente i due terzi. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 600-ter, primo comma, numero 1), del codice penale, nella parte in cui non prevede, per il reato di produzione di materiale pornografico mediante l’utilizzazione di minori di anni diciotto, che nei casi di minore gravità la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente i due terzi. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 aprile 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Filippo PATRONI GRIFFI, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 4, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 (Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), promosso dal Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente tra M. Z. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 6 dicembre 2022, iscritta al n. 131 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2023. Visti l’atto di costituzione dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 9 aprile 2024 il Giudice relatore Giovanni Amoroso; uditi gli avvocati Mauro Sferrazza e Massimo Boccia Neri per l’INPS, nonché l’avvocato dello Stato Pietro Garofoli per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 10 aprile 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 6 dicembre 2022 (r. o. n. 131 del 2023), il Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in rifermento agli artt. 3, 4, primo comma, 36 e 41 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 4, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 (Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui prevede, senza possibilità di valutare il caso concreto, l’obbligo di restituire l’intera anticipazione della Nuova assicurazione sociale per l’impiego (d’ora in avanti: NASpI) se il beneficiario stipuli un contratto di lavoro subordinato entro il termine di scadenza del periodo per cui l’indennità è riconosciuta. 1.1.– In punto di fatto, il rimettente riferisce che, a seguito dell’interruzione del rapporto di lavoro in ragione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e del conseguente stato di disoccupazione involontaria, il lavoratore aveva domandato la liquidazione anticipata dell’indennità NASpI, a lui spettante fino al 28 maggio 2021, al fine di intraprendere l’attività imprenditoriale di esercizio commerciale (un bar). La domanda veniva accolta, in data 23 settembre 2019, e gli importi, che sarebbero spettati con cadenza mensile, gli venivano versati in una unica soluzione. Il rimettente riferisce, altresì, che nel giudizio a quo il ricorrente ha prodotto la dichiarazione dei redditi per l’anno 2019 e per l’anno 2020, e che da quest’ultima era risultata la mancanza di redditi conseguente alla chiusura del bar stabilita dalla decretazione d’urgenza a causa della pandemia da COVID-19 esplosa nell’anno 2020. Per tale ragione il ricorrente aveva deciso di non proseguire l’attività di impresa e iniziato, in data 15 febbraio 2021, un nuovo rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. L’azienda era stata ceduta in data 30 aprile 2021, per un corrispettivo molto inferiore a quello pagato inizialmente per rilevarla (quasi un decimo del prezzo di acquisto). Avendo il lavoratore costituito il rapporto di lavoro subordinato (il 15 febbraio 2021) prima che spirasse il termine coperto dalla NASpI (28 maggio 2021), l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con missiva del 5 ottobre 2021, gli chiedeva la restituzione dell’intero importo erogato a titolo di anticipata liquidazione della NASpI, pari a 19.796,90 euro. Il lavoratore, pertanto, proponeva opposizione avverso tale richiesta chiedendo l’accertamento della non debenza dell’asserito indebito, oggetto della ripetizione pretesa dall’Istituto. L’INPS si costituiva affermando che la propria pretesa era fondata sull’art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 22 del 2015. Su sollecitazione della parte ricorrente il rimettente ha sollevato le questioni di legittimità costituzionale della disposizione indicata. 1.2.– In punto di rilevanza, nell’ordinanza si dà atto che – avendo il ricorrente ottenuto l’anticipazione dell’intero trattamento NASpI, nella sussistenza dei requisiti di legge, quali la cessazione involontaria del rapporto di lavoro e la relativa pregressa contribuzione – la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato durante il periodo al quale si riferisce la NASpI comporta l’obbligo restitutorio dell’intera somma percepita in ragione della testuale applicazione dell’art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 22 del 2015. Infatti, l’inizio del rapporto di lavoro si colloca al 15 febbraio 2021, ovvero nel periodo coperto dall’indennità di disoccupazione, la cui spettanza si sarebbe protratta fino al 28 maggio 2021. Pertanto, in caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale di tale disposizione, verrebbe meno il fondamento della pretesa restitutoria vantata dall’INPS. Da ciò, la rilevanza delle questioni sollevate. In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente dà atto che questa Corte, con sentenza n. 194 del 2021, ha già scrutinato la disposizione censurata dichiarando non fondata la relativa questione, che, però, avrebbe riguardato un caso non assimilabile a quello in esame. In particolare, nel caso già esaminato, il lavoratore aveva costituito un rapporto di lavoro subordinato, sia pure per la durata di pochi giorni, in costanza dello svolgimento dell’attività di impresa. Pertanto, i principi affermati nella predetta sentenza non sarebbero applicabili al caso in esame, in quanto il ricorrente ha effettivamente intrapreso e poi svolto un’attività imprenditoriale (un esercizio commerciale di ristoro), sopportando anche notevoli costi per rilevare un’azienda, salvo dovervi poi rinunciare di fronte ad un evento assolutamente imprevedibile quale è stata l’emergenza pandemica. Ad avviso del rimettente, la disposizione oggetto di censura si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza, per un duplice aspetto; da un lato, nei casi di impossibilità sopravvenuta dello svolgimento dell’attività di impresa, la disposizione censurata evidenzierebbe una incoerenza tra l’integrale restituzione dell’indennità percepita e l’effettivo svolgimento dell’attività di impresa; ed analoga incoerenza sussisterebbe sotto il profilo della sproporzione degli effetti. In particolare, il rimettente evidenzia che nella fattispecie il ricorrente ha acquistato l’attività commerciale da un terzo per un costo pari a quarantacinquemila euro, somma superiore all’importo anticipato dall’INPS; l’attività, poi, è stata esercitata per oltre un anno tra il 2019 e il 2021, ma la pandemia per COVID-19, manifestatasi all’inizio del 2020, ha inciso negativamente sulla redditività degli esercizi pubblici; ciò era dimostrato, nella specie, dalla mancanza di reddito per l’anno 2020 (essendo stato documentato che i ricavi sono stati pari a 4.414 euro, e dunque superati dai costi). La costituzione del rapporto di lavoro subordinato tre mesi prima della scadenza del periodo di NASpI si giustificava con l’esigenza del ricorrente di procurarsi un reddito per elementari esigenze di sussistenza. Osserva il rimettente che l’integrale restituzione dell’indennità percepita non può trovare ragionevole giustificazione nella finalità antielusiva quando sia dimostrato, come nel caso di specie, che l’attività imprenditoriale è stata iniziata e proseguita anche con l’impiego di capitali rilevanti, per poi interrompersi a seguito di un evento imprevedibile, nella specie la pandemia legata alla diffusione del COVID-19, che ha obbligato i titolari di esercizi commerciali alla chiusura degli stessi per periodi non trascurabili. Quanto all’assenza di proporzionalità della reazione legislativa, il rimettente evidenzia che nella sentenza n. 194 del 2021 questa Corte ha sì evidenziato come la scelta del legislatore «fosse stata esercitata in modo non manifestamente irragionevole», precisando altresì che «sarebbe possibile ipotizzare criteri alternativi, connotati, da una qualche flessibilità». In definitiva – secondo il giudice a quo – la restituzione integrale dell’anticipata liquidazione della NASpI rappresenterebbe una conseguenza irragionevole nella sua rigidità, che non lascia né all’INPS né al giudice alcun margine di valutazione in relazione al caso concreto. Con specifico riferimento alla fattispecie in esame, il rimettente afferma che la disposizione censurata, nel prevedere l’integrale restituzione della somma anticipata sarebbe comunque irragionevole, in quanto l’importo anticipato è stato interamente utilizzato al fine di acquistare l’attività economica, con la conseguenza che la restituzione integrale risulterebbe eccessivamente gravosa, anche alla luce delle perdite già subite dal ricorrente, il quale ha venduto l’attività per un prezzo molto inferiore a quello di acquisto. Inoltre, la sproporzione emergerebbe anche dalla considerazione della brevità del periodo del rapporto di lavoro subordinato, ricadente in quello della NASpI (soli tre mesi dalla sua scadenza). Sussisterebbe anche la violazione dell’art. 4, primo comma, Cost., che tutela il diritto al lavoro nelle sue declinazioni di lavoro dipendente (art. 36 Cost.) e di lavoro autonomo (art. 41 Cost.). Al riguardo, il rimettente osserva che la disposizione censurata impedisce per i percettori dell’indennità anticipata, la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato per tutto il periodo in cui viene corrisposta la NASpI, a pena della restituzione integrale dell’importo ricevuto. Si tratta, a suo giudizio, di una inammissibile deroga all’art. 4, primo comma, Cost. che riconosce in generale il diritto al lavoro. Sussisterebbe, altresì, il contrasto con l’art. 36 Cost., in quanto per effetto della disposizione in esame, il soggetto percettore dell’indennità anticipata si troverebbe davanti alla scelta di rinunciare allo svolgimento di attività retribuita al fine di evitare di restituire l’importo ricevuto, privandosi del reddito necessario per la sua sussistenza. Infine, vi sarebbe il contrasto con l’art. 41 Cost., in relazione al principio della libera imprenditorialità che va riconosciuta anche ai soggetti percettori della NASpI anticipata. In conclusione, secondo il rimettente, l’incidenza della emergenza pandemica sulla concreta possibilità di proseguire l’attività imprenditoriale costituisce un argomento che richiede un nuovo intervento di questa Corte sulla disposizione censurata, nella parte in cui prevede l’obbligo di integrale restituzione dell’importo anticipato, senza criteri di flessibilità che permettano di adeguare la decisione al caso concreto. 2.– Con atto depositato il 30 ottobre 2023, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, non fondate. 2.1.– L’Avvocatura, in primo luogo, eccepisce l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, in quanto l’ordinanza di rimessione mirerebbe a introdurre un precetto vago, non connotato da precisione e tassatività, che imporrebbe all’INPS una valutazione estremamente discrezionale circa la dimostrazione, da parte del beneficiario della prestazione, tanto della reale iniziativa e prosecuzione dell’attività economica, quanto dei motivi che abbiano eventualmente condotto alla chiusura dell’esercizio. In particolare, la difesa statale evidenzia che la decisione in ordine all’an e al quantum della restituzione dell’anticipazione erogata sarebbe subordinata al riscontro di fattori eccezionali, identificati dalle nozioni di impossibilità sopravvenuta e di evento imprevedibile, così come indicato nell’ordinanza di rimessione. A tal riguardo, richiamando la citata sentenza n. 194 del 2021, la difesa statale afferma che il temporaneo vincolo in costanza di svolgimento dell’attività imprenditoriale, per la quale è stata corrisposta l’anticipazione, non impedirebbe al lavoratore di svolgere anche altre attività di lavoro autonomo. Nel merito, l’Avvocatura afferma che, in riferimento alla violazione del parametro costituzionale di cui all’art. 3 Cost., la questione è già stata ritenuta non fondata nella richiamata sentenza n. 194 del 2021. Nello specifico, deduce che l’eventuale necessitata cessazione dell’attività imprenditoriale rientra nell’ambito del normale rischio di impresa che grava su ogni imprenditore. La difesa statale osserva poi che, proprio per far fronte all’emergenza pandemica, il legislatore ha previsto misure a sostegno di tutti i lavoratori danneggiati da tale evento eccezionale e in situazione di debolezza economica, come tali meritevoli di tutela (lavoratori autonomi, collaboratori coordinati e continuativi, artigiani, commercianti e professionisti). Si tratta degli interventi di cui agli artt. 27, 28, 44 e 44-bis del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2020, n. 27; agli artt. 78 e 84 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77; e, inoltre, di cui agli artt. 9 e 13 del decreto-legge 14 agosto 2020, n. 104 (Misure urgenti per il sostegno e il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, in legge 13 ottobre 2020, n. 126, e di cui all’art. 15 del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137 (Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 18 dicembre 2020, n. 176. Con specifico riferimento alle attività imprenditoriali, rilevano, poi, i contributi a fondo perduto previsti dall’art. 25 del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, e dall’art. 1 del d.l. n. 137 del 2020, come convertito. Ad avviso della difesa statale, gli effetti negativi derivati dalla pandemia non possono configurarsi come eventi di forza maggiore idonei a liberare i soggetti dalle obbligazioni restitutorie sorte nell’ambito di rapporti giuridici ordinari. Infine, l’Avvocatura evidenzia la non fondatezza anche delle censure riferite alla violazione dell’art. 4, primo comma, Cost., in quanto la norma non prevede alcun divieto di assumere un rapporto di lavoro subordinato, ma prevede solo l’obbligo di restituire l’incentivo erogato per intraprendere l’attività di lavoro autonomo. La disposizione censurata sarebbe coerente anche con gli artt. 36 e 41 Cost., dal momento che la ratio ad essa sottesa è conforme alle politiche di contrasto della disoccupazione e di incremento dell’occupazione, come affermato nella sentenza n. 194 del 2021. 3.– Con atto depositato il 27 ottobre 2023, l’INPS si è costituito in giudizio deducendo, in via preliminare, l’inammissibilità delle questioni. L’Istituto osserva che l’ordinanza di rimessione non contiene la formulazione di un petitum specifico e determinato, non indicando il verso della addizione richiesta. Nel merito, la difesa dell’Istituto sostiene la non fondatezza delle questioni per le ragioni indicate nella sentenza n. 194 del 2021. Non è decisivo che l’attività imprenditoriale sia stata effettivamente iniziata e svolta per circa un anno, in quanto, come stabilito nella richiamata sentenza, ciò che rileva è l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato nel periodo in cui sarebbe stata erogata la prestazione periodica. Secondo l’INPS, poi, non sarebbe pertinente l’osservazione secondo cui la pandemia abbia colpito in modo severo le attività imprenditoriali e, in particolare, i pubblici esercizi ed in specie i “bar”. In tutti i casi di intrapresa attività commerciale è consustanziale un accettato rischio imprenditoriale connesso al modificarsi delle condizioni fattuali ed economiche dell’attività. Inoltre, l’Istituto ha richiamato i provvedimenti a sostegno del reddito per i lavoratori autonomi e imprenditori in periodo di pandemia da COVID-19. Quanto all’ulteriore profilo di censura, ovvero alla mancanza di proporzionalità insita nell’obbligo della integrale restituzione, l’INPS richiama l’affermazione contenuta nella sentenza n. 194 del 2021, secondo cui tale obbligo non è una sanzione. Né potrebbe assumere rilievo, trattandosi di un inconveniente di fatto, il dato dell’aver venduto l’attività ad un prezzo ridotto, tanto più a fronte del rimedio dell’azione generale di rescissione ex art. 1448 del codice civile, alla quale sarebbe stato possibile fare ricorso per recuperare l’evidente sproporzione tra il valore dell’attività commerciale e il prezzo pagato dal terzo compratore. Priva di fondamento risulterebbe anche l’asserita violazione dell’art. 4, primo comma, Cost., in quanto la disposizione censurata non impedisce affatto la costituzione di un rapporto di lavoro, atteso che la restituzione dell’anticipata liquidazione della NASpI risponde ad un criterio di autoresponsabilità del suo percettore. La finalità dell’incentivo alla autoimprenditorialità risponde allo scopo di indirizzare il lavoratore disoccupato verso attività autonome per ridurre la pressione sul mercato del lavoro subordinato. Quanto alla pretesa violazione dell’art. 36 Cost., l’Istituto deduce che ogni indebito oggettivo previdenziale comporta, ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., la necessaria restituzione integrale, in ipotesi secondo un piano di rateizzazione, così come previsto dalla normativa interna del medesimo Istituto. Rimarrebbe esclusa anche la violazione dell’art. 41 Cost., in quanto la restituzione dell’incentivo risponde ad un criterio di autoresponsabilità del percettore. In ogni caso si verserebbe nel campo delle scelte discrezionali del legislatore. 3.1.– Con memoria depositata in data 16 marzo 2024, l’INPS ha ribadito le proprie argomentazioni in punto di manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale. Considerato in diritto 1.– Con ordinanza del 6 dicembre 2022 (r. o. n. 131 del 2023), il Tribunale di Torino, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in rifermento agli artt. 3, 4, primo comma, 36 e 41 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 22 del 2015, nella parte in cui prevede, senza alcuna possibilità di valutare il caso concreto, l’obbligo di restituire l’intera anticipazione della NASpI se il beneficiario stipuli un contratto di lavoro subordinato entro il termine di scadenza del periodo per cui l’indennità è riconosciuta. 2.– Il rimettente riferisce di essere investito di un giudizio di opposizione avverso la richiesta dell’INPS di restituzione integrale dell’anticipazione della NASpI, erogata al lavoratore ricorrente, quale incentivo all’autoimprenditorialità per intraprendere l’attività di esercizio commerciale di ristoro (un bar). Dopo aver chiarito che nel caso in esame l’anticipazione dell’indennità era stata corrisposta in un’unica soluzione in relazione ad importi spettanti fino al 28 maggio 2021, il giudice a quo dà atto che il ricorrente ha dimostrato, allegando documentazione, di non aver conseguito alcun reddito a causa dell’interruzione dell’esercizio dell’attività commerciale, avvenuta in conformità alla decretazione d’urgenza adottata nel corso della pandemia esplosa nel marzo del 2020; per tale ragione il ricorrente aveva accettato, in data 15 febbraio 2021, un lavoro a tempo determinato. Fondando la propria pretesa sull’art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 22 del 2015, l’INPS ha domandato la restituzione dell’intero importo erogato a titolo di NASpI, pari a 19.796,90 euro, per avere l’opponente intrapreso il rapporto di lavoro subordinato nel periodo coperto dall’indennità. Ciò precisato, il rimettente sostiene che la disposizione indicata è affetta da illegittimità costituzionale nella parte in cui prevede l’obbligo della restituzione integrale dell’anticipazione NASpI, nel caso in cui il beneficiario abbia stipulato un contratto di lavoro subordinato entro il termine di scadenza del periodo per cui l’indennità è riconosciuta, senza consentire al giudice di adeguare la decisione sull’obbligo restitutorio al caso concreto nel quale l’attività imprenditoriale sia divenuta impossibile per cause sopravvenute, come accaduto nella specie, per effetto dell’emergenza pandemica. Ad avviso del rimettente, sussisterebbe il contrasto con l’art. 3 Cost., in riferimento al principio di ragionevolezza e al principio di proporzionalità, in quanto l’integrale restituzione non troverebbe alcuna giustificazione rivelandosi eccessivamente gravosa, là dove l’interruzione dell’attività imprenditoriale, effettivamente avviata, sia dovuta ad impossibilità sopravvenuta. Sarebbero violati anche gli artt. 4, 36 e 41 Cost., perché la previsione della restituzione dell’intero ammontare della NASpI si porrebbe in contrasto con il precetto costituzionale che riconosce il diritto al lavoro, nella duplice declinazione di lavoro dipendente e di lavoro autonomo. Il rimettente sottolinea, infatti, che la disposizione censurata, da un lato, impedisce ai percettori dell’indennità anticipata la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato per tutto il periodo in cui sarebbe dovuta la NASpI, a meno di non subire la restituzione integrale dell’indennità, salvo intraprendere la strada del lavoro autonomo; scelta non esigibile a causa della situazione di crisi economica determinata dalla pandemia; dall’altro, finisce con l’incidere negativamente anche sulla libertà di svolgere una attività imprenditoriale, poiché i percettori della liquidazione anticipata della NASpI si troverebbero obbligati a proseguire in ogni caso un’attività imprenditoriale fino al termine del periodo coperto dalla misura. 3.– In primo luogo, quanto al profilo dell’ammissibilità delle questioni, occorre esaminare le eccezioni dell’INPS e del Presidente del Consiglio dei ministri, che muovono, sostanzialmente, da medesime considerazioni. Sia la difesa statale che quella dell’Istituto assumono che l’ordinanza di rimessione difetti di un petitum specifico e determinato, poiché non indicherebbe il verso della addizione richiesta per la reductio ad legitimitatem, prospettando, altresì, meri inconvenienti di fatto. Più specificamente, l’Avvocatura dello Stato deduce l’inammissibilità delle questioni perché l’ordinanza mirerebbe ad introdurre un precetto vago, non connotato da precisione e tassatività, che imporrebbe all’INPS una valutazione altamente discrezionale sia ai fini della dimostrazione dell’effettivo inizio e prosecuzione dell’attività economica e dei motivi che abbiano determinato la mancata prosecuzione, sia quanto ai criteri oggettivi per la quantificazione delle perdite e dei guadagni connessi all’attività imprenditoriale e alla non volontarietà della cessazione dell’attività. Secondo la difesa dell’INPS, poi, non sarebbe chiaro se il rimettente intenda richiedere l’integrale caducazione della norma o un intervento manipolativo, peraltro non consentito, versandosi in un settore cui spetta al legislatore la risoluzione di aspetti problematici di politiche del lavoro. 3.1.– Le eccezioni non sono fondate. Al riguardo, va sottolineato che questa Corte, nella sentenza n. 194 del 2021, concernente una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la medesima disposizione oggi censurata (infra, punti 5 e 5.1.), ha disatteso una analoga eccezione di inammissibilità, affermando che «in generale, l’ordinanza di rimessione delle questioni di legittimità costituzionale non necessariamente deve concludersi con un dispositivo recante altresì un petitum, essendo sufficiente che dal tenore complessivo della motivazione emerga con chiarezza il contenuto ed il verso delle censure (sentenza n. 175 del 2018), spettando a questa Corte, ove ritenuto sussistente il denunciato vizio di illegittimità costituzionale, individuare il dispositivo più idoneo a rimuovere tale vizio». Nella medesima sentenza si è anche precisato che nei casi in cui il petitum sia di carattere additivo, «la questione è inammissibile solo se l’ordinanza di rimessione omette di indicare in maniera sufficientemente circostanziata il verso della addizione che sarebbe necessaria per la reductio ad legitimitatem (sentenza n. 175 del 2018)». Spetta infatti a questa Corte, ove ritenga fondate le questioni, «di individuare la pronuncia più idonea alla reductio ad legitimitatem della disposizione censurata, non essendo vincolata alla formulazione del petitum dell’ordinanza di rimessione nel rispetto dei parametri evocati, stante anche che “l’assenza di soluzioni costituzionalmente vincolate” non compromette l’ammissibilità delle questioni stesse (ex plurimis, sentenza n. 59 del 2021) quando sia rinvenibile nell’ordinamento una soluzione adeguata al parametro di riferimento» (sentenza n. 221 del 2023). Le eccezioni dell’Avvocatura dello Stato e della difesa dell’INPS non sono dunque fondate, atteso che il giudice a quo indica, in modo sufficientemente compiuto, il contenuto della pronuncia additiva auspicata, laddove dubita della legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 22 del 2015, nella parte in cui prevede l’obbligo della restituzione integrale dell’anticipazione NASpI senza possibilità di adeguare tale obbligo restitutorio nell’ipotesi in cui la prosecuzione dell’attività sia stata impedita dall’impossibilità sopravvenuta di svolgere l’attività imprenditoriale e il beneficiario abbia stipulato un contratto di lavoro subordinato entro il termine di scadenza del periodo per cui l’indennità è riconosciuta. 4.– Prima di esaminare il merito delle censure, va innanzi tutto richiamata, in sintesi, la ricostruzione dell’evoluzione del quadro legislativo di riferimento, già operata da questa Corte nella sentenza n. 194 del 2021. In particolare, ed ai fini che qui interessano, è stato evidenziato che la disposizione censurata, per favorire la ricollocazione del lavoratore, involontariamente inoccupato, al di fuori del mercato del lavoro subordinato, consente all’avente diritto al trattamento NASpI di ottenerne la corresponsione anticipata per poter avviare un’attività autonoma, di impresa o in forma cooperativa. Più specificamente, l’art. 8 del d.lgs. n. 22 del 2015 stabilisce al comma 1 che «[i]l lavoratore avente diritto alla corresponsione della NASpI può richiedere la liquidazione anticipata, in unica soluzione, dell’importo complessivo del trattamento che gli spetta e che non gli è stato ancora erogato, a titolo di incentivo all’avvio di un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale o per la sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa nella quale il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio». Qualora, però, il lavoratore instauri un rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo per cui è riconosciuta la liquidazione anticipata della NASpI, la disposizione censurata stabilisce che egli è tenuto a restituire «per intero» l’anticipazione ottenuta, eccettuando la sola ipotesi in cui il rapporto di lavoro subordinato sia instaurato con la cooperativa della quale il lavoratore ha sottoscritto una quota di capitale sociale. Nella citata sentenza n. 194 del 2021, questa Corte ha sottolineato come il presupposto dell’incentivo in esame – al pari di quelli che ne costituiscono i precedenti, ovvero la corresponsione anticipata dell’Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI), di cui all’art. 2, comma 19, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita) e, in un contesto normativo diverso, l’indennità di mobilità erogata in via anticipata ex art. 7, comma 5, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro) – consista nell’agevolare il lavoratore nell’intraprendere un’attività autonoma o avviare un’impresa al fine «di favorire il reimpiego del lavoratore “disoccupato” in un’attività diversa da quella di lavoro subordinato, allo scopo di ridurre la pressione sul relativo mercato». Più di recente, poi, nella sentenza n. 38 del 2024 – che ha scrutinato, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e 41, primo comma, Cost., l’art. 7, comma 5, della legge n. 223 del 1991, nella parte in cui «nell’interpretazione datane dal diritto vivente della Corte di cassazione», esclude la compatibilità della indennità di mobilità ricevuta ratealmente e periodicamente con lo svolgimento di un’attività lavorativa autonoma, imponendo al lavoratore autonomo la necessità della richiesta di corresponsione anticipata, pena la perdita del diritto – questa Corte ha evidenziato che anche tale modalità di erogazione costituisce «una sorta di finanziamento destinato a uno scopo, quello dell’investimento in un’attività autonoma o di impresa, per far fronte alle spese iniziali dell’attività che il lavoratore in mobilità svolgerà in proprio, così fuoriuscendo dal mercato del lavoro dipendente». L’erogazione della NASpI, in via anticipata e in una unica soluzione, costituisce dunque, per la finalità che intende perseguire, una modalità di corresponsione del beneficio del tutto peculiare rispetto alla erogazione “ordinaria” della stessa indennità; se il lavoratore inoccupato non intende avvalersi di tale incentivo all’autoimprenditorialità, la NASpI segue la disciplina prevista, in particolare, dagli artt. 5 e 7 del d.lgs. n. 22 del 2015. Al di fuori dell’opzione per l’erogazione anticipata, infatti, l’art. 5 del d. lgs. n. 22 del 2015 stabilisce che «[l]a NASpI è corrisposta mensilmente, per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi quattro anni. Ai fini del calcolo della durata non sono computati i periodi contributivi che hanno già dato luogo ad erogazione delle prestazioni di disoccupazione […]». Quanto alle condizionalità dell’indennità, l’art. 7 del d.lgs. n. 22 del 2015 prescrive, al comma 1, che «[l’]erogazione della NASpI è condizionata alla regolare partecipazione alle iniziative di attivazione lavorativa nonché ai percorsi di riqualificazione professionale proposti dai Servizi competenti ai sensi dell’articolo 1, comma 2, lettera g), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni», prevedendosi, altresì, al comma 2, «ulteriori misure volte a condizionare la fruizione della NASpI alla ricerca attiva di un’occupazione e al reinserimento nel tessuto produttivo», nonché al comma 3, «le condizioni e le modalità per l’attuazione della presente disposizione nonché le misure conseguenti all’inottemperanza agli obblighi di partecipazione alle azioni di politica attiva di cui al comma 1», da adottare con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali «entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano». 5.– Ciò premesso, la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. sotto il profilo della violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, è fondata. 5.1.– Deve innanzi tutto evidenziarsi che questa Corte, con la sentenza n. 194 del 2021, ha già valutato la disciplina oggetto dell’odierna censura con riferimento alla fattispecie generale: quella dell’insorgenza dell’obbligo di restituzione integrale dell’anticipazione della NASpI quando il lavoratore, pur continuando ad esercitare l’attività per la quale è stato corrisposto l’incentivo all’autoimprenditorialità ai sensi del comma 4 dell’art. 8 del d.lgs. n. 22 del 2015, abbia costituito, seppur per un periodo limitato, un rapporto di lavoro subordinato, percependo la relativa retribuzione. È l’ipotesi di un’attività di lavoro subordinato svolta contemporaneamente a quella imprenditoriale, per la quale sia stata erogata l’anticipazione della NASpI. Questa Corte ha inoltre rimarcato che l’anticipazione dell’incentivo all’imprenditorialità ha la finalità di «favorire il reimpiego del lavoratore “disoccupato” in un’attività diversa da quella di lavoro subordinato, allo scopo di ridurre la pressione sul relativo mercato» ed ha aggiunto che «[s]i tratta, in sostanza, di forme tipiche di legislazione promozionale, volte ad incentivare l’iniziativa autonoma individuale, quale forma di occupazione “alternativa” rispetto al lavoro dipendente, “convertendo” in lavoratori autonomi o imprenditori i lavoratori in cerca di occupazione, con l’ulteriore possibile effetto indotto, per lo stesso mercato del lavoro, della eventuale insorgenza di nuove occasioni di lavoro nel medio-lungo periodo». Si giustifica, quindi, la previsione della restituzione integrale dell’importo dell’incentivo avendo questa Corte ricondotto tale obbligo alla «specifica finalità di contrasto del possibile abuso da parte di chi chiede il beneficio senza poi intraprendere, in concreto, un’attività di lavoro autonomo o di impresa», in quanto «[l’]eventuale instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato, proprio nel periodo in cui spetterebbe altrimenti la prestazione periodica, è un indice rivelatore della mancanza di effettività e di autenticità dell’attività di lavoro autonomo o di impresa, che giustifica la liquidazione anticipata della prestazione, altrimenti spettante con cadenza periodica». Nel riconoscere che il contrasto dell’elusione è al fondo di tale disciplina, sempre la sentenza n. 194 del 2021 ha chiarito che «l’obbligo restitutorio è coerente con l’indicata finalità antielusiva della disposizione censurata, che è quella di evitare che il trattamento corrisposto in via anticipata non sia realmente utilizzato per intraprendere e poi proseguire un’attività di lavoro autonomo, di impresa o in forma cooperativa» e, ancora, che «la ratio dell’obbligo restitutorio, previsto dalla disposizione censurata, è costituita da una più specifica finalità di contrasto del possibile abuso da parte di chi chiede il beneficio senza poi intraprendere, in concreto, un’attività di lavoro autonomo o di impresa». Posto, poi, che la restituzione integrale dell’anticipazione non ha natura “sanzionatoria”, questa Corte ha evidenziato che il rapporto di lavoro subordinato instaurato nel periodo di spettanza della NASpI assurge a «elemento fattuale indicativo della mancanza o insufficienza del presupposto stesso del beneficio – ossia dell’inizio, e poi prosecuzione, di un’impresa individuale (o in cooperativa) ovvero di un’attività di lavoro autonomo». Pur riconducendo tale disciplina, di particolare rigore, alla discrezionalità del legislatore, esercitata in modo non manifestamente irragionevole, questa Corte, con la medesima sentenza, ha comunque evidenziato la possibilità di «ipotizzare criteri alternativi, connotati da una qualche flessibilità, non dissimili, ad esempio, da quello che prevede la compatibilità della prestazione di lavoro subordinato di modesta entità con la spettanza dell’erogazione periodica – non già anticipata – della NASpI (art. 9 del d.lgs. n. 22 del 2015)». 5.2.– I principi enunciati dalla sentenza n. 194 del 2021, successivamente confermati dalla sentenza n. 38 del 2024, vanno ulteriormente ribaditi anche con riferimento all’ipotesi di promozione di un’attività imprenditoriale che in concreto non consegua i risultati sperati dal lavoratore, percettore dell’anticipazione della NASpI. Quest’ultimo infatti – beneficiando dell’erogazione integrale, senza essere tenuto a rispettare le condizionalità di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 22 del 2015, quali la regolare partecipazione alle iniziative di attivazione lavorativa, nonché ai percorsi di riqualificazione professionale proposti dai servizi competenti, e l’onere di ricerca attiva di un’occupazione per il reinserimento nel tessuto produttivo – accetta di sperimentare il percorso alternativo di promuovere un’attività imprenditoriale, assumendo anche il relativo rischio d’impresa che ne costituisce una componente intrinseca. Il rischio di impresa è insito nella finalità stessa dell’incentivo all’autoimprenditorialità, stante che al lavoratore è lasciata la scelta di beneficiare dell’indennità della NASpI, in un’unica soluzione e nell’importo complessivo del trattamento che gli spetta, in luogo dell’erogazione periodica soggetta alle condizionalità di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 22 del 2015, all’inottemperanza delle quali conseguirebbe l’interruzione della percezione della prestazione. Se il lavoratore opta per l’incentivo all’autoimprenditorialità, percependo subito e integralmente, senza le condizionalità dell’art. 7 citato, quanto altrimenti conseguirebbe periodicamente e sub condicione, è ben evidente che deve “mettere in conto” il possibile esito negativo dell’attività di impresa, essendo esso compreso in tale calcolo di convenienza. 5.3.– Diversa è, invece, la fattispecie, oggetto del giudizio principale, che concerne l’ipotesi particolare in cui il percettore dell’anticipazione dell’indennità, dopo aver intrapreso e svolto per un significativo periodo di tempo l’attività imprenditoriale, non possa proseguirla per cause sopravvenute e imprevedibili, a lui non imputabili, e costituisca un rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo della NASpI. Anche per questa fattispecie particolare la disposizione censurata impone che il percettore dell’anticipazione dell’indennità, se instaura un rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo per cui è riconosciuta la liquidazione anticipata della NASpI, sia tenuto a restituire «per intero» l’anticipazione ottenuta, benché l’attività imprenditoriale non sia proseguita a causa di una condizione di impossibilità sopravvenuta o di insuperabile oggettiva difficoltà. In tale evenienza, però, emerge per un verso che, qualora l’attività imprenditoriale sia stata effettivamente iniziata e proseguita per un apprezzabile periodo di tempo, grazie all’utilizzo dell’incentivo all’autoimprenditorialità, la finalità antielusiva risulta esaurita, in quanto pienamente realizzata, e quindi non si verte in una situazione in cui possa esserci «mancanza di effettività e di autenticità dell’attività di lavoro autonomo o di impresa» (sentenza n. 194 del 2021). Per altro verso, non può essere priva di rilevanza la circostanza che il percettore dell’anticipazione si sia trovato nella situazione di non poter proseguire l’attività imprenditoriale per causa a lui non imputabile. A fronte di un accadimento imprevisto può insorgere l’impossibilità o la oggettiva insuperabile difficoltà della prosecuzione dell’attività di impresa, in concreto avviata e fino ad allora esercitata; ciò che fa diventare sproporzionata l’integralità dell’obbligo restitutorio, rendendo lo stesso inesigibile secondo i canoni di correttezza e buona fede, che in generale integrano il rapporto obbligatorio. Ed infatti, la clausola generale di cui all’art. 1175 cod. civ., che impone alle parti del rapporto obbligatorio di comportarsi secondo correttezza, «vincola il creditore a esercitare la sua pretesa in maniera da tenere in debita considerazione, in rapporto alle circostanze concrete, la sfera di interessi che fa riferimento al debitore» (sentenza n. 8 del 2023). In questa particolare contingenza la previsione della restituzione integrale, per il caso in cui il lavoratore non abbia altra scelta che procurarsi un reddito mediante l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato nel periodo coperto dalla indennità, stante l’impossibilità di proseguire l’attività autonoma, risulta affetta da un rigore eccessivo, che si traduce in intrinseca irragionevolezza e mancanza di proporzionalità, di tal che non si giustifica più l’integralità dell’obbligo restitutorio dell’anticipazione in luogo della sua parametrazione alla durata del rapporto stesso. Il rigore della regola, che impone la restituzione integrale con riferimento alla fattispecie generale, non può andare disgiunto da una clausola di flessibilità che tenga conto delle ipotesi particolari. Nella specie, laddove per cause indipendenti dalla volontà del percettore l’attività imprenditoriale, per la quale l’anticipata liquidazione della NASpI risulti essere stata effettivamente utilizzata, non possa essere proseguita, la integralità della restituzione difetta di proporzionalità, dovendo la stessa essere invece riparametrata affinché l’obbligo restitutorio risulti commisurato al periodo di mancata prosecuzione dell’attività d’impresa. Se, dunque, il rischio di impresa – come già rilevato – comporta la non irragionevolezza dell’obbligo della restituzione integrale quando l’attività imprenditoriale risulti improduttiva, in conseguenza di scelte legate alla conduzione dell’attività aziendale, che abbiano portato all’insuccesso della stessa, ciò non può predicarsi ove la prosecuzione dell’attività sia divenuta impossibile o di oggettiva insuperabile difficoltà, per un fatto sopravvenuto non imputabile al lavoratore, il quale infine rinunci a continuarla. È quanto accade, in particolare, se l’impossibilità di proseguire l’attività d’impresa derivi da condizioni di forza maggiore, come nella specie per il factum principis rappresentato dalle misure di contrasto della pandemia da COVID-19 e dalle relative chiusure o restrizioni per gli esercizi pubblici, solo alleviate da sostegni e provvidenze, o derivi da altre circostanze similari, quali eventi naturali o fenomeni atmosferici estremi o finanche fatti dell’uomo (come in caso di devastazione dolosa ad opera della criminalità), ma tutti non imputabili al percettore dell’incentivo. 6.– In definitiva, senza la necessaria parametrazione dell’obbligo restitutorio nelle indicate evenienze particolari, la disposizione censurata vìola i principi di ragionevolezza e di proporzionalità, di cui all’art. 3 Cost. 7.– La questione di legittimità costituzionale è fondata anche in riferimento alla dedotta violazione dell’art. 4, primo comma, Cost. La disposizione censurata, nel prevedere l’obbligo restitutorio integrale dell’anticipazione quando la prosecuzione dell’attività di impresa sia divenuta impossibile o di oggettiva insuperabile difficoltà, per causa sopravvenuta non imputabile al lavoratore, finisce con il violare anche il diritto al lavoro, dal momento che ai percettori dell’indennità anticipata, che senza colpa abbiano rinunciato a proseguire l’attività imprenditoriale, è sostanzialmente preclusa la possibilità di costituzione di un rapporto di lavoro subordinato per tutto il successivo periodo in cui sarebbe dovuta la NASpI. Salvo occasioni di lavoro autonomo, il lavoratore, per non essere obbligato a restituire integralmente l’anticipazione, dovrebbe rimanere inattivo e attendere – senza lavorare, appunto – la scadenza del periodo per il quale è stata concessa l’anticipazione; ciò che potrebbe finanche privarlo dei mezzi di sussistenza. È configurabile, pertanto, la violazione altresì dell’art. 4 Cost., il quale è declinato finanche come «dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». 8.– Resta assorbito ogni ulteriore profilo di censura. 9.– Così accertata la violazione dei parametri costituzionali evocati dal rimettente, si tratta ora di stabilire un rimedio appropriato a tale violazione. Il giudice a quo aspira a una pronuncia che sostituisca l’attuale obbligo restitutorio integrale con la previsione di criteri di flessibilità che permettano di adeguare la decisione al caso concreto, laddove il lavoratore, percettore dell’anticipazione della NASpI, non abbia potuto continuare l’attività imprenditoriale a cagione di una situazione di forza maggiore o di una sopravvenuta causa a lui non imputabile. Ritiene questa Corte che i vizi denunciati possano essere rimediati proporzionando l’obbligo restitutorio alla durata del rapporto di lavoro subordinato instaurato nel periodo coperto dall’indennità della NASpI. Con riferimento a tale periodo la NASpI risulta, in parte qua, priva di causa e quindi indebita; alla estensione di tale periodo, pertanto, va commisurato l’obbligo restitutorio come soluzione adeguata ad assicurare il rispetto dei sopra richiamati parametri di legittimità costituzionale. 10.– Va, quindi, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 22 del 2015, nella parte in cui non limita l’obbligo restitutorio dell’anticipazione della NASpI nella misura corrispondente alla durata del periodo di lavoro subordinato, quando il lavoratore non possa proseguire, per causa sopravvenuta a lui non imputabile, l’attività di impresa per la quale l’anticipazione gli è stata erogata. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 4, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 (Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui non limita l’obbligo restitutorio dell’anticipazione della Nuova assicurazione sociale per l’impiego (NASpI) nella misura corrispondente alla durata del periodo di lavoro subordinato, quando il lavoratore non possa proseguire, per causa sopravvenuta a lui non imputabile, l’attività di impresa per la quale l’anticipazione gli è stata erogata. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 aprile 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Giovanni AMOROSO, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge della Regione Puglia 15 giugno 2023, n. 12 (Prestazioni odontoiatriche per pazienti fragili erogate in strutture pubbliche territoriali), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 9-16 agosto 2023, depositato in cancelleria il 9 agosto 2023, iscritto al n. 24 del registro ricorsi 2023 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2023. Visto l’atto di costituzione della Regione Puglia; udita nell’udienza pubblica del 20 marzo 2024 la Giudice relatrice Maria Rosaria San Giorgio; uditi l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Mariangela Rosato per la Regione Puglia; deliberato nella camera di consiglio del 20 marzo 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso depositato il 9 agosto 2023 (reg. ric. n. 24 del 2023), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge della Regione Puglia 15 giugno 2023, n. 12 (Prestazioni odontoiatriche per pazienti fragili erogate in strutture pubbliche territoriali). Le disposizioni denunciate impegnano le aziende sanitarie della Regione all’erogazione di «prestazioni odontoiatriche a invasività minore, media e maggiore», in favore di «pazienti fragili con disabilità psicomotoria o con disturbi del comportamento», a condizione che «il […] periodo d’osservazione per complicanze post-intervento non sia superiore a ventiquattro ore dal termine della procedura» (art. 1). Si prevede che, per ogni azienda sanitaria, debbano essere dedicate almeno due strutture abilitate per le descritte prestazioni, da collocarsi «all’interno di ambiente protetto e corrispondente ai Punti territoriali di assistenza dotati di servizi chirurgici con relativo servizio di anestesiologia» (art. 2). Ai fini predetti, è stabilito che le aziende sanitarie incrementino il monte ore delle prestazioni territoriali «nella misura massima di trentotto ore a settimana e per ogni struttura individuata» (art. 3, comma 1). Detto incremento è effettuato attraverso una riconversione della dotazione aziendale per la specialistica ambulatoriale oppure con assegnazione, attraverso deliberazione della Giunta regionale, di ore dedicate e vincolate alla branca odontoiatrica (art. 3, comma 2). Secondo il ricorrente, le richiamate disposizioni non sarebbero conformi al principio costituzionale del «necessario coordinamento con la finanza pubblica di cui all’art. 117, terzo comma della Costituzione». In particolare, l’art. 1 introdurrebbe «un ulteriore livello di assistenza sanitaria rispetto ai livelli essenziali delle prestazioni posti a carico del servizio sanitario regionale», con conseguente violazione «della disciplina relativa ai piani di rientro dal disavanzo finanziario», cui risulta sottoposta la Regione Puglia sin dall’anno 2010. Detti piani, ricorda il ricorrente, «costituiscono elementi di armonizzazione dei bilanci pubblici e di coordinamento della finanza pubblica» e impongono il «divieto di spese non obbligatorie». Nel ricorso si fa notare che l’ambito dei beneficiari delle prestazioni odontoiatriche, come individuato dall’art. 1 della legge reg. Puglia n. 12 del 2023, «è più esteso rispetto a quanto previsto dalla normativa statale», con conseguente «maggiore spesa sanitaria non obbligatoria». Ritiene il ricorrente che, in tema di assistenza odontoiatrica, la normativa statale – individuata dal ricorrente nelle previsioni dettate dal decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 241), e dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29 novembre 2001 (Definizione dei livelli essenziali di assistenza) – limiti gli interventi di assistenza odontoiatrica coperti dal Servizio sanitario nazionale (SSN) ai soli programmi di tutela della salute odontoiatrica nell’età evolutiva e alla sola assistenza odontoiatrica e protesica in favore di determinate categorie di soggetti in condizioni di particolare vulnerabilità. Tali condizioni sono indicate dal successivo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12 gennaio 2017 (Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502), «all’allegato C» (recte: 4C). Quest’ultimo individua, all’uopo, due specifiche tipologie di «vulnerabilità», quella «sanitaria» e quella «sociale». La prima è riconosciuta in capo alle persone affette da gravi patologie, le cui già precarie condizioni di salute potrebbero essere ulteriormente pregiudicate da una concomitante patologia odontoiatrica, al punto che il mancato accesso alle relative cure potrebbe metterne a repentaglio la sopravvivenza. A questa categoria di persone – precisa il ricorrente – devono essere garantite tutte le prestazioni odontoiatriche incluse nel «nomenclatore dell’assistenza specialistica ambulatoriale», con la sola esclusione delle protesi e degli interventi di tipo estetico. Coloro che, invece, sono affetti da altre patologie o condizioni alle quali sono frequentemente associate complicanze di natura odontoiatrica potrebbero accedere alle cure odontoiatriche solo se versino anche in situazione di vulnerabilità «sociale», cioè in una «condizione di svantaggio sociale (basso reddito e/o marginalità e/o esclusione sociale)». Le disposizioni regionali impugnate si discosterebbero dal descritto quadro nazionale, anzitutto dal punto di vista soggettivo: le prestazioni de quibus verrebbero infatti estese «ad una platea di beneficiari più ampia». Osserva al riguardo il ricorrente che l’art. 1, nello stabilire il criterio di accesso alle cure odontoiatriche, non associa la condizione patologica (diversa, in tesi, da quella prevista dalla normativa statale) alla condizione di vulnerabilità sociale. E ciò, nonostante la Regione possegga «gli strumenti per definire gli indici rivelatori delle condizioni di svantaggio economico e sociale», integranti gli estremi di tale vulnerabilità. La non conformità alla normativa nazionale, inoltre, si apprezzerebbe anche dal punto di vista oggettivo. Le prestazioni odontoiatriche assicurate dall’art. 1 della legge pugliese sarebbero «diverse» da quelle garantite dalla norma statale di riferimento, di cui all’«allegato 4» (recte: 4C) del d.P.C.m. 12 gennaio 2017 (il quale indica le seguenti: visita odontoiatrica; estrazioni dentarie; otturazioni e terapie canalari; ablazione del tartaro; applicazione di protesi rimovibili, escluso il manufatto protesico; applicazione di apparecchi ortodontici a soggetti da zero a quattordici anni con «indice IOTN [indice di necessità di trattamento ortodontico] = 4° o 5°», escluso il costo del manufatto; apicificazione a soggetti da zero a quattordici anni). Il ricorrente, quindi, «come da costante giurisprudenza costituzionale», rimprovera alla Regione Puglia, sottoposta alla disciplina del piano di rientro dai disavanzi della spesa sanitaria, di introdurre nuovi ed ulteriori livelli di assistenza mediante l’utilizzo di risorse proprie o di risorse «afferenti alla quota indistinta del Fondo Sanitario Nazionale»; il tutto, con l’ulteriore criticità relativa all’«adeguata copertura della spesa pubblica», in quanto l’impiego delle risorse per prestazioni non essenziali verrebbe, corrispondentemente, a ridurre le risorse per le prestazioni essenziali. L’illegittimità costituzionale da cui sarebbe affetto l’art. 1 della legge reg. Puglia n. 12 del 2023 vizierebbe, in via derivata, anche i successivi artt. 2 e 3, in quanto attuativi. 2.– Con atto depositato il 22 settembre 2023, si è costituita in giudizio la Regione Puglia, in persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale, depositando documenti e concludendo per l’inammissibilità e/o la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale. Sotto il primo profilo, la Regione evidenzia l’«erroneità» del richiamo operato dal ricorrente ai parametri legislativi interposti che si assumono violati. Si fa notare nell’atto di costituzione che l’Allegato 4C al d.P.C.m. 12 gennaio 2017, evocato dal ricorso (sia pure con l’erronea numerazione di «allegato 4»), «ad oggi, non è vigente»: infatti, la sua entrata in vigore è stata subordinata alla conclusione del procedimento finalizzato all’emanazione del decreto ministeriale recante la definizione delle tariffe massime per le prestazioni sanitarie (decreto che, al momento, si troverebbe ancora «in fase preparatoria»). Pertanto, a legislazione vigente, precisa la Regione, la norma in materia di assistenza odontoiatrica sarebbe da ricondurre al d.P.C.m. 29 novembre 2001, il quale, a propria volta, rimanda al decreto del Ministro della sanità 22 luglio 1996 (Prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale erogabili nell’ambito del Servizio sanitario nazionale e relative tariffe). Quest’ultimo stabilisce che l’assistenza odontoiatrica essenziale deve essere erogata in favore di soggetti in condizioni di vulnerabilità sociale ovvero sanitaria, «non prevedendo ulteriori criteri restrittivi». La resistente aggiunge che la materia risulta regolamentata dal successivo decreto del Ministro della salute 9 dicembre 2015 (Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell’ambito del Servizio sanitario nazionale), del quale la legge regionale impugnata rappresenterebbe «diretta emanazione ed attuazione». Tale fonte – precisa la Regione – stabilisce le misure di controllo delle condizioni di erogabilità e contiene le indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale, con oneri a carico del SSN. In tale quadro, la legge pugliese impugnata troverebbe il proprio ambito di applicazione nel criterio della «vulnerabilità sanitaria» declinato dal d.m. 9 dicembre 2015, secondo l’accezione cosiddetta «discendente», in base alla quale le prestazioni de quibus devono essere garantite «almeno ai cittadini affetti da gravi patologie, le cui condizioni di salute possano essere gravemente pregiudicate da una patologia odontoiatrica concomitante» (Allegato 3). In tale ultima categoria, fa notare la Regione, rientrerebbero proprio i «pazienti fragili con disabilità psicomotoria o con disturbi del comportamento», individuati dall’art. 1 della legge reg. Puglia n. 12 del 2023 come destinatari delle prestazioni garantite. Di conseguenza, il legislatore pugliese non avrebbe affatto ampliato la platea dei beneficiari. Né esso avrebbe inciso sulla tipologia delle prestazioni odontoiatriche erogabili, con riferimento, cioè, a quelle ad «invasività minore, media e maggiore», come definite dal regolamento regionale 31 marzo 2020, n. 5 (Attuazione della L.R. n. 9/2017 e ss.mm.ii. Individuazione delle prestazioni erogabili negli studi e negli ambulatori odontoiatrici e definizione dei requisiti strutturali, organizzativi e tecnologici). La legge pugliese avrebbe inteso indicare solo le strutture chiamate ad erogare le prestazioni in oggetto (art. 2) e le relative modalità di erogazione (art. 3). Risulterebbero in tal modo coinvolte solo «strutture pubbliche territoriali», senza quindi alcun costo aggiuntivo. La finalità perseguita dal legislatore regionale, in definitiva, sarebbe solo quella di programmare e di garantire l’erogazione di prestazioni odontoiatriche già comprese nei livelli essenziali di assistenza (LEA) in favore di determinati pazienti fragili i quali, altrimenti, «dovrebbero ricorrere a ricoveri inappropriati con trattamento di sedazione, essendo affetti da disabilità psicomotoria o da disturbi del comportamento». La Regione solleva poi un’eccezione di inammissibilità relativamente alla impugnativa degli artt. 2 e 3 della legge reg. Puglia n. 12 del 2023 per «genericità, mancanza di specificazione ed indeterminatezza». Il ricorrente, infatti, non avrebbe dimostrato «in che modo l’impugnata L.R. n. 12/2023 sia suscettibile di pregiudicare il conseguimento degli obiettivi di risparmio previsti dal Piano di rientro», non fornendo la dimostrazione, «in termini pratici e concreti», del sospettato vizio di illegittimità costituzionale. Ancora, la resistente osserva che la legge regionale impugnata «non comporta ulteriori oneri e non prevede l’utilizzo di risorse proprie», tanto è vero che essa «è neutra sotto il profilo finanziario e non reca alcuna previsione di variazioni di bilancio», come peraltro «precisato nell’atto di refertazione che ha condotto all’approvazione della norma». Infine, la resistente invoca il principio di leale collaborazione tra Stato e regioni, «come enucleato» da questa Corte nella sentenza n. 242 del 2022, «con riferimento alla specifica circostanza della ritardata definizione dell’iter relativo alla decretazione ministeriale necessaria per la vigenza dell’Allegato 4C al DPCM 17/01/2017 [recte: 12 gennaio 2017]». In tale prospettiva, richiamando le affermazioni di questa Corte, la resistente precisa che il tempo trascorso per il mancato e/o ritardato aggiornamento dei LEA «determina la compromissione del diritto alla salute in condizioni di eguaglianza su tutto il territorio nazionale», senza che ciò possa giustificarsi in ragione della necessità di completare il relativo iter, «poiché il mero trascorrere del tempo si traduce nell’obsolescenza dell’assistenza sanitaria». Con successiva memoria, depositata il 30 gennaio 2024, la Regione Puglia ha ribadito i propri argomenti difensivi, insistendo per il rigetto, o per la declaratoria di inammissibilità, delle questioni di legittimità costituzionale. Considerato in diritto 1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge reg. Puglia n. 12 del 2023, deducendo la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. Le disposizioni oggetto di impugnativa prescrivono alle aziende sanitarie regionali di erogare «prestazioni odontoiatriche a invasività minore, media e maggiore, per pazienti fragili con disabilità psicomotoria o con disturbi del comportamento, il cui periodo d’osservazione per complicanze post-intervento non sia superiore a ventiquattro ore dal termine della procedura» (art. 1). Le strutture abilitate per le suddette prestazioni «non possono essere inferiori a due per ogni azienda sanitaria, collocate all’interno di ambiente protetto e corrispondente ai Punti territoriali di assistenza dotati di servizi chirurgici con relativo servizio di anestesiologia» (art. 2). Per il conseguimento delle finalità di cui all’art. 1, si stabilisce che «le aziende sanitarie incrementano il monte ore delle prestazioni territoriali nella misura massima di trentotto ore a settimana e per ogni struttura individuata» (art. 3, comma 1), sulla base di «una riconversione della dotazione aziendale per la specialistica ambulatoriale oppure con assegnazione, attraverso deliberazione della Giunta regionale, di ore dedicate e vincolate alla branca odontoiatrica» (art. 3, comma 2). A giudizio del ricorrente, in tal modo verrebbero introdotte, a carico del Servizio sanitario regionale, prestazioni sanitarie ulteriori rispetto ai livelli essenziali di assistenza fissati dalle norme statali: e ciò, sia sotto il profilo soggettivo, in quanto ne risulterebbe ampliata la platea dei beneficiari, sia dal punto di vista oggettivo, avuto riguardo alla tipologia delle prestazioni garantite (le quali non avrebbero esatta corrispondenza con quelle che, secondo la disciplina statale, rientrano nei LEA). Al riguardo, nel ricorso si richiama la «normativa nazionale in tema di assistenza odontoiatrica», che sarebbe da rinvenire nelle previsioni del d.lgs. n. 502 del 1992, nonché nei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri che hanno definito i livelli essenziali di assistenza (sono citati i d.P.C.m. 29 novembre 2001 e 12 gennaio 2017, e relativi Allegati). A giudizio del ricorrente, la Regione Puglia andrebbe dunque incontro a «una maggiore spesa sanitaria non obbligatoria», con conseguente superamento dei limiti – cui la stessa Regione è sottoposta sin dal 2010 – discendenti dalle previsioni statali sul rientro dal deficit sanitario, che impongono alle regioni coinvolte di porre in essere solo interventi volti al recupero del disavanzo. 2.– È opportuno premettere una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento. L’ambito delle prestazioni odontoiatriche che ricadono nei LEA è circoscritto, dalla legislazione statale, ai «programmi di tutela della salute odontoiatrica nell’età evolutiva» e all’«assistenza, odontoiatrica e protesica a determinate categorie di soggetti in condizioni di particolare vulnerabilità» (art. 9, comma 5, lettera c, del d.lgs. n. 502 del 1992). Al di fuori di tali confini, per esplicita previsione dell’art. 9, comma 4, lettera a), del medesimo decreto, vengono infatti in rilievo «prestazioni aggiuntive, non comprese nei livelli essenziali ed uniformi di assistenza», che possono trovare soddisfacimento con i fondi integrativi del SSN. La descritta delimitazione non ha, inizialmente, trovato adeguata precisazione nelle norme secondarie che hanno definito le prestazioni rientranti nei LEA. Infatti, il d.P.C.m. 29 novembre 2001, nell’indicare le prestazioni di specialistica ambulatoriale comprese negli stessi LEA (Allegato 2B, lettera a, «assistenza odontoiatrica»), ha operato un mero richiamo «alle fasce di utenti e alle condizioni indicate al comma 5 art. 9 del D.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modifiche ed integrazioni». La più precisa definizione del concetto di «particolare vulnerabilità», e una dettagliata indicazione della tipologia di prestazioni odontoiatriche comprese nei LEA, si devono al successivo d.m. 9 dicembre 2015, adottato ai sensi dell’art. 9-quater del decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di enti territoriali. Disposizioni per garantire la continuità dei dispositivi di sicurezza e di controllo del territorio. Razionalizzazione delle spese del Servizio sanitario nazionale nonché norme in materia di rifiuti e di emissioni industriali), convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2015, n. 125. L’Allegato 3 di tale decreto ha dettato i «[c]riteri per la definizione delle condizioni di erogabilità delle prestazioni odontoiatriche», e le sue previsioni sono poi state trasfuse nell’Allegato 4C al d.P.C.m. 12 gennaio 2017 (che il ricorso, con mero errore materiale, indica come «allegato 4» o come «allegato C»), con il quale sono stati aggiornati i LEA. Quest’ultimo Allegato, al pari del precedente, è dedicato proprio alle prestazioni odontoiatriche di specialistica ambulatoriale ed è infatti, come l’altro, intitolato «Criteri per la definizione delle condizioni di erogabilità delle prestazioni odontoiatriche». Esso è entrato in vigore, sostituendo il precedente, in data 4 agosto 2023, in base a quanto stabilito dalla norma transitoria di cui all’art. 64, comma 2, dello stesso d.P.C.m. 12 gennaio 2017, che ne subordinava la vigenza alla pubblicazione del decreto ministeriale chiamato a ridefinire le tariffe massime delle prestazioni. Il decreto del Ministro della salute 23 giugno 2023 (Definizione delle tariffe dell’assistenza specialistica ambulatoriale e protesica), per l’appunto, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 4 agosto 2023. Allo stato, pertanto, l’Allegato 4C al d.P.C.m. 12 gennaio 2017 rappresenta il parametro nazionale di riferimento per stabilire quali prestazioni di assistenza odontoiatrica, e in favore di quali soggetti, siano ricomprese nei LEA. Esso, per quanto qui rileva, declina la condizione soggettiva di «particolare vulnerabilità» secondo i profili della cosiddetta «vulnerabilità sanitaria», riferita a «condizioni di tipo sanitario che rendono indispensabili o necessarie le cure odontoiatriche», e della «vulnerabilità sociale», che consente l’accesso alle prestazioni a coloro che si trovino in «condizioni di svantaggio sociale ed economico (correlate di norma al basso reddito e/o a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale) che impediscono l’accesso alle cure odontoiatriche a pagamento per gli elevati costi presenti nelle strutture private». Più precisamente, il requisito della vulnerabilità sanitaria viene definito, nell’Allegato 4C, sulla scorta di due differenti criteri, denominati, l’uno, «criterio “ascendente”» (che «prende in considerazione le malattie e le condizioni alle quali sono frequentemente o sempre associate complicanze di natura odontoiatrica») e, l’altro, «criterio “discendente”» (che «prende in considerazione le malattie e le condizioni nelle quali le condizioni di salute potrebbero risultare aggravate o pregiudicate da patologie odontoiatriche concomitanti»). Per ciascuno dei due aspetti soggettivi di vulnerabilità, sanitaria e sociale, inoltre, l’Allegato 4C, al paragrafo 3, individua la tipologia delle prestazioni odontoiatriche che devono considerarsi comprese nei LEA. Nel primo caso, l’Allegato rinvia alle prestazioni «riportate nell’allegato 4» (che reca il cosiddetto nomenclatore) purché esse siano ivi associate alla «condizione di erogabilità “vulnerabilità sanitaria”»; ciò, tuttavia, con l’ulteriore precisazione secondo cui, «[d]ate le premesse e la gravità delle patologie stesse, ai soggetti così definiti in condizioni di vulnerabilità sanitaria, devono essere garantite tutte le prestazioni odontoiatriche incluse nel nomenclatore dell’assistenza specialistica ambulatoriale, con l’esclusione dei manufatti protesici e degli interventi di tipo estetico». Nel secondo caso, e quindi per i soggetti in condizione di vulnerabilità sociale, l’Allegato 4C rinvia alle prestazioni «riportate nell’allegato 1, cui è associata la condizione di erogabilità “vulnerabilità sociale”», con la precisazione che devono essere almeno garantite talune specifiche prestazioni che vengono elencate, con apposita numerazione, alla fine del paragrafo 3 (pagina quarta). Quanto al panorama normativo che si rinviene nella Regione Puglia, occorre considerare che le prestazioni odontoiatriche hanno ricevuto specifica disciplina, da ultimo, con il regolamento regionale n. 5 del 2020, adottato in attuazione della legge della Regione Puglia 2 maggio 2017, n. 9 (Nuova disciplina in materia di autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio, all’accreditamento istituzionale e accordi contrattuali delle strutture sanitarie e socio-sanitarie pubbliche e private). Esso ha individuato, in particolare, le prestazioni erogabili negli studi odontoiatrici e nelle strutture di specialistica ambulatoriale odontoiatrica, insieme ai requisiti richiesti ai fini del rilascio delle relative autorizzazioni all’esercizio, a seconda della tipologia di struttura. Inoltre, per quanto in questa sede rileva, tale regolamento regionale ha introdotto dettagliati criteri per ripartire le prestazioni a seconda della loro «minore, media e maggiore invasività» (art. 4, comma 2) e ha operato una classificazione delle strutture e degli studi odontoiatrici che, previa autorizzazione, possono erogarle (art. 6). Gli Allegati 1A, 2A e 3A del regolamento recano appositi elenchi delle prestazioni odontoiatriche, distinguendo specificamente quelle a bassa, media e alta invasività. In tale contesto si inserisce la legge regionale oggetto delle presenti questioni, con la quale la Regione Puglia ha inteso garantire alcune specifiche prestazioni odontoiatriche (quelle, per l’appunto, «a invasività minore, media e maggiore, […] il cui periodo d’osservazione per complicanze post-intervento non sia superiore a ventiquattro ore dal termine della procedura») in favore di una determinata categoria di beneficiari, individuati nei «pazienti fragili con disabilità psicomotoria o con disturbi del comportamento». Entrambi gli aspetti – sia quello oggettivo, che si riferisce alla tipologia di prestazioni garantite, sia quello soggettivo, che ne individua i beneficiari – sono sottoposti a censura da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, che li contesta sotto il profilo dell’indebito ampliamento dei LEA: operazione che, come rimarca il ricorrente, non sarebbe consentita alla Regione Puglia, in quanto sottoposta ai vincoli del piano di rientro dai disavanzi della spesa sanitaria. 3.– Tanto premesso, deve anzitutto essere esaminata l’eccezione di inammissibilità delle questioni promosse, sollevata dalla Regione Puglia relativamente alla impugnazione degli artt. 2 e 3 della legge pugliese. Viene lamentata l’eccessiva genericità delle censure, le quali non avrebbero dimostrato «in che modo l’impugnata L.R. n. 12/2023 sia suscettibile di pregiudicare il conseguimento degli obiettivi di risparmio previsti dal Piano di rientro». L’eccezione non è meritevole di accoglimento. L’art. 2 della legge reg. Puglia n. 12 del 2023, ai fini dell’erogazione delle prestazioni odontoiatriche che formano oggetto di disciplina, introduce, come già riferito, una corrispondente riorganizzazione dei servizi sanitari, stabilendo la presenza di almeno due strutture abilitate per ogni azienda sanitaria che siano dotate di precise caratteristiche. L’art. 3 incide sui conseguenti costi del personale, in quanto, per far fronte alle nuove prestazioni, impone un incremento del monte ore, fissandone la misura massima e le modalità di realizzazione. A fronte di siffatte previsioni, il pregiudizio al conseguimento degli obiettivi di risparmio, nella prospettazione del ricorrente, deve considerarsi in re ipsa, essendo coinvolte «due macroaree notoriamente regolate dai piani di rientro dal disavanzo sanitario» (così, da ultimo, sentenza n. 134 del 2023, punto 8.2. del Considerato in diritto, proprio con riguardo ad un’analoga situazione di riorganizzazione sanitaria nella Regione Puglia). 4.– Le questioni sono inammissibili. 4.1.– Anzitutto, per quanto riguarda il profilo soggettivo che viene coinvolto dalle censure del ricorrente nella parte in cui esse lamentano l’ampliamento, che sarebbe stato operato con l’art. 1, della platea dei beneficiari delle prestazioni odontoiatriche rispetto alle corrispondenti previsioni statali sui LEA, il ricorso è carente nell’illustrazione del presupposto interpretativo che dovrebbe sorreggerlo. 4.1.1.– La tesi del ricorrente è che la legge pugliese, laddove indica come beneficiari i «pazienti fragili con disabilità psicomotoria o con disturbi del comportamento» (art. 1), avrebbe individuato patologie diverse e ulteriori rispetto a quelle che, in base alla fonte statale di riferimento (costituita dall’Allegato 4C al d.P.C.m. 12 gennaio 2017), selezionano i soggetti beneficiari delle prestazioni odontoiatriche; e ciò avrebbe fatto senza associare tali patologie alla condizione di «vulnerabilità sociale». In proposito, si evidenzia nel ricorso che, in base al menzionato Allegato 4C, l’accesso alle prestazioni odontoiatriche è garantito sulla base del criterio della «vulnerabilità sanitaria» nei casi in cui si tratti «almeno» di «cittadini affetti da gravi patologie, le cui condizioni di salute possano essere gravemente pregiudicate da una patologia odontoiatrica concomitante (criterio “discendente”), al punto che il mancato accesso alle cure odontoiatriche possa mettere a repentaglio la prognosi “quoad vitam” del soggetto». In tale ottica, secondo il testo normativo statale di cui si tratta, sono individuabili «almeno le seguenti condizioni: 1. pazienti in attesa di trapianto e post-trapianto (escluso il trapianto di cornea); 2. pazienti con stati di immunodeficienza grave; 3. pazienti con cardiopatie congenite cianogene; 4. pazienti con patologie oncologiche ed ematologiche in età evolutiva e adulta in trattamento con radioterapia o chemioterapia o comunque a rischio di severe complicanze infettive; 5. pazienti con emofilia grave o altre gravi patologie dell’emocoagulazione congenite, acquisite o iatrogene». Rimarca altresì il ricorrente che, per i pazienti affetti da altre patologie, o da altre condizioni cui possono associarsi complicanze di natura odontoiatrica, l’accesso alle prestazioni è comunque consentito, sempre in base alle previsioni dell’Allegato 4C, ma solo allorché tali ulteriori patologie risultino associate alla condizione della «vulnerabilità sociale»: condizione che, invece, la legge pugliese impugnata avrebbe disatteso. 4.1.2.– Tale ricostruzione della normativa statale rilevante è affetta da omissioni che ridondano in una non adeguata motivazione del vizio di legittimità costituzionale dedotto. Il ricorrente, invero, parte dall’implicito presupposto secondo cui l’elenco degli stati patologici pregressi, che abilitano i pazienti che ne sono portatori alla fruizione delle prestazioni odontoiatriche in base alla sola condizione della «vulnerabilità sanitaria» (terza pagina dell’Allegato 4C al d.P.C.m. 12 gennaio 2017), configuri un catalogo chiuso, dinnanzi al quale, cioè, le regioni non potrebbero attribuire rilevanza ad ulteriori stati pregressi in mancanza del concorrente requisito della vulnerabilità sociale. Sulla base di tale dato di partenza, lo Stato sostiene l’illegittimità costituzionale della legge pugliese poiché, rispetto a quelle elencate dal citato Allegato, avrebbe selezionato altre e distinte patologie (disabilità psicomotoria e disturbi del comportamento), ponendole come requisito sufficiente per l’accesso alle cure odontoiatriche. Tale presupposto interpretativo, tuttavia, non risulta argomentato. Alla luce della formulazione della normativa statale interposta, che si caratterizza per un elevato livello di tecnicismo, l’affermazione della natura tassativa dell’elenco in esame avrebbe richiesto un’adeguata illustrazione. Detta normativa si inscrive nella logica che mira all’individuazione dei LEA e che, come tale, è volta a delimitare rigorosamente la spesa sanitaria per quelle regioni, come la Puglia, che si trovano sottoposte al piano di rientro. Tuttavia, lo stesso Allegato 4C, laddove declina il criterio della vulnerabilità sanitaria cosiddetto “discendente”, conferisce generale rilevanza alle «malattie e […] condizioni nelle quali le condizioni di salute potrebbero risultare aggravate o pregiudicate da patologie odontoiatriche concomitanti». Sicché il successivo elenco delle patologie pregresse, anche alla stregua dell’impiego ripetuto dell’avverbio «almeno» che lo caratterizza, è apparso alla Regione resistente acquisire una più aperta connotazione, e ciò in funzione dell’obiettivo di curare, o di non far aggravare, lo stato pregresso. Più in particolare, la Regione Puglia ha sottolineato che i pazienti «fragili con disabilità psicomotoria o con disturbi del comportamento» sarebbero da ricomprendere nella categoria dei soggetti «affetti da gravi patologie, le cui condizioni di salute possono essere gravemente pregiudicate da una patologia odontoiatrica concomitante», categoria cui il richiamato Allegato 4C garantisce l’accesso alle prestazioni odontoiatriche. In tale quadro, il ricorrente si è limitato ad affermare, in modo assertivo, il carattere tassativo del catalogo degli stati patologici preesistenti di cui all’Allegato 4C, senza illustrare adeguatamente le ragioni per le quali il legislatore regionale, nel dare attuazione ai LEA quanto all’accesso alle cure odontoiatriche, non avrebbe dovuto conferire rilievo ai pregressi stati patologici presi in considerazione. 4.1.3.– Per costante orientamento di questa Corte, «non basta l’indicazione delle norme da raffrontare per valutare la compatibilità dell’una rispetto al contenuto precettivo dell’altra, ma è necessario motivare il giudizio negativo in tal senso e, se del caso, illustrare i passaggi interpretativi operati al fine di enucleare i rispettivi contenuti di normazione» (ex plurimis, sentenze n. 115 del 2020 e n. 212 del 2018). In particolare, quanto ai giudizi in via principale, nei quali l’esigenza di un’adeguata motivazione a fondamento della richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale si pone in termini addirittura più stringenti che nei giudizi incidentali (tra le tante, sentenze n. 68 del 2024, n. 125 del 2023, n. 135 e n. 71 del 2022), questa Corte afferma costantemente che «il ricorrente ha l’onere non soltanto di individuare le disposizioni impugnate e i parametri costituzionali di cui denuncia la violazione, ma anche di suffragare le ragioni del dedotto contrasto sviluppando un’argomentazione non meramente assertiva, sufficientemente chiara e completa» (sentenza n. 112 del 2023). Onere che, per quanto sopra detto, nel presente giudizio non è stato assolto dal ricorrente. 4.2.– Analoghi rilievi di inammissibilità devono svolgersi in relazione alle censure riferite al profilo oggettivo delle questioni promosse, relativo alla tipologia di prestazioni odontoiatriche che vengono fatte rientrare nei LEA. Nel ricorso si sostiene che le prestazioni ammesse dalla legge reg. Puglia n. 12 del 2023 – e cioè quelle «a invasività minore, media e maggiore […] il cui periodo d’osservazione per complicanze post-intervento non sia superiore a ventiquattro ore dal termine della procedura» (art. 1) – fuoriescono dai livelli essenziali di assistenza riservati, dall’Allegato 4C, ai soggetti vulnerabili. Nel sostenere l’assunto, il ricorrente pone a raffronto la previsione pugliese – che, come già visto, si riferisce a soggetti già affetti da particolari patologie (disabilità psicomotoria e disturbi del comportamento) – con l’elenco delle prestazioni odontoiatriche che si rinviene alla fine della quarta pagina dell’Allegato 4C, il quale enumera sette specifiche prestazioni mediche che devono essere garantite ai soggetti in condizione di vulnerabilità sociale. 4.2.1.– Il confronto così impostato, tuttavia, non può considerarsi idoneo a sorreggere le dedotte censure. L’elenco richiamato dal ricorrente si riferisce, invero, alla sola situazione dei pazienti che si trovino in condizioni di vulnerabilità sociale, e non anche alla diversa cornice, presa in considerazione dalla legge pugliese impugnata, di pazienti che presentino bisogni correlati alla vulnerabilità sanitaria. Per questi ultimi, lo stesso Allegato 4C, al paragrafo 3, nella sezione specificamente dedicata proprio alla «vulnerabilità sanitaria», individua un diverso gruppo di prestazioni odontoiatriche, cioè quelle «incluse nel nomenclatore dell’assistenza specialistica ambulatoriale, con l’esclusione dei manufatti protesici e degli interventi di tipo estetico» (nomenclatore riportato nell’Allegato 4 al d.P.C.m. 12 gennaio 2017). Il parametro di raffronto impiegato dal ricorrente, pertanto, si palesa non conferente rispetto alla situazione (pazienti in specifiche condizioni di vulnerabilità sanitaria) che avrebbe dovuto essere indagata. Un corretto confronto avrebbe dovuto considerare, da un lato, la specifica tipologia di prestazioni assicurate dalla disposizione regionale impugnata e, dall’altro lato, le prestazioni che, secondo le indicazioni dell’Allegato 4C, si rinvengono nel nomenclatore dell’assistenza specialistica ambulatoriale. In tale contesto, il ricorrente avrebbe dovuto chiarire le ragioni per le quali le prime (pur definite sulla base di una nozione ampia e generale, che valorizza le sole condizioni di «invasività» e la connessa durata del periodo di osservazione per complicanze post-intervento) non potrebbero ritenersi ricomprese tra le seconde (che sono, invece, caratterizzate da un elenco a voci specifiche, come riportate nel richiamato Allegato 4 al d.P.C.m. 12 gennaio 2017). 4.2.2.– Va, al riguardo, ancora richiamata la giurisprudenza di questa Corte, che ha ripetutamente precisato che il ricorso avverso una norma regionale, recante pregiudizio alle attribuzioni statali, deve essere adeguatamente motivato e, a supporto delle censure prospettate, deve chiarire il meccanismo attraverso cui si realizzerebbe il vulnus lamentato. Quando – come nel caso di specie – il vizio sia prospettato in relazione a norme interposte specificamente richiamate, è necessario evidenziare la pertinenza e la coerenza di tale richiamo rispetto al parametro evocato (ex plurimis, sentenze n. 71 del 2022 e n. 232 del 2019): ciò che, nella specie, non è avvenuto. 5.– L’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge reg. Puglia n. 12 del 2023 comporta l’inammissibilità anche di quelle relative agli artt. 2 e 3 della stessa legge, che sono meramente attuativi del disposto del predetto art. 1. 6.– Per le esposte ragioni, tutte le questioni di legittimità costituzionale promosse devono essere dichiarate inammissibili. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 3 della legge della Regione Puglia 15 giugno 2023, n. 12 (Prestazioni odontoiatriche per pazienti fragili erogate in strutture pubbliche territoriali), promosse, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 marzo 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Maria Rosaria SAN GIORGIO, Redattrice Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), e, in via subordinata, dell’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), promosso dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, nel procedimento penale a carico di S. H., con ordinanza del 17 luglio 2023, iscritta al n. 125 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2023. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2024 il Giudice relatore Luca Antonini; deliberato nella camera di consiglio del 16 aprile 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 17 luglio 2023 (reg. ord. n. 125 del 2023), il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, ha sollevato, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), nella parte in cui stabilisce che il precedente comma 1 non si applichi ai reati di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero). In via subordinata, il giudice a quo ha sollevato, sempre in riferimento all’art. 76 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), «nella parte in cui non prevede l’abrogazione, trasformandolo in illecito amministrativo», del reato di cui all’art. 10-bis del citato d.lgs. n. 286 del 1998. 1.1.– L’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 8 del 2016 esclude l’applicabilità della depenalizzazione disposta dal comma 1 – secondo cui «[n]on costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda» –, tra l’altro, ai reati contemplati dal d.lgs. n. 286 del 1998. L’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 7 del 2016 abroga alcune norme incriminatrici contenute nel codice penale. 2.– Riferisce il giudice a quo di essere investito dell’appello avverso la sentenza che ha condannato S. H. per il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998. Di qui la rilevanza di entrambe le questioni, giacché dal loro accoglimento conseguirebbero la depenalizzazione del suddetto reato e l’assoluzione dell’imputato. 3.– In ordine alla non manifesta infondatezza, il rimettente espone che l’art. 2, comma 1, della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi «per la riforma della disciplina sanzionatoria dei reati e per la contestuale introduzione di sanzioni amministrative e civili». A tal fine, per quanto qui interessa, il successivo comma 2, lettera a), ha dettato il criterio direttivo della trasformazione in illeciti amministrativi di «tutti i reati per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda, ad eccezione» di quelli rientranti in alcune materie. Il comma 3, lettera b), del medesimo art. 2 ha posto il criterio direttivo dell’abrogazione e della trasformazione in illecito amministrativo del reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998. A parere del Tribunale fiorentino, le suddette disposizioni avrebbero conferito al Governo la delega a depenalizzare il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato: la prima, poiché questo reato è punito con la sola pena dell’ammenda e rientrerebbe, quindi, non essendo ascrivibile a una delle materie espressamente escluse dalla depenalizzazione, nel suo ambito applicativo; la seconda, disponendolo esplicitamente. Il legislatore delegato, tuttavia, avrebbe violato tali criteri direttivi – così ledendo l’art. 76 Cost. – «in entrambi i decreti legislativi»: «nel d.lgs. 8/2016 con riguardo» all’art. 2, comma 2, lettera a), della legge n. 67 del 2014 e «nel d.lgs. 7/2016 con riguardo» all’art. 2, comma 3, lettera b), della medesima legge delega. 3.1.– Nello specifico, il giudice a quo osserva che, in attuazione della delega recata dall’art. 2, comma 2, lettera a), della legge n. 67 del 2014, l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016 ha stabilito che le violazioni punite con la sola pena della multa o dell’ammenda non costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro. Il denunciato art. 1, comma 4, del medesimo decreto legislativo, tuttavia, precludendo l’applicabilità di tale depenalizzazione a tutti i reati di cui al d.lgs. n. 286 del 1998, avrebbe violato la suddetta norma interposta, che invece non ha espressamente escluso dalla depenalizzazione stessa la materia dell’immigrazione e, quindi, il reato oggetto del processo principale. D’altro canto, aggiunge il rimettente, la materia dell’immigrazione, se in origine era prevista nel disegno di legge A.S. n. 110, nel corso dei lavori parlamentari è stata poi espunta dal novero di quelle eccettuate dalla depenalizzazione in parola. Pertanto, non si potrebbe ritenere, come invece sostenuto nella relazione di accompagnamento allo schema di decreto delegato che sarebbe poi divenuto il d.lgs. n. 8 del 2016, che nella specie il Governo si sia limitato a una parziale inattuazione della delega ricevuta: al contrario, il censurato art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 8 del 2016 si sarebbe risolto nella violazione, in sostanza, del criterio direttivo volto a imporre tale depenalizzazione, così violando l’art. 76 Cost. 3.2.– Ove questa Corte non ritenesse di accogliere la questione così prospettata in via principale, il rimettente solleva, in via subordinata, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 7 del 2016. Precisa al riguardo che, «benché la materia della depenalizzazione del reato ex art. 10-bis d.lgs. 286/1998 sia più affine al contenuto del d.lgs. 8/2016 (il d.lgs. 7/2016 si occupa invece di abrogare talune norme incriminatrici e di prevedere per i fatti ivi già previsti delle sanzioni pecuniarie civili), si reputa più corretto individuare il provvedimento da censurare nel d.lgs. 7/2016 ed in particolare nel relativo articolo 1, che ha previsto l’abrogazione di alcune norme incriminatrici». Questa disposizione, evidenzia il giudice a quo, nell’abrogare diverse norme incriminatrici recate dal codice penale, non prevede alcunché con riguardo al reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, che, invece, l’art. 2, comma 3, lettera b), della legge n. 67 del 2014 ha specificamente delegato il Governo ad abrogare e trasformare in illecito amministrativo. Di qui la dedotta violazione dell’art. 76 Cost. anche ad opera del citato art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 7 del 2016. 3.2.1.– Nell’ipotesi in cui venisse accolta tale questione, il rimettente sollecita, infine, questa Corte a dichiarare, in via consequenziale, l’illegittimità costituzionale anche dello stesso art. 10-bis, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998, «nella parte in cui prevede la pena dell’ammenda da 5.000 a 10.000 euro anziché la sanzione amministrativa da 5.000 a 10.000 euro». 4.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate non fondate. 4.1.– In merito alla censura che investe l’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 8 del 2016, la difesa statale premette che sarebbe «del tutto fisiologica» un’attività «normativa di completamento e sviluppo delle scelte del delegante» (è citata la sentenza n. 212 del 2018 di questa Corte), per la cui attuazione il Governo fruirebbe dunque di «un margine di discrezionalità», tanto più in presenza di principi e criteri direttivi dal significato oggettivamente incerto. Quindi, sottolinea innanzitutto che, nonostante la mancata inclusione dell’immigrazione tra le materie sottratte alla depenalizzazione ai sensi dell’art. 2, comma 2, lettera a), della legge n. 67 del 2014, questa norma annovera tuttavia, tra tali materie escluse, quella della «sicurezza pubblica», rispetto alla quale i reati di cui al d.lgs. n. 286 del 1998 presenterebbero una «indubbia connessione». Inoltre, evidenzia che il legislatore delegante avrebbe sì previsto – però con una norma interposta diversa da quella evocata in relazione alla questione in esame – la depenalizzazione del reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, ma «non certo di tutti i reati contemplati dal predetto corpus normativo»: di qui la legittimità costituzionale della scelta adottata dal Governo con la disposizione sospettata in via principale. 4.2.– A giudizio dell’Avvocatura generale, anche la questione, sollevata in via subordinata, avente a oggetto l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 7 del 2016 sarebbe priva di pregio. Il Governo, infatti, avrebbe soltanto omesso in parte di esercitare la delega conferitagli, ciò che potrebbe sì determinare la sua responsabilità politica verso il Parlamento, «ma non una violazione dell’art. 76 Cost., a meno che il mancato parziale esercizio della delega stessa non comporti uno stravolgimento della legge di delegazione» (è citata la sentenza n. 223 del 2019 di questa Corte). Stravolgimento che, d’altra parte, non sarebbe ravvisabile nella specie, poiché l’omessa attuazione della delega riguarderebbe «un particolare punto, che comunque è del tutto autonomo rispetto alle altre ipotesi di depenalizzazione previste», come affermato nel parere espresso dalle «Commissioni parlamentari, chiamate a pronunciarsi proprio sui decreti legislativi nn. 7 e 8 del 2016». Tale parere costituirebbe quindi un «elemento che, come in generale i lavori preparatori, può contribuire alla corretta esegesi della» legge delega, sicché «proprio dalla mancata censura in sede parlamentare questa Corte ha già potuto argomentare come non si fosse in presenza di una violazione della legge» stessa (è citata la sentenza n. 127 del 2017 di questa Corte). Considerato in diritto 1.– Con ordinanza del 17 luglio 2023 (reg. ord. n. 125 del 2023), il Tribunale di Firenze, sezione prima penale, in via principale dubita, in riferimento all’art. 76 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 8 del 2016, nella parte in cui stabilisce che il precedente comma 1 non si applichi ai reati di cui al d.lgs. n. 286 del 1998, e, in via subordinata, dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 7 del 2016, «nella parte in cui non prevede l’abrogazione, trasformandolo in illecito amministrativo», del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato di cui all’art. 10-bis del citato d.lgs. n. 286 del 1998. 2.– L’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 8 del 2016, denunciato quindi in via principale, esclude dalla depenalizzazione disposta dal comma 1 – secondo cui «[n]on costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro tutte le violazioni» punite con la sola pena della multa o dell’ammenda –, tra l’altro, i reati contemplati dal d.lgs. n. 286 del 1998. Ad avviso del rimettente, questa disposizione violerebbe l’art. 76 Cost. perché si porrebbe in contrasto con l’art. 2, comma 2, lettera a), della legge n. 67 del 2014, che ha conferito al Governo la delega a trasformare in illeciti amministrativi i reati puniti con sola pena pecuniaria e non ha annoverato tra le materie eccettuate da tale depenalizzazione quella dell’immigrazione: il reato previsto dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 (ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato), sottoposto alla sua cognizione e punito con la pena dell’ammenda, avrebbe dovuto, pertanto, essere depenalizzato in forza del criterio direttivo dettato dalla norma interposta evocata. 2.1.– L’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 7 del 2016, denunciato in subordine, abroga alcune norme incriminatrici recate dal codice penale. Questa disposizione lederebbe l’art. 76 Cost. poiché, omettendo di abrogare e trasformare in illecito amministrativo il reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, confliggerebbe con l’art. 2, comma 3, lettera b), della legge n. 67 del 2014, che tale abrogazione e contestuale trasformazione ha specificamente previsto. 3.– Preliminarmente, occorre precisare la reale portata del petitum della questione sollevata in via principale. Nonostante l’indistinto riferimento del dispositivo dell’ordinanza di rimessione ai reati previsti dal d.lgs. n. 286 del 1998, dal complessivo tenore dell’ordinanza medesima (ex plurimis, sentenza n. 161 del 2023) si evince con chiarezza che in realtà il giudice a quo si duole dell’esclusione dalla depenalizzazione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato. In molteplici passaggi dell’ordinanza, infatti, il Tribunale fiorentino argomenta con specifico riferimento a tale reato, che, d’altro canto, è l’unico che viene in rilievo nel processo principale. In considerazione delle argomentazioni del rimettente e della fattispecie concreta oggetto del giudizio a quo (ex plurimis, sentenze n. 54 del 2024, n. 66 del 2022 e n. 68 del 2021), deve, pertanto, ritenersi che l’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 8 del 2016 sia censurato nella sola parte in cui esclude l’applicabilità al suddetto reato della depenalizzazione disciplinata dal precedente comma 1. 4.– La questione non è fondata. La legge n. 67 del 2014 persegue – come si desume dall’esame dei lavori parlamentari e come evidenziato nelle relazioni governative di accompagnamento agli schemi dei decreti legislativi che vi hanno dato attuazione – l’obiettivo di deflazionare il sistema penale, sostanziale e processuale, in ossequio ai principi di frammentarietà, offensività e sussidiarietà della sanzione criminale. La chiara finalità politico-criminale delle deleghe recate dalla suddetta legge è quindi rinvenibile nell’esigenza di un alleggerimento del sistema penale coerente con il principio della extrema ratio del ricorso alla pena. 4.1.– In quest’ottica, l’art. 2 della legge in esame, al comma 1, ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi «per la riforma della disciplina sanzionatoria dei reati e per la contestuale introduzione di sanzioni amministrative e civili». Nel prevedere la trasformazione in illeciti amministrativi di un insieme di reati, il legislatore delegante ha fatto ricorso, al fine della loro individuazione, a due criteri selettivi. Il primo, previsto dalla lettera a) del comma 2 del medesimo art. 2, consiste nella cosiddetta depenalizzazione “cieca”, in quanto dispone, in virtù di una clausola generale, la trasformazione in illeciti amministrativi di «tutti i reati» puniti con la «sola pena della multa o dell’ammenda», a eccezione di quelli riconducibili ad alcune materie (edilizia e urbanistica; ambiente, territorio e paesaggio; alimenti e bevande; salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; sicurezza pubblica; giochi d’azzardo e scommesse; armi ed esplosivi; elezioni e finanziamento ai partiti; proprietà intellettuale e industriale). Il secondo è quello di cui alle lettere da b) a d) della stessa disposizione, che hanno indicato nominatim numerose fattispecie di reato contemplate sia dal codice penale che dalla legislazione speciale. 4.2.– Durante i lavori parlamentari, come notato anche dal giudice rimettente, la materia dell’immigrazione, inizialmente compresa nell’elenco di quelle sottratte alla depenalizzazione “cieca” (disegno di legge A.S. n. 110), è stata in seguito soppressa (in forza del subemendamento n. 1.0.100/5 approvato dalla Commissione giustizia del Senato della Repubblica), con il contestuale inserimento (in quello che sarebbe poi divenuto il comma 3, lettera b, dell’art. 2 della legge n. 67 del 2014) della previsione dell’abrogazione del reato di cui all’art. 10-bis del citato d.lgs. n. 286 del 1998. Tuttavia, nel successivo svolgimento dei lavori, il Governo, con altro emendamento, ha introdotto la previsione, accanto alla suddetta abrogazione, della trasformazione in illecito amministrativo del reato in parola, nonché quella secondo cui sarebbe invece dovuta rimanere ferma la rilevanza penale di altre violazioni in materia di immigrazione. Si è così giunti alla formulazione dell’attuale art. 2, comma 3, lettera b), della legge n. 67 del 2014, che dispone: «abrogare, trasformandolo in illecito amministrativo, il reato previsto dall’articolo 10-bis del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, conservando rilievo penale alle condotte di violazione dei provvedimenti amministrativi adottati in materia». 4.3.– Tale evoluzione rende evidente che, dal punto di vista normativo, la sedes materiae in cui deve essere considerato, al fine di valutare il possibile contrasto con l’art. 76 Cost., il problema della mancata abrogazione e trasformazione in illecito amministrativo del reato di cui al citato art. 10-bis non è più la cosiddetta depenalizzazione “cieca”, bensì quella nominativa. La presenza di una esplicita previsione che individua ad nomen il reato in questione, accompagnata dalla previsione di mantenere «rilievo penale alle condotte di violazione dei provvedimenti amministrativi adottati in materia», rende infatti palese che, a seguito dello svolgimento dei lavori parlamentari, il principio direttivo della legge delega non attiene più all’ambito della suddetta depenalizzazione “cieca”; questa infatti, per definizione, opera una generica individuazione tramite il trattamento sanzionatorio e non tramite la specifica selezione di singoli reati. Il censurato art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 8 del 2016, laddove stabilisce che la «disposizione del comma 1 non si applica ai reati di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286», non si pone, quindi, in contrasto con il principio direttivo attinente alla depenalizzazione “cieca”, evocato dal rimettente come norma interposta. Peraltro, tale conclusione non sembra sfuggire allo stesso rimettente che, formulando la questione in via subordinata, precisa – anche se impropriamente, come si vedrà di seguito – di reputare «più corretto individuare il provvedimento da censurare nel d.lgs. 7/2016 ed in particolare nel relativo articolo 1, che ha previsto l’abrogazione di alcune norme incriminatrici». 5.– La questione formulata in via subordinata è tuttavia inammissibile per una evidente aberratio ictus in cui il giudice a quo incorre nel censurare l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 7 del 2016, anziché l’art. 3 del d.lgs. n. 8 del 2016, che disciplina la depenalizzazione nominativa dei reati contemplati dalla legislazione speciale (quale è quello qui in considerazione). L’indubbiato art. 1, comma 1, dispone, infatti, l’abrogazione dei reati di cui agli artt. 485, 486, 594, 627 e 647 cod. pen. (sono i reati di «[f]alsità in scrittura privata», «[f]alsità in foglio firmato in bianco. Atto privato», «[i]ngiuria», «[s]ottrazione di cose comuni», «[a]ppropriazione di cose smarrite, del tesoro o di cose avute per errore o caso fortuito»). Si tratta di reati che nulla hanno a che fare con quello di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, perché la disposizione in esame attua il criterio direttivo stabilito dall’art. 2, comma 3, lettera a), della legge n. 67 del 2014 e non certo quello previsto dall’art. 2, comma 3, lettera b). Il primo criterio direttivo, a differenza del secondo, attiene a uno specifico e innovativo strumento previsto dalla legge delega, riguardante l’«abrogazione di alcuni reati, con contemporanea sottoposizione dei corrispondenti fatti a sanzioni pecuniarie civili a carattere punitivo, che si aggiungono all’obbligo delle restituzioni e del risarcimento del danno secondo le leggi civili» (sentenza n. 102 del 2018). Il censurato art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 7 del 2016, del resto, va letto unitamente al successivo art. 4 del medesimo decreto legislativo, con cui, parallelamente alla menzionata abolitio criminis, il legislatore delegato ha introdotto l’innovativa figura degli illeciti civili corredati da una sanzione pecuniaria aggiuntiva al risarcimento del danno: tale disposizione, infatti, descrive le condotte oggetto delle norme incriminatrici abrogate che soggiacciono a tale sanzione, stabilendo i relativi importi entro una determinata forbice edittale. Ciò in attuazione delle lettere da c) ad e) dello stesso art. 2, comma 3, della legge n. 67 del 2014, le quali, in correlazione con la precedente lettera a), recano appunto i criteri e i principi direttivi relativi all’introduzione, contestualmente all’abrogazione dei detti reati, per i fatti corrispondenti, di sanzioni pecuniarie civili aggiuntive rispetto al risarcimento del danno. 5.1.– Questa Corte, peraltro, ha già avuto occasione di precisare che il denunciato art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 7 del 2016 costituisce «attuazione della delega recata dall’art. 2, comma 3, lettera a), della legge n. 67 del 2014», «non già [del]la depenalizzazione, oggetto [invece] del parallelo d.lgs. n. 8 del 2016» (sentenza n. 216 del 2018). Di conseguenza, ha ritenuto inammissibile, per aberratio ictus, la questione avente a oggetto la mancata depenalizzazione del reato di minaccia non grave, in asserita violazione dell’art. 2, comma 2, lettere a) e g), della legge n. 67 del 2014, in quanto il rimettente aveva censurato, appunto, l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 7 del 2016, anziché la pertinente norma del d.lgs. n. 8 del 2016. 5.2.– In conclusione il giudice a quo, nel dolersi della (asserita) violazione del criterio direttivo di cui all’art. 2, comma 3, lettera b), della legge n. 67 del 2014, per avere il Governo omesso di trasformare in illecito amministrativo il citato reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, erroneamente indirizza le sue censure sull’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 7 del 2016 che si occupa, invece, dell’abrogazione di fattispecie incriminatrici poi sottoposte dal successivo art. 4 a sanzioni pecuniarie civili. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe; 2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), sollevata, in riferimento all’art. 76 Cost., dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 aprile 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Luca ANTONINI, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge della Regione Piemonte 24 aprile 2023, n. 6 (Bilancio di previsione finanziario 2023-2025), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 23 giugno 2023, depositato in cancelleria il 27 giugno 2023, iscritto al n. 21 del registro ricorsi 2023 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 32, prima serie speciale, dell’anno 2023. Visto l’atto di costituzione della Regione Piemonte; udita nell’udienza pubblica del 20 marzo 2024 la Giudice relatrice Antonella Sciarrone Alibrandi; uditi l’avvocato dello Stato Giancarlo Caselli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Letizia Mazzarelli per la Regione Piemonte; deliberato nella camera di consiglio del 20 marzo 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso depositato il 27 giugno 2023 (reg. ric. n. 21 del 2023), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato l’art. 8 della legge della Regione Piemonte 24 aprile 2023, n. 6 (Bilancio di previsione finanziario 2023-2025), in riferimento agli artt. 5, 120 e 117, terzo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1, commi 173 e 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005), nella parte in cui – sostituendo il comma 2 dell’art. 14 della legge della Regione Piemonte 5 dicembre 2016, n. 24 (Assestamento del bilancio di previsione finanziario 2016-2018 e disposizioni finanziarie) – dispone che il già previsto trasferimento di cassa in favore della gestione sanitaria, da prelevare dal conto di tesoreria della gestione ordinaria, è prorogato fino al 2032 (mentre in precedenza si prevedeva dovesse concludersi entro il 2026) e sono diversamente modulati, anno per anno, gli importi da trasferire e da destinare alla riduzione dei residui passivi verso le aziende sanitarie regionali risultanti al 31 dicembre 2015. 1.1.– Il ricorrente premette che nel testo originario dell’art. 14, comma 2, della legge regionale n. 24 del 2016 erano stati determinati importi e tempistica secondo cui realizzare la restituzione integrale, entro il 2026, della liquidità regionale dovuta nei confronti del Servizio sanitario regionale (SSR) – e pari a 1.505 milioni di euro –, sulla base di quanto disposto in esito alle riunioni del tavolo tecnico per la verifica degli adempimenti regionali e del Comitato permanente per la verifica dei livelli essenziali di assistenza (LEA), riferiti al periodo in cui la Regione Piemonte era in piano di rientro dal disavanzo sanitario. La difesa statale ricorda, infatti, che dal 29 luglio 2010 al 21 marzo 2017 la Regione era stata assoggettata al «Piano di rientro di riqualificazione e riorganizzazione e di individuazione degli interventi per il perseguimento dell’equilibrio economico ai sensi dell’articolo 1, commi 173 e 180, della legge 30 dicembre 2004». Precisa, inoltre, che le citate disposizioni, nonché l’intesa Stato - regioni del 23 marzo 2005, hanno previsto forme di affiancamento del Governo centrale – e in specie del Ministero della salute, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, nell’ambito del Sistema nazionale di verifica e controllo sull’assistenza sanitaria (SiVeAS) – alle regioni che sottoscrivano gli accordi contenenti i piani di rientro dal disavanzo sanitario, come, ad esempio, la preventiva approvazione dei provvedimenti predisposti dalle singole regioni in attuazione di quanto previsto nei rispettivi piani. Nella specie, la difesa statale ricorda che, con riferimento allo stato patrimoniale regionale relativo all’anno 2015, i predetti tavoli tecnici avevano rilevato che «sulla base di quanto comunicato dalla Regione, erano emerse risorse extra-FSR assegnate e non erogate agli enti del SSR e somme prelevate dal c/c di tesoreria da parte della Regione per finalità non sanitarie per complessivi 1 miliardo e 505 milioni di euro, per la sola parte corrente». La necessità di trovare una soluzione a tale situazione, di evidente gravità, era stata presa in considerazione in sede di valutazione della conclusione positiva del piano di rientro dal disavanzo sanitario e si era richiesto alla Regione di far conoscere le iniziative che sarebbero state adottate per la restituzione al SSR dell’importo complessivamente dovuto. Rispetto a una prima proposta di restituzione delle somme presentata dalla Regione nella riunione del 16 novembre del 2016, i citati tavoli tecnici chiedevano che si prevedesse un numero di annualità non superiore a dieci (2017-2026) e, in particolare, che dal 2017 al 2022 fosse garantito il trasferimento di cassa in favore della gestione sanitaria per importi pari a 65 milioni di euro annui per il 2017 e per il 2018, e a 113 milioni di euro annui per ogni esercizio dal 2019 al 2022, da destinare alla riduzione dei residui passivi verso le aziende sanitarie regionali risultanti al 31 dicembre 2015. Il ricorrente ricorda che, nella riunione del 21 marzo 2017 (in occasione della quale il piano di rientro si è concluso), i tavoli tecnici avevano preso atto dell’approvazione della legge reg. Piemonte n. 24 del 2016 che, all’art. 14, comma 2, aveva disposto quanto da essi richiesto e concludevano che, pertanto, il programma di restituzione della liquidità al SSR per 1.505 milioni di euro rifletteva quanto richiesto dai medesimi nella riunione del 16 novembre 2016. 1.2.– Tanto premesso, il ricorrente ritiene che l’art. 8 della legge reg. Piemonte n. 6 del 2023, là dove prevede, per la restituzione delle somme sottratte alla gestione sanitaria, tempi più lunghi (con integrale restituzione posticipata dal 2026 al 2032) e, di conseguenza, importi annui ridotti, sia intervenuto sul descritto meccanismo restitutorio, modificando unilateralmente l’art. 14, comma 2, della legge reg. Piemonte n. 24 del 2016, in contrasto con le risultanze e i presupposti assunti nell’analisi dei predetti organi di monitoraggio, a composizione mista regionale-statale (tavolo tecnico e Comitato permanente). In sostanza, l’intervento normativo regionale verrebbe a modificare il contenuto delle intese a suo tempo raggiunte fra Stato e Regione in ordine alla descritta restituzione delle risorse del SSR da parte dell’ente regionale, in assenza di alcuna modifica delle medesime intese né di alcuna interlocuzione preventiva fra la Regione Piemonte e le amministrazioni statali competenti (in specie, il Ministero dell’economia e delle finanze e il Ministero della salute) e, quindi, in violazione del canone di leale collaborazione che deve informare i rapporti tra Stato e regioni (artt. 5 e 120 Cost.). Inoltre, premesso che, per costante giurisprudenza costituzionale, l’autonomia legislativa concorrente delle regioni nel settore della tutela della salute e, in particolare, nell’ambito della gestione del servizio sanitario può incontrare limiti alla luce degli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento delle spese, il ricorrente ravvisa, sotto un profilo concorrente, la violazione dei principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost., in relazione all’art. 1, commi 173 e 180, della legge n. 311 del 2004. Quest’ultima disposizione (l’art. 1, comma 180, della legge n. 311 del 2004) – come confermato successivamente dall’art. 1, comma 796, lettera b), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», e dall’art. 2, commi 80 e 95, della legge 23 dicembre 2009, n. 191, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2010)» – ha stabilito un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica consistente nella vincolatività per le regioni degli interventi contemplati nel piano di rientro dal disavanzo sanitario. La disposizione regionale impugnata, di conseguenza, costituirebbe un’ipotesi di violazione degli accordi derivanti dall’attuazione del piano di rientro, cui la Regione era all’epoca assoggettata, e quindi di violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. 2.– La Regione Piemonte si è costituita in giudizio e ha chiesto che le questioni promosse vengano dichiarate non fondate. 2.1.– La difesa regionale ricorda anzitutto che, nella riunione del 21 marzo 2017 del tavolo tecnico e del Comitato permanente, è stata disposta la cessazione delle misure previste dal «Piano di rientro di riqualificazione e riorganizzazione e di individuazione degli interventi per il perseguimento dell’equilibrio economico ai sensi dell’articolo 1, comma 180, della legge n. 311 del 2004» per la Regione Piemonte. Essa ritiene, inoltre, che la disposizione regionale impugnata non impedisca il raggiungimento dell’obiettivo comune, sancito nella ricordata riunione, che consisterebbe nella riduzione dei residui passivi verso le aziende sanitarie regionali, risultanti alla data del 31 dicembre 2015, attraverso la restituzione di 1.505 milioni di euro. Il mero prolungamento temporale del programma di restituzione, lungi dal pregiudicare l’obiettivo comune concordato nel tavolo tecnico del 21 marzo 2017, apparirebbe ragionevole, in quanto determinato dal radicale mutamento delle circostanze di fatto. A tal proposito, la difesa regionale ricorda che, negli anni 2020-2022, la Regione aveva dovuto investire ingenti risorse per far fronte, dapprima, alle esigenze connesse alla pandemia, poi al rincaro dei costi delle materie prime e dell’energia. Inoltre, la drastica riduzione del fondo di cassa della Regione sarebbe derivata, da un lato, dal ritardo nei trasferimenti delle risorse da parte dello Stato, e, dall’altro, dalla previsione di restituzioni allo Stato – introdotte da varie norme statali a far data dal 2022 – di somme dovute a vario titolo. In questo contesto, l’erogazione degli importi più elevati che, in base a quanto concordato nelle riunioni del tavolo tecnico per la verifica degli adempimenti regionali, si sarebbero dovuti versare sul conto sanitario a partire dal 2023, avrebbero pregiudicato il pagamento dei debiti, mantenuti a residuo, a favore dei beneficiari non sanitari rispetto ai quali sarebbe comunque doveroso un adempimento tempestivo. Le modifiche introdotte dalla disposizione regionale impugnata risulterebbero, dunque, ragionevoli e sostenibili, in quanto, operando un corretto bilanciamento tra le opposte esigenze, consentirebbero all’ente regionale di onorare l’impegno assunto nella citata riunione del 21 marzo 2017 e, al contempo, di non paralizzare del tutto il proprio operato nei molteplici ambiti, diversi da quello sanitario, nei quali lo stesso ente è chiamato a intervenire. Peraltro, in virtù dei trasferimenti di cassa ricevuti dalla Regione, il sistema delle ASL, dal 2017, avendo a disposizione la liquidità necessaria, avrebbe garantito il rispetto scrupoloso dei tempi dei pagamenti dei debiti commerciali secondo quanto previsto dalla direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Non sarebbe necessario, pertanto, a partire dal 2023, un flusso di cassa raddoppiato rispetto agli anni precedenti, né si correrebbe alcun rischio di una procedura di infrazione da parte dell’Unione europea nei confronti dello Stato italiano, in quanto i tempi di pagamento delle transazioni commerciali stabiliti dalla citata direttiva 2011/7/UE sarebbero stati pienamente rispettati. Ad avviso della Regione, la disposizione impugnata non si porrebbe quindi in contrasto con il piano di rientro, da cui la medesima è uscita a seguito della riunione del 21 marzo 2017, né sarebbe incompatibile con gli impegni assunti nella citata riunione, avendo solo rimodulato i tempi di restituzione della liquidità dovuta al sistema sanitario, senza incidere sul quantum complessivo di tale restituzione. 3.– All’udienza pubblica le parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate negli atti difensivi. Considerato in diritto 1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato l’art. 8 della legge reg. Piemonte n. 6 del 2023, nella parte in cui ha sostituito il comma 2 dell’art. 14 della legge reg. Piemonte n. 24 del 2016, in riferimento agli artt. 5, 120 e 117, terzo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1, commi 173 e 180, della legge n. 311 del 2004. Più in dettaglio, la difesa statale censura il citato art. 8 nella parte in cui ha prorogato all’anno 2032 il termine (in origine fissato al 2026) per la restituzione delle somme indebitamente sottratte alla gestione sanitaria e ha diversamente modulato, a partire dal 2023, gli importi da prelevare, anno per anno, dal conto di tesoreria della gestione ordinaria e da destinare alla riduzione dei residui passivi verso le aziende sanitarie regionali, come risultanti alla data del 31 dicembre 2015. Il ricorrente ritiene, infatti, che la disposizione impugnata abbia illegittimamente modificato, in via unilaterale, il contenuto delle intese, recepite nell’art. 14, comma 2, della legge reg. Piemonte n. 24 del 2016, raggiunte fra Stato e Regione, tramite il tavolo tecnico per la verifica degli adempimenti regionali e il Comitato permanente per la verifica dei LEA, organi a composizione mista regionale-statale, in occasione della riunione del 21 marzo 2017, in cui era stata dichiarata la conclusione positiva del piano di rientro dal disavanzo sanitario. La difesa statale si duole del fatto che tali modifiche del programma di restituzione delle somme nei confronti del SSR siano state effettuate in assenza di alcuna previa intesa modificativa, né di alcuna interlocuzione preventiva fra la Regione Piemonte e le amministrazioni statali competenti (in specie, il Ministero dell’economia e delle finanze e il Ministero della salute) e, quindi, in violazione del canone di leale collaborazione che deve informare i rapporti tra Stato e regioni (artt. 5 e 120 Cost.). La disposizione regionale impugnata, ad avviso del ricorrente, sarebbe, sotto un concorrente profilo, lesiva dei principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost., in relazione all’art. 1, commi 173 e 180, della legge n. 311 del 2004, considerato che l’autonomia legislativa concorrente delle regioni nel settore della tutela della salute e, in particolare, nell’ambito della gestione del servizio sanitario può incontrare limiti alla luce degli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento delle spese, «peraltro in un “quadro di esplicita condivisione da parte delle Regioni della assoluta necessità di contenere i disavanzi del settore sanitario” (cfr. sentenze n. 91/2012 e n. 193/2007)». L’impugnato art. 8 si porrebbe, poi, in specifico contrasto con gli accordi inerenti all’attuazione del piano di rientro dal disavanzo sanitario, cui la Regione era stata assoggettata dal 29 luglio 2010 al 21 marzo 2017, accordi la cui vincolatività per le regioni sottoposte ai medesimi piani costituisce un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica espressamente stabilito dall’art. 1, comma 180, della legge n. 311 del 2004 e ribadito dall’art. 1, comma 796, lettera b), della legge n. 296 del 2006, nonché dall’art. 2, commi 80 e 95, della legge n. 191 del 2009. 2.? In via preliminare, occorre precisare che, dal tenore complessivo del ricorso, pur formulato in maniera molto sintetica, si evince che il ricorrente ravvisa la violazione congiunta dei principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost., e del principio di leale collaborazione, che si sarebbe realizzata per effetto delle modifiche apportate in modo unilaterale dalla Regione Piemonte al programma di restituzione delle somme indebitamente sottratte alla gestione sanitaria e impiegate per finalità diverse. Il programma – come detto ? era stato concordato con i rappresentanti del Ministero dell’economia e delle finanze e del Ministero della salute presenti nel tavolo tecnico e nel Comitato permanente, organi a composizione mista regionale-statale, e definito in occasione della riunione del 21 marzo 2017, in cui era stata dichiarata la conclusione positiva del piano di rientro dal disavanzo sanitario cui la Regione Piemonte era stata assoggettata a partire dal 29 luglio 2010. L’illegittimità costituzionale di tali modifiche unilaterali è, infatti, denunciata richiamando sia la giurisprudenza di questa Corte sui limiti, in generale, che la regione incontra nell’esercizio della sua competenza «nell’ambito della gestione del servizio sanitario [...] alla luce degli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa», in un «quadro di esplicita condivisione da parte delle Regioni della assoluta necessità di contenere i disavanzi del settore sanitario» (sentenza n. 193 del 2007); sia la specifica configurazione, come principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, del principio di vincolatività dei piani di rientro dal disavanzo sanitario regionale e dei connessi programmi operativi, sottoscritti dallo Stato e dalle regioni in disavanzo, da cui discende il divieto in capo alle regioni sottoposte a tali piani di adottare provvedimenti contrastanti con tutti gli specifici interventi ivi indicati. Peraltro, una simile duplice prospettazione della questione si riflette nelle norme statali interposte evocate dal ricorrente, che non risultano tra loro sovrapponibili: la prima, e cioè l’art. 1, comma 173, della legge n. 311 del 2004, contempla, infatti, un generale principio – su cui ci si soffermerà più avanti (punto 4) – di definizione concordata fra Stato e regioni delle misure volte a realizzare gli obiettivi di mantenimento dell’equilibrio finanziario del sistema sanitario regionale (con conseguenti vincoli reciproci: dello Stato, quanto all’erogazione dei finanziamenti pattuiti, e della regione, quanto al rispetto degli obiettivi concordati); la seconda, e cioè l’art. 1, comma 180, della medesima legge n. 311 del 2004, contiene, invece, lo specifico principio di vincolatività dei piani di rientro e dei successivi programmi operativi, sottoscritti da Stato e regione, e il conseguente divieto per le regioni di adottare leggi e/o provvedimenti contrastanti con gli interventi indicati nei medesimi piani o programmi, nel periodo di vigenza di questi ultimi. 3.? In via preliminare, è agevole rilevare che – in linea con la giurisprudenza costante di questa Corte secondo cui «nell’individuazione della materia cui ascrivere una determinata norma, […] occorre considerarne ratio, finalità e contenuti, tralasciando aspetti marginali ed effetti riflessi» (sentenza n. 267 del 2022) – la disposizione regionale impugnata deve ricondursi alle materie di competenza regionale concorrente del coordinamento della finanza pubblica e della tutela della salute. Essa, infatti, nel disciplinare la restituzione, da parte della Regione, di somme in precedenza sottratte alla gestione sanitaria regionale e impiegate per finalità diverse, mira ad assicurare un finanziamento del Servizio sanitario regionale che sia, al contempo, coerente con gli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento dei costi, nonché con la garanzia di un servizio sanitario efficiente e idoneo a erogare le prestazioni sanitarie nel rispetto degli standard costituzionali. In sostanza, la medesima intende «realizzare una gestione della funzione sanitaria pubblica efficiente e capace di rispondere alle istanze dei cittadini coerentemente con le regole di bilancio» (sentenza n. 190 del 2022). 4.? Sulla base di tali premesse deve dichiararsi fondata la questione promossa in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., innanzitutto in relazione ai principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica stabiliti dall’art. 1, comma 173, della legge n. 311 del 2004, anche avuto riguardo al principio di leale collaborazione. 4.1.? Occorre, anzitutto, ricordare che il citato art. 1, comma 173, della legge n. 311 del 2004 ha dato ulteriore forma al modello pattizio di «regolazione finanziaria tra Stato e Regioni nel settore sanitario» (sentenza n. 36 del 2005), inaugurato dall’accordo sancito in Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano il 3 agosto 2000, poi seguito dall’accordo dell’8 agosto 2001 tra Governo, le regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano recante integrazioni e modifiche agli accordi sanciti il 3 agosto 2000 (repertorio atti 1004) e il 22 marzo 2001 (repertorio atti 1210) in materia sanitaria, e, in specie, attuato mediante i cosiddetti patti per la salute, frutto di intese raggiunte sempre in sede di Conferenza permanente Stato - Regioni - Province autonome, nel cui ambito si determinano, a un tempo, l’entità del concorso dello Stato al finanziamento del Servizio sanitario nazionale (SSN) e i puntuali adempimenti delle regioni, in un’ottica di incentivo e di condizionalità. Sulla medesima linea si colloca la legge finanziaria per il 2005 (la legge n. 311 del 2004) che, proprio con l’art. 1, comma 173, ha vincolato l’accesso al finanziamento statale integrativo (previsto dal precedente comma 164) alla stipula di una intesa Stato -regioni, volta a garantire – fra l’altro – il monitoraggio della spesa sanitaria regionale in vista dell’obiettivo del rispetto da parte delle regioni del mantenimento dell’equilibrio economico-finanziario del sistema sanitario regionale. In quest’intesa – siglata il 23 marzo 2005 in sede di Conferenza permanente Stato - Regioni - Province autonome – si è stabilito, fra l’altro, all’art. 6, che le regioni si impegnano a garantire con la propria programmazione l’equilibrio economico-finanziario delle proprie aziende sanitarie, e a realizzare forme di verifica trimestrale, nonché a rispettare l’obbligo di adottare le misure necessarie alla riconduzione in equilibrio della gestione. Solo ove si verifichi una situazione di squilibrio, corrispondente ad un disavanzo pari o superiore al 5 per cento (secondo la formula vigente, introdotta dall’art. 2, comma 77, della legge n. 191 del 2009, che ha recepito l’intesa del 3 dicembre 2009), la regione deve presentare un piano di rientro (già previsto dal comma 180 dell’art. 1 della legge n. 311 del 2004), di durata non superiore al triennio, che, una volta approvato dalla regione e sottoposto al parere della Struttura tecnica di monitoraggio paritetica (di cui all’art. 3, comma 2, dell’intesa del 3 dicembre 2009) e della Conferenza permanente Stato - Regioni - Province autonome, va approvato dal Consiglio dei ministri (art. 2, commi 78 e 79, della legge n. 191 del 2009). Per tutto il tempo della vigenza di questo piano, alla regione è impedito di adottare qualsiasi provvedimento anche legislativo che sia di ostacolo alla sua attuazione e che incida sulle misure in esso previste; come pure è escluso che la medesima possa introdurre livelli di assistenza sanitaria ulteriori rispetto a quelli essenziali e, quindi, possa esprimere una propria politica sanitaria. Inoltre, in caso di mancata completa attuazione nel triennio, il piano può essere proseguito, con i medesimi effetti, «secondo programmi operativi» volti al «raggiungimento degli obiettivi strutturali del piano stesso» ai sensi dell’art. 15, comma 20, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 135, costituendo tali strumenti, come questa Corte ha avuto più volte occasione di affermare, espressione del «principio fondamentale diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria e del correlato principio di coordinamento della finanza pubblica» (sentenza n. 190 del 2022), in vista del superamento della situazione di disavanzo. 4.1.1.? Dal quadro normativo sin qui richiamato emerge in modo chiaro che, a partire dal 2000, il modulo concertativo-pattizio costituisce il modello generale di disciplina del finanziamento del servizio sanitario, a prescindere dalla specifica situazione in cui si addivenga alla sottoscrizione del piano di rientro dal disavanzo sanitario e, quindi, indipendentemente dalle peculiari conseguenze che solo quest’ultimo determina. È un dato di esperienza che «la vigente legislazione di finanziamento del servizio sanitario nazionale trova origine in una serie di accordi fra Stato e Regioni», sulla cui base sono definite «sia le prestazioni che le Regioni sono tenute a garantire in modo uniforme sul territorio nazionale, sia il corrispondente livello di finanziamento» (sentenza n. 98 del 2007). Una simile scelta riflette, d’altronde, le peculiarità del settore sanitario e l’inevitabile coinvolgimento in esso di competenze statali e regionali. Questa Corte ha riconosciuto che dall’intreccio tra profili costituzionali e organizzativi discende l’esercizio su due livelli di governo della funzione sanitaria pubblica. Il livello statale è chiamato a definire le prestazioni che il SSN è tenuto a fornire ai cittadini – cioè, i livelli essenziali di assistenza – e l’ammontare complessivo delle risorse economiche necessarie al loro finanziamento; a quello regionale compete, invece, organizzare sul territorio il rispettivo servizio e garantire l’erogazione delle prestazioni nel rispetto degli standard costituzionalmente conformi (sentenza n. 190 del 2022). Pertanto, «[l]a presenza di due livelli di governo rende necessaria la definizione di un sistema di regole che ne disciplini i rapporti di collaborazione», pur nel rispetto delle reciproche competenze, «al fine di realizzare una gestione della funzione sanitaria pubblica efficiente e capace di rispondere alle istanze dei cittadini coerentemente con le regole di bilancio» (ancora sentenza n. 190 del 2022). In questa chiave, risulta evidente che, nel settore considerato, la «fisiologica dialettica» fra Stato e regioni deve essere improntata alla «leale collaborazione orientata al bene comune» attraverso cui «il modello pluralistico riconosciuto dalla Costituzione può […] svilupparsi in una prospettiva generativa […] verso la migliore tutela del diritto alla salute» (sentenza n. 40 del 2022). Il che si traduce «in concreto in doveri e aspettative – di informazione, di previsione di strumenti di raccordo e, in generale, di comportamenti realmente collaborativi, corretti e non ostruzionistici, in definitiva, appunto, leali – che non possono che essere reciproci» (sentenza n. 217 del 2020) e riguardare, quindi, anche le regioni, considerata la natura relazionale del richiamato principio (ancora, sentenza n. 217 del 2020). 4.1.2.? Nella specie, il piano di rientro dal disavanzo sanitario della Regione Piemonte era stato inizialmente sottoscritto per il triennio 2010-2013 e poi proseguito, a causa del mancato raggiungimento degli obiettivi in esso indicati, mediante i programmi operativi 2013-2015 ? predisposti in attuazione dell’art. 15, comma 20, del d.l. n. 95 del 2012, come convertito ? e completati con un anno di ritardo. L’uscita da tale piano era stata, infine, disposta a seguito della valutazione positiva relativa alla conclusione del medesimo, operata nella citata riunione congiunta del tavolo tecnico e del Comitato permanente del 21 marzo 2017. Tale valutazione positiva – come si evince chiaramente anche dai lavori preparatori dell’art. 14 della legge reg. Piemonte n. 24 del 2016 – era stata compiuta anche in virtù dell’introduzione, da parte della Regione Piemonte, con propria legge, della previsione avente per oggetto il programma decennale di restituzione delle somme (dell’ammontare di circa 1.505 milioni di euro) che, destinate alla gestione sanitaria, erano risultate, in sede di monitoraggio, indebitamente sottratte a quest’ultima e impiegate per altre finalità, con il risultato di mettere le aziende sanitarie regionali nella condizione di non poter adempiere in modo tempestivo ai pagamenti, in violazione della direttiva 2011/7/UE, e di contribuire alla situazione di squilibrio economico-finanziario. Il programma di restituzione delle somme introdotto dall’art. 14, comma 2, della citata legge regionale n. 24 del 2016 era stato peraltro concordato proprio in sede di monitoraggio con il tavolo tecnico e il Comitato permanente, come risulta dal verbale della riunione congiunta del 16 novembre 2016. In quella sede, infatti, i citati organi, pur esprimendo il proprio favore nei confronti della scelta regionale di procedere a una definizione formale della procedura di restituzione della liquidità regionale dovuta nei confronti del SSR, mediante apposita norma da inserire nella legge regionale di assestamento di bilancio per l’anno 2016, avevano chiesto, tuttavia, di contenere la proposta di restituzione in un numero di annualità non superiore alle dieci, formulando altresì una proposta di modulazione annuale degli importi da prelevare dal conto di tesoreria della gestione ordinaria e da destinare alla gestione sanitaria entro il decennio. In base a quest’ultima, si prevedeva che: i) nel 2017 e nel 2018, si sarebbe dovuto operare il trasferimento di cassa in favore della gestione sanitaria per importi pari a 65 milioni di euro all’anno; ii) per ciascuno degli anni 2019-2022, il trasferimento sarebbe stato di 113 milioni di euro annui; iii) infine, con riferimento ai quattro anni successivi (2023-2026), si disponeva un progressivo, forte aumento delle somme da trasferire, corrispondenti all’incirca ai due terzi degli oneri complessivi (923 milioni di euro) in vista del completamento della restituzione. Nella riunione congiunta del tavolo tecnico e del Comitato permanente del 21 marzo 2017, si dava atto della coerenza del programma di restituzione della liquidità al SSR, «formalmente adottato con legge regionale» come puntualmente definito dall’art. 14 della legge reg. n. 24 del 2016, «con quanto richiesto dai Tavoli nella riunione del 16 novembre 2016» e si affermava che esso «permette di superare i rilievi mossi già in occasione della riunione del 20 aprile 2016 in ordine alla conclusione positiva del Piano di rientro». Da quanto riportato emerge, dunque, in modo chiaro che la Regione Piemonte, recependo in una propria legge tale programma di restituzione della liquidità al SSR, si era impegnata non solo a realizzare la prevista restituzione, ma anche ad effettuarla nel termine massimo di dieci anni, secondo specifiche modalità che avrebbe ben potuto diversamente modulare, in attuazione di quanto stabilito, in via concordata, dall’art. 6 dell’intesa del 23 marzo 2005, cui rimanda l’art. 1, comma 173, lettera f), della legge n. 311 del 2004, in vista della realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica. In altri termini, l’adozione del programma di restituzione entro il termine decennale era stato concordato come misura necessaria a contribuire a garantire il mantenimento dell’appena riconquistato equilibrio economico finanziario delle aziende sanitarie regionali, strumentale anche a consentire la riespansione della politica sanitaria regionale (ad esempio, restituendo la possibilità di prevedere l’erogazione di prestazioni sanitarie extra LEA) proprio per effetto dell’uscita dal piano di rientro. Con l’impugnato art. 8 della legge regionale n. 6 del 2023, la Regione Piemonte, nel prorogare all’anno 2032 il termine ultimo per la restituzione della parte rimanente della liquidità indebitamente sottratta al SSR, è invece venuta meno, unilateralmente, all’impegno di completare tale restituzione entro il decennio, in tal modo non solo autorizzando il perdurante impiego di somme, originariamente destinate al SSR, ad altre finalità, ma soprattutto violando il principio di definizione concordata degli obiettivi e delle misure di mantenimento dell’equilibrio finanziario del sistema sanitario regionale; principio di definizione concordata desumibile dal richiamato art. 1, comma 173, lettera f), della legge n. 311 del 2004, letto alla luce dell’art. 6 della citata intesa del 23 marzo 2005, che si configura, in armonia con il modulo concertativo-pattizio di disciplina del finanziamento del servizio sanitario da tempo accolto, quale principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. Nel rispetto di tale principio – che, nel caso di specie, nonostante la riacquistata libertà di manovra in ambito sanitario, reclama un incisivo ossequio, in presenza di un accordo già raggiunto proprio in ordine alle modalità temporali di restituzione delle somme indebitamente sottratte al SSR –, la Regione Piemonte, in vista dell’esercizio della propria competenza legislativa concorrente inerente alla gestione del Servizio sanitario regionale, ben avrebbe potuto – e dovuto, nello spirito di leale collaborazione «“che, nel caso di specie, si colora della doverosa cooperazione per assicurare il migliore servizio alla collettività” (sentenza n. 62 del 2020)» (sentenza n. 190 del 2022) – promuovere un’interlocuzione con le amministrazioni statali competenti al fine di rappresentare loro le ragioni dell’asserita sopravvenuta insostenibilità del completamento del programma di restituzione decennale delle liquidità, concordato nel 2017, anche alla luce del dichiarato radicale mutamento delle condizioni di fatto in ragione, fra l’altro, della pandemia da COVID-19 e della crisi economica conseguente, per eventualmente giungere alla definizione, necessariamente concordata, di un diverso termine finale entro il quale modulare il trasferimento di cassa, in relazione ai singoli esercizi finanziari. Ciò sempre alla luce del comune e superiore scopo di assicurare una gestione del servizio sanitario efficiente e capace di rispondere alle istanze dei cittadini in coerenza con le regole di bilancio e in linea con il rispetto degli obblighi eurounitari e con la realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica. Deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge reg. Piemonte n. 6 del 2023, nella parte in cui, nel sostituire il comma 2 dell’art. 14 della legge reg. Piemonte n. 24 del 2016, ha stabilito, unilateralmente, che «2. A decorrere dall’esercizio 2023 e fino all'esercizio 2032 è garantito il trasferimento di cassa in favore della gestione sanitaria da prelevare dal conto di tesoreria della gestione ordinaria, per importi, riferiti a ciascun anno, pari a 93.000.000,00 negli esercizi dal 2023 al 2025 e a euro 92.000.000,00 negli esercizi dal 2026 al 2032, da destinare alla riduzione dei residui passivi verso le aziende sanitarie regionali al 31 dicembre 2015.», invece che «2. A decorrere dall'esercizio 2023 e fino all'esercizio 2026 è garantito il trasferimento di cassa in favore della gestione sanitaria da prelevare dal conto di tesoreria della gestione ordinaria, di un importo complessivo pari a 923 milioni di euro, da destinare alla riduzione dei residui passivi verso le aziende sanitarie regionali al 31 dicembre 2015», secondo modalità rimesse a successiva legge regionale. Resta salva, ovviamente, la possibilità che la Regione Piemonte e lo Stato addivengano a un nuovo accordo sul complessivo programma di restituzione delle somme. 5.? Restano assorbite le censure promosse in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione all’art. 1, comma 180, della legge n. 311 del 2004. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge della Regione Piemonte 24 aprile 2023, n. 6 (Bilancio di previsione finanziario 2023-2025), nella parte in cui, nel sostituire il comma 2 dell’art. 14 della legge Regione Piemonte 5 dicembre 2016, n. 24 (Assestamento del bilancio di previsione finanziario 2016-2018 e disposizioni finanziarie), ha stabilito che «2. A decorrere dall’esercizio 2023 e fino all’esercizio 2032 è garantito il trasferimento di cassa in favore della gestione sanitaria da prelevare dal conto di tesoreria della gestione ordinaria, per importi, riferiti a ciascun anno, pari a 93.000.000,00 negli esercizi dal 2023 al 2025 e a euro 92.000.000,00 negli esercizi dal 2026 al 2032, da destinare alla riduzione dei residui passivi verso le aziende sanitarie regionali al 31 dicembre 2015.», invece che «2. A decorrere dall’esercizio 2023 e fino all’esercizio 2026 è garantito il trasferimento di cassa in favore della gestione sanitaria da prelevare dal conto di tesoreria della gestione ordinaria, di un importo complessivo pari a 923 milioni di euro, da destinare alla riduzione dei residui passivi verso le aziende sanitarie regionali al 31 dicembre 2015», secondo modalità rimesse a successiva legge regionale. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 marzo 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Redattrice Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28 (Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 2020, n. 70, promosso dal Magistrato di sorveglianza di Padova nel procedimento a carico di E. C., con ordinanza del 2 agosto 2023, iscritta al n. 122 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2023. Udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2024 il Giudice relatore Francesco Viganò; deliberato nella camera di consiglio del 16 aprile 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 2 agosto 2023, il Magistrato di sorveglianza di Padova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28 (Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 2020, n. 70, «nella parte in cui prevede che l’autorizzazione ai colloqui con i figli minori non può essere concessa più di una volta alla settimana nel caso di detenuti per reati ex art. 4 bis op per i quali non sussiste il divieto di concessione dei benefici ex art. 4 bis legge 26 luglio 1975 n. 354». Tale disposizione violerebbe gli artt. 3, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonché in relazione all’art. 3, paragrafo 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo, e in relazione all’art. 24, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. 1.1.– Il rimettente si trova a decidere di un reclamo presentato ai sensi dell’art. 35-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) da E. C., detenuto in esecuzione della pena presso la Casa di reclusione di Padova, avverso un provvedimento della direzione del carcere che, in applicazione della disposizione censurata, gli aveva negato il permesso di effettuare telefonate giornaliere al figlio minorenne. Il rimettente riferisce: – che il detenuto sta espiando la pena di trent’anni di reclusione in relazione a condanne relative a sei omicidi, commessi tra il 1992 e il 2000, associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, furto, detenzione abusiva di armi e ricettazione. Tutti i reati, ad eccezione di due omicidi non riconducibili alla sua partecipazione al sodalizio mafioso, sarebbero stati da lui commessi «in qualità di partecipe del clan camorristico “La Torre” e risultano aggravati ex art. 7 l. 203/91»; – che il suo fine pena è attualmente fissato alla data del 26 luglio 2028; – che per tutti gli omicidi riconducibili al sodalizio mafioso e ai reati aggravati dal metodo mafioso, il Tribunale di sorveglianza di Venezia ha accertato, con ordinanza del 24 maggio 2017, l’impossibilità della sua collaborazione, e conseguentemente l’inoperatività delle preclusioni normalmente associate alla condanna per i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.; – che dal 2020 il detenuto è stato ammesso a fruire dei permessi premio, circostanza che gli ha consentito di coltivare il legame affettivo con il figlio di nove anni, concepito durante la detenzione con fecondazione assistita; tali permessi sarebbero stati concessi «a fronte di atti dell’osservazione intramuraria che fotografavano non solo una condotta regolare ed esente da rilievi disciplinari e la partecipazione alle attività trattamentali disponibili nel circuito di Alta Sicurezza […] ma anche una importante rilettura critica dei gravi reati» da lui commessi; – che l’Ufficio esecuzione penale esterna (UEPE) di Caserta ha evidenziato che il desiderio di genitorialità prima e poi la nascita del bambino avrebbero inciso in modo positivo sulla vita del detenuto, e che «la progettualità [di E. C.] è orientata attorno al nucleo familiare e alla volontà di poter, in futuro, allontanarsi dal multiproblematico contesto di provenienza»; – che la Direzione distrettuale antimafia di Napoli – pur avendo sottolineato la persistente operatività dell’associazione mafiosa di cui il detenuto ha fatto parte, nonché il suo legame di parentela con uno dei soggetti che ebbe a gestirla negli anni 2004-2006 – ha evidenziato che da circa vent’anni il reclamante, «stante la detenzione, non risulta essere stato coinvolto in altre attività di indagine, sicché non risultano significativi elementi dai quali possa desumersi (ovvero escludersi) la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata»; – che anche la Questura di Caserta ha confermato l’assenza di elementi indicativi di un collegamento attuale con la criminalità organizzata; – che, come confermato dalla direzione del penitenziario, il detenuto «in occasione della pandemia e fino al 31.12.2022, aveva fruito di corrispondenza telefonica con il minore una volta al giorno, secondo la normativa emergenziale»; – che il detenuto fruisce attualmente di sei videochiamate al mese («da intendersi equiparate ai colloqui visivi») con la propria famiglia, come previsto per i detenuti «non ostativi», nonché di due colloqui telefonici a settimana con il figlio («uno a settimana in base alla disciplina ordinaria prevista per detenuti per reati non ostativi e una supplementare a settimana come previsto per detenuti condannati per reati ostativi»). Ciò premesso, il giudice a quo ritiene che il provvedimento impugnato sia conforme a quanto previsto dalla disposizione censurata, che – in aggiunta all’ordinaria corrispondenza telefonica settimanale con familiari e conviventi prevista dall’art. 39, comma 2, del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà) (d’ora in avanti: reg. penit.) – consente, tra l’altro, di autorizzare il detenuto a una conversazione telefonica al giorno con i figli minori, salvo che si tratti – come nel caso di specie – di detenuti o internati per un delitto di cui all’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, ordin. penit.: nel qual caso tale autorizzazione supplementare non può essere concessa più di una volta alla settimana. 1.2.– Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale della disposizione in esame. 1.2.1.– Essa contrasterebbe, anzitutto, con l’art. 3 Cost. Pur muovendo dalla premessa della ragionevolezza della differenziazione della disciplina della corrispondenza telefonica in ragione della maggiore pericolosità dei condannati, il rimettente osserva che quest’ultima «debba essere ancorata a criteri ragionevoli ed obiettivamente verificabili, coerenti con i principi dell’ordinamento penitenziario». La disciplina dettata dal reg. penit., che differenzia tra detenuti “ordinari” e detenuti «per uno dei delitti previsti dal primo periodo del primo comma dell’articolo 4-bis» ordin. penit. tanto con riferimento alla corrispondenza telefonica (art. 39, comma 2), quanto con riferimento alle videochiamate e ai colloqui (art. 37, comma 8), troverebbe effettivamente fondamento nella presunzione di pericolosità dei detenuti “ostativi”: presunzione che però è superata dal riconoscimento della loro collaborazione con la giustizia, ovvero dal riconoscimento delle altre condizioni alternative previste dalla legge, che prevedono comunque una «valutazione circa l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata e l’assenza del pericolo di collegamenti». Lo stesso non potrebbe affermarsi del regime restrittivo introdotto dalla disposizione censurata, che farebbe riferimento alla generalità dei «detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis» ordin. penit., «senza distinguere a seconda che la persona abbia collaborato o meno o comunque sia stata ammessa ai benefici all’esterno». Emblematico di tale irragionevolezza sarebbe il caso del reclamante nel giudizio a quo, il quale avrebbe «fruito per diversi giorni, e anche nel territorio di origine, di permessi premio; beneficio concesso previa valutazione della assenza di un pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, oltre che di una prognosi negativa quanto al profilo di pericolosità (e quindi al pericolo di reiterazione di reati), per coltivare il rapporto con il figlio minorenne». L’irragionevolezza della disciplina, rispetto al reclamante, sarebbe resa ancor più evidente dalla circostanza che egli stesso «fruisce – in materia di colloqui – della disciplina “non ostativa” in relazione alla disciplina generale prevista dall’art. 39, co 2, e 37, co 9, d.P.R. 230/00 mentre (e solo) limitatamente alle ipotesi di ampliamento delle telefonate con i figli minori previste dall’art. 2 quinquies legge n. 70 del 2020 [recte: d.l. n. 28 del 2020] ricade nella disciplina “ostativa”». L’art. 3 Cost. sarebbe, dunque violato «sotto i profili della ragionevolezza oltre che dell’uguaglianza rispetto ai detenuti per reati non ostativi (che potrebbero perfino non essere ammessi ai benefici penitenziari per profili di pericolosità sociale)». 1.2.2.– La disposizione censurata violerebbe, inoltre, l’art. 31 Cost. I colloqui con i familiari e in particolare con i figli – osserva il rimettente – «rappresentano uno strumento cardine del trattamento penitenziario». La tutela del legame parentale non potrebbe considerarsi esaurita dopo l’instaurazione dell’esperienza detentiva del genitore (è citata la sentenza n. 18 del 2020 di questa Corte), «atteso che in questi casi lo sviluppo della personalità del minore si trova in condizioni di potenziale fragilità e richiede una tutela rafforzata che consenta di non rinunciare alle aspettative di un armonico sviluppo del bambino e dell’adolescente». Il divieto di fruire di telefonate giornaliere con i figli minori per condannati ostativi che possano accedere ai benefici penitenziari costituirebbe, allora, un ostacolo ingiustificato al mantenimento del legame genitoriale e al pieno sviluppo della personalità del figlio, «soggetto incolpevole e bisognoso di scrupolose attenzioni anche nelle vicende penali che interessano i genitori». 1.2.3.– Infine, la disposizione censurata si porrebbe poi in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., anzitutto in relazione all’art. 8 CEDU, nel cui ambito di applicazione rientrerebbero i colloqui con i figli minori (è citata Corte europea dei diritti dell’uomo, seconda sezione, sentenza 21 marzo 2023, Deltuva contro Lituania). Osserva poi il rimettente che «[i]l preminente interesse del minore […] implica che tutte le decisioni di autorità pubbliche o istituzioni private che coinvolgono anche solo indirettamente la sfera giuridica di minorenni, debbano prendere atto e conformarsi a tale presa di coscienza sociale e giuridica». Tale affermazione sarebbe condivisa da plurime fonti normative, tra cui la Convenzione sui diritti del fanciullo e l’art. 24, paragrafo 2, CDFUE. Considerato in diritto 1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Magistrato di sorveglianza di Padova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, del d.l. n. 28 del 2020, come convertito, «nella parte in cui prevede che l’autorizzazione ai colloqui con i figli minori non può essere concessa più di una volta alla settimana nel caso di detenuti per reati ex art. 4 bis op per i quali non sussiste il divieto di concessione dei benefici ex art. 4 bis legge 26 luglio 1975 n. 354». Le censure del rimettente si appuntano, dunque, sul solo terzo periodo dell’art. 2-quinquies, comma 1, del d.l. n. 28 del 2020, come convertito. A suo parere, tale disposizione violerebbe gli artt. 3, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, nonché all’art. 3, paragrafo 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo e all’art. 24, paragrafo 2, CDFUE. Il rimettente si trova a decidere su un reclamo presentato da un detenuto, condannato per una serie di delitti rientranti nel novero indicato dall’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, ordin. penit., ma al quale non si applica il divieto di benefici ivi previsto, essendogli stata riconosciuta l’impossibilità della collaborazione con la giustizia ai sensi del comma 1-bis dello stesso art. 4-bis, nel testo previgente alle modifiche apportate dal decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162 (Misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonché in materia di termini di applicazione delle disposizioni del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, e di disposizioni relative a controversie della giustizia sportiva, nonché di obblighi di vaccinazione anti SARS-CoV-2, di attuazione del Piano nazionale contro una pandemia influenzale e di prevenzione e contrasto dei raduni illegali), convertito, con modificazioni, nella legge 30 dicembre 2022, n. 199. Il reclamo ha ad oggetto un provvedimento della direzione del carcere con cui è stata respinta la richiesta del detenuto di poter continuare ad avere conversazioni telefoniche giornaliere con il proprio figlio di nove anni, secondo il regime del quale egli aveva già fruito in precedenza in forza di varie disposizioni adottate durante l’emergenza pandemica da COVID-19. Il giudice a quo rileva che il provvedimento impugnato è effettivamente conforme alla disposizione censurata, che, quanto in particolare alla corrispondenza telefonica con i figli minori, prevede un regime più restrittivo di quello ordinario per i «detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis» ordin. penit., senza distinguere a seconda che agli stessi si applichi o meno il divieto di benefici ivi previsto; ma dubita della legittimità costituzionale di tale disposizione, in riferimento ai parametri sopra menzionati. 2.– La questione formulata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 24 CDFUE, è inammissibile. Il rimettente non ha, infatti, illustrato le ragioni per le quali la disposizione censurata ricadrebbe nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea; ciò che a sua volta condiziona, ai sensi dell’art. 51 CDFUE, la stessa applicabilità delle norme della Carta, inclusa la loro idoneità a costituire parametri interposti nel giudizio di legittimità costituzionale innanzi a questa Corte (ex multis, sentenza n. 183 del 2023, punto 7 del Considerato in diritto). Ciò non impedisce peraltro – secondo la costante giurisprudenza di questa Corte – che le norme della Carta possano essere utilizzate, anche al di fuori dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, come criteri interpretativi degli stessi parametri costituzionali pertinenti (ex multis, sentenze 219 del 2023, punto 4.1. del Considerato in diritto; n. 33 del 2021, punto 4 del Considerato in diritto). 3.– La questione formulata in riferimento all’art. 3 Cost. è fondata. 3.1.– Il giudice a quo dubita, in sostanza, della compatibilità della disposizione censurata con l’art. 3 Cost. sotto un duplice profilo: in primo luogo, per la irragionevolezza intrinseca della disposizione stessa; in secondo luogo, per l’irragionevole disparità di trattamento da essa creata tra il regime relativo alla corrispondenza telefonica vigente per i detenuti o internati per delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, ordin. penit., ai quali tuttavia non si applichi il divieto di benefici ivi previsto, da un lato, e il regime che la medesima disposizione prevede in favore dei detenuti e internati per la generalità degli altri reati, dall’altro. Appare a questa Corte opportuno esaminare per prima quest’ultima censura, con la quale si contesta – in definitiva – già il mero difetto di coerenza interna al sistema tra le scelte discrezionalmente compiute dal legislatore: vizio che questa Corte da sempre ritiene espressivo di una violazione dell’art. 3 Cost., il cui contenuto minimo è costituito dall’imperativo di eguale trattamento di casi simili (ex multis, da ultimo, sentenza n. 46 del 2024, punto 3.3. del Considerato in diritto). 3.2.– Sotto questo profilo, il rimettente non si duole, in via generale, dell’esistenza di regole penitenziarie differenziate – anche in materia di corrispondenza telefonica con i familiari – a detrimento dei detenuti e internati per i reati elencati nell’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, ordin. penit. Piuttosto, egli lamenta che la disposizione censurata sottoponga alle medesime e più gravose regole in materia di corrispondenza telefonica l’intero insieme di tali detenuti e internati, senza distinguere tra quelli che non hanno accesso ai benefici, e quelli che invece ne possono usufruire. La disciplina applicabile a questi ultimi dovrebbe invece, nella sua prospettiva, essere equiparata a quella dei detenuti e internati “ordinari”. 3.3.– L’esame di questa censura esige un breve excursus sulla complessiva disciplina emergente dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. (infra, punto 3.3.1.) e sulla sua ratio (infra, punto 3.3.2.). 3.3.1.– Come è ampiamente noto, l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. prevede un regime penitenziario differenziato per i detenuti e internati per una nutrita serie di gravi reati, per lo più commessi in contesti di criminalità organizzata. Tale regime è imperniato, essenzialmente, sulla preclusione all’accesso a molti degli ordinari benefici previsti dalla legge sull’ordinamento penitenziario in assenza di collaborazione con la giustizia. Già dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. emerge dunque una prima, cruciale distinzione “interna” alla platea dei detenuti e internati per i reati ivi elencati: le preclusioni si applicano soltanto a coloro che non collaborano con la giustizia; i “collaboranti” hanno, invece, accesso a tutti i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, a condizioni – anzi – più favorevoli di quelle vigenti per la generalità degli altri detenuti, ai sensi dell’art. 58-ter, comma 1, ordin. penit. Anche in mancanza di collaborazione con la giustizia, peraltro, ulteriori categorie di detenuti e internati per reati di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. non sono sottoposti alle preclusioni ivi stabilite. Per cominciare, il comma 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit., nella versione vigente prima delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 162 del 2022, come convertito, prevedeva tra l’altro che i benefici di cui al comma 1 potessero essere concessi a tali detenuti, ancorché “non collaboranti”, «purché [fossero] stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna» (collaborazione “inesigibile”), «ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, [rendessero] comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia» (collaborazione “impossibile”), o ancora nei casi in cui la collaborazione offerta dal condannato si riveli «oggettivamente irrilevante», sempre che, in questa evenienza, fosse stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6), 114 o 116, secondo comma, del codice penale (collaborazione “irrilevante”). Tali deroghe alla preclusione generale di accesso ai benefici continuano oggi ad applicarsi ai condannati e agli internati che abbiano commesso i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. prima della data di entrata in vigore del d.l. n. 162 del 2022, come convertito, in forza dell’art. 3, comma 2, del medesimo decreto-legge, che ne ha sostanzialmente riprodotto il contenuto; e di una di tali deroghe, per l’appunto, continua oggi a beneficiare il reclamante nel giudizio a quo, al quale era a suo tempo stata riconosciuta l’impossibilità di collaborazione con la giustizia. In questi casi, dunque, il detenuto o internato ha accesso ai benefici secondo le regole generali, come ogni altro detenuto o internato “ordinario”, salva la necessità puntuale di acquisizione di «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva» quale condizione per l’accesso ai singoli benefici. Infine, il d.l. n. 162 del 2022, come convertito, – riformulando il comma 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit. nel solco tracciato da questa Corte con la sentenza n. 253 del 2019 e poi con l’ordinanza n. 97 del 2021– ha previsto in via generale (e dunque, a prescindere dal ricorrere delle ipotesi di cui al previgente comma 1-bis) che i condannati e gli internati per i reati di cui al comma 1, pur in assenza di collaborazione con la giustizia, possano comunque accedere ai benefici ivi indicati, in presenza di un’articolata serie di condizioni, tra le quali in particolare l’allegazione di «elementi specifici» che «consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile». Anche in queste ultime ipotesi, dunque, per il detenuto o internato non operano le preclusioni di cui al comma 1. In sintesi, il meccanismo preclusivo – o, “ostativo”, nel linguaggio ormai consolidato della prassi – stabilito dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. non opera rispetto a tre specifici sottoinsiemi di detenuti e internati per i delitti ivi elencati: – quelli che collaborino con la giustizia, per i quali vige addirittura un regime più favorevole di quello ordinario; – quelli che abbiano commesso il reato prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 162 del 2022, come convertito, i quali non collaborino invero con la giustizia, ma nei cui confronti sia stata riconosciuta la collaborazione “impossibile”, “inesigibile” o “irrilevante” alle condizioni oggi indicate dall’art. 3, comma 2, del medesimo decreto-legge, applicandosi agli stessi il regime ordinario di accesso ai benefici; – quelli che non collaborino con la giustizia, ma rispetto ai quali sussistano le condizioni indicate dal comma 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit., nel testo oggi vigente, e ai quali pure si applica il regime ordinario di accesso ai benefici. 3.3.2.– La ratio complessiva di questa disciplina, configurante ormai un vero e proprio sottosistema applicabile al trattamento penitenziario dei detenuti e internati per i reati elencati nel comma 1 dell’art. 4-bis ordin. penit., è stata oggetto di approfondita analisi da parte di questa Corte nella sentenza n. 253 del 2019. In quella pronuncia si è sottolineato come il meccanismo preclusivo posto dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. riposi sulla presunzione che, anche dopo l’ingresso in carcere, «i collegamenti con l’organizzazione criminale siano mantenuti ed attuali, ricavandosene la permanente pericolosità del condannato, con conseguente inaccessibilità ai benefici penitenziari normalmente disponibili agli altri detenuti» (punto 7.1. del Considerato in diritto). In quest’ottica, la collaborazione processuale costituisce una sorta di prova legale della rottura del vincolo associativo rispetto al singolo detenuto, che a sua volta segnala l’inizio del suo percorso rieducativo, aprendo la strada alla successiva concessione dei vari benefici penitenziari. Peraltro, già da epoca ben anteriore alla sentenza n. 253 del 2019 lo stesso legislatore aveva escluso che la presunzione in parola – e il conseguente meccanismo preclusivo – operasse nei casi in cui il condannato non avesse alcuna possibilità di offrire una efficace collaborazione alle indagini. Il che accadeva nelle ipotesi previste dal menzionato comma 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit., nella formulazione previgente al d.l. n. 162 del 2022, come convertito. Nella sentenza n. 253 del 2019 e poi nell’ordinanza n. 97 del 2021 questa Corte ha, poi, evidenziato l’insostenibilità costituzionale di una presunzione assoluta del persistente mantenimento dei legami associativi – e pertanto della persistente pericolosità – del condannato per reati legati a un contesto associativo. «Non è affatto irragionevole» – si è scritto nell’ordinanza n. 97 del 2021 con formulazione calibrata sui condannati all’ergastolo che allora venivano in considerazione, ma generalizzabile a tutti i condannati per delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – «presumere che costui mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza». Ma una tensione con i principi costituzionali «si evidenzia laddove sia stabilito che la collaborazione sia l’unica strada a disposizione del condannato a pena perpetua per l’accesso alla valutazione da cui dipende, decisivamente, la sua restituzione alla libertà. Anche in tal caso, è insomma necessario che la presunzione in esame diventi relativa e possa essere vinta da prova contraria, valutabile dal tribunale di sorveglianza» (punto 7 del Considerato in diritto). La nuova disciplina del comma 1-bis sopra menzionata intende, per l’appunto, dettare un meccanismo di presunzione meramente relativa di mantenimento dei legami del detenuto o internato con l’organizzazione di appartenenza, che può essere superata alle condizioni ivi indicate. 3.4.– Dalla ricostruzione precedente emerge che, ogniqualvolta il legislatore ritenga superata – per effetto della collaborazione processuale, ovvero sulla base dei puntuali accertamenti in punto di fatto di cui si è detto – la presunzione di persistente sussistenza del vincolo tra il condannato per un delitto di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. e l’associazione criminale, e dunque di una persistente pericolosità del condannato stesso, vengono meno al contempo le ragioni di una disciplina penitenziaria derogatoria sfavorevole rispetto a quella valevole per la generalità degli altri condannati. Ciò non può non valere anche oltre l’orizzonte dei benefici cui si riferisce specificamente l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. Una disciplina derogatoria in peius per questo sottoinsieme di detenuti e internati non potrebbe infatti giustificarsi, sul piano costituzionale, sulla base di ragioni puramente afflittive, in risposta alla particolare gravità dei delitti elencati nel comma 1 dell’art. 4-bis ordin. penit. Questa Corte ha già più volte escluso (sentenza n. 97 del 2020, punto 6 del Considerato in diritto; sentenza n. 351 del 1996, punto 5 del Considerato in diritto) che una simile finalità possa legittimare le severe restrizioni connesse al regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit., ritagliato sulla necessità di contenere la speciale pericolosità sociale di taluni detenuti e internati per i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin, penit. rispetto ai quali sussistano, in concreto, elementi tali da far ritenere l’attualità dei collegamenti con le associazioni criminose di appartenenza. E tale conclusione vale certamente anche rispetto al divieto di accesso ai benefici di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., fondato sulla presunzione di cui si è detto, così come rispetto alle altre regole che derogano in peius l’ordinaria disciplina penitenziaria nei confronti di questo insieme di condannati. Ogni misura che, a parità di pena inflitta, deroga in peius al regime penitenziario “ordinario” può, infatti, trovare legittimazione sul piano costituzionale – al cospetto della necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. – soltanto in quanto sia necessaria e proporzionata rispetto al contenimento di una speciale pericolosità sociale del condannato (per una considerazione analoga, mutatis mutandis, sentenza n. 149 del 2018, punto 7 del Considerato in diritto); e non invece, tout court, in chiave di ulteriore punizione in ragione della speciale gravità del reato commesso. È, infatti, la misura della pena che nel nostro ordinamento deve riflettere la gravità del reato, non già la severità del regime penitenziario. 3.5.– Ora, la disposizione censurata regola la corrispondenza telefonica del detenuto aggiuntiva (o “supplementare”) rispetto a quella già prevista dall’art. 39 reg. penit., e mira a sostituire, con una disciplina a regime, la normativa emergenziale adottata durante la pandemia da COVID-19, con la quale si era in effetti cercato di compensare la generalizzata sospensione dei colloqui in presenza potenziando l’accesso a videochiamate e telefonate supplementari con i familiari, rispetto ai limiti ordinariamente previsti dall’art. 39, comma 2, reg. penit. Il segmento normativo di cui si duole il rimettente detta una regola – applicabile all’intero insieme dei detenuti o internati per i delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, ordin. penit. – più restrittiva rispetto a quella che vale per la generalità degli altri detenuti e internati. In particolare, questi ultimi possono essere ammessi a una telefonata “supplementare” giornaliera con i figli minori, con i figli maggiorenni portatori di una disabilità grave, ovvero con il coniuge, l’altra parte dell’unione civile, la persona stabilmente convivente o legata da relazione stabilmente affettiva, il padre, la madre o il fratello o la sorella qualora gli stessi siano ricoverati presso strutture ospedaliere. Tutti i detenuti o internati per i delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, ordin. penit., invece, sono ammessi a una sola telefonata settimanale con le medesime persone. Come rileva il rimettente, questa disciplina è ictu oculi distonica rispetto a quella prevista per la corrispondenza telefonica “ordinaria” dall’art. 39 reg. penit., che attua la previsione generale in materia contenuta nell’art. 18, primo e settimo comma, ordin. penit. L’art. 39, comma 2, reg. penit. prevede infatti di regola, per la generalità dei condannati e internati, una telefonata alla settimana con i congiunti e i conviventi; e un regime più restrittivo di due telefonate al mese per quei soli detenuti o internati per i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, ordin. penit. «per i quali si applichi il divieto dei benefici ivi previsto». La disciplina, pur di rango meramente regolamentare, dell’art. 39, comma 2, reg. penit. risulta espressiva del criterio generale sotteso all’art. 4-bis ordin. penit., che informa l’intero sottosistema delle regole penitenziarie applicabili ai detenuti e internati per i delitti ivi elencati: quello, cioè, in base al quale tali detenuti sono esclusi dalle regole ordinarie che vigono per la generalità degli altri detenuti soltanto nella misura in cui ad essi risulti in concreto applicabile la presunzione (oggi meramente relativa) di persistenza dei legami con l’associazione criminosa, e dunque di pericolosità sociale ancora attuale. Laddove tale presunzione per qualsiasi motivo non operi, non v’è ragione per escluderli dall’applicazione delle regole ordinarie che vigono per la generalità dei detenuti e internati, ovvero per sottoporli a regole più restrittive. La disposizione qui censurata equipara, invece, irragionevolmente quest’ultima categoria di detenuti e internati a quella composta da coloro che sono esclusi dai benefici in forza dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in quanto presunti socialmente pericolosi; mentre l’intera logica sottostante al sistema penitenziario – recte: al sottosistema imperniato sull’art. 4-bis ordin. penit. – avrebbe piuttosto imposto di equiparare la categoria in esame alla generalità dei detenuti e internati, per i quali vige la più favorevole regola di una telefonata “supplementare” giornaliera (anziché soltanto settimanale) in presenza delle situazioni indicate nella disposizione in esame. 3.6.– L’irragionevolezza dell’equiparazione compiuta dalla disposizione censurata emerge, d’altra parte, con particolare evidenza laddove si consideri che i detenuti e internati in questione possono beneficiare, come ogni altro detenuto o internato, di misure che comportano l’uscita dal carcere, a cominciare dai permessi premio o dal lavoro all’esterno; ciò che consente loro di avere liberamente contatti con i rispettivi familiari, al di fuori di qualsiasi controllo da parte dell’amministrazione penitenziaria. Sicché risulta non ragionevole che, quando stiano in carcere, essi debbano soggiacere a una regolamentazione più restrittiva di quella vigente per la generalità dei detenuti con riguardo al solo regime della corrispondenza telefonica “supplementare”. 3.7.– Per altro verso ancora, a fronte della loro sottoposizione alle regole ordinarie per ciò che attiene alla corrispondenza telefonica “ordinaria” ai sensi dell’art. 39, comma 2, reg. penit., particolarmente irragionevole appare la drastica riduzione (da una telefonata al giorno a una alla settimana) delle possibilità di corrispondenza telefonica proprio con le speciali categorie di familiari elencate nella disposizione censurata – figli minori o portatori di disabilità grave, ovvero familiari o persone affettivamente legate ricoverati presso strutture ospedaliere –, rispetto alle quali è invece particolarmente importante assicurare la possibilità di contatti con il congiunto detenuto. E ciò, segnatamente, per quanto riguarda il rapporto con i figli minori, che il vigente ordinamento penitenziario – in armonia con i principi sottesi all’art. 31 Cost., letti attraverso il prisma degli obblighi internazionali in materia di tutela dell’interesse preminente del minore – mira quanto più possibile a preservare nonostante le inevitabili limitazioni discendenti dall’esecuzione della pena (da ultimo, nella materia contigua dei colloqui “in presenza” con i figli minori, sentenza n. 105 del 2023, punto 9 del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti). 3.8.– Resta assorbito ogni ulteriore profilo di censura. 4.– La reductio ad legitimitatem della disposizione censurata può essere effettuata semplicemente aggiungendo al terzo periodo la specificazione «per i quali si applichi il divieto dei benefici ivi previsto,» subito dopo l’inciso iniziale del terzo periodo «[q]uando si tratta di detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354». In tal modo, la regola speciale più restrittiva dettata dal terzo periodo – una sola telefonata a settimana – non varrà per tutti i detenuti o internati ai quali, per qualsiasi ragione, non si applichi il divieto di benefici previsto dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. A tali detenuti o internati sarà invece applicabile la regola generale di una telefonata giornaliera, valevole per la generalità degli altri detenuti, dettata dal secondo periodo della disposizione in esame. Le questioni sottoposte all’esame di questa Corte con l’ordinanza di rimessione concernono, nella loro formulazione letterale, la corrispondenza telefonica “supplementare” con il solo figlio minore. L’addizione dell’inciso «per i quali si applichi il divieto dei benefici ivi previsto,» nel terzo periodo determinerà, peraltro, l’applicazione della regola generale di cui al secondo periodo anche per tutte le altre ipotesi in esso elencate, in relazione alle quali – del resto – risulterebbe del tutto irragionevole un trattamento deteriore, nei confronti di detenuti o internati per delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. ai quali non si applichi il divieto dei benefici ivi previsto, rispetto a quello vigente per la generalità della popolazione carceraria. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28 (Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 2020, n. 70, nella parte in cui non prevede, al terzo periodo, dopo le parole «Quando si tratta di detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354,», le parole «per i quali si applichi il divieto dei benefici ivi previsto,». Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 aprile 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Francesco VIGANÒ, Redattore Valeria EMMA, Cancelliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 628, secondo comma, del codice penale, promosso dal Tribunale ordinario di Cuneo, in composizione collegiale, nel procedimento a carico di B. D. e B. A., con ordinanza del 20 settembre 2023, iscritta al n. 148 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2023. Udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2024 il Giudice relatore Stefano Petitti; deliberato nella camera di consiglio del 16 aprile 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 20 settembre 2023, iscritta al n. 148 del registro ordinanze 2023, il Tribunale ordinario di Cuneo, in composizione collegiale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 628, secondo comma, del codice penale, per violazione degli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, «nella parte in cui non prevede una diminuente quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità». Il rimettente espone di dover giudicare sull’imputazione di rapina impropria, aggravata dalla commissione ad opera di più persone riunite, ascritta a B. D. e B. A. per essersi costoro, dopo aver prelevato dagli scaffali di un supermercato alcuni generi d’uso (tre baguettes, una scatoletta di tonno e uno spazzolino da denti), assicurato il possesso degli stessi e l’impunità con minacce e uno spintone in danno dell’addetto alla sicurezza e del responsabile dell’esercizio commerciale, intervenuti per recuperare la merce, venendo infine rintracciati nei pressi dell’esercizio stesso mentre consumavano il pane. 2.– In ordine alla rilevanza della questione, il Tribunale di Cuneo osserva che per il reato contestato il minimo edittale di pena detentiva applicabile nella specie sarebbe sproporzionato rispetto a un fatto di «scarsa offensività, sia sotto il profilo del valore della merce sottratta (€ 6,19), sia sotto quello della modalità esecutiva della rapina (consistita in due frasi minacciose e una spinta)». La sproporzione del minimo edittale non potrebbe trovare rimedio nell’applicazione delle attenuanti generiche e dell’attenuante della speciale tenuità del danno patrimoniale, circostanze la cui finalità non è correggere l’eccessività della misura astratta di pena. 3.– In ordine alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo ritiene che la denunciata carenza di proporzionalità determini l’irragionevolezza del trattamento sanzionatorio, in violazione dell’art. 3 Cost., al contempo impedendo ad esso di aderire alla concreta gravità del fatto, con ulteriore violazione del principio di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena, di cui ai commi primo e terzo dell’art. 27 Cost. Il rimettente deduce che un’attenuante per lieve entità è contemplata riguardo a titoli di reato ben più gravi della rapina impropria, come la violenza sessuale, il sequestro di persona a scopo di estorsione e il sequestro di persona a scopo di coazione. 4.– Il Tribunale di Cuneo sollecita quindi una pronuncia additiva di questa Corte, che introduca anche per la rapina impropria una diminuente per i casi di lieve entità, analogamente a quanto disposto per il reato di estorsione con la sentenza n. 120 del 2023. Ad avviso del rimettente, l’elemento differenziale tra rapina ed estorsione, concernente l’incidenza determinativa della violenza o minaccia, non impedirebbe l’estensione della pronuncia, in quanto «[s]ia il delitto di rapina sia l’estorsione sono reati contro il patrimonio, puniti con la medesima pena detentiva». Inoltre, anche per la rapina, «come per il reato di estorsione, possono verificarsi situazioni di minima offensività sia per l’occasionalità dell’iniziativa criminosa, sia per la lieve entità del pregiudizio arrecato alla vittima e sia infine per la modestia dell’utilità percepita dall’autore del fatto». 5.– Il Presidente del Consiglio dei ministri non è intervenuto in giudizio, né vi si sono costituiti gli imputati del giudizio a quo. Considerato in diritto 1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Cuneo, in composizione collegiale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 628, secondo comma, cod. pen., per violazione degli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., «nella parte in cui non prevede una diminuente quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità». Il giudizio principale verte su un’imputazione di rapina impropria, aggravata dalla pluralità di autori, relativa a generi alimentari e uno spazzolino da denti, del valore complessivo di pochi euro, prelevati dagli scaffali di un supermercato; reato che sarebbe stato consumato con minacce e una spinta in danno del personale dell’esercizio, tramite le quali i due imputati avrebbero conseguito il possesso dei beni sottratti e l’impunità. 2.– Il giudice a quo reputa che il minimo edittale di pena detentiva per la rapina impropria sia sproporzionato rispetto a un fatto di così modesta offensività concreta, il che determinerebbe un vulnus al principio di ragionevolezza sancito dall’art. 3 Cost. La conseguente impossibilità di modulare e individualizzare la pena in rapporto all’effettiva gravità del reato lederebbe inoltre il canone di personalità della responsabilità penale, di cui al primo comma dell’art. 27 Cost. Infine, l’eccessività della sanzione la renderebbe ingiusta nella percezione del reo, e quindi inidonea alla funzione rieducativa assegnata dal terzo comma del medesimo art. 27. 3.– Ad avviso del rimettente, sarebbe quindi necessaria una pronuncia additiva che introduca per la rapina impropria una diminuente per i casi di lieve entità, in analogia a quanto disposto per il reato di estorsione dalla sentenza di questa Corte n. 120 del 2023. L’estensione del precedente non sarebbe impedita dall’elemento distintivo tra i due titoli di reato, concernente la diversa efficacia della violenza o minaccia, atteso che entrambi soggiacciono comunque allo stesso minimo edittale di pena detentiva ed entrambi possono esibire in concreto un’offensività minima. 4.– Il rimettente, attraverso la denuncia di violazione degli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., sottopone a questa Corte una questione che ha ad oggetto, nella sostanza, la sproporzione del trattamento sanzionatorio per il delitto di rapina impropria, per effetto della mancata previsione di una attenuante per il caso in cui il fatto contestato sia di lieve entità. Giova, quindi, ricordare che, come questa Corte ha avuto modo di illustrare nella sentenza n. 112 del 2019 (punto 8.1. del Considerato in diritto), il sindacato di legittimità costituzionale sulla proporzionalità della pena, dapprima svolto essenzialmente in chiave triadica alla luce del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., ha successivamente valorizzato il parametro di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. sulla finalità rieducativa della pena. Ciò ha comportato l’estensione del sindacato medesimo «a ipotesi in cui la pena comminata dal legislatore appaia manifestamente sproporzionata non tanto in rapporto alle pene previste per altre figure di reato, quanto piuttosto in rapporto – direttamente – alla gravità delle condotte abbracciate dalla fattispecie astratta». Si è altresì coordinato il finalismo rieducativo della sanzione con il principio di personalità della responsabilità penale, sancito dal primo comma dello stesso art. 27, ovvero con il canone di individualizzazione della pena, il quale «esige che – nel passaggio dalla comminatoria astratta operata dal legislatore alla sua concreta inflizione da parte del giudice – la pena si atteggi come risposta proporzionata anche alla concreta gravità, oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato». Dunque, la questione sollevata dal Tribunale di Cuneo richiede che il trattamento sanzionatorio della rapina impropria sia sottoposto al triplice test della proporzionalità relazionale (rispetto a eventuali tertia comparationis), della proporzionalità oggettiva (rispetto alla tipologia di condotte rientranti nella fattispecie astratta) e della necessaria individualizzazione (rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto concreto). 5.– Tanto premesso, la questione è fondata in riferimento a tutti i parametri evocati. 5.1.– Il secondo comma dell’art. 628 cod. pen., descritti gli elementi costitutivi della rapina impropria (chi «adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l’impunità»), stabilisce per essa la stessa pena prevista dal primo comma per la rapina propria (chi, «per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene»). Questa pena ha registrato nel corso del tempo un progressivo inasprimento, che ha interessato principalmente il minimo edittale della reclusione: originariamente determinato in tre anni, tale minimo è stato aumentato a quattro anni dall’art. 1, comma 8, lettera a), della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), e ulteriormente incrementato a cinque anni dall’art. 6, comma 1, lettera a), della legge 26 aprile 2019, n. 36 (Modifiche al codice penale e altre disposizioni in materia di legittima difesa). L’inasprimento ha riguardato anche il minimo edittale della fattispecie aggravata oggetto del giudizio a quo, vale a dire la rapina commessa «da più persone riunite»: quattro anni di reclusione per il testo originario dell’art. 628, terzo comma, numero 1), cod. pen., quattro anni e sei mesi per effetto dell’art. 3 della legge 14 ottobre 1974, n. 497 (Nuove norme contro la criminalità), poi cinque anni ai sensi dell’art. 1, comma 8, lettera b), della legge n. 103 del 2017, e infine sei anni a norma dell’art. 6, comma 1, lettera b), della legge n. 36 del 2019. 5.2.– L’appesantimento del trattamento sanzionatorio ora illustrato per la rapina è analogo a quello che ha interessato l’estorsione, reato descritto dall’art. 629, primo comma, cod. pen. come la condotta di chi, «mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno». Anche per l’estorsione il minimo edittale di tre anni di reclusione, stabilito originariamente per la forma semplice del reato, è stato aumentato a cinque anni (art. 8, comma 1, del decreto-legge 31 dicembre 1991, n. 419, recante «Istituzione del Fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive», convertito, con modificazioni, nella legge 18 febbraio 1992, n. 172). Per l’estorsione come per la rapina, il notevole innalzamento del minimo edittale – a un livello che rende sostanzialmente inaccessibile il beneficio della sospensione condizionale della pena – è stato realizzato senza introdurre una “valvola di sicurezza”, che permetta al giudice di temperare la sanzione quando l’offensività concreta del fatto di reato non ne giustifichi una punizione così severa. 5.3.– Con la sentenza n. 120 del 2023, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 629 cod. pen., «nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità». Sulla scia dei precedenti relativi al sequestro di persona a scopo di estorsione (sentenza n. 68 del 2012) e al cosiddetto sabotaggio militare (sentenza n. 244 del 2022), la sentenza n. 120 del 2023 ha osservato che la mancata previsione di una “valvola di sicurezza” al cospetto di un minimo edittale particolarmente aspro implica il rischio di irrogazione di una sanzione non proporzionata all’effettiva gravità del fatto estorsivo, ove il fatto medesimo risulti immune dai profili di allarme sociale che hanno indotto il legislatore a stabilire quel severo minimo. Ciò si è rilevato in base alla constatazione che il reato di estorsione – atteso il carattere multiforme degli elementi costitutivi «violenza o minaccia», «profitto», «danno» – può essere consumato anche tramite condotte occasionali, di minimo impatto personale, volte a conseguire un lucro irrisorio e tali da recare alla vittima un pregiudizio esiguo. 5.4.– La ratio decidendi della sentenza n. 120 del 2023 vale anche per la rapina, come prospettato dal rimettente. Infatti, la descrizione tipica operata dall’art. 628 cod. pen. evidenzia una latitudine oggettiva e una varietà di condotte materiali non meno ampia di quella del delitto di estorsione, poiché, anche nella rapina, la violenza o minaccia può essere di modesta portata e l’utilità perseguita, ovvero il danno cagionato, di valore infimo. Emblematico appare il caso di cui deve giudicare il rimettente, nel quale la sottrazione è stata relativa a pochi generi di consumo, del prezzo di qualche euro appena, e la violenza o minaccia si è esaurita in frasi scarsamente intimidatorie e in una spinta data per divincolarsi. In simili fattispecie, per la rapina come per l’estorsione, il minimo edittale di notevole asprezza, introdotto per contenere fenomeni criminali seriamente lesivi della persona e del patrimonio, eccede lo scopo, determinando l’irrogazione di una pena irragionevole, sproporzionata e quindi inidonea alla rieducazione. 5.5.– Per costante giurisprudenza di legittimità, la rapina si distingue dall’estorsione poiché nell’una la persona offesa subisce una violenza o minaccia «diretta e ineludibile», mentre nell’altra non vi è questo «totale annullamento della capacità del soggetto passivo di determinarsi diversamente dalla volontà dell’agente» (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenze 15 febbraio-17 maggio 2023, n. 21078, e 15 settembre-28 ottobre 2021, n. 38830). In linea teorica, questo discrimine potrebbe segnalare una maggiore gravità della rapina, quale coazione assoluta (vis absoluta), rispetto all’estorsione, quale coazione relativa (vis compulsiva), il che potrebbe apparire ostativo all’estensione della sentenza n. 120 del 2023. Tuttavia, è lo stesso legislatore che, parificando i minimi edittali, dimostra di considerare i due titoli di reato omogenei quanto all’offensività astratta, sull’implicito presupposto che la libertà morale debba essere protetta non meno che la libertà fisica. 5.6.– Con la sentenza n. 141 del 2023, questa Corte, pronunciandosi su una fattispecie concreta di incerta sussunzione tra i paradigmi della rapina o dell’estorsione, ha condotto per i due titoli di reato un discorso unitario, in tema di bilanciamento tra circostanze, avuto riguardo al comune elevato minimo edittale di pena detentiva e alla pari latitudine dello schema legale. L’ampiezza della descrizione tipica dei delitti in parola, si è osservato, «fa sì che essi si prestino ad abbracciare anche condotte di modesto disvalore: non solo con riferimento all’entità del danno patrimoniale cagionato alla vittima, che può anche ammontare (come nel caso oggetto del giudizio a quo) a pochi euro»; «ma anche con riferimento alle modalità della condotta, che può esaurirsi in forme minimali di violenza» (come, nel caso di specie, una lieve spinta), ovvero «nella mera prospettazione verbale di un male ingiusto, senza uso di armi o di altro mezzo di coazione, che tuttavia già integra la modalità alternativa di condotta costituita dalla minaccia». E ancora, ha affermato questa Corte nella citata sentenza, «[a]nche rispetto a simili fatti, la disciplina vigente impone una pena minima di cinque anni di reclusione: una pena che risulterebbe, però, manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva dei fatti medesimi – anche in rapporto alle pene previste per la generalità dei reati contro la persona –, se l’ordinamento non prevedesse meccanismi per attenuare la risposta sanzionatoria nei casi meno gravi». La considerazione unitaria dei delitti di rapina e di estorsione deve essere tenuta ferma anche nella definizione della questione odierna, agli effetti dell’estensione della sentenza n. 120 del 2023, giacché l’addizione dell’attenuante della lieve entità del fatto riguarda essa pure quell’elevato comune minimo edittale, alla cui notevole entità viene applicata una, costituzionalmente necessaria, “valvola di sicurezza”. 5.7.– Già, dunque, sul piano della comparazione tra il trattamento sanzionatorio previsto per la rapina impropria e quello stabilito per l’estorsione, emerge la violazione dell’art. 3 Cost., non sussistendo ragioni specifiche che valgano a giustificare l’esclusione dell’attenuante di lieve entità del fatto per il reato di cui all’art. 628, secondo comma, cod. pen., ed anzi esistendo i richiamati indici che di tale diminuente impongono l’estensione anche a tale reato. 5.8.– Ma l’esigenza dell’attenuante in questione – in misura non eccedente un terzo, come vuole la regola generale dell’art. 65, primo comma, numero 3), cod. pen. – trova fondamento costituzionale anche nei principi di individualizzazione della pena e di finalità rieducativa della stessa. Nella giurisprudenza di questa Corte, invero, si è chiarito, da un lato, che un trattamento manifestamente sproporzionato rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto, e comunque incapace di adeguarsi al suo concreto disvalore, pregiudica il principio di individualizzazione della pena (sentenza n. 244 del 2022); «“l’individualizzazione” della pena, in modo da tenere conto dell’effettiva entità e delle specifiche esigenze dei singoli casi, si pone come naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali» così da rendere «quanto più possibile “personale” la responsabilità penale, nella prospettiva segnata dall’art. 27, primo comma» (sentenza n. 7 del 2022). Dall’altro, che il precetto di cui al terzo comma dell’art. 27 Cost. vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell’esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie: il principio della finalità rieducativa della pena è ormai da tempo diventato patrimonio della cultura giuridica europea, particolarmente per il suo collegamento con il “principio di proporzione” fra qualità e quantità della sanzione, da una parte, ed offesa, dall’altra (tra molte, sentenze n. 179 del 2017 e n. 313 del 1990). Orbene, in presenza di una fattispecie astratta connotata, come detto, da intrinseca variabilità atteso il carattere multiforme degli elementi costitutivi «violenza o minaccia», «cosa sottratta», «possesso», «impunità», e tuttavia assoggettata a un minimo edittale di rilevante entità, il fatto che non sia prevista la possibilità per il giudice di qualificare il fatto reato come di lieve entità in relazione alla natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità o circostanze dell’azione, ovvero alla particolare tenuità del danno o del pericolo, determina la violazione, ad un tempo, del primo e del terzo comma dell’art. 27 Cost. 5.9.– Per tutto ciò, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 628, secondo comma, cod. pen., nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità. Mette conto ribadire quanto già osservato nella sentenza n. 120 del 2023 a proposito dell’estorsione, cioè che gli indici dell’attenuante di lieve entità del fatto – estemporaneità della condotta, scarsità dell’offesa personale alla vittima, esiguità del valore sottratto, assenza di profili organizzativi – garantiscono che la riduzione della pena «sia riservata alle ipotesi di lesività davvero minima, per una condotta che pur sempre incide sulla libertà di autodeterminazione della persona» (punto 7.9. del Considerato in diritto). 6.– La questione sollevata dal Tribunale di Cuneo ha ad oggetto il trattamento sanzionatorio della rapina impropria e censura il secondo comma dell’art. 628 cod. pen., che disciplina tale species di rapina. Tuttavia, questa Corte ha in più occasioni rimarcato l’omogeneità strutturale delle varie forme di rapina, che sono tutte aggressioni contestuali alla persona e al patrimonio, astrette in un reato complesso: la rapina propria e la rapina impropria (sentenza n. 190 del 2020, ordinanza n. 111 del 2021); la rapina impropria a dolo di possesso e la rapina impropria a dolo di impunità (sentenza n. 260 del 2022). Atteso che la rapina propria condivide con la rapina impropria – e, transitivamente, con l’estorsione – sia l’elevato minimo edittale di pena detentiva (cinque anni di reclusione), sia l’idoneità a manifestare una diversificata offensività (in rapporto agli elementi costitutivi della violenza o minaccia e del profitto), anche per essa si evidenzia la necessità costituzionale di una “valvola di sicurezza”, a garanzia della ragionevolezza, proporzionalità e capacità rieducativa della sanzione. Pertanto, deve essere dichiarata, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 628, primo comma, cod. pen., nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 628, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità; 2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 628, primo comma, cod. pen., nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 aprile 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Stefano PETITTI, Redattore Valeria EMMA, Cancelliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 444 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Marsala, in composizione monocratica, nel procedimento penale a carico di G. P., con ordinanza del 1° dicembre 2022, iscritta al n. 33 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2023. Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 19 marzo 2024 il Giudice relatore Franco Modugno; deliberato nella camera di consiglio del 19 marzo 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 1° dicembre 2022, iscritta al n. 33 del registro ordinanze 2023, il Tribunale ordinario di Marsala, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 444 del codice di procedura penale, nella parte in cui, nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti per reati contravvenzionali, prevede la diminuzione della pena fino a un terzo, anziché fino alla metà. 1.1.– Il giudice a quo riferisce di essere investito del processo nei confronti di una persona imputata della contravvenzione di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, di cui all’art. 75, comma 1, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136). Dichiarata l’assenza dell’imputato, si era dato atto del mancato consenso del pubblico ministero a una precedente richiesta di applicazione della pena, formulata dal difensore ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.: mancato consenso motivato con il rilievo che il difensore aveva richiesto una riduzione premiale della pena nella misura della metà, superiore a quella consentita. A fronte di ciò, il difensore ha eccepito l’illegittimità costituzionale, in parte qua, del citato art. 444 cod. proc. pen., per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. L’eccezione si basa sulla considerazione che l’art. 1, comma 44, della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), modificando il comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen., ha stabilito per il giudizio abbreviato una diminuzione premiale della pena della metà quando si procede per una contravvenzione, senza operare un parallelo adeguamento del comma 1 dell’art. 444 cod. proc. pen., il quale continua a prevedere la riduzione della pena fino a un terzo, anche quando il patteggiamento riguardi un reato contravvenzionale. Si sarebbe in questo modo creata – secondo il difensore – una discrasia contrastante con i principi del giusto processo, di eguaglianza e di inviolabilità del diritto di difesa. 1.2.– Ad avviso del giudice a quo, le questioni così prospettate sarebbero rilevanti – dovendo egli fare applicazione della norma censurata per decidere sulla richiesta di patteggiamento – e al tempo stesso non manifestamente infondate. La scelta legislativa di prevedere, per il medesimo reato di natura contravvenzionale, una riduzione della pena fino a un terzo nel caso di patteggiamento, diversamente da quanto avviene per il giudizio abbreviato – che assicura una riduzione della metà –, si rivelerebbe, infatti, «foriera di esiti applicativi discriminatori», incompatibili con i principi di ragionevolezza e di eguaglianza, specie ove si consideri che il rito del patteggiamento è quello che garantisce la massima economia processuale e la più rapida definizione dei procedimenti. L’irragionevolezza della sperequazione apparirebbe ancor più evidente nel caso in cui l’imputato opti per il rito abbreviato cosiddetto condizionato, di cui all’art. 438, comma 5, cod. proc. pen. In tale ipotesi, vengono infatti incluse nel bagaglio conoscitivo del giudice una o più prove, la cui assunzione determinerebbe un inevitabile allungamento dei tempi processuali (richiedendo non di rado la celebrazione di più udienze). Le sentenze rese ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. sono, inoltre, inappellabili, potendo essere impugnate solo con ricorso per cassazione, mentre nel caso di rito abbreviato l’imputato resta abilitato a proporre i normali mezzi di gravame. Tutto ciò renderebbe irragionevole, «se non paradossale», la mancata estensione al patteggiamento dell’entità della riduzione premiale della pena prevista per il giudizio abbreviato, quando si proceda per reati contravvenzionali. 2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate. 2.1.– In via preliminare, la difesa dell’interveniente eccepisce l’inammissibilità delle questioni, per insufficiente descrizione della fattispecie concreta e difetto di motivazione sulla rilevanza. Il giudice a quo avrebbe, infatti, omesso di indicare la condotta contestata e il tempus commissi delicti, e avrebbe giustificato la rilevanza delle questioni con una mera formula di stile («dovendo[si] fare applicazione dell’art. 444 c.p.p.»), senza dedurre alcunché in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del rito richiesto, ossia alla sussistenza, o no, di cause di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. e alla corretta qualificazione giuridica del fatto. Tali omissioni, non emendabili tramite la lettura diretta degli atti del giudizio, stante il principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, impedirebbero a questa Corte di verificare la rilevanza delle questioni, facendole apparire come premature e ipotetiche. Le questioni sollevate in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost. sarebbero, altresì, inammissibili per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza, avendo il rimettente evocato tali parametri senza enunciare affatto le ragioni della loro asserita violazione. 2.2.– Nel merito, la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. – alla quale l’Avvocatura dello Stato limita la sua analisi, stante la rilevata totale assenza di motivazione riguardo agli altri parametri – si rivelerebbe palesemente non fondata. Il rimettente avrebbe censurato il diverso trattamento dei due riti alternativi quanto allo sconto di pena senza considerare le differenze strutturali intercorrenti tra essi, che non consentirebbero un valido raffronto comparativo. Al riguardo, sarebbe sufficiente richiamare la diversità di disciplina relativa alla sospensione condizionale, alla cui concessione può essere subordinata la richiesta di patteggiamento, ma non quella di giudizio abbreviato; la possibilità per le parti di concordare nel patteggiamento la non applicabilità delle pene accessorie, non prevista nel giudizio abbreviato; la non utilizzabilità, a fini di prova, della sentenza di patteggiamento nel giudizio civile, disciplinare, tributario o amministrativo, diversamente dalla sentenza resa a seguito di giudizio abbreviato. La disomogeneità degli istituti posti a raffronto impedirebbe, dunque, di ravvisare la dedotta violazione del principio di eguaglianza, mancando un utile termine di comparazione. Né potrebbe ravvisarsi nel diverso sconto sanzionatorio previsto in relazione all’applicazione concordata della pena alcun profilo di irragionevolezza intrinseca, stante il fatto che – per ripetuta affermazione di questa Corte – il legislatore gode di ampia discrezionalità nella configurazione degli istituti processuali, censurabile solo nei limiti della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte operate, nella specie non ravvisabile. Considerato in diritto 1.– Con ordinanza del 1° dicembre 2022 (reg. ord. n. 33 del 2023), il Tribunale di Marsala, in composizione monocratica, solleva questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., dell’art. 444 cod. proc. pen., nella parte in cui, nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti per reati contravvenzionali, prevede la diminuzione della pena fino a un terzo, anziché fino alla metà. Il giudice a quo pone a fondamento del dubbio di legittimità costituzionale la disparità di trattamento riscontrabile rispetto alla disciplina del giudizio abbreviato: procedimento speciale che, quando si proceda per una contravvenzione, assicura all’imputato – in forza dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 1, comma 44, della legge n. 103 del 2017 – la riduzione della pena nella misura della metà. Ad avviso del rimettente, si sarebbe al cospetto di una sperequazione lesiva dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza, particolarmente alla luce del fatto che, tra i due riti speciali, il patteggiamento è quello che garantisce la maggiore economia di tempi e di risorse processuali. 2.– In via preliminare, va rilevato che la disciplina dei due procedimenti speciali posti in comparazione dal rimettente è stata oggetto di modifica, anche quanto alla consistenza dei benefici ad essi collegati, ad opera del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), entrato in vigore – in forza della disposizione transitoria di cui all’art. 99-bis, comma 1 – il 30 dicembre 2022: dunque, in data successiva a quella dell’ordinanza di rimessione. Tale ius superveniens non giustifica, tuttavia, la restituzione degli atti al giudice a quo, per un nuovo esame della rilevanza e della non manifesta infondatezza delle questioni. La riforma, infatti, non ha inciso sullo specifico aspetto investito dalle questioni: l’entità della riduzione di pena annessa al patteggiamento è rimasta, infatti, inalterata. La novella legislativa ha anzi approfondito, sotto un diverso profilo – peraltro, chiaramente non rilevante nel giudizio a quo – la sperequazione censurata dal rimettente, riconoscendo all’imputato che è stato giudicato con rito abbreviato (per qualsiasi reato) un ulteriore sconto di pena, nella misura di un sesto, qualora l’imputato stesso e il suo difensore non impugnino la sentenza di condanna (nuovo comma 2-bis dell’art. 442 cod. proc. pen.). Sconto anch’esso non esteso al patteggiamento. Il d.lgs. n. 150 del 2022 ha incrementato, bensì, i vantaggi di ordine diverso dalla riduzione della pena collegati al patteggiamento, e non pure al giudizio abbreviato. Anche in questa direzione, peraltro, la riforma si è limitata ad amplificare una difformità di disciplina già esistente alla data dell’ordinanza di rimessione (infra, punto 5.4.), così da non rendere necessaria la restituzione degli atti al rimettente per una ponderazione del mutato quadro normativo. 3.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per insufficiente descrizione della fattispecie concreta e difetto di motivazione sulla rilevanza: ciò, in quanto il giudice a quo avrebbe omesso di indicare la condotta contestata all’imputato e il tempus commissi delicti, e avrebbe giustificato la rilevanza delle questioni, senza dedurre alcunché in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del rito richiesto. L’eccezione non è fondata. Il rimettente ha dedotto di procedere per il reato, di natura contravvenzionale, di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, riferendo, altresì, che in relazione ad esso l’imputato ha chiesto, tramite il suo difensore, di patteggiare con applicazione di una pena diminuita nella misura della metà: richiesta che non ha conseguito il consenso del pubblico ministero, per l’unica ragione che la riduzione proposta è superiore a quella consentita dalla norma censurata. Tanto basta per poter ritenere assolto l’onere di descrizione della fattispecie concreta: la specifica condotta contestata al giudicabile e la data in cui è stata posta in essere non costituiscono elementi indispensabili ai fini della verifica, da parte di questa Corte, della rilevanza delle questioni sollevate. 4.– Coglie invece nel segno l’ulteriore eccezione dell’Avvocatura dello Stato, di inammissibilità delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza. Nel riferire dell’eccezione di illegittimità costituzionale prospettata dal difensore, l’ordinanza di rimessione reca, infatti, solo un cursorio e apodittico richiamo ai principi, enunciati dalle citate disposizioni costituzionali, di inviolabilità del diritto di difesa e del giusto processo, senza svolgere alcuna argomentazione a sostegno della loro ipotizzata violazione. Pertanto, in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 198, n. 186 e n. 46 del 2023), le questioni in discorso vanno dichiarate inammissibili. 5.– Nel merito, la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. – unica sorretta da adeguata motivazione in punto di non manifesta infondatezza e, perciò, ammissibile – non è fondata. 5.1.– La censura del rimettente si appunta sulla disparità di trattamento che si sarebbe venuta a creare, a seguito della legge n. 103 del 2017, tra giudizio abbreviato e patteggiamento, in punto di entità dello sconto di pena riconosciuto all’imputato. Sconto di pena che rappresenta, notoriamente, il principale incentivo all’accesso a tali procedimenti speciali, introdotti dal codice di procedura penale del 1988 in funzione deflattiva del dibattimento, nella consapevolezza che il nuovo modello processuale di tipo accusatorio, basato su meccanismi di formazione della prova particolarmente garantiti, avrebbe potuto assicurare risultati accettabili in termini di efficienza solo se il numero dei procedimenti destinati a passare attraverso le complesse cadenze del rito “ordinario” fosse stato contenuto in limiti fortemente ridotti. Nel disegno originario del codice, rimasto per questo aspetto a lungo inalterato, il quantum della riduzione premiale di pena era espresso, per i due riti, da un medesimo coefficiente numerico di tipo frazionario (avente, peraltro, come meglio si dirà più avanti, una differente valenza nei due casi). Era previsto, infatti, che la pena fosse ridotta «di un terzo», nel caso di condanna a seguito di giudizio abbreviato (art. 442, comma 2, cod. proc. pen.), e «fino a un terzo», in caso di patteggiamento (art. 444, comma 1, cod. proc. pen.). Ciò, indipendentemente dalla natura del reato per cui si procedeva. La simmetria è venuta parzialmente meno a seguito della citata legge n. 103 del 2017, il cui art. 1, comma 44, modificando il comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen., ha stabilito che, nel caso di giudizio abbreviato – ferma restando la riduzione della pena di un terzo se si procede per delitti –, la pena è diminuita della metà se si procede per contravvenzioni. L’intervento persegue il trasparente obiettivo di accrescere il tasso di appetibilità di tale procedimento speciale: procedimento che, malgrado le ripetute modifiche di cui era stato oggetto, non aveva risposto appieno alle attese, in termini di capacità deflattiva, a causa del numero non sufficientemente elevato di richieste. La soluzione accolta dalla legge n. 103 del 2017 al fine di invertire tale andamento è, peraltro, molto cauta, costituendo un recepimento solo marginale della proposta formulata dalla commissione di studio per elaborare proposte di interventi in tema di sistema sanzionatorio penale, istituita con decreto del Ministro della giustizia 10 giugno 2013, la quale, nella relazione conclusiva, aveva suggerito di modulare l’entità dello sconto di pena annesso al giudizio abbreviato secondo la gravità dei reati, prevedendo, in particolare, una diminuzione della metà non soltanto per le contravvenzioni, ma anche per i delitti puniti con la reclusione non superiore nel massimo a cinque anni o con la multa. La modifica legislativa in discorso fa, d’altro canto, da contraltare a un complesso di altre modifiche della disciplina del giudizio abbreviato, operate dalla stessa legge di riforma, che – in parte dando veste normativa ad approdi giurisprudenziali e in parte assumendo una valenza innovativa – comprimono ulteriormente, in una prospettiva di semplificazione processuale, i diritti esercitabili dall’imputato in tale rito (particolarmente significativo, in tal senso, il nuovo comma 6-bis dell’art. 438 cod. proc. pen.). La legge n. 103 del 2017 non ha, comunque sia, operato una corrispondente revisione, per il profilo considerato, della disciplina del patteggiamento, riguardo al quale la norma censurata continua a prevedere che la pena è diminuita «fino a un terzo» qualunque sia il reato per cui si procede, e dunque anche quando si tratti di una contravvenzione. Ed è appunto di questo che il giudice a quo si duole, reputando irragionevole – se non addirittura «paradossale» – che, a parità di reato contravvenzionale, venga “trattato peggio” il rito alternativo che è in grado di assicurare una definizione più rapida dei procedimenti e un maggior risparmio di risorse processuali. 5.2.– Che il patteggiamento consenta, in linea di principio, una economia di tempi e di energie processuali più marcata di quella conseguente al giudizio abbreviato non è, in effetti, contestabile. Di là dal tratto comune, di essere riti alternativi che “evitano” il dibattimento, il patteggiamento semplifica, però, radicalmente, il dibattito processuale, rimettendo al giudice il solo compito di verificare che non sussistano ragioni di proscioglimento dell’imputato già risultanti ex actis, che la qualificazione giuridica del fatto, l’applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti siano corrette e che la pena richiesta sia congrua (art. 444, comma 2, cod. proc. pen.). Laddove, per converso, il giudizio abbreviato lascia inalterato il potere-dovere del giudice di accertare nei termini ordinari – sia pure sulla base degli elementi raccolti dal pubblico ministero nel corso delle indagini, e dunque fuori del contradditorio (peraltro, eventualmente arricchiti dalle indagini difensive) – se l’imputato sia colpevole o no e di determinare il trattamento sanzionatorio adeguato. Come nota il rimettente, lo scarto tra i due riti – in termini di vis deflattiva – si amplia ulteriormente qualora l’imputato opti per il giudizio abbreviato cosiddetto condizionato, subordinato, cioè, a una integrazione probatoria (art. 438, comma 5, cod. proc. pen.): nel qual caso – salvo il vaglio del giudice sulla effettiva necessità dell’integrazione ai fini della decisione e sulla idoneità del rito speciale a realizzare, comunque sia, una economia processuale – il rito stesso viene ad essere “appesantito” dall’assunzione di nuove prove (comprese quelle contrarie che il pubblico ministero può chiedere); evenienza, viceversa, radicalmente esclusa nel caso di patteggiamento. L’economia processuale conseguente al patteggiamento – come parimente rileva il giudice a quo – è altresì più spiccata in rapporto ai mezzi di impugnazione. La sentenza di patteggiamento è, infatti, inappellabile (salvo che dal pubblico ministero, qualora sia emessa malgrado il suo dissenso: art. 448, comma 2, cod. proc. pen.). Essa è soggetta unicamente a ricorso per cassazione, proponibile, peraltro, a seguito della stessa legge n. 103 del 2017, solo per specifici e circoscritti motivi (art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen.). Di contro, nel giudizio abbreviato l’imputato conserva la facoltà di proporre appello contro le sentenze di condanna, le quali sono, altresì, appellabili dal pubblico ministero ove modifichino il titolo del reato (art. 443 cod. proc. pen.), mentre nessun limite incontra il ricorso per cassazione. 5.3.– Da tutto ciò non può però farsi discendere – com’è invece nella logica del rimettente – l’esigenza costituzionale di annettere al patteggiamento una riduzione di pena, comunque sia, non inferiore a quella prevista per il giudizio abbreviato. Vale al riguardo osservare come, sin dalle origini, l’abbattimento della pena connesso al patteggiamento sia stato delineato in termini di minor favore rispetto a quello collegato al rito abbreviato, pur a parità del coefficiente frazionario di riferimento. Come già ricordato, infatti, si è previsto che, in caso di giudizio abbreviato, la pena fosse diminuita «di un terzo» (art. 442, comma 2, cod. proc. pen.): la riduzione è, dunque – pacificamente –, fissa e il terzo ne rappresenta la misura predeterminata e inderogabile (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze 15 giugno-7 luglio 2022, n. 26189 e 22 febbraio-19 aprile 2012, n. 15068). Diversamente, in caso di patteggiamento, la pena è diminuita «fino a un terzo» (art. 444, comma 1, cod. proc. pen). Le sezioni unite penali della Corte di cassazione hanno specificato che la locuzione in parola indica la quantità massima della riduzione, e non la quantità minima della pena che può residuare ad essa. Si è, infatti, rilevato come il patteggiamento consenta all’imputato di incidere in modo diretto sulla quantificazione della pena irrogata, a differenza del giudizio abbreviato, che, concernendo solo il rito, lascia intatto il potere del giudice di commisurare discrezionalmente il trattamento sanzionatorio, salvo a dover applicare sulla pena da lui liberamente determinata la riduzione fissa di un terzo. E ciò a prescindere dall’ulteriore ampia gamma di incentivi premiali, collegati in via esclusiva al patteggiamento (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 24 marzo-28 aprile 1990, n. 6179). 5.4.– Considerazioni sostanzialmente analoghe sono state svolte, altresì, anche dalla giurisprudenza di questa Corte – con riguardo a profili diversi da quello oggi in discussione – per dimostrare come si sia al cospetto di istituti nettamente differenziati (sentenze n. 135 del 1995, n. 81 del 1991 e n. 66 del 1990; ordinanza n. 320 del 1991), non solo sul piano delle connotazioni astratte, ma anche degli effetti pratici (ordinanza n. 455 del 2006) e, dunque, non utilmente comparabili al fine di annettere violazioni dell’art. 3 Cost. alle discrepanze tra le rispettive discipline (sentenza n. 135 del 1995; ordinanze n. 455 del 2006 e n. 320 del 1991). Come questa Corte ha rilevato, il patteggiamento consente all’imputato di sottoporsi a una pena certa, preventivamente concordata, non potendo il giudice modificare i contenuti del “patto” intercorso fra le parti: pena che gli verrà inflitta – in applicazione di una particolare regola di giudizio (l’insussistenza dei presupposti per una pronuncia di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.) – con una sentenza che è solo «equiparata» a una pronuncia di condanna e che resta priva di efficacia nei giudizi extrapenali (art. 445, comma 1-bis, cod. proc. pen.). Per contro, con il giudizio abbreviato, l’imputato, accettando di essere giudicato sulla base degli atti, lascia inalterati i poteri decisori del giudice: «nel caso di condanna, [il giudice] emetterà una sentenza contenente un’affermazione piena di responsabilità, con la quale infliggerà la pena – ancorché ridotta di un terzo – ritenuta equa dallo stesso giudicante e che potrebbe risultare di gran lunga superiore a quella che l’imputato sarebbe stato disposto a “negoziare”» (ordinanza n. 455 del 2006). Il patteggiamento offre all’imputato, al tempo stesso, un complesso di vantaggi ulteriori, rispetto allo sconto di pena, privo di equivalenti nel giudizio abbreviato. Avendo riguardo alla disciplina vigente alla data dell’ordinanza di rimessione, alla sentenza di patteggiamento non è attribuita, come già accennato, natura di vera e propria sentenza di condanna, venendo ad essa solo «equiparata»; ne è fortemente limitata, altresì, l’efficacia extrapenale (art. 445, comma 1-bis, cod. proc. pen.). La richiesta di patteggiamento può essere, d’altro canto, subordinata alla concessione della sospensione condizionale della pena (art. 444, comma 3, cod. proc. pen.); inoltre, se vi è costituzione di parte civile, il giudice non decide sulla relativa domanda (art. 444, comma 2, cod. proc. pen.). Quando la pena irrogata non superi i due anni di pena detentiva, sola o congiunta a pena pecuniaria – come generalmente avviene quando si procede per contravvenzioni –, la sentenza non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento, né l’applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza, fatta eccezione per la confisca nei casi previsti dall’art. 240 del codice penale (art. 445, comma 1, cod. proc. pen.). In tale ipotesi, inoltre, decorsi cinque anni, se la sentenza riguarda un delitto, o due anni, se riguarda una contravvenzione, senza che l’imputato abbia commesso un delitto o una contravvenzione della stessa indole, il reato è estinto e viene meno ogni effetto penale. Se è stata applicata una pena pecuniaria o una pena sostitutiva, la pronuncia non è comunque di ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena (art. 445, comma 2, cod. proc. pen.). L’insieme dei vantaggi annessi al patteggiamento si è ulteriormente arricchito, come già segnalato, con l’entrata in vigore, dopo l’ordinanza di rimessione, del d.lgs. n. 150 del 2022, il quale, con l’art. 25, comma 1, lettera b), ha esteso l’esclusione dell’efficacia extrapenale della sentenza, precedentemente circoscritta ai giudizi civili e amministrativi, anche ai giudizi disciplinari, tributari e di accertamento della responsabilità contabile, con la previsione, altresì, che in tali giudizi la sentenza di patteggiamento non può essere neppure utilizzata a fini di prova (nuovo comma 1-bis dell’art. 445 cod. proc. pen.). Si è previsto, poi, che nel caso di patteggiamento cosiddetto allargato – per pene, cioè, superiori ai due anni – le parti possano chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, e di non ordinare la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento a specifici beni o a un importo determinato (art. 444, comma 1, cod. proc. pen., come novellato). 5.5.– Indipendentemente da tali modifiche sopravvenute, la scelta operata con la legge n. 103 del 2017 – di incrementare alla metà la riduzione di pena connessa al giudizio abbreviato quando si proceda per contravvenzioni, senza operare un corrispondente incremento dello sconto di pena connesso al patteggiamento – deve essere considerata, quindi, espressiva dell’ampia discrezionalità che, per costante giurisprudenza di questa Corte, compete al legislatore nella disciplina degli istituti processuali, il cui esercizio è censurabile solo ove decampi nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio (ex plurimis, sentenze n. 67 del 2023, n. 230 e n. 74 del 2022, n. 95 del 2020 e n. 155 del 2019). Evenienza, questa, non ravvisabile nella specie, posto che l’incremento in questione, se accresce l’incentivo all’accesso al giudizio abbreviato, non appare tale da compromettere, di riflesso, la convenienza del patteggiamento, tenuto conto della struttura di tale ultimo rito e del corposo insieme di altri vantaggi che esso assicura. 6.– Alla luce delle considerazioni che precedono, le questioni sollevate in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost. vanno dichiarate, dunque, inammissibili; quella sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., non fondata. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 444 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Marsala, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe; 2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 444 cod. proc. pen., sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Tribunale ordinario di Marsala, in composizione monocratica, con la medesima ordinanza. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 marzo 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Franco MODUGNO, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Puglia 4 luglio 2023, n. 19, recante «XI legislatura - 16° provvedimento di riconoscimento di debiti fuori bilancio ai sensi dell’articolo 73, comma 1, lettere a) ed e), del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2014, n. 126 e disposizioni diverse», promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 25 agosto 2023, depositato in cancelleria il 29 agosto 2023, iscritto al n. 26 del registro ricorsi 2023 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2023. Visto l’atto di costituzione della Regione Puglia; udito nell’udienza pubblica del 20 marzo 2024 il Giudice relatore Marco D’Alberti; uditi l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Anna Bucci per la Regione Puglia; deliberato nella camera di consiglio del 20 marzo 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso iscritto al reg. ric. n. 26 del 2023, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Puglia 4 luglio 2023, n. 19, recante «XI legislatura - 16° provvedimento di riconoscimento di debiti fuori bilancio ai sensi dell’articolo 73, comma 1, lettere a) ed e), del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2014, n. 126 e disposizioni diverse». La disposizione regionale impugnata prevede, sotto la rubrica «[p]archeggi a uso pubblico e temporaneo», che «[s]ino al 31 dicembre 2023, le aree a parcheggio a uso pubblico e temporaneo non superiore a centoventi giorni, comprese tra le attività di cui all’articolo 6, comma 1, lettera e-bis), del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia[. Testo A]), sono escluse dalle procedure di valutazione ambientale e paesaggistica a condizione che entro e non oltre trenta giorni dal termine del relativo utilizzo sia garantito il ripristino dello stato dei luoghi». Il richiamato art. 6, comma 1, lettera e-bis), t.u. edilizia individua tra gli interventi di «[a]ttività edilizia libera» (eseguibili cioè, ai sensi del comma 1, «senza alcun titolo abilitativo») «le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto, previa comunicazione di avvio dei lavori all’amministrazione comunale». Ad avviso del ricorrente, l’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023 – «[i]n disparte» la sua «eccentrica formulazione», secondo cui l’autorizzazione di un’attivita` sarebbe condizionata da una condotta posteriore all’attività medesima, quale il ripristino dei luoghi – violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, per invasione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali». Sotto un primo profilo, esso introdurrebbe un’illegittima deroga alle previsioni dell’art. 146, commi 1 e 2, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), in tema di autorizzazione paesaggistica, alla cui stregua «[i] proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, a termini dell’articolo 142 [cod. beni culturali], o in base alla legge, a termini degli articoli 136, 143, comma 1, lettera d), e 157» dello stesso codice (comma 1), «hanno l’obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi che intendano intraprendere, corredato della prescritta documentazione, ed astenersi dall’avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l’autorizzazione» (comma 2). Quest’obbligo – osserva il ricorrente – e` implicitamente richiamato dallo stesso art. 6, comma 1, t.u. edilizia, là dove tale disposizione, che come si è detto individua gli interventi eseguibili «senza alcun titolo abilitativo», fa tuttavia salvo il «rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia», comprese le «disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42». <p>Sotto un secondo profilo, l’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023 si applicherebbe a tutti i parcheggi di uso pubblico e temporaneo non superiore a centoventi giorni, a prescindere dal numero di posti auto, escludendo in ogni caso che essi siano soggetti a procedure di valutazione ambientale e ponendosi, così, in contrasto con l’Allegato IV alla Parte seconda del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), che al punto 7 (Progetti di infrastrutture), lettera b), prevede che i progetti dei «parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto» siano sottoposti alla verifica di assoggettabilità di competenza delle regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, senza distinguere tra temporaneità o meno dell’uso. 2.– La Regione Puglia si è costituita in giudizio con atto depositato il 30 settembre 2023, concludendo per l’inammissibilità e, comunque, per la non fondatezza nel merito della questione. 2.1.– In primo luogo, la disposizione impugnata non avrebbe una formulazione «eccentrica», come deduce il ricorrente, in quanto anche il richiamato art. 6, comma 1, t.u. edilizia farebbe «applicazione dello stesso meccanismo per cui le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, sono considerate ex se e per legge “abilitate” [...], se “destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessita` e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto”». D’altra parte, il legislatore statale farebbe non infrequente ricorso a simili previsioni nel disciplinare interventi di natura temporanea e provvisoria, diretti ad affrontare situazioni di emergenza (è citato l’art. 8-bis del decreto-legge 17 ottobre 2016, n. 189, recante «Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del 2016», convertito, con modificazioni, nella legge 15 dicembre 2016, n. 229). Non diversamente, il legislatore regionale avrebbe inteso affrontare e risolvere una situazione «emergenziale» connessa alle «esigenze dei comuni costieri o ad elevata affluenza turistica per il periodo estivo». Tali esigenze sarebbero desumibili dal «referto tecnico del 27/6/2023 [...] allegato agli atti del procedimento consiliare che ha portato all’approvazione dell’art. 4 della LR n.19/2023», secondo cui «i sindaci delle principali localita` turistiche hanno [...] evidenziato la ricorrenza di una situazione di assoluta urgenza correlata alla insufficienza dei parcheggi che determinerebbe conseguenze non solo sul comparto turistico, ma anche in termini di congestionamenti di traffico difficilmente gestibili anche in termini di sicurezza [della] circolazione e sicurezza urbana». 2.2.– Quanto alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., per contrasto con l’art. 146 cod. beni culturali, la Regione osserva che l’art. 6, comma 1, t.u. edilizia, là dove fa salva l’applicazione delle norme contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio e al contempo consente, alla lettera e-bis), l’esecuzione senza alcun titolo abilitativo di «opere stagionali e [di] quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni», dovrebbe essere interpretato nel senso in cui possa avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbe alcuno. Seguendo le ragioni esposte dal ricorrente, invece, la disposizione sarebbe privata di effettiva utilita` e di qualsiasi conseguenza pratica, non potendo essere applicata nelle aree vincolate paesaggisticamente. In riferimento a queste ultime, infatti, gli interventi sopra indicati non potrebbero essere concretamente realizzati, «atteso che i tempi di rilascio del nullaosta paesistico esaurirebbero la durata stessa delle opere stagionali e temporanee, traducendosi in un antieconomico ed illogico aggravamento procedimentale», tanto piu` evidente nel caso, disciplinato dal legislatore regionale, dei «soli parcheggi “estivi” per non piu` di centoventi giorni e fino al 31 dicembre 2023». Una tale conseguenza sarebbe irragionevole, sproporzionata e comunque contraria allo scopo perseguito del legislatore, che, se avesse voluto un simile effetto, si sarebbe limitato a prevedere l’esplicita esclusione delle aree vincolate dall’ambito applicativo della norma di cui all’art. 6, comma 1, lettera e-bis), t.u. edilizia. Il richiamo alle disposizioni del cod. beni culturali non si dovrebbe quindi intendere riferito agli interventi di cui alla citata lettera e-bis) o, comunque, andrebbe «limitato a quei casi di beni vincolati paesaggisticamente, che non possono essere oggetto ex se ed intrinsecamente di opere stagionali o temporanee o contingibili, vuoi per le loro caratteristiche fenomeniche, fattuali e naturalistiche, vuoi perché ad es. oggetto di vincoli di inedificabilita` assoluta». Inoltre, la legittimita` costituzionale della disposizione regionale impugnata andrebbe scrutinata anche alla luce di un’interpretazione sistematica e non parziale della normativa statale «di principio». L’incipit dell’art. 6, comma 1, t.u. edilizia si dovrebbe leggere, infatti, «in coordinato disposto» con l’art. 2 del d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31 (Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), alla cui stregua «[n]on sono soggetti ad autorizzazione paesaggistica gli interventi e le opere di cui all’Allegato “A”». Tale Allegato ricomprende, al punto A.16, gli interventi di «occupazione temporanea di suolo privato, pubblico o di uso pubblico mediante installazione di strutture o di manufatti semplicemente ancorati al suolo senza opere murarie o di fondazione, per manifestazioni, spettacoli, eventi o per esposizioni e vendita di merci, per il solo periodo di svolgimento della manifestazione, comunque non superiore a 120 giorni nell’anno solare»: interventi a cui sarebbero riconducibili, secondo la Regione, le occupazioni mediante parcheggi per un periodo non superiore a centoventi giorni. In questo senso deporrebbero anche le previsioni dell’Allegato B allo stesso d.P.R. n. 31 del 2017, che annovera tra gli interventi di lieve entita`, soggetti a procedimento autorizzatorio semplificato, quelli puntuali di adeguamento della viabilita` esistente, quali, tra gli altri, la «realizzazione di parcheggi a raso con fondo drenante o che assicuri adeguata permeabilita` del suolo» (punto B.11) e l’«occupazione temporanea di suolo privato, pubblico, o di uso pubblico, mediante installazione di strutture o di manufatti semplicemente ancorati al suolo senza opere murarie o di fondazione per manifestazioni, spettacoli, eventi, o per esposizioni e vendita di merci, per un periodo superiore a 120 e non superiore a 180 giorni nell’anno solare» (punto B.25). Se, dunque, rientrano tra le opere di lieve entita`, soggette ad autorizzazione semplificata, sia i parcheggi «a raso con fondo drenante o che assicuri adeguata permeabilita` del suolo», cioè i parcheggi stabili e permanenti con opere fisse di trasformazione dello stato dei luoghi, sia le opere di occupazione temporanea dei suoli, pubblici o privati, per un periodo compreso fra centoventuno e centottanta giorni, allora i parcheggi temporanei di durata fino a centoventi giorni dovrebbero giocoforza rientrare tra le opere non soggette ad autorizzazione paesaggistica gia` in base alla normativa statale, rispetto alla quale la disposizione regionale impugnata sarebbe «del tutto coerente ed allineata, e semplicemente attuativa». 2.3.– Quanto al contrasto con il codice dell’ambiente, la questione sarebbe preliminarmente inammissibile per genericità, in difetto di specifica indicazione delle norme interposte di cui si assume la violazione, non essendo sufficiente un generico e complessivo richiamo a tale codice, che prevede una molteplicita` di procedure valutative. Nel merito, la Regione osserva, innanzi tutto, che l’evocato art. 6, comma 1, t.u. edilizia non richiama specificamente il codice dell’ambiente. Comunque, anche i tempi per lo svolgimento di una qualunque procedura valutativa contemplata da tale codice, che prevede la fase della consultazione dei soggetti competenti in materia ambientale e il coinvolgimento del pubblico, sarebbero incompatibili con la durata delle opere stagionali e temporanee prevista sia dalla legge statale che da quella regionale, «oltre a rappresentare intuitivamente un consistente ed antieconomico aggravamento procedimentale, in contrasto – ancora una volta – con i principi di proporzionalita` e ragionevolezza». Si dovrebbe inoltre considerare che, in forza dell’Allegato IV alla Parte seconda, il codice dell’ambiente esonera dalla valutazione di impatto ambientale i parcheggi fino a cinquecento posti, anche se stabili. In conclusione, secondo la resistente, la questione sarebbe stata promossa sulla base di un’erronea lettura della disposizione impugnata e dei parametri interposti, che non avrebbero il significato loro attribuito dal ricorrente. Considerato in diritto 1.– Con il ricorso indicato in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023, che, sotto la rubrica «[p]archeggi a uso pubblico e temporaneo», prevede quanto segue: «[s]ino al 31 dicembre 2023, le aree a parcheggio a uso pubblico e temporaneo non superiore a centoventi giorni, comprese tra le attività di cui all’articolo 6, comma 1, lettera e-bis), del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia[. Testo A]), sono escluse dalle procedure di valutazione ambientale e paesaggistica a condizione che entro e non oltre trenta giorni dal termine del relativo utilizzo sia garantito il ripristino dello stato dei luoghi». Ad avviso del ricorrente, la disposizione impugnata violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., per invasione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali». La questione è promossa sotto due profili. In primo luogo, il legislatore regionale avrebbe introdotto un’illegittima deroga alle disposizioni relative all’autorizzazione paesaggistica ex art. 146 cod. beni culturali, il cui rispetto è implicitamente previsto dall’art. 6, comma 1, t.u. edilizia nel disciplinare gli interventi realizzabili senza titolo abilitativo. In secondo luogo, la disposizione regionale impugnata si applicherebbe a tutti i parcheggi di uso pubblico e temporaneo non superiore a centoventi giorni, a prescindere dal numero di posti auto, escludendo in ogni caso che essi siano soggetti a procedure di valutazione ambientale e ponendosi così in contrasto con l’Allegato IV alla Parte seconda del codice dell’ambiente, che al punto 7 (Progetti di infrastrutture), lettera b), prevede che i progetti dei «parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto» siano sottoposti alla verifica di assoggettabilità di competenza delle regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, senza distinguere tra temporaneità o meno dell’uso. 2.– La Regione Puglia ha eccepito l’inammissibilità della questione per genericità, limitatamente al secondo profilo di censura, in difetto di specifica indicazione delle norme interposte di cui si assume la violazione, non essendo sufficiente un generico e complessivo richiamo al cod. ambiente. L’eccezione non è fondata. Secondo il costante orientamento di questa Corte, nei giudizi in via principale il ricorrente ha l’onere di individuare le disposizioni impugnate e i parametri costituzionali dei quali lamenta la violazione e di presentare una motivazione non meramente assertiva, che indichi le ragioni del contrasto con i parametri evocati, attraverso una sia pur sintetica argomentazione di merito a sostegno delle censure (tra le molte, sentenze n. 57 del 2023, n. 135 e n. 119 del 2022). Tale onere si estende anche all’individuazione delle specifiche disposizioni statali interposte che si assumono violate (tra le molte, sentenze n. 58 del 2023 e n. 279 del 2020). Sotto quest’ultimo aspetto, il ricorrente non si è limitato a evocare genericamente l’intero codice dell’ambiente, come deduce la Regione, ma ha indicato la specifica disposizione contenuta nel punto 7, lettera b), dell’Allegato IV alla Parte seconda di tale codice, là dove si prevede la sottoposizione alla verifica di assoggettabilità dei progetti relativi a una ben determinata tipologia di opere («parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto»). L’onere motivazionale è stato dunque assolto. 3.– Quanto all’esatta individuazione del thema decidendum, il primo profilo di censura, incentrato sul contrasto tra la disposizione impugnata e la disciplina dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 cod. beni culturali, ha per oggetto la previsione che esclude le procedure di valutazione «paesaggistica», mentre il secondo profilo, incentrato sul contrasto con le disposizioni del codice dell’ambiente relative alla verifica di assoggettabilità, riguarda la menzionata previsione che esclude le procedure di valutazione «ambientale». Va inoltre chiarito che non integra un motivo di censura l’osservazione del ricorrente secondo cui l’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023 sarebbe di «eccentrica formulazione», subordinando l’autorizzazione di un’attivita` (la realizzazione di parcheggi a uso pubblico e temporaneo per non più di centoventi giorni) alla condizione che si verifichi un fatto posteriore all’attività stessa (il ripristino dei luoghi al termine dell’utilizzo). Si tratta di una considerazione espressamente svolta «in disparte», che risulta priva di nessi con la censura di violazione della competenza legislativa dello Stato in materia di tutela ambientale e che non apporta alcun argomento a suo sostegno. Di conseguenza, le difese svolte sul punto dalla Regione – che richiama analoghi meccanismi adottati dallo stesso art. 6, comma 1, lettera e-bis), t.u. edilizia e dalla normativa statale che disciplina interventi di natura temporanea e provvisoria, diretti ad affrontare situazioni di emergenza – non sono conferenti. 4.– Prima di esaminare il merito, va ricostruita la genesi e individuata la ratio della disposizione impugnata. La legge regionale di cui si discute deriva dall’approvazione del progetto di legge n. 805 del 2023. In origine, tale progetto era composto di due soli articoli, recanti il riconoscimento di debiti fuori bilancio ai sensi dell’art. 73, comma 1, lettere a) ed e), del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42). Durante l’iter legislativo, al testo iniziale sono stati aggiunti due articoli relativi a materie eterogenee, che nel titolo finale della legge regionale in esame (oltre che nel suo Capo II) sono indicati quali «[d]isposizioni diverse»: l’una dedicata a un contributo finanziario per l’individuazione di figure professionali nei Comuni di Martina Franca e di Molfetta (art. 3), l’altra ai «[p]archeggi a uso pubblico e temporaneo» (art. 4, qui impugnato). L’art. 4 è il frutto di un emendamento approvato dal Consiglio regionale nella seduta del 27 giugno 2023, recante la seguente motivazione: «[l]’emendamento è finalizzato a definire, sino al 31 dicembre 2023, le procedure per l’individuazione di aree di parcheggio ad uso pubblico e temporaneo non superiore a centoventi giorni ricomprese nel novero delle attività di edilizia libera di cui all’art. 6, comma 1, lettera e-bis del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380. I sindaci delle principali localita` turistiche hanno, infatti, evidenziato la ricorrenza di una situazione di assoluta urgenza correlata alla insufficienza dei parcheggi che determinerebbe conseguenze non solo sul comparto turistico, ma anche in termini di congestionamenti di traffico difficilmente gestibili anche in termini di sicurezza della circolazione e sicurezza urbana. Attesa la temporaneità della misura, è posta la condizione del ripristino dello stato dei luoghi successivo alla cessazione delle esigenze temporanee e contingenti che ne hanno determinato la realizzazione, entro e non oltre i successivi trenta giorni». La Regione sostiene che la disposizione impugnata avrebbe inteso affrontare e risolvere una situazione «emergenziale» connessa alle «esigenze dei comuni costieri o ad elevata affluenza turistica per il periodo estivo». Un simile scopo non è enunciato espressamente dalla disposizione medesima, che non limita la sua efficacia ai «comuni costieri o ad elevata affluenza turistica per il periodo estivo». È comunque indubitabile che l’utilizzo dei parcheggi debba essere di tipo stagionale o precario, com’è desumibile non solo dalla durata massima di centoventi giorni e dall’obbligo di successivo ripristino dei luoghi, ma anche dalla previsione secondo cui le «aree a parcheggio» (più correttamente, i parcheggi realizzati su di esse) devono essere «comprese tra le attività di cui all’articolo 6, comma 1, lettera e-bis)» t.u. edilizia, ossia tra le «opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità». Per favorire queste finalità, il legislatore regionale ha previsto che «[s]ino al 31 dicembre 2023, le aree a parcheggio a uso pubblico e temporaneo [...] sono escluse dalle procedure di valutazione ambientale e paesaggistica». 5.– Nel merito, la questione è fondata sotto entrambi i profili sopra indicati. 5.1.– Come si è detto, il ricorrente lamenta, in primo luogo, che l’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023 avrebbe introdotto una deroga alle disposizioni relative all’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 cod. beni culturali. La disposizione impugnata ha previsto, per le aree in oggetto, l’esclusione sino al 31 dicembre 2023 «dalle procedure di valutazione [...] paesaggistica». Tale locuzione comprende il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione di cui al citato art. 146, che è preordinato alla verifica della compatibilità dell’intervento progettato con l’interesse paesaggistico tutelato (comma 3), nonché alla verifica della sua conformità alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico o alla specifica disciplina di cui all’art. 140, comma 2, cod. beni culturali (comma 8). L’esclusione «dalle procedure di valutazione [...] paesaggistica» equivale, dunque, a un’esenzione dal procedimento autorizzatorio, in deroga alla norma statale interposta indicata dal ricorrente. L’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023 prevede che le «aree a parcheggio a uso pubblico e temporaneo» devono essere comprese tra le attività di cui all’art. 6, comma 1, lettera e-bis), t.u. edilizia. L’alinea di tale comma prevede, a sua volta, che gli interventi di edilizia libera (elencati nelle successive lettere dello stesso comma 1) siano sì eseguiti «senza alcun titolo abilitativo», ma «[f]atte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico sanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica, di tutela dal rischio idrogeologico, nonch[é] delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42». Pertanto, è la medesima disposizione regionale impugnata a richiedere che, per beneficiare dell’esclusione dalle procedure di valutazione ambientale e paesaggistica, la realizzazione dei parcheggi a uso temporaneo sia qualificabile come attività edilizia libera, ciò che in ogni caso comporta – in forza della clausola di salvezza di cui al citato art. 6, comma 1, t.u. edilizia – il rispetto delle disposizioni del codice dei beni culturali e del paesaggio che disciplinano l’autorizzazione paesaggistica. Al riguardo, la Regione oppone due tesi difensive, entrambe volte a dimostrare che l’impugnato art. 4 disciplinerebbe attività in ogni caso non soggette ai procedimenti di autorizzazione paesaggistica. Il loro separato esame ne rivela la non fondatezza. 5.1.1.– In primo luogo, la Regione osserva che l’art. 6, comma 1, t.u. edilizia dovrebbe essere interpretato in modo che possa avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbe alcuno. Seguendo le ragioni esposte dal ricorrente, invece, la previsione che consente l’esecuzione senza alcun titolo abilitativo degli interventi di cui alla lettera e-bis) dello stesso art. 6, comma 1, mancherebbe di effettiva utilita`, non potendo essere applicata nelle aree vincolate paesaggisticamente. In riferimento ad esse, infatti, gli interventi sopra indicati non potrebbero essere concretamente realizzati, «atteso che i tempi di rilascio del nullaosta paesistico esaurirebbero la durata stessa delle opere stagionali e temporanee, traducendosi in un antieconomico ed illogico aggravamento procedimentale», tanto piu` evidente nel caso, disciplinato dal legislatore regionale, dei «soli parcheggi “estivi” per non piu` di centoventi giorni e fino al 31 dicembre 2023». Questa tesi non è condivisibile. Nulla consente la prospettata interpretazione dell’art. 6, comma 1, lettera e-bis), t.u. edilizia. Il dato letterale dell’alinea del comma 1 depone inequivocamente nel senso della necessità che tutte le opere di edilizia libera elencate nello stesso comma siano conformi, senza distinzioni, alle prescrizioni del codice dei beni culturali e del paesaggio, non comportando la riconduzione a siffatta categoria di opere, di per sé, alcuna sottrazione alle valutazioni paesaggistiche (in tal senso, Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenze 7 febbraio 2024, n. 1237 e 9 giugno 2023, n. 5690). Neppure la stagionalità o la precarietà delle opere indicate nella lettera e-bis) giustifica tale sottrazione, in quanto ciò equivarrebbe, nel caso di aree vincolate, ad una irragionevole limitazione temporale della tutela paesaggistica. Né si può ritenere che, così interpretata, la norma non produca effetti utili in relazione alle opere stagionali o precarie rientranti nella nozione di attività edilizia libera. Manca ogni evidenza dell’assoluta e oggettiva impossibilità della loro esecuzione in attesa dei tempi necessari per la definizione dei procedimenti di autorizzazione paesaggistica, considerando anche che i singoli interventi di cui alla lettera e-bis) ben possono rientrare, per le loro concrete caratteristiche, nella sfera di applicazione del procedimento autorizzatorio semplificato, che si connota per la riduzione dei tempi di definizione e per il ricorso a meccanismi di formazione del silenzio-assenso (come precisato, di seguito, al punto 5.1.2.). 5.1.2.– La Regione sostiene, inoltre, che l’art. 6, comma 1, t.u. edilizia si dovrebbe interpretare «in coordinato disposto» con l’art. 2 del d.P.R. n. 31 del 2017, secondo il quale «[n]on sono soggetti ad autorizzazione paesaggistica gli interventi e le opere di cui all’Allegato “A”». Tale Allegato ricomprende, al punto A.16, gli interventi di «occupazione temporanea di suolo privato, pubblico o di uso pubblico mediante installazione di strutture o di manufatti semplicemente ancorati al suolo senza opere murarie o di fondazione, per manifestazioni, spettacoli, eventi o per esposizioni e vendita di merci, per il solo periodo di svolgimento della manifestazione, comunque non superiore a 120 giorni nell’anno solare»: interventi cui sarebbero riconducibili, secondo la Regione, le occupazioni di suolo mediante la realizzazione di parcheggi di uso pubblico per un periodo non superiore a centoventi giorni. Andrebbero considerate, ad avviso della difesa regionale, anche le previsioni dell’Allegato B allo stesso d.P.R. n. 31 del 2017, che annovera tra gli «interventi di lieve entita`», soggetti a procedimento autorizzatorio semplificato: – al punto B.11, gli «interventi puntuali di adeguamento della viabilita` esistente», compresa la «realizzazione di parcheggi a raso con fondo drenante o che assicuri adeguata permeabilita` del suolo» (cioè, secondo la Regione, parcheggi stabili e permanenti con opere fisse di trasformazione dello stato dei luoghi); – al punto B.25, l’«occupazione temporanea di suolo privato, pubblico, o di uso pubblico, mediante installazione di strutture o di manufatti semplicemente ancorati al suolo senza opere murarie o di fondazione per manifestazioni, spettacoli, eventi, o per esposizioni e vendita di merci, per un periodo superiore a 120 e non superiore a 180 giorni nell’anno solare». Se dunque – conclude la Regione – sono opere di lieve entita`, soggette ad autorizzazione semplificata, sia i parcheggi «a raso con fondo drenante o che assicuri adeguata permeabilita` del suolo», sia le occupazioni dei suoli per un periodo compreso fra centoventuno e centottanta giorni, allora i parcheggi di durata fino a centoventi giorni dovrebbero a maggior ragione rientrare tra le opere non soggette ad autorizzazione paesaggistica gia` in base alla normativa statale, rispetto alla quale la disposizione regionale impugnata sarebbe «del tutto coerente ed allineata, e semplicemente attuativa». Anche questa tesi non è condivisibile. Le «aree a parcheggio a uso pubblico e temporaneo» previste dalla disposizione regionale impugnata non sono infatti riconducibili, in quanto tali, agli interventi e alle opere esclusi dall’autorizzazione paesaggistica di cui al punto A.16 del citato Allegato A, poiché l’occupazione temporanea di suolo ivi prevista deve essere realizzata per lo svolgimento di «manifestazioni, spettacoli, eventi o per esposizioni e vendita di merci», mentre le aree di parcheggio di cui si discute non sono destinate a tali specifiche finalità. Inoltre, non è escluso che i parcheggi in questione rientrino nella categoria delle opere soggette ad autorizzazione semplificata di cui al punto B.11 dell’Allegato B, poiché anch’essi possono consistere in «interventi puntuali di adeguamento della viabilità esistente», per fare fronte a esigenze temporanee di congestione del traffico, ed essere realizzati «a raso con fondo drenante o che assicuri adeguata permeabilita` del suolo», per garantirne un minor impatto sul territorio, senza per questo impedire il ripristino dei luoghi al termine dell’utilizzo. 5.1.3.– Per costante giurisprudenza di questa Corte, «la conservazione ambientale e paesaggistica spetta, in base all’articolo 117, secondo comma, lettera s), Cost., alla cura esclusiva dello Stato» (tra le molte, sentenze n. 160 del 2021, n. 178 e n. 172 del 2018 e n. 103 del 2017). Con specifico riferimento al procedimento per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, questa Corte ha altresì costantemente affermato che la legislazione regionale non può prevedere una procedura diversa da quella dettata dalla legge statale, perché alle regioni non è consentito introdurre deroghe agli istituti di protezione ambientale che dettano una disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale, fra i quali rientra l’autorizzazione paesaggistica (sentenze n. 160 e n. 74 del 2021, n. 189 del 2016, n. 238 del 2013, n. 235 del 2011, n. 101 del 2010 e n. 232 del 2008). La competenza legislativa esclusiva statale risponde, infatti, a ineludibili esigenze di tutela e sarebbe vanificata dall’intervento di una normativa regionale che sancisse in via indiscriminata l’irrilevanza paesaggistica di determinate opere, così sostituendosi all’apprezzamento che compete alla legislazione statale (sentenze n. 74 del 2021 e n. 246 del 2017). Spetta dunque alla legislazione statale determinare presupposti e caratteristiche dell’autorizzazione paesaggistica, delle eventuali esenzioni e delle semplificazioni della procedura, in ragione della diversa incidenza delle opere sul valore intangibile dell’ambiente (ancora sentenze n. 74 del 2021 e n. 246 del 2017). Il legislatore regionale, infatti, non può introdurre disposizioni che esentano talune opere dall’autorizzazione paesaggistica, perché si sostituirebbe in tal modo all’apprezzamento che compete solo al legislatore statale, in ragione della diversa incidenza delle opere sul valore intangibile dell’ambiente. Non rileva, infine, che l’esenzione sia limitata nel tempo (sino al 31 dicembre 2023, come si è visto), in quanto spetterebbe comunque allo Stato stabilirne, oltre ai presupposti, anche la durata, per la sua incidenza su un istituto di protezione ambientale uniforme. Alla luce di questi principi, l’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023 integra, sotto il profilo qui esaminato, la violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. 5.2.– Con il secondo profilo di censura, il ricorrente lamenta che l’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023 violerebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia ambientale, contrastando con il punto 7, lettera b), dell’Allegato IV alla Parte seconda del codice dell’ambiente, secondo cui i progetti dei «parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto» sono sottoposti alla verifica di assoggettabilità di competenza delle regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano. La verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale (VIA), nota anche come screening, consiste nella «verifica attivata allo scopo di valutare, ove previsto, se un progetto determina potenziali impatti ambientali significativi e negativi e deve essere quindi sottoposto al procedimento di VIA secondo le disposizioni di cui al Titolo III della parte seconda» del codice dell’ambiente (in particolare, dell’art. 5, comma 1, lettera m). Essa viene effettuata (come la VIA) ai diversi livelli istituzionali, tenendo conto dell’esigenza di razionalizzare i procedimenti ed evitare duplicazioni nelle valutazioni (art. 7-bis, comma 1, cod. ambiente). Per individuare tali diversi livelli istituzionali, il legislatore ha rinviato ad alcuni allegati alla Parte seconda del codice dell’ambiente, prevedendo che «[s]ono sottoposti a verifica di assoggettabilità a VIA in sede statale i progetti di cui all’allegato II-bis» e che «[s]ono sottoposti a verifica di assoggettabilità a VIA in sede regionale i progetti di cui all’allegato IV» (art. 7-bis, commi 2 e 3, cod. ambiente). L’Allegato IV, recante «Progetti sottoposti alla Verifica di assoggettabilità di competenza delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano», contempla al punto 7 una serie di «[p]rogetti di infrastrutture», tra i quali, alla lettera b), i seguenti: «progetti di sviluppo di aree urbane, nuove o in estensione, interessanti superfici superiori ai 40 ettari; progetti di riassetto o sviluppo di aree urbane all’interno di aree urbane esistenti che interessano superfici superiori a 10 ettari; costruzione di centri commerciali di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 “Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59”; parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto». Questo assetto normativo è il risultato della riforma del codice dell’ambiente di cui al decreto legislativo 16 giugno 2017, n. 104 (Attuazione della direttiva 2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, che modifica la direttiva 2011/92/UE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, ai sensi degli articoli 1 e 14 della legge 9 luglio 2015, n. 114) e delle successive modifiche apportate dal cosiddetto “decreto semplificazioni” (decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, recante «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale», convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120). 5.2.1.– Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, «[l]a disciplina recata dal cod. ambiente e [...] il suo art. 7-bis sono [...] stati adottati dallo Stato sulla base del titolo di competenza esclusiva nella materia “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”» (sentenza n. 93 del 2019). In particolare, «l’obbligo di sottoporre il progetto alla procedura di VIA o, nei casi previsti, alla preliminare verifica di assoggettabilità a VIA, rientra nella materia della “tutela ambientale”» (sentenze n. 232 del 2017 e n. 215 del 2015; nello stesso senso, tra le tante, sentenze n. 234 e n. 225 del 2009) e rappresenta «nella disciplina statale, anche in attuazione degli obblighi comunitari, un livello di protezione uniforme che si impone sull’intero territorio nazionale, pur nella concorrenza di altre materie di competenza regionale (tra le altre, sentenze n. 120 del 2010, n. 249 del 2009 e n. 62 del 2008)» (sentenza n. 232 del 2017). Di conseguenza, «[l]a disciplina dei procedimenti di verifica ambientale è [...] riservata in via esclusiva alla legislazione statale (sentenza n. 178 del 2019; da ultimo, sentenza n. 258 del 2020), che rintraccia il punto di equilibrio tra l’esigenza di semplificazione e di accelerazione del procedimento amministrativo, da un lato, e la “speciale” tutela che deve essere riservata al bene ambiente, dall’altro (sentenze n. 106 del 2020 e n. 246 del 2018)» (sentenza n. 53 del 2021). Con specifico riguardo alle procedure di valutazione ambientale riservate dal codice dell’ambiente alla competenza legislativa regionale (nella specie, alla procedura di VIA, ma con considerazioni estensibili a quella di verifica di assoggettabilità a VIA), questa Corte ha affermato, inoltre, che «la “puntuale disciplina del procedimento dettata dal legislatore statale, la dettagliata definizione delle fasi e dei termini che conducono al rilascio del provvedimento autorizzatorio unico regionale concorrono a creare una cornice di riferimento che, sintetizzando i diversi interessi coinvolti, ne individua un punto di equilibrio, che corrisponde anche a uno standard di tutela dell’ambiente” (sentenza n. 106 del 2020), in quanto tale non derogabile da parte delle legislazioni regionali» (ancora sentenza n. 53 del 2021). Nello scrutinare la legittimità costituzionale di una disposizione regionale che consentiva di escludere dalla verifica di assoggettabilità a VIA regionale i progetti di impianti eolici con potenza complessiva nominale superiore a 1 MW e di impianti per conversione fotovoltaica (compresi nel citato Allegato IV alla Parte seconda del codice dell’ambiente, punto 2, rispettivamente lettere d e b), questa Corte ha poi affermato che «[n]on spetta [...] alle Regioni decidere quali siano le condizioni che determinano l’esclusione dalle verifiche d’impatto ambientale», in quanto, «sebbene la competenza esclusiva statale prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. non escluda aprioristicamente interventi regionali, anche legislativi, “è tuttavia necessario che ciò avvenga in termini di piena compatibilità con l’assetto normativo individuato dalla legge statale, non potendo tali interventi alterarne il punto di equilibrio conseguito ai fini di tutela ambientale” (sentenza n. 178 del 2019; nello stesso senso, sentenza n. 147 del 2019)» (sentenza n. 258 del 2020). A quest’ultimo riguardo, si è precisato che il codice dell’ambiente, all’art. 7-bis, comma 8, riconosce sì uno spazio di intervento alle regioni e province autonome, ma «ne definisc[e] tuttavia il perimetro d’azione in ambiti specifici e puntualmente precisati», in quanto «[g]li enti regionali [...] possono disciplinare, “con proprie leggi o regolamenti l’organizzazione e le modalità di esercizio delle funzioni amministrative ad esse attribuite in materia di VIA”, stabilendo “regole particolari ed ulteriori” solo e soltanto “per la semplificazione dei procedimenti, per le modalità della consultazione del pubblico e di tutti i soggetti pubblici potenzialmente interessati, per il coordinamento dei provvedimenti e delle autorizzazioni di competenza regionale e locale, nonché per la destinazione […] dei proventi derivanti dall’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie” (sentenza n. 198 del 2018)», con la conseguenza che, «[f]uori da questi ambiti, [è] dunque preclusa alle Regioni, quale che sia la competenza che [...] adducano, la possibilità di incidere sul dettato normativo che attiene ai procedimenti di verifica ambientale così come definito dal legislatore nazionale» (sentenza n. 178 del 2019). 5.2.2.– La disposizione impugnata ha previsto per le aree in oggetto l’esclusione anche «dalle procedure di valutazione ambientale», locuzione che comprende il procedimento di verificazione di assoggettabilità a VIA di cui ai citati artt. 7-bis e 19 cod. ambiente. In particolare, vi è compresa la verifica di assoggettabilità a VIA di competenza delle regioni e delle province autonome prevista dall’Allegato IV alla Parte seconda del codice dell’ambiente (richiamato al comma 3 dell’art. 7-bis), cui sono assoggettati, tra gli altri, i progetti relativi ai «parcheggi di uso pubblico con capacità superiori a 500 posti auto» (punto 7, lettera b). Da un lato, la disciplina statale non distingue tra temporaneità o meno dell’uso (pubblico), ma solo tra le «capacità» dei parcheggi, obbligando alla verifica di assoggettabilità a VIA i progetti che prevedono più di 500 posti auto. D’altro lato, l’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023 non contiene alcun limite al numero dei posti auto, né la suddetta «capacità» è incompatibile con la natura stagionale o precaria dei parcheggi, che potrebbero raggiungere simili dimensioni anche per esigenze temporanee. La Regione si difende osservando, innanzi tutto, che l’incipit dell’art. 6, comma 1, t.u. edilizia «non richiama specificamente il Codice dell’Ambiente». Tale affermazione sembra voler significare che il citato art. 6, comma 1, non facendo specificamente salve le disposizioni del cod. ambiente, consentirebbe di evitarne il rispetto nel realizzare gli interventi di edilizia libera, tra i quali devono essere compresi i parcheggi disciplinati dall’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023. La tesi non è condivisibile, perché le norme di tutela ambientale di cui al d.lgs. n. 152 del 2006 rientrano nel novero «delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia», il cui rispetto è fatto salvo, in generale, dall’art. 6, comma 1, t.u. edilizia. Inoltre, la Regione ripropone la tesi dell’incompatibilità dei tempi delle procedure valutative con la durata delle opere stagionali o precarie. Al riguardo, si richiamano le osservazioni già svolte (vedi sopra, punto 5.1.1.), dovendosi qui aggiungere che anche i tempi della verifica di assoggettabilità a VIA (che variano da un minimo di ottanta a un massimo di centoquindici giorni, a seguito della sensibile riduzione della durata del procedimento disposta dal citato “decreto semplificazioni”) non comportano un’oggettiva e assoluta impossibilità di realizzare e utilizzare, nel rispetto dei termini previsti, i parcheggi di cui si discute. Infine, secondo la Regione, si dovrebbe considerare che la norma statale assunta a parametro interposto «esonera dalla valutazione di impatto ambientale i parcheggi fino a cinquecento posti, anche se stabili». L’argomento è irrilevante, perché la disposizione regionale è impugnata proprio in quanto esclude dalla verifica di assoggettabilità a VIA di competenza regionale i parcheggi temporanei con «capacità» superiore, in contrasto con la normativa ambientale. I parcheggi fino a 500 posti, infatti, non rientrano nella sfera di applicazione dell’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023, poiché per essi l’esclusione dalla procedura valutativa di competenza regionale è già prevista (senza limiti di tempo) dalla disciplina statale. Ciò posto, e alla luce dei principi stabiliti dalla giurisprudenza costituzionale in materia (vedi sopra, punto 5.2.1.), sussiste anche sotto questo profilo la violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., non spettando alla Regione decidere quali siano i presupposti e le condizioni che determinano l’esclusione dalle verifiche d’impatto ambientale. Simili interventi, infatti, alterano il punto di equilibrio fissato dallo Stato tra l’esigenza di semplificazione e di accelerazione del procedimento amministrativo, da un lato, e la speciale tutela che deve essere riservata al bene ambiente, d’altro lato. Punto di equilibrio che corrisponde anche a uno standard di tutela dell’ambiente, in quanto tale non derogabile da parte delle legislazioni regionali. 6.– In conclusione, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge reg. Puglia n. 19 del 2023. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Puglia 4 luglio 2023, n. 19, recante «XI legislatura - 16° provvedimento di riconoscimento di debiti fuori bilancio ai sensi dell’articolo 73, comma 1, lettere a) ed e), del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2014, n. 126 e disposizioni diverse». Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 marzo 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Marco D'ALBERTI, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 39-bis del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 29 novembre 2007, n. 222, promosso dalla Corte di cassazione, sezione prima civile, nel procedimento vertente tra Aeroporto di Genova spa e Alitalia Linee Aeree Italiane spa in amministrazione straordinaria, con ordinanza del 4 agosto 2023, iscritta al n. 149 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2023. Udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2024 il Giudice relatore Giovanni Pitruzzella; deliberato nella camera di consiglio del 16 aprile 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 4 agosto 2023, iscritta al n. 149 del registro ordinanze 2023, la Corte di cassazione, sezione prima civile, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale «conseguenziale» dell’art. 39-bis del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 29 novembre 2007, n. 222, nella parte in cui prevede che le disposizioni «in materia di addizionale comunale sui diritti di imbarco di cui all’articolo 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350», «si interpretano nel senso che dalle stesse non sorgono obbligazioni di natura tributaria». 1.1.– Il rimettente espone in punto di fatto che: – nel 2012 Aeroporto di Genova spa aveva insinuato al passivo di Alitalia Linee Aeree Italiane spa in amministrazione straordinaria (d’ora in avanti: Alitalia) il credito di euro 3.150.581,09, in via privilegiata, e di euro 714.242,53, in prededuzione; – il giudice delegato aveva ammesso il credito di euro 3.278.237,70, in via chirografaria, escludendo, in primo luogo, il privilegio speciale di cui all’art. 1023 del regio decreto 30 marzo 1942, n. 327 (Approvazione del testo definitivo del Codice della navigazione), sulla somma di euro 484.531,11, fatta valere per «diritti di approdo e partenza, diritti di sosta, diritti di imbarco passeggeri, corrispettivo controlli di sicurezza sui passeggeri e bagagli al seguito, corrispettivo di controllo di sicurezza dei bagagli di stiva»; – il medesimo giudice aveva in secondo luogo escluso – «ritenendolo applicabile solamente nei confronti dell’erario» – il privilegio generale di cui al terzo (già quarto) comma dell’art. 2752 del codice civile sul credito di euro 279.580,00, azionato a titolo di addizionale comunale sui diritti di imbarco dei passeggeri sugli aeromobili (d’ora in avanti, anche: addizionale comunale), prevista dall’art. 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2004)»; – Aeroporto di Genova spa aveva proposto opposizione avverso lo stato passivo, in parte accolta dal Tribunale ordinario di Roma; – in particolare, il Tribunale aveva, da un lato, confermato il diniego del privilegio di cui all’art. 1023 cod. nav., per mancanza di prova del collegamento tra i crediti iscritti e i singoli aeromobili che avevano formato oggetto dei servizi resi, e, dall’altro, riconosciuto, ai sensi dell’art. 2752, terzo comma, cod. civ., il privilegio generale sui beni mobili in relazione al credito di euro 279.580,00 per addizionale comunale; – ancora più in particolare, secondo il Tribunale, quest’ultimo privilegio andrebbe riconosciuto poiché il citato art. 2752, terzo comma, cod. civ., nel fare riferimento ai «crediti per le imposte, tasse e tributi dei comuni e delle province previsti dalla legge per la finanza locale», rinvierebbe, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, a tutte le disposizioni che disciplinano i tributi comunali e provinciali, così come chiarito dall’art. 13, comma 13, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214; – avverso tale decisione hanno proposto ricorso per cassazione Aeroporto di Genova spa e ricorso incidentale Alitalia; – la ricorrente principale, con un unico motivo relativo al diniego del privilegio speciale sul menzionato credito di euro 484.531,11, ha lamentato la «violazione e/o falsa applicazione degli artt. 93 n. 4, 96 e 97 legge fall., nonché dell’art. 1023 cod. nav. e dell’art. 116 cod. proc. civ.», osservando che l’ammissione al passivo in via chirografaria del credito comporterebbe un giudicato endofallimentare sull’effettivo svolgimento delle prestazioni secondo la documentazione prodotta, la cui efficacia probatoria non potrebbe essere «scissa e negata» ai soli fini della collocazione privilegiata; – la medesima ricorrente ha ribadito, in ogni caso, che nell’istanza di ammissione al passivo erano state analiticamente indicate le sigle di immatricolazione identificative di tutti gli aeromobili in relazione ai quali erano sorti i crediti privilegiati e di aver specificato, in un apposito prospetto, l’esatto ammontare del credito garantito da privilegio con riferimento ad ogni volo operato dal vettore; – la ricorrente incidentale, dal canto suo, ha lamentato la «violazione e falsa applicazione dell’art. 2, comma 11, della legge n. 350 del 2003, dell’art. 13, comma 13, del d.l. n. 201 del 2011, dell’art. 39-bis del d.l. n. 159 del 2007 e dell’art. 2752, ult. comma, cod. civ.», poiché il credito per addizionale comunale non avrebbe natura tributaria, come espressamente significato dalla norma di interpretazione autentica di cui all’art. 39-bis del d.l. n. 159 del 2007, come convertito; – sempre secondo la ricorrente incidentale, l’addizionale comunale avrebbe natura di corrispettivo di un servizio imprenditoriale, dal momento che il relativo importo viene versato allo Stato e da esso devoluto principalmente alla Società nazionale per l’assistenza al volo (ENAV spa), per compensare i costi sostenuti al fine di garantire la sicurezza ai suoi impianti e la sicurezza operativa. 1.2.– Ciò premesso in punto di fatto, il rimettente ritiene che «il tema sotteso al ricorso incidentale induca a sollevare d’ufficio una questione di legittimità costituzionale conseguenziale», ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale). 1.2.1.– A tal fine, occorrerebbe muovere dal rilievo che, successivamente alla proposizione del ricorso per cassazione, questa Corte, con la sentenza n. 167 del 2018, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., l’art. 1, comma 478, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)». Tale disposizione stabiliva: «[a]ll’articolo 39-bis, comma 1, del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222, dopo le parole: “della legge 24 dicembre 2003, n. 350,” sono inserite le seguenti: “e di corrispettivi a carico delle società di gestione aeroportuale relativamente ai servizi antincendi negli aeroporti, di cui all’articolo 1, comma 1328, della legge 27 dicembre 2006, n. 296,”». Due – prosegue il rimettente – sono «le disposizioni implicate da detta norma»: l’art. 1, comma 1328, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», e l’art. 39-bis del d.l. n. 159 del 2007, come convertito. La prima, per quanto qui rileva, prevede che, «[a]l fine di ridurre il costo a carico dello Stato del servizio antincendi negli aeroporti, l’addizionale sui diritti d’imbarco sugli aeromobili, di cui all’articolo 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, e successive modificazioni, è incrementata a decorrere dall’anno 2007 di 50 centesimi di euro a passeggero imbarcato. Un apposito fondo, alimentato dalle società aeroportuali in proporzione al traffico generato, concorre al medesimo fine per 30 milioni di euro annui». Con tale disposizione, il legislatore avrebbe istituito «due canali di finanziamento della riduzione della spesa pubblica» per il servizio antincendi negli aeroporti: a) il fondo alimentato dalle società di gestione aeroportuale; b) l’incremento dell’addizionale comunale prevista dall’art. 2, comma 11, della legge n. 350 del 2003 e pagata dal vettore aereo, che ne trasla il costo sul passeggero, mediante integrazione del prezzo del biglietto. La seconda disposizione presa in considerazione dall’art. 1, comma 478, della legge n. 208 del 2015, ossia l’art. 39-bis del d.l. n. 159 del 2007, come convertito, a sua volta, prevede che «[l]e disposizioni in materia di tassa d’imbarco e sbarco sulle merci trasportate per via aerea di cui al decreto-legge 28 febbraio 1974, n. 47, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 aprile 1974, n. 117, e successive modificazioni, di tasse e di diritti di cui alla legge 5 maggio 1976, n. 324, di corrispettivi dei servizi di controllo di sicurezza di cui all’articolo 8 del regolamento di cui al decreto del Ministro dei trasporti e della navigazione 29 gennaio 1999, n. 85, nonché in materia di addizionale comunale sui diritti di imbarco di cui all’articolo 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, e di corrispettivi a carico delle società di gestione aeroportuale relativamente ai servizi antincendi negli aeroporti, di cui all’articolo 1, comma 1328, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, si interpretano nel senso che dalle stesse non sorgono obbligazioni di natura tributaria». L’inserimento nel citato art. 39-bis dei corrispettivi relativi al servizio antincendi (d’ora in avanti, anche: contributi al fondo antincendi), che le società aeroportuali hanno l’obbligo di alimentare in proporzione al traffico generato, avrebbe avuto l’effetto di escluderne la natura tributaria. Osserva poi il giudice a quo che nella citata sentenza n. 167 del 2018 questa Corte: – ha innanzitutto richiamato il suo costante orientamento in base al quale «una fattispecie deve ritenersi di natura tributaria, indipendentemente dalla qualificazione offerta dal legislatore, laddove si riscontrino tre indefettibili requisiti»: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo, la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico e le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti da tale decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese; – ha poi affermato, disattendendo la prospettiva della natura sinallagmatica offerta dall’Avvocatura generale dello Stato, che tutte le suddette caratteristiche del tributo ricorrono nel caso del contributo al fondo antincendi, istituito con l’art. 1, comma 1328, della legge n. 296 del 2006; – ha ancora osservato che la norma ivi scrutinata afferma la natura non tributaria del contributo in parola, ma tale qualificazione legislativa si risolve in una operazione meramente nominalistica, che non si accompagna alla modifica sostanziale degli elementi strutturali della fattispecie tributaria; – ha pertanto concluso che «la norma interpretativa censurata, […] lungi dall’esplicitare una possibile variante di senso della norma interpretata, incongruamente le attribuisce un significato non compatibile con la intrinseca ed immutata natura tributaria della prestazione, così ledendo la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico», in violazione del principio di ragionevolezza. 1.2.2.– Secondo il rimettente, verrebbe allora in rilievo l’eventualità che l’art. 39-bis citato sia affetto da illegittimità costituzionale anche in relazione alla dichiarata natura non tributaria delle obbligazioni che sorgono dalle disposizioni «in materia di addizionale comunale sui diritti di imbarco». Difatti, i sopra cennati elementi strutturali dei tributi, riconosciuti dalla sentenza n. 167 del 2018 con riferimento ai contributi al fondo antincendi, «dovrebbero a maggior ragione ravvisarsi» nell’addizionale comunale sui diritti di imbarco, di cui l’art. 1, comma 1328, della legge n. 296 del 2006 ha disposto la maggiorazione proprio al fine di alimentare il predetto fondo. 1.3.– La questione sarebbe «sicuramente e immediatamente» rilevante nel giudizio a quo. La «persistente vigenza» dell’art. 39-bis del d.l. n. 159 del 2007, come convertito, nella parte in cui esclude la natura tributaria delle obbligazioni derivanti dall’addizionale comunale, confliggerebbe con quella natura per contro ravvisata dal Tribunale, ai fini del riconoscimento del privilegio di cui all’art. 2752, terzo comma, cod. civ. L’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata, dunque, risolverebbe in senso negativo la questione posta con il ricorso incidentale, diretto a conseguire l’esclusione del cennato privilegio. 1.4.– In punto di non manifesta infondatezza, la Corte di cassazione ritiene che sia «prospettabile un’ipotesi di illegittimità costituzionale conseguenziale della norma interpretativa» di cui all’art. 39-bis del d.l. n. 159 del 2007, come convertito, in quanto, «laddove esclude la natura tributaria delle obbligazioni “derivanti dall’addizionale comunale sui diritti di imbarco […]”, risulta affetto dalla stessa irragionevolezza […] che la sentenza della Corte costituzionale n. 167 del 2018 ha ravvisato nella medesima norma interpretativa, con riguardo ai “corrispettivi a carico delle società di gestione aeroportuale relativamente ai servizi antincendi negli aeroporti […]”». Considerato in diritto l.- Con ordinanza del 4 agosto 2023, iscritta al n. 149 del registro ordinanze 2023, la Corte di cassazione, sezione prima civile, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 39-bis del d.l. n. 159 del 2007, come convertito, nella parte in cui prevede che le disposizioni «in materia di addizionale comunale sui diritti di imbarco di cui all’articolo 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350», «si interpretano nel senso che dalle stesse non sorgono obbligazioni di natura tributaria». Secondo il rimettente, l’addizionale in parola presenterebbe tutti «gli elementi strutturali dei tributi, tradizionalmente individuati dalla giurisprudenza costituzionale», sicché la disposizione censurata, nell’escludere la sua natura tributaria, lederebbe la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico, in violazione dell’art. 3 Cost. Tanto si ricaverebbe, in via «conseguenziale», anche dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale recata dalla sentenza n. 167 del 2018, avente ad oggetto la porzione dello stesso art. 39-bis che (in seguito alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 478, della legge n. 208 del 2015) escludeva la medesima natura tributaria per i corrispettivi a carico delle società di gestione aeroportuale relativi al servizio antincendi negli aeroporti; e ciò a maggior ragione perché «sia questi ultimi corrispettivi, sia la maggiorazione dell’addizionale comunale sui diritti di imbarco […] sono destinati ad alimentare il fondo antincendi» istituito dall’art. 1, comma 1328, della legge n. 296 del 2006. 2.- È preliminare l’esatta perimetrazione dell’odierno thema decidendum. 2.1.– La disposizione censurata, rubricata «Diritti aeroportuali di imbarco», afferma la natura non tributaria di diversi prelievi: a) la tassa d’imbarco e sbarco sulle merci trasportate per via aerea «di cui al decreto-legge 28 febbraio 1974, n. 47, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 aprile 1974, n. 117, e successive modificazioni»; b) i diritti aeroportuali (ossia i diritti di approdo, di partenza e di sosta o ricovero per gli aeromobili e di imbarco per i passeggeri) «di cui alla legge 5 maggio 1976, n. 324»; c) i corrispettivi dei servizi di controllo di sicurezza «di cui all’articolo 8 del regolamento di cui al decreto del Ministro dei trasporti e della navigazione 29 gennaio 1999, n. 85»; d) l’addizionale comunale sui diritti d’imbarco dei passeggeri sugli aeromobili «di cui all’articolo 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350»; e) i corrispettivi posti a carico delle società di gestione aeroportuale relativi al servizio antincendi «di cui all’articolo 1, comma 1328, della legge 27 dicembre 2006, n. 296». Dai lavori parlamentari emerge che l’art. 39-bis era stato inserito, con apposito emendamento, al Senato, sul presupposto che i (soli) «diritti e le tasse aeroportuali non sembrano pienamente ascrivibili ad ambiti tributari, ma si configurano prevalentemente come vere e proprie tariffe per servizi resi in specifici ambiti territoriali da soggetti determinati o comunque come oneri dovuti in relazione ad attività od operazioni svolte in spazi riservati agli aerodromi» (così il dossier del Servizio bilancio dello Stato della Camera dei deputati 30 ottobre 2007, n. 124). La disposizione, pertanto, avrebbe «lo scopo di evitare lo sviluppo di problematiche interpretative anche ed in particolare con riferimento agli aspetti relativi alle competenze giurisdizionali» (ibidem). 2.2.– Questa Corte si è già occupata dell’art. 39-bis, riconoscendone la natura interpretativa (sentenze n. 251 del 2014, n. 335 e n. 102 del 2008), in relazione ai diritti aeroportuali, dei quali in diverse occasioni ha affermato la natura non di tributi, ma di corrispettivi di diritto privato (determinati secondo il meccanismo del cosiddetto price cap) di alcuni servizi forniti dalle società di gestione aeroportuale (prima con la sentenza n. 51 del 2008 e poi con le citate sentenze n. 102 e n. 335 del 2008, e n. 251 del 2014). 2.3.– La medesima disposizione è stata poi scrutinata con riferimento ai contributi al fondo antincendi. In particolare, con la sentenza n. 167 del 2018 citata dal rimettente, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 478, della legge n. 208 del 2015, che aveva incluso tali contributi nel catalogo recato dall’art. 39-bis, affermando che l’esclusione legislativa della loro natura tributaria si risolveva in una operazione meramente nominalistica, che non si accompagnava alla modifica sostanziale degli elementi strutturali della fattispecie tributaria, «così ledendo la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico», in violazione dell’art. 3 Cost. 2.4.– L’odierna questione sollevata dalla Corte di cassazione riguarda, invece, l’art. 39-bis nella sola parte in cui afferma la natura non tributaria dell’addizionale comunale sui diritti d’imbarco dei passeggeri sugli aeromobili, che il rimettente per contro ritiene sussumibile tra i tributi e, in particolare, tra quelli locali. 3.– Ancora in via preliminare, è necessario ricostruire l’articolato quadro normativo di riferimento, per come dipanatosi a seguito dei molteplici interventi legislativi che nel tempo hanno riguardato l’addizionale in parola, con la precisazione che oggetto della disamina saranno esclusivamente le disposizioni che riguardano la sua istituzione, la modifica dell’entità e l’individuazione del soggetto deputato alla riscossione e dei beneficiari del prelievo. 3.1.– L’addizionale è stata istituita dall’art. 2, comma 11, della legge n. 350 del 2003, che l’ha fissata nella misura di un euro per passeggero imbarcato, prevedendo, altresì, che essa «è versata all’entrata del bilancio dello Stato» per la sua «successiva riassegnazione quanto a 30 milioni di euro», in un apposito fondo istituito presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti destinato a compensare ENAV spa «per i costi sostenuti […] per garantire la sicurezza ai propri impianti» e la «sicurezza operativa»; quanto alla residua quota, in un apposito fondo istituito presso il Ministero dell’interno e ripartito, «sulla base del rispettivo traffico aeroportuale», secondo i seguenti criteri: il venti per cento a favore dei comuni del sedime aeroportuale o con lo stesso confinanti e il restante ottanta per cento per il finanziamento di misure volte alla prevenzione e al contrasto della criminalità e al potenziamento della sicurezza nelle strutture aeroportuali e nelle principali stazioni ferroviarie. Con l’art. 6-quater, comma 2, del decreto-legge 31 gennaio 2005, n. 7 (Disposizioni urgenti per l’università e la ricerca, per i beni e le attività culturali, per il completamento di grandi opere strategiche, per la mobilità dei pubblici dipendenti, e per semplificare gli adempimenti relativi a imposte di bollo e tasse di concessione, nonché altre misure urgenti), convertito, con modificazioni, nella legge 31 marzo 2005, n. 34, l’addizionale è stata incrementata di un euro per passeggero. Tale incremento è stato destinato ad alimentare il Fondo speciale per il sostegno del reddito e dell’occupazione e della riconversione e riqualificazione del personale del settore del trasporto aereo, costituito ai sensi dell’art. 1-ter del decreto-legge 5 ottobre 2004, n. 249 (Interventi urgenti in materia di politiche del lavoro e sociali), convertito, con modificazioni, nella legge 3 dicembre 2004, n. 291. Contestualmente, il citato art. 6-quater del d.l. n. 7 del 2005, come convertito, ha modificato, con il comma 3, le percentuali di assegnazione dell’addizionale “base” di cui all’art. 2, comma 11, della legge n. 350 del 2003, innalzando quella devoluta ai comuni e riducendo quella volta al finanziamento delle misure di contrasto alla criminalità (fissate, rispettivamente, nel quaranta e nel sessanta per cento della quota eccedente trenta milioni di euro). In seguito, il già citato art. 1, comma 1328, della legge n. 296 del 2006 ha ulteriormente incrementato l’addizionale di cinquanta centesimi di euro per passeggero, destinando il relativo introito al finanziamento della riduzione del costo a carico dello Stato del servizio antincendi negli aeroporti (alla medesima finalità ha concorso, sino all’entrata in vigore dell’art. 4, comma 3-bis, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, recante «Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale», convertito, con modificazioni, nella legge 28 gennaio 2009, n. 2, il fondo antincendi alimentato con i corrispettivi posti a carico delle società aeroportuali di cui si è occupata la sentenza n. 167 del 2018). Il successivo art. 2, comma 5-bis, del decreto-legge 28 agosto 2008, n. 134 (Disposizioni urgenti in materia di ristrutturazione di grandi imprese in crisi), convertito, con modificazioni, nella legge 27 ottobre 2008, n. 166, ha innalzato a tre euro per passeggero l’incremento dell’addizionale già disposto dall’art. 6-quater, comma 2, del d.l. n. 7 del 2005, come convertito, prevedendo altresì che – ferma la destinazione al Fondo ivi menzionato – le somme dovute a tale titolo sono versate «dai soggetti tenuti alla riscossione direttamente su una contabilità speciale aperta presso la Tesoreria centrale dello Stato gestita dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS)» e intestata al detto Fondo speciale. L’art. 4, comma 75, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), ha poi disposto un ulteriore incremento dell’addizionale di due euro per passeggero imbarcato, stabilendo che le maggiori somme da esso derivanti sono versate all’INPS, per essere anch’esse destinate al menzionato Fondo speciale. L’art. 2, comma 48, lettera b), della medesima legge ha anche inserito nell’art. 6-quater del d.l. n. 7 del 2005, come convertito, tre commi, i quali prevedono che: a) la riscossione dell’incremento dell’addizionale avviene a cura dei gestori di servizi aeroportuali, con le modalità in uso per la riscossione dei diritti di imbarco, e il versamento da parte delle compagnie aeree avviene entro tre mesi dalla fine di quello in cui sorge l’obbligo (comma 3-bis); b) le somme riscosse sono comunicate mensilmente all’INPS da parte dei gestori di servizi aeroportuali con le modalità stabilite dall’Istituto e ad esso riversate, entro la fine del mese successivo a quello di riscossione, «secondo le modalità previste dagli articoli 17 e seguenti del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241», e a tali somme «si applicano le disposizioni sanzionatorie e di riscossione previste dall’articolo 116, comma 8, lettera a), della legge 23 dicembre 2000, n. 388, per i contributi previdenziali obbligatori» (comma 3-ter); c) la comunicazione di cui al comma 3-ter costituisce accertamento del credito e dà titolo, in caso di mancato versamento, ad attivare la riscossione coattiva, «secondo le modalità previste dall’articolo 30 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni» (comma 3-quater). I commi 5 e 6 dell’art. 13-ter del decreto-legge 24 giugno 2016, n. 113 (Misure finanziarie urgenti per gli enti territoriali e il territorio), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2016, n. 160, hanno previsto, per il solo 2019, un nuovo incremento dell’addizionale comunale pari a 0,32 euro, «acquisito a patrimonio netto dal Fondo di solidarietà per il settore del trasporto aereo e del sistema aeroportuale» di cui all’art. 1-ter del d.l. n. 249 del 2004, come convertito. L’art. 26, comma 1, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, ha previsto che, a decorrere dal 1° gennaio 2020, le maggiori somme derivanti dall’incremento dell’addizionale di cui all’art. 6-quater, comma 2, del d.l. n. 7 del 2005, come convertito, «sono riversate alla gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali dell’INPS». Da ultimo, ai sensi dell’art. 204, comma 1, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77, al fine di «far fronte alle esigenze straordinarie e urgenti derivanti dalla diffusione del COVID-19 e della conseguente riduzione del traffico aereo, a decorrere dal 1° luglio 2021, le maggiori somme derivanti dall’incremento dell’addizionale comunale sui diritti di imbarco» previsto dal citato art. 6-quater, comma 2, «sono riversate, nella misura del 50 per cento, alla gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali dell’INPS di cui all’articolo 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88, e nella restante misura del 50 per cento sono destinate ad alimentare il Fondo di solidarietà per il settore del trasporto aereo e del sistema aeroportuale». 3.2.– Dal sopra descritto quadro normativo emerge, dunque, che, nonostante l’addizionale «comunale» sia stata in origine pensata come prelievo volto a fare fronte alle esigenze finanziarie dei comuni su cui insistono gli aeroporti e di quelli confinanti (dossier del Servizio studi della Camera dei deputati 30 aprile 2004, n. 518/6), essa, sin dalla sua istituzione, è stata in realtà devoluta solo in parte ai predetti comuni. Tale devoluzione, peraltro, è rimasta nel tempo quantitativamente immutata, nonostante l’addizionale sia stata via via incrementata dalla misura iniziale di un euro all’attuale di sei euro e cinquanta centesimi per passeggero. 4.– In punto di rilevanza, il rimettente afferma che la disposizione censurata, nella parte in cui esclude la natura tributaria delle obbligazioni derivanti dall’addizionale comunale, confliggerebbe con quella natura per contro ravvisata dal Tribunale di Roma, ai fini del riconoscimento del privilegio di cui all’art. 2752, terzo comma, cod. civ. L’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata – aggiunge il giudice a quo – risolverebbe in senso negativo la questione posta con il ricorso incidentale, diretto a conseguire l’esclusione del cennato privilegio e la conseguente ammissione, in via chirografaria, al passivo dell’amministrazione straordinaria di Alitalia del credito della società di gestione aeroportuale, vantato a titolo di addizionale comunale. 4.1.– La motivazione del rimettente supera il vaglio esterno di non implausibilità rimesso a questa Corte (tra le tante, sentenze n. 50 del 2024, n. 164 del 2023, n. 192 del 2022 e n. 32 del 2021), poiché, per decidere sulla spettanza del privilegio – che è il thema decidendum posto dal ricorso incidentale su cui si innesta la questione di costituzionalità – esso deve verificare, ai sensi dell’art. 2752, ultimo comma, cod. civ., che quello vantato nel giudizio a quo sia un credito di un ente locale avente natura di tributo «locale», e quindi deve fare applicazione della disposizione censurata, che ne esclude in radice la natura tributaria. 4.2.– Non incide sulla rilevanza della questione la circostanza che a fare valere in giudizio il credito per addizionale comunale non sia l’ente locale ma la società aeroportuale, perché quest’ultima agisce quale soggetto deputato alla riscossione, per come espressamente chiarito dall’art. 6-quater, comma 3-bis, del d.l. n. 7 del 2005, come convertito (comma, questo, inserito dall’art. 2, comma 48, lettera b, della legge n. 92 del 2012). 4.3.– Nemmeno incide sulla rilevanza la circostanza che il giudice a quo non abbia ancora sciolto il nodo interpretativo della effettiva riconducibilità dell’addizionale in parola alla nozione di tributo locale, ai sensi dell’art. 2752, terzo comma, cod. civ., nonostante essa si configuri come un prelievo interamente istituito, regolato e riscosso dallo Stato (a mezzo delle società aeroportuali), e che solo in minima parte è destinato a confluire nelle casse dei comuni nel cui territorio insistono gli aeroporti e di quelli limitrofi. Il riconoscimento del menzionato privilegio, su cui verte il ricorso incidentale all’esame del rimettente, presuppone, infatti, sia il riconoscimento della natura tributaria del credito che la sua riconducibilità – ovviamente per la sola parte devoluta ai comuni – alla nozione di tributo «locale», ai sensi della menzionata disposizione codicistica. Ne consegue che la pronuncia di questa Corte sulla disposizione censurata che esclude la natura tributaria dell’addizionale comunale può comunque incidere sul percorso argomentativo che sosterrà la decisione del giudizio a quo e tanto basta, anche da questa angolazione, a fondare la rilevanza della questione (tra le tante, sentenze n. 50 del 2024, n. 164 del 2023, n. 19 del 2022, n. 215, n. 157 e n. 59 del 2021, e n. 254 del 2020). 5.– Nel merito, la questione – al di là dell’improprio riferimento alla illegittimità costituzionale in via conseguenziale che, come è noto, non dà luogo ad una diversa modalità di rimessione da parte del giudice comune, ma è un istituto processuale nella esclusiva disponibilità di questa Corte – è fondata. 5.1.– Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, una fattispecie deve ritenersi di natura tributaria, indipendentemente dalla qualificazione offerta dal legislatore, laddove si riscontrino i seguenti indefettibili requisiti: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo, la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico, e le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese (ex plurimis, sentenze n. 182, n. 128 e n. 27 del 2022, n. 149 del 2021, n. 263 del 2020, n. 167 e n. 89 del 2018, n. 269 e n. 236 del 2017). 5.2.– Nel caso di specie, ricorrono tutte le caratteristiche del tributo. 5.2.1.– Sussiste, in primo luogo, una (articolata) disciplina legale diretta a procurare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo (art. 2, comma 11, della legge n. 350 del 2003, e successive modificazioni, quanto all’addizionale “base”; art. 6-quater del d.l. n. 7 del 2005, come convertito, art. 1, comma 1328, della legge n. 296 del 2006, art. 2, comma 5-bis, del d.l. n. 134 del 2008, come convertito, e art. 4, comma 75, della legge n. 92 del 2012, quanto ai successivi incrementi), ossia il vettore aereo, che è tenuto a corrispondere la somma di sei euro e cinquanta centesimi per ogni passeggero imbarcato (ferma la traslazione sui passeggeri medesimi). 5.2.2.– Non ricorre un rapporto sinallagmatico tra il vettore e i vari destinatari del gettito sopra indicati: il primo, infatti, è doverosamente soggetto al tributo a prescindere dalla sua volontà e senza che fruisca dei “servizi” che l’addizionale va ad alimentare (e che sono per contro rivolti alla collettività indifferenziata, ovvero al personale del settore del trasporto aereo, ovvero, ancora, a tutti gli utenti delle strutture aeroportuali e ferroviarie o del sistema previdenziale). Né, ancora, la misura dell’addizionale è in alcun modo commisurata al costo di quei servizi. 5.2.3.– Il prelievo è connesso ad un presupposto economicamente rilevante, essendo ancorato al numero dei passeggeri imbarcati e quindi, in definitiva, al fatturato realizzato dal vettore (sia pure al netto dei passeggeri che, pur avendo pagato il biglietto, decidono di non volare: così detto no-show), ed è finalizzato a sovvenire pubbliche spese. L’addizionale, più in particolare, è volta a sostenere: a) i costi di sicurezza delle strutture e degli impianti di ENAV spa; b) i maggiori costi dei comuni sede di aeroporti e limitrofi, relativi alle infrastrutture e ai servizi indotti dalla presenza sul territorio degli aeroporti medesimi; c) il finanziamento di misure volte alla prevenzione e al contrasto della criminalità e al potenziamento della sicurezza nelle strutture aeroportuali e ferroviarie; d) dal 2005, il finanziamento del Fondo speciale per il sostegno del reddito, dell’occupazione e della riconversione e riqualificazione del personale del settore del trasporto aereo; e) dal 2006, i costi del servizio statale antincendi; f) dal 2019, il finanziamento della gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali dell’INPS. 5.3.– L’affermazione della natura non tributaria dell’addizionale comunale sui diritti di imbarco dei passeggeri sugli aeromobili, operata dalla disposizione censurata, si risolve, anche in questo caso, in «una operazione meramente nominalistica, che non si accompagna alla modifica sostanziale dei ricordati elementi strutturali della fattispecie tributaria» (sentenza n. 167 del 2018). La norma interpretativa censurata, dunque, «lungi dall’esplicitare una possibile variante di senso della norma interpretata, incongruamente le attribuisce un significato non compatibile con la intrinseca ed immutata natura tributaria della prestazione, così ledendo la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico (tra le tante, sentenze n. 73 del 2017, n. 170 del 2013, n. 78 del 2012 e n. 209 del 2010)» (ancora, sentenza n. 167 del 2018). Da tale lesione, che si traduce in una violazione del principio di ragionevolezza (sentenze n. 167 del 2018, n. 86 del 2017, n. 87 del 2012 e n. 335 del 2008), consegue l’illegittimità costituzionale, in parte qua, della disposizione censurata. 6.– Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 39-bis del d.l. n. 159 del 2007, come convertito, limitatamente alle parole «nonché in materia di addizionale comunale sui diritti di imbarco di cui all’articolo 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350,». per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 39-bis del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 29 novembre 2007, n. 222, limitatamente alle parole «nonché in materia di addizionale comunale sui diritti di imbarco di cui all’articolo 2, comma 11, della legge 24 dicembre 2003, n. 350,». Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 aprile 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Giovanni PITRUZZELLA, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 36, commi 1, 2 e 3, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), promosso dal Consiglio di Stato, sezione quarta, nel procedimento vertente tra Fabbrica italiana ritrovati medicinali ed affini (FIRMA) spa e la Presidenza del Consiglio dei ministri e altri, con ordinanza del 13 marzo 2023 iscritta al n. 51 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2023. Visti l’atto di costituzione di FIRMA spa e l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 6 marzo 2024 il Giudice relatore Filippo Patroni Griffi; uditi gli avvocati Stefano Grassi e Andrea Grazzini per FIRMA spa nonché l’avvocato dello Stato Lorenzo D’Ascia per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 7 marzo 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 13 marzo 2023, il Consiglio di Stato, sezione quarta, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 36, commi 1, 2 e 3, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) in riferimento agli artt. 3, 24, 111, 113 e 117, primo comma, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, della Costituzione. 2.– Il giudice a quo espone che l’appellante aveva proposto domanda di risarcimento del danno, innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), del Ministero dell’economia e delle finanze e del Ministero della salute. La società aveva dedotto la responsabilità delle amministrazioni convenute, affermando: che la loro condotta illecita era consistita nella violazione dell’art. 8, comma 12, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), come definitivamente accertata dal Consiglio di Stato, sezione sesta, con sentenza 27 gennaio 1997, n. 118; che tale condotta era supportata da colpa; che dalla stessa le era derivato un pregiudizio economico, rappresentato dalla perdita di fatturato netto conseguente alla forzata riduzione del prezzo delle proprie specialità medicinali; che alla fattispecie non poteva essere applicato l’art. 36, commi 1, 2 e 3, della legge n. 449 del 1997, in quanto costituzionalmente illegittimo e in contrasto con l’art. 28 del Trattato che istituisce la Comunità economica europea. 2.1.– Investito dell’appello avverso la sentenza del TAR Lazio reiettiva della domanda di risarcimento della società, il giudice rimettente espone che l’art. 36, comma 1, della legge n. 449 del 1997 detta un’interpretazione autentica dell’art. 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993 – che ha stabilito la regola del cosiddetto prezzo comune europeo dei farmaci, rimettendone al CIPE la concreta determinazione – corrispondente al contenuto delle disposizioni di cui alla deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994 (Individuazione dei criteri per la determinazione del prezzo medio europeo di acquisto delle specialità medicinali), annullata dal Consiglio di Stato, con la citata sentenza n. 118 del 1997, proprio nella parte in cui, discostandosi dalle prescrizioni della norma sovraordinata, aveva selezionato solo alcuni Paesi per calcolare la media europea e aveva adottato tassi di conversione basati sulla parità del potere di acquisto delle varie monete. Rileva, inoltre, che il comma 2 del censurato art. 36 conferma l’efficacia di tali criteri di determinazione per il periodo compreso fra il 1° settembre 1994 e la data di entrata in vigore della legge, con efficacia di sanatoria; mentre il comma 3 stabilisce, a regime, i nuovi criteri di determinazione del prezzo medio, coerenti con le indicazioni contenute nella predetta sentenza del Consiglio di Stato e, prima ancora, con il testo originario (non interpretato) del citato art. 8, stabilendo che «[a] decorrere dal 1° luglio 1998, ai fini del calcolo del prezzo medio dei medicinali, si applicano i tassi di cambio ufficiali relativi a tutti i Paesi dell’Unione europea in vigore nel primo giorno non festivo del quadrimestre precedente quello in cui si opera il calcolo». Tanto premesso, il Consiglio di Stato, in punto di rilevanza, osserva che, in forza della dichiarata natura interpretativa, e perciò della retroattività, delle menzionate disposizioni, l’appello in esame dovrebbe essere respinto, in quanto, come già ritenuto dai giudici di primo grado, la domanda risarcitoria si giustifica in presenza di un danno ingiusto riconducibile causalmente all’adozione di un atto illegittimo, mentre l’intervenuta sanatoria disposta dal legislatore del 1997 farebbe venir meno l’illegittimità della delibera CIPE del 25 febbraio 1994, annullata dal Consiglio di Stato, con la predetta sentenza n. 118 del 1997, avendo essa, di fatto, legificato il precedente provvedimento amministrativo, che risulta, di conseguenza, legittimo ab initio. Viceversa, un’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate comporterebbe la piena sussistenza dell’elemento oggettivo della domanda risarcitoria in relazione all’illegittimo esercizio di una funzione pubblica, con la conseguente possibilità di procedere nello scrutinio della domanda accertandone i restanti elementi (accertamento reputato succedaneo al riscontro del carattere illegittimo dell’azione amministrativa illegittima). Da ciò deriverebbe, dunque, la rilevanza della questione. In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo esclude anzitutto, con richiamo alla costante giurisprudenza costituzionale, che le disposizioni richiamate possano essere qualificate come norme di interpretazione autentica. Esse, infatti, sarebbero state adottate in un momento nel quale non esisteva alcun contrasto giurisprudenziale, bensì la sola pronunzia del Consiglio di Stato che aveva annullato la deliberazione del CIPE; né la scelta imposta dalla legge interpretativa sarebbe in qualche modo ricavabile dalla norma sovraordinata, rispetto alla quale la deliberazione del CIPE presentava un contenuto di assoluto contrasto. Ciò posto, qualificate le disposizioni come meramente retroattive, il Consiglio di Stato, richiamando i lavori parlamentari, osserva, in particolare, che l’unica finalità perseguita dalle disposizioni censurate sarebbe stata quella di chiudere il contenzioso pendente in materia di prezzo dei farmaci e determinare con maggiore esattezza gli oneri per la spesa farmaceutica, in termini che evidenzierebbero la volontà di anteporre esigenze di carattere finanziario al diritto della parte privata ad un processo equo. Il giudice rimettente sostiene, dunque, un primo profilo di illegittimità costituzionale delle censurate disposizioni nella loro intrinseca irragionevolezza, dovuta al fatto che le stesse non risulterebbero supportate da «motivi imperativi di interesse generale» – non potendo questi consistere nella mera volontà di evitare la soccombenza in giudizio dell’amministrazione (come, del resto, indicato negli stessi lavori parlamentari) – e non sarebbero supportate da ragioni diverse da quelle di dare copertura legislativa alla regolamentazione CIPE annullata dal Consiglio di Stato, come confermato dal fatto che, per il futuro, la stessa norma fa riferimento a criteri determinativi tutt’affatto diversi, riproducendo una regola sostanzialmente analoga a quella originaria (violata dal CIPE), in quanto evidentemente ritenuta espressione di un equo e ragionevole contemperamento degli interessi in gioco. Ulteriore profilo di illegittimità costituzionale deriverebbe, poi, dal contrasto con gli artt. 24, 111, 113 e 117, primo comma, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, Cost., essendo le censurate disposizioni intervenute con efficacia retroattiva in pendenza di un giudizio nel quale lo Stato era parte, in modo tale da influenzarne l’esito. 3.– In data 16 maggio 2023, si è costituita la società ricorrente nel giudizio principale formulando conclusioni coincidenti con le richieste del rimettente. In particolare, premessa la natura meramente retroattiva delle disposizioni censurate, ha sostenuto, anche alla luce dei relativi lavori parlamentari, che esse sarebbero esclusivamente volte a spiegare effetto sul contenzioso in essere con lo Stato. 4.– Con atto depositato il 16 maggio 2023, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. In via principale, la difesa erariale ha eccepito l’inammissibilità della questione, essendo, la valutazione sulla rilevanza, operata dal rimettente, limitata al profilo dell’illiceità della condotta della pubblica amministrazione. Ha, quindi, lamentato l’omessa considerazione dei restanti elementi costitutivi della responsabilità dedotta – reputati «succedanei» rispetto all’elemento esaminato – e, in particolare, dell’elemento soggettivo, nonostante i giudici di primo grado avessero ritenuto insussistente la colpa dell’amministrazione in ragione dell’obiettiva difficoltà interpretativa della fattispecie (difficoltà, del resto, confermata dalla circostanza che lo stesso Consiglio di Stato aveva rigettato l’appello nel corso della fase cautelare). Il Presidente del Consiglio ha dedotto la non fondatezza delle doglianze, sostenendo che le disposizioni censurate, lungi dal costituire il vulnus evidenziato dal rimettente, avrebbero attribuito valore di legge a una norma di rango inferiore al fine di porre rimedio a imperfezioni tecniche dell’originario testo legislativo. Le stesse, inoltre, erano intervenute – peraltro a distanza di tempo non considerevole dalla norma oggetto di interpretazione, inidoneo a consolidare un elevato grado di affidamento nella diversa interpretazione – a tutela di interessi di rango costituzionale, legati alla specificità del comparto salute e farmaceutico, caratterizzato dalla limitatezza delle risorse finanziarie disponibili per la cura dei pazienti, oltre che dalla necessità di garantire il livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da erogare su tutto il territorio nazionale e la trasparenza dei mercati. 5.– In data 13 febbraio 2024, la società ricorrente del giudizio a quo ha depositato memoria, ribadendo le proprie argomentazioni. In particolare, in risposta all’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura dello Stato in ordine alla mancata preliminare valutazione della sussistenza dell’elemento psicologico da parte del giudice rimettente, ha affermato la rilevanza della questione sollevata, sostenendo che, se pure l’esito del giudizio a quo potrebbe essere il medesimo (per l’assenza degli ulteriori presupposti della responsabilità aquiliana), l’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale sarebbe comunque idonea a influire sul percorso argomentativo della decisione di rigetto della domanda di risarcimento. Nel merito, ha insistito sulla fondatezza della questione sollevata, ribadendo la natura non interpretativa delle disposizioni censurate e l’inidoneità ad assurgere a «motivi imperativi di interesse generale» delle esigenze, genericamente evocate dalla difesa statale. Considerato in diritto 1.– Il Consiglio di Stato, sezione quarta, nell’ambito di un giudizio risarcitorio da provvedimento illegittimo, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 36, commi 1, 2 e 3, della legge n. 449 del 1997, in riferimento all’art. 3 Cost., in quanto, con la dichiarata finalità di fornire un’interpretazione autentica dell’art. 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993, attribuirebbe effetto retroattivo ad una deliberazione del CIPE annullata in sede giurisdizionale, al solo effetto di sterilizzare gli effetti della sentenza definitiva di annullamento, peraltro adottando parametri di regolazione dei prezzi dei farmaci del tutto difformi da quelli disposti per il futuro, evidenziando così la propria intrinseca irragionevolezza. Viene, inoltre, ravvisato il contrasto con gli artt. 24, 111, 113, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, in quanto, intervenendo in pendenza di un giudizio in cui lo Stato è parte, in modo da influenzarne l’esito, le disposizioni censurate comporterebbero un’ingerenza nella garanzia del diritto a un processo equo e violerebbero «un principio dello stato di diritto garantito dall’art. 6 della Convenzione». 2.– Occorre prendere preliminarmente in esame l’eccezione di inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza formulata dall’Avvocatura generale dello Stato. Assume la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri che il giudice a quo, anziché soffermarsi unicamente sull’elemento oggettivo dell’illecito, avrebbe dovuto esaminare, ai fini della rilevanza, la sussistenza di tutti gli altri elementi costitutivi della responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione. La tesi non può essere condivisa. Il Consiglio di Stato argomenta, in punto di rilevanza, che, qualora le censurate disposizioni fossero dichiarate costituzionalmente illegittime, risulterebbe sussistente l’elemento oggettivo della domanda risarcitoria avanzata dalla società appellante per il venir meno dell’effetto sanante del censurato art. 36 sulla deliberazione del CIPE annullata in sede giurisdizionale. Quanto alla necessaria verifica degli ulteriori elementi costitutivi dell’illecito, il giudice a quo chiarisce espressamente che l’accertamento della loro sussistenza è «logicamente succedane[o] al riscontro di un’azione amministrativa illegittima, che è allo stato esclusa dalle disposizioni sospette di incostituzionalità». Il Consiglio di Stato ritiene, infatti, che (solo) «qualora tali disposizioni fossero dichiarate incostituzionali, rimarrebbe accertata la sussistenza dell’elemento oggettivo della domanda risarcitoria, in relazione all’illegittimo esercizio di una funzione pubblica, con la conseguente necessità di procedere all’accertamento degli ulteriori elementi costitutivi della fattispecie, rappresentati dall’effettività e ingiustizia del danno, dall’esistenza del nesso di causalità, nonché dall’imputabilità del danno alla Pubblica Amministrazione sulla base del requisito soggettivo del dolo o della colpa (ex plurimis, Cassazione civile sez. III, 6 dicembre 2018, n. 31567)». Il giudice rimettente dunque, con una motivazione non implausibile, ha ritenuto prioritario l’esame dell’elemento oggettivo della illegittimità dell’azione della pubblica amministrazione, in considerazione della ritenuta «succedaneità logica» rispetto a quest’ultimo dell’accertamento degli altri elementi. Tale argomentazione deve reputarsi sufficiente alla luce del costante orientamento giurisprudenziale secondo cui questa Corte è chiamata a operare una verifica meramente esterna e strumentale al riscontro di una adeguata motivazione in punto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale (così, sentenza n. 4 del 2024; in termini analoghi, sentenze n. 193 e n. 150 del 2022, n. 240 del 2021, n. 224 e n. 168 del 2020). In definitiva, il giudice a quo ritiene, non implausibilmente, di dover fare applicazione della disposizione censurata nel giudizio dinanzi a lui e dall’accoglimento o meno della questione sollevata discende, sulla decisione da rendere nello stesso, un effetto diretto e immediato quanto meno sotto il profilo del percorso argomentativo (si vedano, al riguardo, le sentenze n. 25 del 2024 e n. 19 del 2022). L’eccezione, dunque, non è fondata. 3.– Per meglio affrontare le questioni nel merito, è opportuno ricostruire, per quanto qui di interesse, la genesi della disposizione sottoposta a scrutinio. 4.– L’art. 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993, poi asseritamente interpretata dalla disposizione censurata, prevede che «[a] decorrere dal 1o gennaio 1994, i prezzi delle specialità medicinali, esclusi i medicinali da banco, sono sottoposti a regime di sorveglianza secondo le modalità indicate dal CIPE e non possono superare la media dei prezzi risultanti per prodotti similari e inerenti al medesimo principio nell’ambito della Comunità europea; se inferiori, l’adeguamento alla media comunitaria non potrà avvenire in misura superiore al 20 per cento annuo della differenza. Sono abrogate le disposizioni che attribuiscono al CIP competenze in materia di fissazione e revisione del prezzo delle specialità medicinali». Con tale disposizione veniva introdotto – in sostituzione del previgente regime dei prezzi amministrati dei medicinali – il cosiddetto regime di sorveglianza, che assumeva come parametro di riferimento il concetto del «prezzo medio europeo». Da un regime in cui l’autorità statale determinava in maniera unilaterale il prezzo delle specialità medicinali si passava, cioè, a un sistema che prevedeva un intervento da parte dell’autorità preposta solo in caso di superamento della cosiddetta «media europea». Le relative competenze in materia venivano attribuite al CIPE. In attuazione della nuova normativa, il CIPE adottava due delibere – datate 25 febbraio e 16 marzo 1994 – tese a regolare, rispettivamente, i criteri per il calcolo del prezzo medio europeo dei farmaci e la competenza per la sorveglianza del prezzo dei medicinali. In particolare, con la deliberazione del 25 febbraio 1994 era disposto che: a) il prezzo dei medicinali venisse ridotto autoritativamente ove avesse superato di almeno il 5 per cento la media del prezzo europeo; b) tale prezzo venisse determinato prendendo a riferimento i prezzi praticati da Francia, Inghilterra, Germania e Spagna; c) la media fosse calcolata utilizzando i tassi di conversione basati sulla parità del potere di acquisto delle varie monete, come determinati annualmente dallo stesso CIPE. Tale deliberazione veniva successivamente annullata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 118 del 1997, per quanto qui di interesse, nel punto 3, primo e terzo periodo, ovverosia, nella parte in cui prevedeva la scelta di quattro Paesi europei con cui effettuare il confronto e l’applicazione dei tassi di conversione fra le valute, basati sulla parità dei poteri d’acquisto, come determinati dallo stesso CIPE (oltre che nel punto 2, secondo periodo). Veniva, infatti, ritenuto illegittimo il criterio di determinazione del prezzo sulla base dei prezzi praticati in soli quattro Paesi e con riferimento a un tasso di conversione diverso dal tasso di cambio ufficiale. La sentenza di annullamento diveniva definitiva il 24 marzo 1999, a seguito della declaratoria di estinzione, da parte delle sezioni unite della Corte di cassazione, del giudizio introdotto dall’Avvocatura generale dello Stato ai sensi dell’art. 111 Cost. Con l’art. 36 della legge n. 449 del 1997 veniva, dunque, introdotta una nuova disciplina del prezzo dei medicinali, che prendeva in considerazione, ai fini del calcolo del prezzo medio degli stessi, i prezzi praticati in tutti i Paesi dell’Unione europea, con applicazione dei tassi di cambio ufficiali, disponendo che, sulla base di quanto dallo stesso previsto, il CIPE, entro 60 giorni, provvedesse con propria deliberazione alla definizione di nuovi criteri per il calcolo del prezzo medio europeo. Con i primi due commi del medesimo articolo veniva, inoltre, disciplinato in via transitoria – nelle more dell’adozione della nuova deliberazione da parte del CIPE – il regime dei prezzi dei medicinali, disponendo una sanatoria della precedente disciplina tramite la previsione che «[d]alla data del 1° settembre 1994 fino all’entrata in vigore del metodo di calcolo del prezzo medio europeo come previsto dai commi 3 e 4, restano validi i prezzi applicati secondo i criteri indicati per la determinazione del prezzo medio europeo dalle deliberazioni del CIPE 25 febbraio 1994, 16 marzo 1994, 13 aprile 1994, 3 agosto 1994 e 22 novembre 1994» (comma 2) e offrendo un’interpretazione autentica del comma 12 dell’art. 8 della legge 537 del 1993, il quale «deve essere intes[o] nel senso che è rimesso al CIPE stabilire anche quali e quanti Paesi della Comunità prendere a riferimento per il confronto, con applicazione dei tassi di conversione fra le valute, basati sulla parità dei poteri d’acquisto, come determinati dallo stesso CIPE» (comma 1). In attuazione del predetto art. 36, il CIPE, con propria deliberazione del 26 febbraio 1998, ampliava i Paesi di riferimento per il calcolo (da 4 a 12 rispetto al previgente sistema, corrispondenti ai Paesi europei i cui dati su prezzi e consumi dei prodotti medicinali risultavano disponibili) e adottava i tassi di cambio ufficiali. 5.– Ciò premesso, va osservato che, sebbene nella prospettazione del Consiglio di Stato oggetto delle questioni di legittimità costituzionale siano i primi tre commi dell’art. 36 della legge n. 449 del 1997, le censure riguardano invero unicamente i primi due, aventi ad oggetto l’interpretazione autentica dell’art. 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993 e la “sanatoria” («restano validi») dei prezzi fissati in applicazione dei criteri indicati per la determinazione del prezzo medio europeo dalla deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994 (e seguenti). Il terzo comma, che unitamente ai successivi disciplina pro futuro le modalità di determinazione del prezzo medio europeo, è, invece, estraneo alle doglianze del giudice rimettente, il quale lo evoca al solo fine di rimarcare l’illegittimità e l’irrazionalità delle scelte operate dalla deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994 – calcolo del prezzo medio europeo tramite confronto con soli quattro Paesi di riferimento e utilizzo dei tassi di conversione tra le valute dei Paesi scelti e la lira basati sulla parità dei poteri di acquisto – rispetto a quella adottata per il futuro, basata sul calcolo del prezzo medio europeo con riferimento a tutti i Paesi europei e sull’utilizzo dei tassi di cambio ufficiale. Le questioni di legittimità costituzionale sollevate devono ritenersi dunque aver ad oggetto i soli primi due commi. 6.– Nel merito, le questioni sono fondate con riferimento agli artt. 3, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, con assorbimento delle ulteriori censure. 6.1.− Va preliminarmente rammentato, su un piano più generale, che – al di là della autoqualificazione, di per sé non vincolante, e dell’accertamento di un contrasto giurisprudenziale formatosi sulla disposizione oggetto dell’interpretazione autentica, anch’esso non dirimente (tra le tante, sentenze n. 4 del 2024, n. 104 e n. 61 del 2022, n. 133 del 2020) – la natura interpretativa va riconosciuta solo a quelle disposizioni «che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo» (così la sentenza n. 73 del 2017, richiamata dalla sentenza n. 70 del 2020). Ciò premesso, questa Corte ha più volte affermato «la “sostanziale indifferenza, quanto allo scrutinio di legittimità costituzionale, della distinzione tra norme di interpretazione autentica – retroattive, salva una diversa volontà in tal senso esplicitata dal legislatore stesso – e norme innovative con efficacia retroattiva” (sentenza n. 73 del 2017; nonché, da ultimo, sentenza n. 108 del 2019)» (sentenza n. 70 del 2020); arrivando a ritenerne «la possibile assimilazione, quanto agli esiti dello scrutinio di legittimità costituzionale» (sentenza n. 108 del 2019). A tal fine, la detta distinzione rileva, al più, perché «“la palese erroneità di tale auto-qualificazione può costituire un indice, sia pure non dirimente, della irragionevolezza della disposizione impugnata” (sentenza n. 73 del 2017; ex plurimis, anche sentenze n. 103 del 2013 e n. 41 del 2011)» (sentenza n. 70 del 2020). 6.2.− Nello scrutinio di legittimità costituzionale, questa Corte ha più volte ricordato la centralità che assume il principio di non retroattività della legge, inteso quale fondamentale valore di civiltà giuridica (tra le più recenti, sentenze n. 4 del 2024, n. 145 del 2022, n. 174 del 2019 e n. 73 del 2017). Ne consegue che, di fronte a una norma avente comunque efficacia retroattiva – che pure deve considerarsi, al di fuori della materia penale, frutto del legittimo esercizio discrezionale del potere del legislatore –, è necessario procedere ad uno scrutinio particolarmente rigoroso. Tale scrutinio diviene ancor più stringente se l’intervento legislativo retroattivo incide su giudizi ancora in corso, tanto più se in essi sia coinvolta un’amministrazione pubblica. Infatti, «tanto i principi costituzionali relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale, quanto i principi concernenti l’effettività della tutela giurisdizionale e la parità delle parti in giudizio, impediscono al legislatore di risolvere, con legge, specifiche controversie e di determinare, per questa via, uno sbilanciamento tra le posizioni delle parti coinvolte nel giudizio (tra le altre, sentenze n. 201 e n. 46 del 2021, n. 12 del 2018 e n. 191 del 2014)» (sentenza n. 4 del 2024). Relativamente al sindacato di costituzionalità delle leggi retroattive incidenti su giudizi in corso, ancora di recente è stato rammentato il rilievo assunto dalla giurisprudenza della Corte EDU, affermandosi che in tale ambito si è ormai pervenuti alla costruzione di una «solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU», che consente di leggere in stretto coordinamento i parametri interni con quelli convenzionali «al fine di massimizzarne l’espansione in un “rapporto di integrazione reciproca”» (sentenza n. 145 del 2022, richiamata dalla sentenza n. 4 del 2024). 6.3.– Tanto premesso, per svolgere tale rigoroso controllo sono stati individuati una serie di elementi sintomatici dell’uso distorto della funzione legislativa. Tra questi, in particolare, per quanto qui di interesse, emergono l’errata e artificiosa autoqualificazione della norma come norma di interpretazione autentica e, soprattutto, la chiara finalità di incidere sull’esito di giudizi pendenti. Finalità, quest’ultima, che si può evincere da metodo e tempistica dell’intervento del legislatore (sentenze n. 4 del 2024, n. 145 del 2022, n. 174 del 2019 e n. 12 del 2018) – per esempio, la distanza dell’intervento legislativo rispetto all’entrata in vigore delle disposizioni oggetto di interpretazione autentica (sentenze n. 4 del 2024 e n. 174 del 2019) – e si può ricavare dai lavori preparatori (sentenze n. 4 del 2024 e n. 145 del 2022). Infine, in quest’opera di rigoroso scrutinio è necessario valutare se l’intervento legislativo trovi una possibile ragionevole giustificazione «nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni costituzionali». Anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, «solo imperative ragioni di interesse generale possono consentire un’interferenza del legislatore su giudizi in corso; i princìpi dello stato di diritto e del giusto processo impongono che tali ragioni “siano trattate con il massimo grado di circospezione possibile” (sentenza 14 febbraio 2012, Arras contro Italia, paragrafo 48)» (sentenza n. 4 del 2024). Come da ultimo ricordato da questa Corte nella più volte citata sentenza n. 4 del 2024, la Corte EDU ha perimetrato in maniera rigorosa e restrittiva tale nozione di «imperative ragioni di interesse generale», ravvisando la compatibilità con l’art. 6 CEDU di «alcuni interventi legislativi retroattivi incidenti su giudizi in corso, là dove “i soggetti ricorrenti avevano tentato di approfittare dei difetti tecnici della legislazione (sentenza 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society e Yorkshire Building Society contro Regno Unito, paragrafo 112), o avevano cercato di ottenere vantaggi da una lacuna della legislazione medesima, cui l’ingerenza del legislatore mirava a porre rimedio (sentenza del 27 maggio 2004, OGIS-Institut Stanislas, OGEC Saint-Pie X, Blanche de Castille e altri contro Francia, paragrafo 69)” (sentenza n. 145 del 2022)», o, ancora, quando «l’intervento legislativo retroattivo mirava a risolvere una serie più ampia di conflitti conseguenti alla riunificazione tedesca, al fine di “assicurare in modo duraturo la pace e la sicurezza giuridica in Germania” (20 febbraio 2003, ForrerNiedenthal c. Germania, paragrafo 64)». Più in generale, in tale opera di perimetrazione, al di fuori della nozione di «imperative ragioni di interesse generale» sono i soli motivi di carattere meramente finanziario, volti a contenere la spesa pubblica, come chiarito tanto dalla Corte EDU (sentenza 29 marzo 2006, Scordino e altri contro Italia, paragrafo 132; sentenza 11 aprile 2006, Cabourdin contro Francia, paragrafo 37), quanto da questa stessa Corte, la quale ha espressamente affermato che «[i] soli motivi finanziari, volti a contenere la spesa pubblica o a reperire risorse per far fronte a esigenze eccezionali, non bastano a giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso (sentenze n. 174 e n. 108 del 2019, e n. 170 del 2013)» (sentenza n. 145 del 2022). 7.– In applicazione delle coordinate giurisprudenziali sin qui sinteticamente ripercorse, le disposizioni oggetto delle questioni sollevate non resistono allo scrutinio di costituzionalità. Esse, infatti, sono evidentemente finalizzate a incidere su giudizi di cui è parte la pubblica amministrazione; giudizi dei quali si vuole vanificare o comunque condizionare l’esito, anche con riferimento ai collegati profili risarcitori. 7.1.– Tale finalità emerge, innanzitutto, dai lavori preparatori, dai quali non si possono evincere ragioni giustificatrici dell’intervento legislativo retroattivo diverse dall’esigenza di superare le ragioni di illegittimità accolte dal Consiglio di Stato che ha annullato la deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994, nelle parti che riguardano l’individuazione parziale dei Paesi europei con i quali operare il confronto e la scelta, invece del tasso ufficiale, dei tassi di conversione tra valute basati sulla parità del potere di acquisto. L’intento dichiarato era quello, in definitiva, di “sterilizzare” gli effetti della predetta sentenza n. 118 del 1997 del Consiglio di Stato (più volte richiamata nei lavori preparatori), la quale, annullando la deliberazione del CIPE, aveva riconosciuto l’illegittimità dell’azione amministrativa, ponendo così le basi per future azioni di risarcimento nei suoi confronti, quale, appunto, quella posta alla base del giudizio a quo (come espressamente affermato, in particolare, nel dossier del Servizio studi della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica). 7.2.– L’uso improprio della funzione legislativa, tale perché esercitata allo scopo di influire sul contenzioso in corso, vanificandone, nelle intenzioni, gli effetti, è confermato da due ulteriori circostanze, l’una attinente alla complessiva vicenda processuale, l’altra concernente la stessa portata normativa dell’intervento. 7.2.1.– Sul piano processuale, va rimarcato che la legge n. 449 del 1997 (del 27 dicembre) è intervenuta a ben quattro anni di distanza dalla disposizione oggetto della presunta interpretazione, ossia l’art. 8 della legge n. 537 del 24 dicembre 1993, quando era già in corso un nutrito contenzioso, alimentato da trentanove aziende farmaceutiche, che aveva dato luogo, con la citata sentenza n. 118 del 1997 (depositata il 27 gennaio 1997), all’annullamento della deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994, proprio nella parte in cui, come già detto, prevedeva la scelta limitata a quattro Paesi europei con cui effettuare il confronto dei prezzi e adottava i tassi di conversione fra le valute basati sulla parità dei poteri d’acquisto. La sentenza è stata impugnata con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. dall’Avvocatura generale dello Stato, impedendosi così il passaggio in giudicato. Nelle more della decisione del ricorso, sono intervenute le disposizioni censurate, che, per un verso, hanno fornito un’interpretazione asseritamente autentica di quelle applicate dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 118 del 1997, interpretazione in contrasto con quella offerta da tale pronuncia; per un altro, hanno proceduto contestualmente alla sostanziale sanatoria della deliberazione del CIPE, a distanza di poco meno di un anno dal suo annullamento dal Consiglio di Stato. L’amministrazione statale, a seguito dell’intervento normativo contestato, ha rinunciato al ricorso ex art. 111 Cost., la cui proposizione aveva impedito nelle more l’immediata formazione del giudicato sulla sentenza del Consiglio di Stato posta dalla parte privata a fondamento (sul piano oggettivo) della pretesa risarcitoria nel giudizio a quo. «Metodo» e «tempistica» seguiti dal legislatore nella vicenda in esame – rilevanti, come sopra ricordato, ai fini del presente scrutinio (sentenze n. 4 del 2024, n. 145 del 2022, n. 174 del 2019 e n. 12 del 2018) – confermano, quindi, quanto risulta dai lavori preparatori. 7.2.2.− Sul piano sostanziale, poi, è significativo che, nello stabilire la disciplina a regime della determinazione dei prezzi medi dei farmaci (art. 36, comma 3), la legge n. 449 del 1997 delinei un sistema esattamente conforme a quanto deciso con la sentenza n. 118 del 1997, per cui l’asserita interpretazione autentica (commi 1 e 2) riguarda proprio la proposizione normativa oggetto del contenzioso giudiziario e si rivela, ancora una volta, finalizzata a vanificare gli effetti della più volte citata sentenza del Consiglio di Stato a giudicato non ancora formatosi, risolvendosi nell’assunzione a livello legislativo di quanto sostenuto in giudizio dall’amministrazione pubblica e smentito dal giudice nella sua decisione. Nel caso in esame, quindi, pare evidente, tanto sul piano oggettivo quanto su quello soggettivo, la volontà del legislatore di interferire su vicende processuali in corso al fine (o con il risultato) di alterarne l’esito, palesandosi pertanto un uso improprio della funzione legislativa. 8.– In conclusione, l’art. 36, commi 1 e 2, della legge n. 449 del 1997, avendo introdotto una norma ad efficacia retroattiva, al fine specifico di incidere su giudizi di cui era parte la stessa amministrazione pubblica, e in assenza di ragioni imperative di interesse generale, ha violato i princìpi del giusto processo e della parità delle parti in giudizio, sanciti dagli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., e per mezzo di quest’ultimo dall’art. 6 CEDU, nonché il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. Restano assorbite le ulteriori questioni sollevate in riferimento agli artt. 24 e 113 Cost. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 36, commi 1 e 2, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Filippo PATRONI GRIFFI, Redattore Valeria EMMA, Cancelliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 23 della legge della Regione Emilia-Romagna 12 luglio 2023, n. 7 (Abrogazioni e modifiche di leggi e disposizioni regionali in collegamento con la sessione europea 2023. Altri interventi di adeguamento normativo), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato l’11 settembre 2023, depositato in cancelleria il 12 settembre 2023, iscritto al n. 28 del registro ricorsi 2023 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2023. Visto l’atto di costituzione della Regione Emilia-Romagna; udito nell’udienza pubblica del 19 marzo 2024 il Giudice relatore Filippo Patroni Griffi; uditi l’avvocato dello Stato Enrico De Giovanni per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Maria Rosaria Russo Valentini per la Regione Emilia-Romagna; deliberato nella camera di consiglio del 19 marzo 2024. Ritenuto in fatto 1.− Con ricorso iscritto al n. 28 del registro ricorsi 2023, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23 della legge della Regione Emilia-Romagna 12 luglio 2023, n. 7 (Abrogazioni e modifiche di leggi e disposizioni regionali in collegamento con la sessione europea 2023. Altri interventi di adeguamento normativo), che sostituisce l’art. 10, comma 7, della legge della Regione Emilia-Romagna 23 dicembre 2004, n. 29 (Norme generali sull’organizzazione ed il funzionamento del servizio sanitario regionale). La disposizione impugnata è intervenuta sulla disciplina regionale degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS), con sede nel territorio regionale, in ordine ai criteri e alle procedure per il conferimento degli incarichi di direzione delle loro strutture complesse, nonché alla composizione della commissione cui è affidata la selezione dei relativi idonei. A tale ultimo proposito, il legislatore regionale ha previsto che «[l]a Commissione di cui all’art. 15, comma 7-bis, lett[era] a) del decreto legislativo n. 502 del 1992 è composta, oltre che dal direttore sanitario, anche dal direttore scientifico». Il ricorrente lamenta il contrasto della previsione regionale sulla formazione della commissione con l’art. 117, terzo comma, Cost. nelle materie «tutela della salute» e «professioni» in relazione all’art. 11, comma 2, del decreto legislativo 16 ottobre 2003, n. 288 (Riordino della disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, a norma dell’articolo 42, comma 1, della legge 16 gennaio 2003, n. 3). 1.1.− Il ricorrente − dopo avere premesso che l’art. 23 della legge reg. Emilia-Romagna n. 7 del 2023, nell’ambito di un intervento di revisione periodica della legislazione, ha provveduto a un adeguamento normativo in materia di sanità − si sofferma anzitutto sulla normativa nazionale richiamata dalla disposizione impugnata. La difesa dello Stato espone in proposito che il vigente art. 15, comma 7-bis, lettera a), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) regola «in generale», la composizione della commissione nominata per la selezione degli idonei al conferimento dell’incarico di direttore di unità operativa complessa (UOC) degli enti del Servizio sanitario nazionale. È ivi previsto che l’organo collegiale sia costituito dal direttore sanitario dell’azienda interessata e da tre direttori di struttura complessa nella medesima disciplina dell’incarico da conferire (dei quali almeno due di regione diversa da quella dell’azienda interessata alla copertura del posto), scelti per sorteggio dall’elenco nazionale dei direttori di UOC dei ruoli del Servizio sanitario nazionale (SSN), tra i quali è nominato il presidente. 1.2.− La parte ricorrente deduce, altresì, che la composizione della commissione per la procedura di nomina dei dirigenti di struttura complessa trova una differente regolazione a livello statale proprio in relazione agli IRCCS. L’art. 11, comma 2, secondo periodo, del d.lgs. n. 288 del 2003 prevede, infatti, che «[l]a commissione di cui al comma 2 dell’articolo 15-ter del decreto legislativo n. 502 del 1992 è composta, oltre che dal direttore scientifico, che la presiede, da due dirigenti dei ruoli del personale del Servizio sanitario nazionale, preposti a una struttura complessa della disciplina oggetto dell’incarico, di cui uno scelto dal Comitato tecnico scientifico e uno individuato dal direttore generale». Tale disposizione costituirebbe, dunque, la disciplina applicabile per gli incarichi di direzione degli Istituti in virtù del principio di specialità e assurgerebbe a principio fondamentale, cui l’impugnato art. 23 della legge reg. Emilia-Romagna n. 7 del 2023 avrebbe dovuto attenersi. 1.3.− Il Presidente del Consiglio si preoccupa, poi, di sgombrare il campo da possibili dubbi interpretativi sull’evocato parametro interposto, originati dal suo richiamo al previgente art. 15-ter del d.lgs. n. 502 del 1992, che non si occupa più dell’organo deputato alla selezione degli idonei per l’incarico di direzione delle strutture complesse: l’art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 288 del 2003 opererebbe, infatti, un rinvio statico alle norme contenute nella superata disposizione e, peraltro, la richiamerebbe al solo fine di individuare la commissione, per poi disporre in via autonoma sulla sua composizione. L’organo di valutazione negli IRCCS, quindi, non sarebbe stato in alcun modo inciso dalle riforme che hanno interessato la sua formazione nella disciplina statale generale. 1.4.− In conclusione, secondo il ricorrente, la mancata riproposizione, da parte della disposizione regionale impugnata, della previsione statale di tipo speciale darebbe luogo alla violazione dei princìpi fondamentali posti dal legislatore statale nelle materie a competenza legislativa concorrente «tutela della salute» e «professioni»: le modalità e i requisiti di accesso della dirigenza sanitaria, in particolare apicale, costituirebbero, infatti, princìpi dettati per migliorare il rendimento del servizio offerto a garanzia tanto del buon andamento dell’amministrazione, quanto della qualità dell’attività assistenziale erogata. 2.− Si è costituita in giudizio la Regione Emilia-Romagna, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, non fondate. Secondo la resistente, la legge reg. Emilia-Romagna n. 7 del 2023 non sarebbe fonte che innova, bensì andrebbe catalogata tra le leggi emanate periodicamente per la revisione della normativa vigente, al fine di renderla più intellegibile, con eliminazione dai testi dei richiami a disposizioni abrogate o con interventi di adeguamento. Con tale finalità di aggiornamento, l’art. 23 sarebbe intervenuto sul comma 7 dell’art. 10 della legge reg. Emilia-Romagna n. 29 del 2004, relativo alla composizione delle commissioni di selezione dei responsabili delle unità operative complesse negli IRCCS, sostituendo il riferimento al «superato per modificazione» art. 15-ter del d.lgs. n. 502 del 1992, con il riferimento al vigente art. 15, comma 7-bis, lettera a), del medesimo decreto legislativo. 2.1.− La Regione subito obietta che la disposizione impugnata − nel prevedere che «[l]a Commissione di cui all’art. 15, comma 7-bis, lett[era a) del d.lgs. n. 502 del 1992] è composta, oltre che dal direttore sanitario, anche dal direttore scientifico» − ripropone la presenza in commissione del direttore sanitario, secondo quanto già disposto dal legislatore regionale dal 2006, senza che lo Stato avesse allora contestato alcunché. Da tanto deriverebbero la tardività e la carenza di interesse al ricorso. 2.2.− Per sostenere la non fondatezza delle questioni, la Regione Emilia-Romagna esamina prima il contenuto delle disposizioni statali rilevanti e poi quello della disposizione regionale impugnata. Quanto alle prime la difesa della resistente deduce che: a) le norme relative alla composizione delle commissioni per la selezione del personale medico responsabile delle UOC del Servizio sanitario nazionale erano contenute, sino al 2012, nell’art. 15-ter del d.lgs. n. 502 del 1992, a mente del quale la commissione era composta dal direttore sanitario, che la presiedeva, e da due dirigenti dei ruoli del personale del SSN; b) la relativa disciplina è stata dapprima modificata dal decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2012, n. 189; c) questo, da un lato, ha «spostato» la collocazione della disciplina, inserendo le relative norme nel comma 7-bis dell’art. 15 del d.lgs. n. 502 del 1992 e, dall’altro lato, ha riformulato la composizione, prevedendo che ne siano membri il direttore sanitario e tre direttori di UOC, scelti per sorteggio dall’apposito elenco nazionale; d) la novella ha inteso così garantire maggiore imparzialità, trasparenza e oggettività della procedura selettiva; e) in ultimo, per incrementare ulteriormente il raggiungimento di tali obiettivi, con l’art. 20, comma 1, della legge 5 agosto 2022, n. 118 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021), il legislatore statale è nuovamente intervenuto imponendo, tra l’altro, che, dei tre membri “tecnici”, almeno due siano responsabili di strutture complesse in regioni diverse da quella ove ha sede l’azienda interessata alla copertura del posto. La Regione condivide la tesi della specialità della disciplina dettata per la commissione degli IRCCS dal d.lgs. n. 288 del 2003, e tuttavia ritiene che l’art. 11, comma 2, del citato decreto rinvierebbe esso stesso al d.lgs. n. 502 del 1992: in particolare, in tale unico comma il legislatore statale tratterebbe unitariamente il regime del personale degli Istituti «non privatizzati» e la composizione della commissione di selezione – che è elemento integrante della disciplina del personale – e, nel farlo, sottoporrebbe entrambi a quanto previsto dal d.lgs. n. 502 del 1992. Nello specifico, quanto alla commissione, l’art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 288 del 2003 richiama il previgente art. 15-ter del d.lgs. n. 502 del 1992, al contrario della disposizione regionale impugnata, che rinvia al vigente art. 15, comma 7-bis. La difesa regionale contesta la natura attribuita dal Governo al rinvio contenuto nel parametro interposto: non si tratterebbe di un rinvio statico al previgente art. 15-ter del d.lgs. n. 502 del 1992, bensì di un rinvio dinamico, come dimostrerebbe il riferimento contenuto nel comma 2 dell’art. 11 al «decreto legislativo n. 502 del 1992, e successive modificazioni». La commissione esaminatrice, di conseguenza, avrebbe negli IRCCS la medesima composizione degli altri enti del SSN, con l’unica peculiarità di avere, tra i membri, il direttore scientifico. D’altro canto, secondo la resistente, anche «una lettura logico-ordinamentale dei principi» porterebbe a concludere per l’incidenza delle descritte riforme sulla disciplina statale generale anche su quella speciale degli IRCCS: l’esigenza di imparzialità e la finalità di selezionare i migliori dirigenti, sottese alle modifiche apportate alla composizione della commissione nelle aziende sanitarie, sarebbero comuni al conferimento degli incarichi di dirigenza negli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico che, del pari, sono enti del SSN ai sensi dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 288 del 2003. 2.3.− Quanto alla normativa regionale, la resistente ne ripercorre, anzitutto, l’evoluzione. La legge reg. Emilia-Romagna n. 29 del 2004, nel recare «Norme generali sull’organizzazione ed il funzionamento del servizio sanitario regionale», sin dalla sua originaria versione, tratta all’art. 10 degli «Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico» situati nel proprio territorio. Per effetto della riscrittura da parte della legge reg. Emilia-Romagna 3 marzo 2006, n. 2 (Modifiche all’articolo 10 della legge regionale 23 dicembre 2004, n. 29, in materia di istituti di ricovero e cura a carattere scientifico), il comma 7 dell’art. 10 della legge reg. Emilia-Romagna n. 29 del 2004 ha disciplinato anche la composizione della commissione per la selezione del direttore dell’UOC degli IRCCS, prevedendo che fosse costituita dal direttore scientifico (presidente di diritto), dal direttore sanitario e da un dirigente del SSN (individuato dal collegio di direzione). In tal modo, la Regione Emilia-Romagna avrebbe ripreso alla lettera quanto previsto dall’art. 11 del d.lgs. n. 288 del 2003 − che a sua volta richiamava la disciplina dell’analoga commissione di cui all’allora vigente art. 15-ter del d.lgs. n. 502 del 1992 −, con la variante della sostituzione, tra i componenti, di uno dei due dirigenti di struttura complessa del SSN con il direttore sanitario. Con l’ulteriore modifica apportata dall’art. 13, comma 1, lettera d), della legge reg. Emilia-Romagna 19 febbraio 2008, n. 4 (Disciplina degli accertamenti della disabilità − ulteriori misure di semplificazione ed altre disposizioni in materia sanitaria e sociale), è stato aggiunto al comma 7 dell’art. 10 della legge regionale n. 29 del 2004 un ulteriore periodo a mente del quale «[l]a Commissione è presieduta dal direttore sanitario o dal direttore scientifico a seconda che l’attribuzione dell’incarico di direzione abbia ad oggetto una struttura complessa prevalentemente orientata all’attività assistenziale od all’attività di ricerca, secondo quanto definito nell’atto aziendale». La disposizione impugnata, infine, è nuovamente intervenuta sul comma 7 dell'art. 10: in primo luogo, si è corretto il richiamo alla disposizione statale che attualmente regola la composizione della commissione di selezione (il vigente art. 15, comma 7-bis, lettera a, in luogo del previgente art. 15-ter del d.lgs. n. 502 del 1992); in secondo luogo, si è confermata la compresenza del direttore scientifico e del direttore sanitario; in terzo luogo, si è eliminata la previsione dell’alternanza della presidenza tra i due membri di diritto, posto che la disciplina statale applicabile la assegna ad uno dei dirigenti estratti a sorte. 2.4.− Le disposizioni regionali che si sono succedute, secondo la Regione resistente, costituirebbero legittimo esercizio della propria competenza legislativa concorrente nella materia «tutela della salute». In proposito, anzitutto, la resistente prospetta che quanto previsto dal d.lgs. n. 288 del 2003 non potrebbe essere interpretato in modo tanto puntuale e rigido da escludere ogni margine di intervento del legislatore regionale. A sostegno dell’assunto, è richiamata la sentenza di questa Corte n. 270 del 2005, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di alcune norme del d.lgs. n. 288 del 2003 relative alla composizione e designazione di altri organi degli IRCCS (in particolare, del Consiglio di amministrazione, del Collegio sindacale e del Presidente) perché ritenute «ingiustificatamente dettagliate e quindi invasive […] dell’ambito lasciato all’eventuale esercizio della potestà legislativa regionale». 2.5.− Inoltre, nell’esercitare la propria potestà legislativa, la Regione avrebbe legittimamente tenuto conto di due esigenze. Per un verso, le norme impugnate garantirebbero la presenza nelle commissioni degli IRCCS del direttore sanitario (come previsto per le aziende sanitarie dal d.lgs. n. 502 del 1992), accanto al direttore scientifico (per come previsto dal d.lgs. n. 288 del 2003), in ragione della prevalente e rilevante attività assistenziale svolta dagli Istituti. Per altro verso, la disciplina regionale attuerebbe le norme-principio stabilite dal legislatore nazionale più recente per garantire trasparenza, imparzialità e meritocrazia nella selezione della dirigenza medica apicale. 2.6.− Ricorda, infine, la resistente che con la sentenza n. 181 del 2006 è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri proprio nei confronti della legge reg. Emilia-Romagna n. 29 del 2004, nella parte in cui disciplinava (all’art. 8, comma 3) le procedure di nomina dei direttori di struttura complessa nelle aziende sanitarie. Di tale pronuncia, la resistente evidenzia i passaggi in cui si è affermato, da un lato, che le regioni, in forza della competenza legislativa concorrente loro attribuita, sarebbero «libere di disciplinare le modalità relative al conferimento degli incarichi di direzione delle strutture sanitarie» e, dall’altro, che nel farlo debbano perseguire la «“selezione tecnica e neutrale dei più capaci”[…] con modalità procedimentali atte a garantire le condizioni di un trasparente ed imparziale esercizio dell’attività amministrativa». Proprio di tali princìpi con la disposizione impugnata la Regione avrebbe fatto applicazione. Considerato in diritto 1.− Il Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 28 del 2023), impugna, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., l’art. 23 della legge reg. Emilia-Romagna n. 7 del 2023, che sostituisce l’art. 10, comma 7, della legge reg. Emilia-Romagna n. 29 del 2004. Il legislatore regionale è intervenuto sulla disciplina regionale degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico con sede nel territorio regionale con riguardo ai criteri e alle procedure per il conferimento dei relativi incarichi di direzione di struttura complessa nonché alla composizione dell’organo collegiale cui è affidata la selezione degli idonei disponendo, a tale ultimo proposito, che «[l]a Commissione di cui all’art. 15, comma 7-bis, lett[era] a) del decreto legislativo n. 502 del 1992 è composta, oltre che dal direttore sanitario, anche dal direttore scientifico». Su questo periodo si appunta la doglianza statale. In particolare, secondo la disposizione impugnata, l’organo collegiale per gli IRCSS emiliani è formato − per effetto del richiamo alla normativa statale vigente relativa alla formazione della medesima commissione per gli enti del Servizio sanitario nazionale (art. 15, comma 7-bis, lettera a), del d.lgs. n. 502 del 1992) − dal direttore sanitario e da tre direttori di struttura complessa nella medesima disciplina dell’incarico da conferire, individuati per sorteggio dall’apposito elenco nazionale dei direttori di UOC appartenenti ai ruoli regionali del SSN, nonché − per effetto dell’apposita norma additiva − dal direttore scientifico. È denunciato il contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost. in relazione al principio fondamentale delle materie «tutela della salute» e «professioni» posto dall’art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 288 del 2003, che stabilisce che «[l]a commissione di cui al comma 2 dell’articolo 15-ter del decreto legislativo n. 502 del 1992 è composta, oltre che dal direttore scientifico, che la presiede, da due dirigenti dei ruoli del personale del Servizio sanitario nazionale, preposti a una struttura complessa della disciplina oggetto dell’incarico, di cui uno scelto dal Comitato tecnico scientifico e uno individuato dal direttore generale». Secondo il ricorrente, il menzionato art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 288 del 2003, assurgerebbe a parametro interposto poiché detta una apposita disciplina per gli IRCCS, in quanto tale prevalente per specialità su quella generale dettata dal d.lgs. n. 502 del 1992 per le aziende sanitarie (territoriali e ospedaliere). 2.− In via preliminare, la Regione eccepisce la tardività e la carenza di interesse al ricorso, in quanto la disposizione impugnata riproporrebbe la norma, vigente già dal 2006 e mai contestata dallo Stato, della contestuale presenza del direttore sanitario e del direttore scientifico nella commissione di selezione dei “primari” degli IRCCS. 2.1.− L’eccezione non è fondata. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’istituto dell’acquiescenza non si applica nei giudizi in via principale, atteso che la disposizione contestata, anche se riproduttiva, in tutto o in parte, di una norma anteriore non impugnata, ha comunque l’effetto di reiterare la lesione da cui deriva l’interesse a ricorrere (ex plurimis, sentenze n. 112 del 2023, n. 255 e n. 23 del 2022). 3.− L’esame del merito delle questioni promosse richiede una essenziale ricostruzione del quadro normativo relativo agli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico e di quello relativo alla composizione della commissione per la selezione degli idonei per il conferimento degli incarichi di direzione delle strutture complesse, limitatamente agli aspetti interessati dalle questioni. 3.1.− Gli IRCCS sono strutture ospedaliere caratterizzate dal contemporaneo e connesso svolgimento di attività diagnostico-terapeutiche di alta specialità e di attività di ricerca, che svolgono secondo gli indirizzi del Programma nazionale di ricerca sanitaria e in coerenza con gli atti di programmazione regionale in materia. Fin dalla legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), gli IRCCS sono stati oggetto di normativa speciale rispetto a quella dettata in via generale per l’organizzazione e il funzionamento degli enti del SSN, e ciò in ragione delle caratteristiche peculiari degli Istituti, tanto sotto il profilo della duplicità delle funzioni svolte, quanto per le forme organizzative appositamente prescelte. L’attuale disciplina degli IRCSS − da ricondurre in prevalenza alle materie di potestà legislativa concorrente della «tutela della salute» e della «ricerca scientifica» (per tutte, sentenza n. 270 del 2005) – a livello statale è contenuta nel d.lgs. n. 288 del 2003, oggetto di recente modifiche da parte del decreto legislativo 23 dicembre 2022, n. 200 (Riordino della disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico) il quale, con differenti misure di raccordo tra le attività scientifica e di assistenza, ha perseguito l’obiettivo del potenziamento del rapporto fra ricerca, innovazione e cure sanitarie posto dalla relativa legge delega (art. 1, comma 1, primo capoverso, lettere a, b e h, della legge 3 agosto 2022, n. 129, recante «Delega al Governo per il riordino della disciplina degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, di cui al decreto legislativo 16 ottobre 2003, n. 288»). Secondo la predetta normativa, gli Istituti si suddividono in due categorie, a seconda del tipo di personalità giuridica: quelli di diritto privato («gli Istituti di diritto privato»), cui è garantita l’autonomia giuridico-amministrativa, e quelli di diritto pubblico, che sono enti del Servizio sanitario nazionale e che possono avere la forma di ente pubblico («gli Istituti non trasformati») o di fondazione («Fondazioni IRCCS»). Nello specifico, l’art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 288 del 2003, assunto a parametro interposto, è dedicato agli «Istituti non trasformati», al pari della disposizione regionale impugnata. Secondo l’atto di intesa della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano in data 1° luglio 2004 − cui l’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 288 del 2003 demanda la disciplina dell’organizzazione, gestione e funzionamento degli Istituti in forma di ente pubblico − ne sono organi, tra gli altri, il direttore generale, cui spetta la rappresentanza e la gestione dell’ente, il direttore sanitario, che coadiuva il primo e dirige i servizi sanitari, e il direttore scientifico che, nominato dal Ministro della salute, su parere del Presidente della Regione, è responsabile dell’attività di ricerca dell’Istituto. Quest’ultimo presiede anche il comitato tecnico-scientifico, cui partecipano il direttore sanitario e altri otto membri, e che svolge funzioni consultive e di supporto all’attività clinica e di ricerca (art. 15 dello schema-tipo di regolamento di organizzazione degli Istituti allegato al suddetto atto di Intesa). 3.2.− Quanto al trattamento giuridico ed economico del personale degli Istituti-enti pubblici, il primo periodo dell’art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 288 del 2003 lo sottopone alla disciplina del d.lgs. «n. 502 del 1992, e successive modificazioni», contenuta nel suo Titolo V (rubricato «Personale») e comprensiva del regime del conferimento, dell’espletamento e della cessazione dell’incarico di direttore di struttura complessa (articoli da 15 a 17-bis). Il secondo periodo del medesimo comma, si discosta, invece, dalla normativa generale proprio in punto di composizione della commissione incaricata della relativa selezione. Tale ultima disposizione, evocata a parametro interposto, prevede che questa sia formata dal direttore scientifico, che la presiede, e da due direttori di UOC del Servizio sanitario nazionale, di cui uno scelto dal Comitato tecnico scientifico e uno individuato dal direttore generale. Nell’ottica della specialità, il legislatore ha così emanato una apposita disposizione sulla composizione dell’organo collegiale, differenziandola da quella stabilita dal previgente comma 2 dell’art. 15-ter del d.lgs. n. 502 del 1992, secondo cui la commissione era formata dal direttore sanitario (presidente di diritto) e da due dirigenti dei ruoli del personale del SSN preposti a una struttura complessa, di cui uno individuato dal direttore generale ed uno dal collegio di direzione. In ragione della caratterizzante attività di ricerca degli Istituti, il d.lgs. n. 288 del 2003 ha, quindi, ritenuto necessario che la selezione degli idonei tra cui conferire la responsabilità gestionale delle UOC fosse effettuata da membri sensibili anche ai profili della ricerca ed ha, pertanto, sostituito nella presidenza il direttore scientifico al direttore sanitario ed ha assegnato la nomina di uno dei componenti tecnici all’organo collegiale appositamente preposto ad iniziative e pareri sull’attività scientifica, vale a dire il comitato tecnico-scientifico. 3.3.− A sua volta, la Regione Emilia-Romagna, nell’ambito della legge regionale n. 29 del 2004, recante le norme sull’organizzazione e funzionamento del servizio sanitario regionale, ha adottato una propria disciplina sugli IRCCS (art. 10) e, a partire dal 2006, ha anche regolato la composizione della commissione deputata alla selezione degli idonei per gli incarichi di direzione delle strutture complesse dei predetti Istituti. Il comma 7 dell’art. 10 – nel testo vigente sino alla sostituzione disposta dal censurato art. 23 della legge reg. Emilia-Romagna n. 7 del 2023 – prevedeva una commissione a tre, formata dal direttore sanitario, dal direttore scientifico, e da un direttore di UOC della disciplina oggetto dell’incarico, scelto dal collegio di direzione. La presidenza dell’organo era attribuita al direttore sanitario o al direttore scientifico a seconda che l’attribuzione dell’incarico attenesse ad una struttura a prevalenza assistenziale o di ricerca. La Regione Emilia-Romagna, nell’esercizio della potestà legislativa concorrente, aveva così ritenuto di comporre l’organo collegiale tenendo conto in parte del modello generale previsto per gli enti del SSN (quanto al direttore sanitario come componente di diritto e al componente tecnico nominato dal collegio di direzione) e in parte della previsione speciale degli IRCCS (quanto alla presenza del direttore scientifico). 3.4.− Intervenendo nuovamente in materia, con la disposizione in esame il legislatore regionale ha previsto che la commissione sia composta da cinque membri: ancora, di diritto, il direttore scientifico e il direttore sanitario, accanto alla rinnovata componente tecnica, individuata in tre direttori di struttura complessa, scelti per sorteggio. Per quanto emerge dalla relazione illustrativa al progetto di legge e anche rimarcato dalla difesa della resistente, con la riformulazione delle norme la Regione, da un lato, ha inteso ottemperare al principio di cui all’art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 288 del 2003, ribadendo la presenza in commissione del direttore scientifico e, dall’altro lato, ha voluto recepire le modifiche apportate dalla normativa nazionale in punto di formazione delle commissioni per le selezioni dei direttori delle UOC nelle aziende sanitarie. In proposito, va rammentato che, per effetto dell’art. 4 del d.l. n. 158 del 2012, come convertito, e dell’art. 20 della legge n. 118 del 2022: a) la disciplina generale delle commissioni di selezione è transitata dal comma 2 dell’art. 15-ter al comma 7-bis, lettera a), dell’art. 15 del d.lgs. n. 502 del 1992; b) il numero dei componenti è stato elevato a quattro (uno di diritto individuato ancora nel direttore sanitario, e tre tecnici), c) è mutata l’investitura degli esperti, non più per nomina dagli organi dell’ente, bensì per sorteggio dall’elenco nazionale dei direttori delle UOC appartenenti ai ruoli regionali del SSN; d) è garantito che almeno due commissari tecnici svolgano il proprio incarico in regioni diverse da quella dell’azienda cui la selezione si riferisce; e) la presidenza è attribuita al direttore sorteggiato con maggiore anzianità di servizio e il suo voto prevale in caso di parità; f) è potenziato il ruolo della commissione che, in esito alla comparazione di curricula, titoli e colloquio e all’attribuzione di conseguenti punteggi, non si limita più, come in passato, a predisporre una terna dei migliori candidati, tra i quali il direttore generale sceglieva il dirigente di struttura da nominare, ma redige ora una «graduatoria» di cui il direttore generale prende atto, conferendo l’incarico al primo graduato (art. 15, comma 7-bis, lettera b, del d.lgs. n. 502 del 1992). 4.− Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, è fondata la questione della violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. in relazione alla materia di potestà legislativa concorrente «tutela della salute». 4.1.− Questa Corte ha già avuto modo di ricondurre a tale materia la disciplina degli incarichi della dirigenza sanitaria, rilevando in particolare «la stretta inerenza che tutte le norme de quibus presentano con l’organizzazione del servizio sanitario regionale e, in definitiva, con le condizioni per la fruizione delle prestazioni rese all’utenza, essendo queste ultime condizionate, sotto molteplici aspetti, dalla capacità, dalla professionalità e dall’impegno di tutti i sanitari addetti ai servizi, e segnatamente di coloro che rivestono una posizione apicale» (sentenze n. 155 del 2022, n. 179 del 2021, n. 371 del 2008 e, con specifico riguardo agli incarichi di direzione di strutture complesse, sentenze n. 139 del 2022 e n. 181 del 2006). Tale ascrizione ha riguardato anche, sul versante soggettivo, la dirigenza degli IRCCS (sentenze n. 53 del 2023 e n. 422 del 2006) e, sul versante oggettivo, la composizione delle commissioni di selezione (sentenze n. 189 del 2022 con riguardo agli incarichi di direttore amministrativo e sanitario e n. 139 del 2022 con riguardo agli incarichi delle UOC delle aziende sanitarie). 4.2.− In particolare, la sentenza n. 139 del 2022 ha affermato che costituiscono princìpi fondamentali della materia «tutela della salute» i precetti fissati dall’art. 15, comma 7-bis, del d.lgs. n. 502 del 1992, e tra questi quello relativo alla composizione della commissione di selezione delle aziende sanitarie, in relazione al numero dei componenti e alla modalità di nomina, in quanto finalizzato ad assicurare l’imparzialità dell’organo di valutazione tecnica e le capacità dei soggetti cui conferire l’incarico gestionale. Ebbene, la resistente sostiene avere legittimamente esercitato la propria potestà legislativa nel contemporaneo rispetto di tale principio fondamentale nonché di quello che impone la presenza del direttore scientifico nell’organo di valutazione, secondo quanto stabilito dall’art. 11 del d.lgs. n. 288 del 2003. Coglie, per contro, nel segno la prospettazione del ricorrente secondo cui, nel caso in esame, l’unico principio fondamentale applicabile, secondo il criterio di specialità, è quello posto dall’art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 288 del 2003, in forza del quale «la commissione è composta dal direttore scientifico, che la presiede [e] da due dirigenti dei ruoli del personale del Servizio sanitario nazionale, preposti a una struttura complessa della disciplina oggetto dell’incarico, di cui uno scelto dal Comitato tecnico scientifico e uno individuato dal direttore generale». Come si è già osservato (punto 3.2.) con la citata disposizione il legislatore statale ha da tempo configurato in termini autonomi la commissione degli «Istituti non trasformati» a garanzia della competenza dei candidati selezionati tanto nella cura quanto nella ricerca, la cui connessione contraddistingue tali enti ospedalieri. D’altronde, alla configurazione ad hoc della commissione esaminatrice il legislatore statale non ha ritenuto di apportare variazioni né quando ha riformato la commissione di selezione delle aziende sanitarie (d.l. n. 158 del 2012, come convertito, e legge n. 118 del 2022, di riforma dell’art. 15 del d.lgs. n. 502 del 1992), né quando ha proceduto al recente riordino degli IRCCS (d.lgs. n. 200 del 2022). La mancata modifica nell’ambito di quest’ultima riforma è particolarmente significativa, non solo in quanto il decreto di riordino è intervenuto sul medesimo art. 11 del d.lgs. n. 288 del 2003, ma anche perché la novella, per più versi, ha valorizzato il coordinamento tra l’attività assistenziale e quella di ricerca, cui risponde anche il previsto equilibrio nella composizione della commissione. Diversamente da quanto sostenuto dalla resistente, il parametro interposto è principio fondamentale nella individuazione della commissione nel suo complesso e non di uno solo dei suoi componenti, proprio in quanto esso disciplina un organo collegiale unitariamente inteso. Non può quindi condividersi il percorso argomentativo tendente alla frammentazione del parametro, innestando nella composizione della commissione ivi prevista componenti indicati in altre disposizioni. In ciò, la disposizione statale, sebbene abbia contenuto specifico e dettagliato, nondimeno vincola la potestà legislativa delle regioni: le regole ivi contenute, nella finalità di garantire la competenza dei direttori delle UOC tanto scientifica, quanto sanitaria, si pongono in rapporto di coessenzialità e necessaria integrazione con le norme-principio che connotano la complessiva disciplina degli IRCCS (nello stesso senso e tra le tante, la già citata sentenza n. 189 del 2022 per la specifica composizione della commissione deputata alla formazione degli elenchi di idonei per il conferimento degli incarichi di direttore amministrativo e sanitario degli enti del SSN). 4.3.− È evidente, allora, la distonia dell’organo tecnico previsto dal legislatore regionale (una commissione a cinque, con tre tecnici sorteggiati, tra cui è nominato il presidente) da quello previsto dal legislatore statale (una commissione a tre, presieduta dal direttore scientifico con due tecnici nominati, di cui uno, in particolare, dal comitato tecnico-scientifico). La disposizione impugnata, con tale scostamento dalla disciplina statale, per un verso, altera il “peso” della partecipazione del direttore scientifico nel collegio, sia in termini numerici, sia in termini di posizione, e, per altro verso, sminuisce la competenza dei commissari nelle valutazioni dell’attività di ricerca (garantite anche con la nomina di un membro da parte del comitato tecnico-scientifico), rimarcando quella di tipo clinico (propria dei tre direttori di UOC sorteggiati e del direttore sanitario). 4.4.− Il ravvisato contrasto tra la disposizione regionale impugnata e il principio fondamentale della materia non è scalfita dalla tesi della Regione Emilia-Romagna, per la quale lo stesso parametro interposto sarebbe a sua volta interessato dalle riforme apportate all’art. 15, comma 7-bis, del d.lgs. n. 502 del 1992, per asserite ragioni letterali e sistematiche. 4.4.1.− Anzitutto, la lettera dell’art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 288 del 2003 contraddice l’assunto di un suo rinvio dinamico al d.lgs. n. 502 del 1992 con riguardo alla commissione di selezione. Mentre, nel primo periodo dello stesso comma, il legislatore ha «sottoposto alla disciplina del citato decreto legislativo n. 502 del 1992, e successive modificazioni» il trattamento giuridico ed economico del personale, il secondo periodo della disposizione recita che «[l]a commissione di cui al comma 2 dell’articolo 15-ter del decreto legislativo n. 502 del 1992 è composta, oltre che dal direttore scientifico, che la presiede, da due dirigenti dei ruoli del personale del Servizio sanitario nazionale, preposti a una struttura complessa della disciplina oggetto dell’incarico, di cui uno scelto dal Comitato tecnico scientifico e uno individuato dal direttore generale». È evidente che tale formula normativa non contiene alcun rinvio: l’art. 11 richiama la disposizione generale che regola l’analoga commissione del SSN al solo fine di identificare l’organo tecnico, per poi procedere a porre autonome regole nella individuazione dei componenti, nella nomina degli esperti e nella presidenza. 4.4.2.− Secondo la resistente, l’art. 11 del d.lgs. n. 288 del 2003 sarebbe stato comunque inciso dalle riforme del d.lgs. n. 502 del 1992 in quanto finalizzate a incrementare l’imparzialità e il buon andamento del SSN, di cui gli IRCCS fanno parte. In proposito, è sufficiente osservare che l’univoco dato letterale del parametro interposto, quanto al numero e alla modalità di individuazione dei membri tecnici, non lascia spazio a significati differenti, frutto dell’invocata interpretazione sistematica. 4.4.3.− Seppur tanto basta a sconfessare l’argomento difensivo, esso richiede due osservazioni. Vero è che l’aumento numerico e la scelta per sorteggio degli esperti tecnici, in luogo della nomina dagli organi aziendali, disposti per gli altri enti del SSN, sono fattori di trasparenza (sentenza n. 139 del 2022), ma essi si accompagnano a quello ulteriore e preponderante della procedimentalizzazione dell’attività di valutazione, culminata di recente nella previsione del necessario conferimento dell’incarico al partecipante posizionato per primo in graduatoria (art. 15, comma 7-bis, lettera b, del d.lgs. n. 502 del 1992). Ebbene, la disciplina di principio degli IRCCS «non trasformati» recepisce tali riforme procedurali improntate su criteri meritocratici: per come si è visto (punto 3.2.), infatti, il primo periodo del comma 2 dell’art. 11 del d.lgs. n. 288 del 2003 fa rinvio espresso (e mobile) al trattamento giuridico del personale del d.lgs. n. 502 del 1992 («e successive modificazioni»), che ricomprende anche il regime di conferimento degli incarichi direttivi delle UOC. In questo rinnovato quadro procedurale, continua a giustificarsi, invece, la previsione speciale sulla composizione della commissione degli Istituti a garanzia della duplice competenza dei componenti nella cura e nella ricerca. Ciò, comunque, non esclude che il legislatore nazionale, nella sua discrezionalità, ben possa attenuare la distanza o armonizzare la disciplina della commissione di selezione dei direttori di struttura complessa degli Istituti di ricerca non trasformati con quella stabilita per gli altri enti del Servizio sanitario nazionale. 5.− Alla luce delle esposte considerazioni, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 23 della legge reg. Emilia-Romagna n. 7 del 2023 che sostituisce l’art. 10, comma 7, della legge reg. Emilia-Romagna n. 29 del 2004, limitatamente alle parole «[l]a Commissione di cui all’art. 15, comma 7-bis, lett[era] a) del decreto legislativo n. 502 del 1992 è composta, oltre che dal direttore sanitario, anche dal direttore scientifico». 6.− L’accoglimento della questione per contrasto della disposizione censurata con l’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione ai princìpi fondamentali della materia «tutela della salute», comporta l’assorbimento della questione riferita ai princìpi fondamentali della materia «professioni». per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 23 della legge della Regione Emilia-Romagna 12 luglio 2023, n. 7 (Abrogazioni e modifiche di leggi e disposizioni regionali in collegamento con la sessione europea 2023. Altri interventi di adeguamento normativo) che sostituisce l’art. 10, comma 7, della legge della Regione Emilia-Romagna 23 dicembre 2004, n. 29 (Norme generali sull’organizzazione ed il funzionamento del servizio sanitario regionale), limitatamente alle parole «La Commissione di cui all’art. 15, comma 7-bis, lett. a) del decreto legislativo n. 502 del 1992 è composta, oltre che dal direttore sanitario, anche dal direttore scientifico». Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 marzo 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Filippo PATRONI GRIFFI, Redattore Valeria EMMA, Cancelliere
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