Sentenze recenti Tribunale Amministrativo Regionale Abruzzo

Ricerca semantica

Risultati di ricerca:

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7564 del 2023, proposto da: Ca. Eu. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ca. Pe. e Cr. Be., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ni. Za., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; nei confronti Tu. Fu. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Co. e Gi. Gi., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo, sezione staccata di Pescara, n. 95/2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e di Tu. Fu. s.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore il Cons. Laura Marzano; Nessuno presente per le parti nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La società appellante ha impugnato la sentenza del 20 febbraio 2023, n. 95 con cui il Tar Abruzzo, sezione staccata di Pescara, ha respinto il ricorso proposto per l'annullamento dell'ordinanza n. 150 del 18 aprile 2019, emessa dal Comune di (omissis), ex art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001 e artt. 54 e 1161 del codice della navigazione, di ingiunzione allo sgombero di un'area di mq.460, appartenente al demanio marittimo e occupata sine titulo, con obbligo di ripristino dello stato dei luoghi. Il Comune di (omissis) si è costituito con atto formale. La controinteressata, Tu. Fu. s.r.l. si è costituita depositando memoria difensiva e documentazione ed ha chiesto la reiezione dell'appello. In vista della trattazione, il comune e la controinteressata hanno depositato memorie conclusive, alle quali l'appellante ha replicato con memoria del 7 maggio 2024. Con separati atti tutte le parti costituite hanno chiesto la decisione della causa sugli scritti. All'udienza pubblica del 28 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 2. L'appellante, gestore di un campeggio in (omissis), lungo la SS 16 sud, ha impugnato in primo grado il suindicato provvedimento censurandolo per violazione dell'art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001, degli artt. 32, 54, 1161 del codice della navigazione, dei principi dell'affidamento e di proporzionalità nonché per eccesso di potere sotto il profilo del difetto di presupposti, di istruttoria e di motivazione, del travisamento dei fatti, dello sviamento. In particolare sosteneva l'erroneità del richiamo all'art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001, non essendo state segnalate opere abusive per le quali, comunque, non avrebbe avuto responsabilità avendo assunto la gestione del campeggio nel 1993, con l'area già occupata e osservando che il decorso del tempo avrebbe ingenerato l'affidamento sul consolidarsi della situazione. Sosteneva inoltre: che non sussistesse l'occupazione abusiva; che l'Agenzia del demanio non avesse prodotto un circostanziato atto di accertamento sul punto; che non fosse stato considerato l'atto di donazione del 7 febbraio del 1934; che non fosse stato allegato il menzionato verbale del 22 febbraio 2018 dell'Ufficio circondariale marittimo; che fosse mancato il contraddittorio procedimentale; che sarebbero intervenuti fenomeni naturali di spostamento del demanio, con esondazione tra l'altro del torrente Bu.; che vi sarebbe stato un processo di urbanizzazione; che sarebbe stato apposto un termine; che le mappe catastali non sarebbero aggiornate e, comunque, non sarebbero indicati foglio e particella; che si sarebbe dovuto attivare il procedimento di cui all'art. 32 del codice della navigazione. 3. Il Tar ha respinto il ricorso osservando in sintesi: che il riferimento all'art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001 appare pertinente, in quanto sia nell'ordinanza di sgombero sia negli atti endoprocedimentali è fatto riferimento a opere edilizie abusive; che il provvedimento costituisce misura a carattere reale, da indirizzarsi come tale all'attuale occupante, in relazione materiale con la cosa, in grado di ricondurre a legittimità lo stato di fatto, prescindendo quindi dai profili di responsabilità ; che in ogni caso la attuale occupante dell'area è anche responsabile della sottrazione dell'immobile al soggetto pubblico, legittimo proprietario; che, trattandosi di opere abusive su suolo pubblico demaniale, l'atto di sgombero assume carattere strettamente vincolato, a nulla rilevando dunque il decorso del tempo dalle condotte abusive, che peraltro permangono, con inconfigurabilità di un affidamento tutelabile volto alla conservazione di una situazione di illecito permanente. Il primo giudice ha, poi, rilevato che non risulta comprovata l'assenza di occupazione abusiva, considerato che la relazione tecnica prodotta dalla parte ricorrente non appare sufficiente, per difetto di chiarezza (cfr. in particolare pag. 6, deposito del 22 dicembre 2022) e che anche le risultanze catastali, in quanto predisposte per fini essenzialmente fiscali, non rivestono carattere dirimente ai fini dell'individuazione dei profili proprietari, avendo valore meramente indiziario. Inoltre il Tar ha osservato: che l'atto di sgombero risulta emesso all'esito di una compiuta e articolata istruttoria, comprendente sopralluoghi, verbali e relazione tecnica d'ufficio nonchè interventi dell'Ufficio circondariale marittimo e dell'Agenzia del demanio, oltre che dell'amministrazione comunale; che l'ordinanza impugnata è stata preceduta da comunicazione di avvio del procedimento del 26 marzo 2019, circostanziata e corredata di allegati, cui sono seguite le osservazioni controdeduttive del privato dell'8 aprile 2019, dunque nel pieno rispetto del contraddittorio procedimentale. Infine ha affermato: che l'atto di donazione del 7 febbraio 1934 non appare idoneo a sovvertire le risultanze emerse dall'attività istruttoria dell'amministrazione, essendo stata prodotta solo una nota di trascrizione, molto risalente nel tempo, riferita a soggetti dell'epoca, non sufficientemente circostanziata e specifica in ordine all'oggetto; che non possono assumere rilievo non meglio precisati fenomeni naturali, di urbanizzazione, di apposizione di un termine di confine; che l'avvio del procedimento di delimitazione delle zone del demanio marittimo, ex art. 32 del codice della navigazione, è rimesso a valutazioni eminentemente discrezionali dell'amministrazione, qualora sussistano obiettivi profili di incertezza sul punto, precisando che appartengono alla giurisdizione del Giudice ordinario le liti in tema di accertamento di confini. 4. L'appello è affidato ad un unico motivo di "Travisamento dei fatti e dei presupposti; errata individuazione della fattispecie oggetto di ricorso. Violazione/falsa applicazione dell'art. 35 TU Edilizia - Violazione/falsa applicazione degli artt. 54 e 1161 del codice di navigazione - Eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto di motivazione, difetto dei presupposti e sviamento. Omessa pronuncia". In sintesi l'appellante sostiene che la sentenza sarebbe errata nella parte in cui ha disatteso le contestazioni di indeterminatezza mosse all'ordinanza di sgombero. Ricorda che l'ordinanza di sgombero si fonda su un asserito sconfinamento ("occupazione abusiva di una porzione di circa mq 460 di area demaniale marittima di forma pressochè triangolare") senza, tuttavia, descrivere l'ubicazione dell'area occupata, non essendo indicato il foglio di mappa né la particella. Insiste sulla censura di difetto di istruttoria non essendo, a suo dire, sufficienti gli atti rinvenuti in sede di accesso (nota Agenzia del demanio del 16 marzo 2019 prot. 2019/3606; nota Agenzia del demanio del 6 marzo 2019 prot. 2019/2596; nota dell'Ufficio circondariale marittimo del 22 febbraio 2018). Inoltre gli atti depositati dal comune cui la sentenza fa riferimento non includerebbero alcun verbale di sopralluogo e riguarderebbero un diverso procedimento. Ripropone la censura di difetto di motivazione in quanto, a suo dire, il riferimento ad altri atti o documenti contenuto nell'ordinanza non sarebbe stato reso intellegibile mediante la doverosa allegazione degli atti richiamati. Contesta che, al fine di individuare l'area abusivamente occupata, possa tornare utile la relazione tecnica depositata in atti dal comune il 19 novembre 2018 redatta dalla responsabile della Pianificazione edilizia e ambiente, relativa al diverso procedimento che ha condotto alla revoca dell'autorizzazione amministrativa oggetto di separato ricorso, non essendo tale relazione agli atti del procedimento che ha condotto all'ordinanza di sgombero: si tratterebbe, dunque, di motivazione postuma inammissibile. Senza prestare acquiescenza a detta allegazione postuma, l'appellante osserva, in ogni caso, che dalla stessa parrebbe che l'occupazione demaniale abusiva ivi descritta sia connessa al mancato rispetto della fascia di rispetto della strada statale SS 16 e dell'area ove insiste il bocciodromo: nel precisare che tale area non è triangolare e non è ricompresa in una fascia di mq 460, fa presente che il camping vanta un regolare contratto per l'utilizzo delle aree lungo tutto la fascia stradale (concessione ANAS prot. 11378/1994). Inoltre sostiene che la fascia di rispetto sarebbe di 5 metri e risulterebbe rispettata anche per il bocciodromo. Contesta che sia stato eseguito un sopralluogo e fa presente che, in ogni caso, lo stesso sarebbe dovuto avvenire in contraddittorio con la titolare del diritto di superficie, e con i vari proprietari dell'area costituente il campeggio Europa. Inoltre contesta che vi siano opere abusive e che vi sia stato sconfinamento e, sul punto, torna a richiamare gli atti di provenienza della proprietà . Lamenta l'omessa pronuncia, da parte del Tar, sulla richiesta di verificazione che accertasse la demanialità o meno dell'area in questione. Sostiene che l'ordinanza ex art. 35 del testo unico dell'edilizia possa essere legittimamente adottata soltanto nei confronti del responsabile dell'abuso, a differenza di quella di cui all'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001, che può essere adottata, oltre che nei confronti del responsabile dell'abuso, anche nei confronti del proprietario non responsabile. 5. Il Comune di (omissis) ha ribadito l'eccezione, già sollevata in primo grado, di inammissibilità del ricorso introduttivo per omessa notifica alle altre amministrazioni interessate, coinvolte nell'accertamento che ha condotto all'emanazione dell'ordinanza impugnata (e i cui atti si censurano anche nell'appello), ovvero l'Ufficio circondariale marittimo di (omissis) e l'Agenzia del demanio di Pescara; in ogni caso ha dedotto l'infondatezza dell'appello e del ricorso introduttivo osservando che le censure dell'appellante non sarebbero idonee a incidere sulla correttezza della sentenza impugnata. La controinteressata Tu. Fu. s.r.l. - proprietaria di due sezioni di terreno (p.lla (omissis) sub (omissis) e p.lla (omissis) e p.lla (omissis) sub (omissis)) direttamente confinanti con l'area demaniale marittima indebitamente occupata dall'appellante, nonché del complesso alberghiero denominato "Hotel Ex.", ai cui clienti, a causa di tale abusiva occupazione, è precluso di accedervi liberamente e di raggiungere non solo la spiaggia, ma anche la porzione di sua concessione in corrispondenza di quella zona - ha eccepito l'inammissibilità del ricorso introduttivo chiedendone comunque la conferma di rigetto. In punto di fatto ha ricordato che l'area demaniale marittima di che trattasi è ricompresa all'interno del sito di interesse comunitario denominato "Marina di (omissis)" che, con legge regionale dell'Abruzzo n. 5 del 30 marzo 2007 è divenuta anche riserva naturale regionale, ove sono presenti le ultime formazione dunali della costa abruzzese di notevole valenza naturalistica e delle rarissime specie vegetali e animali in via estinzione, la cui integrità rischia di essere definitivamente pregiudicata nel caso in cui l'indebita occupazione dovesse protrarsi ulteriormente. In diritto fa presente che sarebbe illegittima non solo l'occupazione dell'anzidetta area demaniale marittima, ma l'intero campeggio, poiché - come accertato a seguito di ulteriori sopralluoghi eseguiti sempre dall'Ufficio circondariale marittimo di (omissis) congiuntamente all'Agenzia del demanio e all'ufficio urbanistica del Comune di (omissis) - la pressoché totalità delle strutture ivi esistenti sono prive di qualsiasi titolo abilitativo e ricadenti all'interno della fascia di inedificabilità assoluta del locale torrente "Bu." e di quella di rispetto della S.S. 16 Adriatica. 6. Si può prescindere dall'esame delle eccezioni preliminari, essendo l'appello infondato. Come rilevato dal Tar non è ravvisabile il dedotto difetto di istruttoria. Nel corso del procedimento avviato a seguito dell'accertamento compiuto dall'Ufficio circondariale marittimo, l'appellante il 5 aprile 2019 ha formulato le proprie osservazioni dimostrando di avere compreso quale fosse l'area a cui faceva riferimento l'ufficio, invocando una situazione "consolidata da tempo" e chiedendo la sospensione del procedimento essendo in corso accertamenti nell'ambito di non meglio identificate istanze di sanatoria presentate; non ha invece fornito alcune documentazione per smentire quanto accertato dall'ufficio. Nel corso dei sopralluoghi congiunti svolti, nei giorni 26 settembre 2018 e 9 ottobre 2018, dal Settore urbanistica del comune, dall'Ufficio circondariale marittimo e dall'Agenzia delle dogane, sono stati rilevati due profili di illegittimità : ossia una serie di irregolarità edilizie e l'occupazione di area non riconducibile a quelle indicate in progetto. Sono seguite, dunque, due attività provvedimentali: l'una diretta allo sgombero dell'area demaniale illegittimamente occupata e alla rimozione delle opere edilizie abusive ivi insistenti e una diretta alla revoca dell'autorizzazione del 21 giugno 1993 per lo svolgimento dell'attività di campeggio. Il presente giudizio riguarda la prima delle indicate attività che, al pari della seconda, risulta ben esplicata nella relazione tecnica a firma del responsabile della Pianificazione edilizia e ambiente del comune in cui, dopo aver elencato i titoli rilasciati e le richieste di sanatoria, si conclude che "Dall'esame delle pratiche sopra richiamate si evince che, ad oggi, il Campeggio non dispone di alcun titolo autorizzatorio, ed è, pertanto interamente abusivo, fatta salva la definizione dei condoni richiesti". Nella relazione si dà atto che non è stato possibile effettuare un rilievo puntuale dei manufatti esistenti e non autorizzati, a causa dell'assenza dei titolari delle aree. All'esito di tali verifiche è emerso anche che "Alcune delle opere abusive (bocciodromo e suo ampliamento) insistono sulla proprietà Demanio dello Stato ramo Strade, mentre le stesse strutture abusive descritte al punto 3°, ricadono, in parte nella fascia di rispetto della Strada Statale SS 16 (30 metri)...". A ciò è conseguita da una parte la diffida alla demolizione delle opere abusive, inviata a tutti i soggetti proprietari del camping, e le successive ordinanze di demolizione e di ripristino (nn. 120, 121, 144, 145, 213, 214 del 21 maggio 2019) e, dall'altra, l'ordinanza di sgombero dell'area demaniale per cui è causa, inviata al sig. Ma. Ni., quale legale rappresentante della ditta Ca. Eu.. Quindi l'ordinanza di sgombero è stata adottata all'esito dell'unica attività istruttoria, riguardante i due evidenziati profili di illegittimità, pertanto non coglie nel segno la doglianza per cui gli atti su cui si fonda l'ordinanza sarebbero riferibili ad un diverso procedimento. A ciò deve aggiungersi che tale provvedimento ha natura doverosa e vincolata e va emesso sulla base del mero accertamento di fatto dell'occupazione sine titulo, nel caso di specie sostanzialmente incontestato, sicchè anche sotto tale profilo non è configurabile il dedotto difetto di istruttoria né è richiesta una particolare motivazione. Né, a fronte dell'illegittima occupazione di beni demaniali, può rilevare il tempo trascorso non essendo configurabile alcun affidamento "legittimo" a fronte di una occupazione chiaramente "illegittima", protrattasi per mera inerzia dell'amministrazione. Il provvedimento impugnato nel presente giudizio è finalizzato allo sgombero e al ripristino dell'area demaniale, sicchè lo stesso legittimamente è adottato nei confronti del soggetto che abbia la materiale disponibilità dell'area: pertanto è irrilevante che, in ipotesi, l'occupazione sia avvenuta prima che lo stesso assumesse la gestione del campeggio. Nel caso di specie si sovrappongono i due rilevati profili di illegittimità : l'occupazione abusiva di area demaniale e la realizzazione sulla stessa di opere abusive. In caso di abuso realizzato su suolo di proprietà pubblica, operando la regola dell'accessione, non si pone un'esigenza di coinvolgimento di chi ha la materiale disponibilità del bene, che in alcun modo può ostacolare il ripristino dello stato di un luogo che non gli appartiene; al contrario, se l'abuso è stato realizzato su proprietà privata, e il responsabile dello stesso non è reperibile, in quanto ad esempio neppure più in vita, ovvero, più banalmente, è venuto meno ogni suo rapporto con il bene, il coinvolgimento del proprietario è indispensabile per accedere allo stesso, consentendogli anche, in via preferenziale, di demolire spontaneamente, ove preferisca evitare l'esecuzione d'ufficio (Cons. Stato, sez. II, 15 novembre 2023, n. 9799). Dunque, stante la stretta connessione tra i due accertati profili di abusività, non coglie nel segno nemmeno l'ulteriore censura con cui l'appellante sostiene che l'unico legittimato passivo contemplato dall'art. 35, del d.P.R. n. 380/2001 sarebbe il responsabile dell'abuso e non anche i soggetti che a qualunque titolo acquistino successivamente la disponibilità dell'area demaniale. L'art. 35 del testo unico dell'edilizia, utilizzando il riferimento al solo "responsabile" dell'abuso, ha chiaramente a mente che il responsabile non può in alcun modo divenire proprietario, in quanto, appunto, ha costruito su suolo pubblico. Da qui la piana soluzione interpretativa secondo la quale "nella particolare ipotesi relativa alla sanzione degli abusi realizzati sul demanio e sui beni appartenenti al patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il proprietario è esonerato totalmente dal coinvolgimento nel procedimento sanzionatorio. In questi casi specifici le sanzioni demolitorie possono essere legittimamente irrogate unicamente nei confronti del responsabile dell'abuso" (Cons. Stato, sez. VI, 4 maggio 2015, n. 2211): questo è il senso da attribuire, in fattispecie di questo tipo, alla nozione di "responsabile". Quantunque non riproposta ma meramente menzionata, anche la censura concernente le risultanze catastali è infondata atteso che secondo un consolidato orientamento, ai fini della determinazione dell'effettiva proprietà del bene, alle risultanze catastali "non può essere riconosciuto un definitivo valore probatorio, bensì una valenza meramente sussidiaria rispetto a quanto desumibile dagli atti traslativi" (Cons. Stato, Sez. II, 27 dicembre 2023, n. 11249). Infine si deve convenire con il Tar che la nota di trascrizione prodotta, assai risalente, non presenta elementi di tale specificità e chiarezza idonei a suffragare le tesi dell'appellante che, pertanto, risultano del tutto indimostrate e infondate. Conclusivamente, per quanto precede, esaminate tutte le censure pertinenti, che esauriscono il tema dedotto in giudizio, l'appello deve essere respinto. 7. Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante alla rifusione delle spese del presente grado di giudizio, nella misura di Euro 2.000,00 (duemila) in favore di ciascuna parte costituita, oltre oneri di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8334 del 2023, proposto da: Ca. Eu. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ca. Pe. e Cr. Be., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ni. Za., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; nei confronti Tu. Fu. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Co. e Gi. Gi., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; Ni. Co., non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo, sezione staccata di Pescara, n. 96/2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e di Tu. Fu. s.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore il Cons. Laura Marzano; Nessuno presente per le parti nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La società appellante ha impugnato la sentenza del 20 febbraio 2023, n. 96 con cui il Tar Abruzzo, sezione staccata di Pescara, ha respinto il ricorso proposto per l'annullamento dell'ordinanza n. 25216 del 2 maggio 2019, di revoca dell'autorizzazione del 21 giugno 1993 per lo svolgimento dell'attività di campeggio, e per la condanna dell'amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti. Il Comune di (omissis) si è costituito con atto formale. La controinteressata, Tu. Fu. s.r.l. si è costituita depositando memoria difensiva e documentazione ed ha chiesto la reiezione dell'appello. In vista della trattazione, il comune e la controinteressata hanno depositato memorie conclusive, alle quali l'appellante ha replicato con memoria del 7 maggio 2024. Con separati atti tutte le parti costituite hanno chiesto la decisione della causa sugli scritti. All'udienza pubblica del 28 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 2. L'appellante, gestore di un campeggio in (omissis), lungo la SS (omissis), ha impugnato in primo grado il suindicato provvedimento censurandolo per violazione del d.P.R. n. 380 del 2001, dell'art. 3 della legge n. 287 del 1991, della legge regionale n. 16 del 2003, dei principi di buon andamento, di imparzialità, di affidamento incolpevole, di proporzionalità e ragionevolezza nonché per eccesso di potere sotto il profilo del difetto di presupposti, di istruttoria e di motivazione, dello sviamento. In particolare ha fatto presente che i procedimenti di condono non erano ancora definiti; che il primo riguardava n. 8 bungalows più il bar, il secondo n. 3 bungalows, la guardiola, la centrale idrica, la pista da ballo, la bocciofila, il terzo la superficie abusiva di mq. 270 di cui alla particella (omissis), il quarto la superficie abusiva di mq. 240 di cui alla particella (omissis); che in ogni caso i bungalows e la bocciofila erano stati rimossi; che i rimanenti abusi attenevano unicamente ai profili di ubicazione e sagoma di scarso rilievo; che vi era comunque stato l'accatastamento dei locali nello stato di fatto attuale; che si era ingenerato un affidamento incolpevole discendente dalla risalenza dei lavori a circa 44 anni prima, eseguiti poi dal precedente gestore. La società ha sostenuto inoltre che sarebbe improprio in ogni caso definire le opere abusive, in pendenza del procedimento di condono; che non sarebbero motivate nè la misura afflittiva né il rigetto della richiesta di proroga, tenuto conto poi che la struttura è dotata del titolo di agibilità ; che una ridotta porzione del campeggio era stata restituita alla proprietaria Tu. e Fu. s.r.l., tuttavia non rilevante e incidente sulla conformazione complessiva del campeggio medesimo; che in definitiva la misura assunta sarebbe sproporzionata. La società ha anche chiesto la condanna dell'amministrazione al risarcimento dei danni: di quello economico, essendo già state raccolte le prenotazioni per la stagione estiva, e di quello non patrimoniale, per la campagna denigratoria della stampa. 3. Il Tar ha respinto il ricorso osservando in sintesi: che l'ordinanza impugnata risulta emessa a seguito di articolata, approfondita e dettagliata fase istruttoria e nel pieno rispetto del contraddittorio procedimentale; che numerosi risultano gli abusi realizzati, con occupazione di aree di soggetti terzi, private e pubbliche demaniali, sottoposte a vari vincoli di tutela (fasce di rispetto, vincoli ambientali); che un ridotto numero degli abusi era oggetto di domande di condono, in parte già respinte, in parte ancora non definite per la mancata produzione della documentazione necessaria per il loro riscontro, con altri abusi già oggetto di ordinanze di demolizione o di procedimenti avviati per l'assunzione di analoghe misure repressive; che, a fronte di ciò, non può assumere rilievo l'asserita rimozione di alcune opere; che gli abusi consistenti in differente ubicazione e sagoma non possono comunque essere considerati di minore impatto nel contesto surriportato; che l'accatastamento dei locali abusivi non può valere per ciò solo e in ogni caso a sanare i profili abusivi degli stessi, consistendo lo stesso in una mera registrazione e catalogazione degli immobili, a fini preminentemente fiscali; che nessun affidamento incolpevole poteva essere maturato in capo alla ricorrente, ben consapevole almeno di parte degli abusi, avendo presentato per gli stessi domanda di condono; che l'atto impugnato risulta corredato di congrua e adeguata motivazione; che non è irragionevole il mancato accoglimento della richiesta di proroga, proprio perché le domande di condono pendenti riguardavano una minima parte degli abusi; che, a fronte degli accertati abusi, non poteva rilevare un precedente titolo di agibilità ; che l'asserita restituzione di una ridotta parte del campeggio al legittimo terzo proprietario non poteva valere a rendere conforme alla disciplina vigente il complesso della struttura; che la misura assunta, alla luce delle plurime illegittimità riscontrate e di varia matrice, anche in tema di sicurezza, non appare all'evidenza sproporzionata. 4. L'appello è affidato ai seguenti motivi. 1) "Error in judicando. Violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della Legge 7.8.1990, n. 241". Diversamente da quanto affermato in sentenza, l'intero procedimento sarebbe affetto da difetto di istruttoria, infatti l'amministrazione si sarebbe espressa, in plurimi passaggi, in termini dubitativi circa le circostanze fattuali che hanno condotto a qualificare come "interamente abusivo" il campeggio in questione e, di conseguenza, revocare l'autorizzazione amministrativa rilasciata in favore della s.r.l. Ca. Eu.. Inoltre nella stessa ordinanza impugnata sarebbe rinvenibile l'incertezza degli accadimenti laddove, a proposito delle iniziative promosse da un proprietario di una parte dei terreni per ottenerne il rilascio, si rileva che la sua restituzione determinerebbe un mutamento dello stato di fatto del campeggio "tanto da porre dubbi circa il fatto che la sua conformazione - dopo la restituzione di una parte del terreno - attualmente rispetti la normativa regionale che regola tale comparto delle strutture ricettive", ciò senza che: sia indicata la specifica porzione immobiliare che dovrebbe essere rilasciata; siano indicate le norme violate; sia precisata la ragione per la quale l'eventuale restituzione dell'area al legittimo proprietario possa incidere sul rispetto dei parametri urbanistici. Inoltre l'amministrazione avrebbe ignorato un fatto, il rilascio di parte dell'area al legittimo proprietario, che era stato già introdotto in sede procedimentale, in tal modo vanificando l'apporto partecipativo della società : da ciò emergerebbe anche la violazione dell'obbligo motivazionale. 2) "Error in judicando. Violazione e falsa applicazione degli artt. 30 e ss. del d.P.R. 6.6.2001, n. 380. Violazione e falsa applicazione dell'art. 21 della L.R. Abruzzo 23.10.2003, n. 16". L'appellante contesta il capo della sentenza in cui il campeggio viene definito interamente abusivo e osserva che, nel provvedimento impugnato, è lo stesso comune che, dopo aver qualificato il campeggio come "interamente abusivo", soggiunge: "fatta salva la presentazione di alcune istanze di condono ancora in fase di istruttoria", affermazioni contenute anche nella relazione del 19 novembre 2018, a firma del responsabile della Pianificazione edilizia e ambiente, integralmente richiamata e recepita dall'ordinanza impugnata, nella quale ogni condono presentato dalla società appellante viene qualificato come "non definito in corso di istruttoria". Quindi lo stigma di "abusività ", che l'amministrazione ha assegnato all'intero insediamento, non sarebbe connotato da carattere di definitività . Osserva, inoltre, che laddove sia stata presentata un'istanza di concessione in sanatoria o di condono edilizio, in assenza di preventiva determinazione su quest'ultima e in pendenza del relativo procedimento, gli eventuali provvedimenti repressivi devono considerarsi sospesi e, se adottati in presenza di condono, sono da considerarsi illegittimi, quindi il comune non potrebbe revocare l'autorizzazione commerciale senza preventivamente pronunciarsi in senso negativo sull'istanza di sanatoria. Obietta che, se fosse vero che la società richiedente non abbia ottemperato alle richieste di integrazione documentale, sarebbe stato agevole per l'amministrazione definire negativamente i procedimenti in questione, ma così non è stato. In ogni caso, al netto delle opere interessate dalle richieste di condono, gli unici abusi che vengono in rilievo riguarderebbero le difformità dalla licenza edilizia del 1975 (4 bungalow, un fabbricato, il deposito servizi) e il bocciodromo costruito nella fascia demaniale. Si tratterebbe, tuttavia, di interventi di modesta rilevanza, considerato che i due bungalow sono successivamente stati rimossi, mentre le ulteriori difformità edilizie riguardano la diversa ubicazione e la diversità di sagoma, sicchè non vi sarebbero variazioni essenziali. Anche alla luce di tali considerazioni il sacrificio imposto alla società con il provvedimento impugnato sarebbe in contrasto con i principi di proporzionalità, buon andamento e ragionevolezza dell'azione amministrativa. 3) "Error in judicando. Violazione e falsa applicazione del principio di buona fede di cui all'art. 1, comma 2bis, della Legge 7.8.1990, n. 241 e di cui all'art. 1375 c.c.". L'appellante contesta la sentenza nella parte in cui ha escluso la sussistenza del legittimo affidamento osservando che le opere asseritamente abusive sarebbero state eseguite da parte di terzi, la realizzazione del campeggio risale al 1975 mentre l'appellante ne amministra l'attività a partire dal 1993 e deduce la sua ignoranza incolpevole in quanto sia le ordinanze di demolizione, sia i provvedimenti con cui sono state respinte le istanze di condono non sarebbero state prodotte nel giudizio di primo grado ovvero sarebbero state prodotte senza fornire la prova dell'avvenuta notificazione ai rispettivi destinatari. 5. Il Comune di (omissis) ha innanzitutto eccepito l'inammissibilità del primo motivo di appello, in quanto sostanzialmente "rimaneggiato" rispetto a quanto dedotto in primo grado e, perciò, formulato in violazione del divieto di nova in appello; in ogni caso ne ha dedotto l'infondatezza, al pari degli altri motivi. La controinteressata Tu. Fu. s.r.l. - proprietaria del complesso alberghiero denominato "Hotel Ex." confinante con il campeggio - ha ribadito l'eccezione, già sollevata in primo grado, di inammissibilità del ricorso introduttivo per omessa notifica alle altre amministrazioni interessate, coinvolte nell'accertamento che ha condotto all'emanazione dell'ordinanza impugnata nonché per altri profili; in ogni caso ha dedotto l'infondatezza dell'appello e del ricorso introduttivo osservando che le censure dell'appellante non sarebbero idonee a incidere sulla correttezza della 6. Si può prescindere dall'esame delle eccezioni preliminari, essendo l'appello infondato. I tre motivi possono essere esaminati congiuntamente seguendo un unico ordine logico. Come rilevato dal Tar non è ravvisabile il dedotto difetto di istruttoria che l'appellante ascrive all'operato dell'amministrazione in conseguenza di una lettura "atomistica" degli atti che nell'insieme hanno condotto all'emanazione del provvedimento comunale impugnato. A ben vedere, nella vicenda per cui è causa le diverse amministrazioni coinvolte hanno rilevato una serie di abusi edilizi che non risultano sconfessati né dalle deduzioni dell'appellante né dalla pendenza di istanze di condono, tanto che in ordine alla reiezione di alcune di esse l'appellante si spinge a sostenere di averle ignorate incolpevolmente in quanto l'amministrazione non avrebbe accluso la prova della avvenuta notifica. Ciò posto, le censure riguardanti la presunta doverosità di sospendere il procedimento in attesa della definizione delle istanze di condono esulano dal perimetro del presente giudizio il quale ha ad oggetto non già l'ordinanza di demolizione bensì la revoca dell'autorizzazione del 21 giugno 1993 per lo svolgimento dell'attività di campeggio, la quale si fonda sull'intervenuto accertamento di plurime violazioni, tra le quali quelle edilizie. Il procedimento è stato avviato a seguito di una serie di accertamenti in cui sono stati rilevati due profili di illegittimità : ossia una serie di irregolarità edilizie e l'occupazione di aree demaniali e private. Sono seguite, dunque, due attività provvedimentali: l'una diretta allo sgombero dell'area demaniale illegittimamente occupata e alla rimozione delle opere edilizie abusive ivi insistenti e una diretta alla revoca dell'autorizzazione del 21 giugno 1993 per lo svolgimento dell'attività di campeggio. Il presente giudizio riguarda la seconda delle indicate attività che, al pari della prima, risulta ben esplicata nella relazione tecnica a firma del responsabile della Pianificazione edilizia e ambiente del comune in cui, dopo aver elencato i titoli rilasciati e le richieste di sanatoria, si conclude che "Dall'esame delle pratiche sopra richiamate si evince che, ad oggi, il Campeggio non dispone di alcun titolo autorizzatorio, ed è, pertanto interamente abusivo, fatta salva la definizione dei condoni richiesti". Nella relazione si dà atto che non è stato possibile effettuare un rilievo puntuale dei manufatti esistenti e non autorizzati, a causa dell'assenza dei titolari delle aree. All'esito di tali verifiche è emerso anche che "Alcune delle opere abusive (bocciodromo e suo ampliamento) insistono sulla proprietà Demanio dello Stato ramo Strade, mentre le stesse strutture abusive descritte al punto 3°, ricadono, in parte nella fascia di rispetto della Strada Statale SS 16 (30 metri)...". A ciò è conseguita da una parte la diffida alla demolizione delle opere abusive, inviata a tutti i soggetti proprietari del camping, e le successive ordinanze di demolizione e di ripristino (nn. 120, 121, 144, 145, 213, 214 del 21 maggio 2019) e, dall'altra, l'ordinanza di sgombero dell'area demaniale occupata, inviata al sig. Ma. Ni., quale legale rappresentante della ditta Ca. Eu., nonché l'ordinanza di revoca dell'autorizzazione del 21 giugno 1993 per lo svolgimento dell'attività di campeggio, impugnata nel presente giudizio. Tale ultima ordinanza è stata adottata all'esito dell'unica complessa attività istruttoria, riguardante i due evidenziati profili di illegittimità . L'amministrazione ha segnalato nell'ordinanza che alcuni terreni sono in proprietà della società e altri condotti in locazione; che sono state realizzate opere abusive anche su area demaniale illegittimamente occupata; che è stato avviato il procedimento per la demolizione delle opere abusive con nota n. 67112 del 18 dicembre 2018; che risultavano presentate dal privato alcune domande di condono edilizio, ancora in fase istruttoria, non essendo stata prodotta tutta la documentazione a corredo, necessaria per un loro riscontro; che alcuni fabbricati insistono sulla fascia di rispetto stradale, altri sono localizzati su suolo demaniale, altri ancora sono stati oggetto di diniego di condono, perché in contrasto con la destinazione a parcheggio del PRG dell'epoca, ulteriori risultano difformi dai titoli autorizzatori per ubicazione e sagoma; che in data 22 marzo 2019 è stato avviato il procedimento di revoca dell'autorizzazione nei confronti sia di Ca. Eu. s.r.l. sia di Ne. Vi. Eu. s.a.s., palesatasi in un dato momento come gestore senza titolo; che in definitiva gli abusi sono tanti e tali da incidere sulla conformazione complessiva del campeggio, da considerarsi dunque in toto abusivo; che Ca. Eu. s.r.l., in sede di osservazioni controdeduttive, ha chiesto una proroga dei termini di revoca, in attesa della definizione delle domande di condono edilizio pendenti; che le domande di condono riguardano tuttavia una minima parte degli abusi e che per gli altri o sono già state emesse ordinanze di demolizione o comunque sono stati avviati i procedimenti per la loro rimozione; che inoltre è stata anche emessa ordinanza n. 150 del 18 aprile 2019 di sgombero di un'area di mq. 460 di demanio marittimo, occupata abusivamente, con obbligo di ripristino dello stato dei luoghi; che il 20 aprile 2019 si è proceduto a sopralluogo di verifica unitamente al personale del Commissariato di pubblica sicurezza di (omissis), con accertamento di plurime infrazioni in materia di disciplina sulla sicurezza; che Ne. Vi. Eu. s.a.s. si è dichiarata estranea alla gestione del campeggio, pur esercitando attività ricettiva di campeggio nella struttura. Dunque, come correttamente rilevato nella sentenza impugnata, l'ordinanza impugnata risulta emessa a seguito di articolata, approfondita e dettagliata fase istruttoria, come risulta dalle relazioni comunali n. 16906 del 21 marzo 2019 e n. 23629 del 23 aprile 2019, dalla relazione Commissariato di pubblica sicurezza del 24 aprile 2019. Quelle rilevate sono plurime irregolarità, riconducibili a diversi aspetti, illegittima occupazione di aree pubbliche e private, gravi mancanze in tema di sicurezza e svariati abusi edilizi, alcuni dei quali anche su area demaniale abusivamente occupata. Il profilo dei plurimi abusi edilizi rappresenta soltanto una delle motivazioni poste alla base dell'ordinanza impugnata, con la conseguenza che, per inciso, appare fondata l'eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla controinteressata, laddove osserva che gli altri capi del provvedimento plurimotivato non sono stati censurati. Ciò posto, il Collegio rileva che le violazioni riscontrate sono talmente tante e di tale gravità da rendere pienamente legittimo l'atto di revoca dell'autorizzazione amministrativa allo svolgimento dell'attività di campeggio. Perde di rilievo, pertanto, la censura secondo cui la pendenza dei procedimenti di sanatoria non avrebbe potuto consentire al comune l'adozione del provvedimento impugnato dal momento che, come rilevato, il profilo degli abusi edilizi è soltanto uno dei motivi posti alla base dello stesso né può assumere rilievo l'asserita rimozione di alcune opere o la circostanza che alcuni abusi consistano in differente ubicazione e sagoma non possono comunque essere considerati di minore impatto nel contesto surriportato, né che i locali abusivi siano stati accatastati, dal momento che l'accatastamento, che è una mera dichiarazione di parte, non può sopperire alla mancanza del titolo edilizio. A fronte di una tale e composita situazione di illegittimità non è configurabile alcun affidamento del privato che possa qualificarsi come "legittimo", segnatamente con riferimento agli aspetti edilizi. L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 17 ottobre 2017 n. 9, ha affermato il seguente principio di diritto "il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino". La sentenza inoltre conferma che la demolizione di opere edilizie abusive può essere disposta nei confronti del proprietario attuale dell'opera (o di chi ne abbia la disponibilità ), anche se non abbia avuto alcuna parte della commissione dell'abuso (orientamento già espresso da Cons. Stato, sez. VI, 26 luglio 2017, n. 3694). D'altra parte è stato condivisibilmente osservato che la mera presentazione dell'istanza di condono non può ritenersi inidonea e sufficiente a consentire l'esercizio dell'attività nei locali oggetto dell'istanza stessa. Infatti, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, nel rilascio dell'autorizzazione commerciale occorre tenere presente i presupposti aspetti di conformità urbanistico-edilizia dei locali in cui l'attività commerciale si va a svolgere, con l'ovvia conseguenza che il diniego di esercizio di attività di commercio deve ritenersi senz'altro legittimo ove fondato su rappresentate e accertate ragioni di abusività dei locali nei quali l'attività commerciale viene svolta (cfr., tra le altre, Cons. Stato, sez. V, 8 maggio 2012, n. 5590; id. sez. IV, 14 ottobre 2011 n. 5537). Il legittimo esercizio dell'attività commerciale è pertanto ancorato, non solo in sede di rilascio dei titoli abilitativi, ma anche per la intera sua durata di svolgimento, alla iniziale e perdurante regolarità sotto il profilo urbanistico-edilizio dei locali in cui essa viene posta in essere, con conseguente potere-dovere dell'autorità amministrativa di inibire l'attività commerciale esercitata in locali rispetto ai quali siano stati adottati provvedimenti repressivi che accertano l'abusività delle opere realizzate ed applicano sanzioni che precludono in modo assoluto la prosecuzione di un'attività commerciale (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23 ottobre 2015, n. 4880). La regolarità urbanistico edilizia dell'opera, pertanto, condiziona l'esercizio dell'attività commerciale al suo interno anche perché ritenere il contrario comporterebbe elusione delle sanzioni previste per gli illeciti edilizi. La stretta connessione tra materie del commercio e dell'urbanistica ha indotto il legislatore a indicare il medesimo fatto quale presupposto per l'esercizio di poteri propri sia della materia dell'urbanistica, sia di quella del commercio, con la conseguente inibizione, per l'autorità amministrativa, di assentire l'attività nel caso di non conformità della stessa alla disciplina urbanistico - edilizia (cfr. Cons. Stato, V, 17 ottobre 2002, n. 5656 e 28 giugno 2000, n. 3639). E' stato così superato il precedente indirizzo giurisprudenziale che affermava l'illegittimità del diniego di autorizzazione commerciale (o di ampliamento o di trasferimento dell'esercizio) per ragioni di ordine urbanistico, sul presupposto che l'interesse pubblico nella materia del commercio fosse di diversa natura ed implicasse perciò criteri valutativi differenti (cfr. Cons. Stato, V, 21 aprile 1997, n. 380): il revirement giurisprudenziale si fonda su un criterio di ragionevolezza e sul principio costituzionale di buona amministrazione per cui non è tollerabile l'esercizio dissociato, addirittura contrastante, dei poteri che fanno capo allo stesso ente per la tutela di interessi pubblici distinti, specie quando tra questi interessi sussista un obiettivo collegamento, come è per le materie dell'urbanistica e del commercio (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29 maggio 2018, n. 3212). Conclusivamente, per quanto precede, esaminate tutte le censure pertinenti, che esauriscono il tema dedotto in giudizio, l'appello deve essere respinto. 7. Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante alla rifusione delle spese del presente grado di giudizio, nella misura di Euro 2.000,00 (duemila) in favore di ciascuna parte costituita, oltre oneri di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per l' Abruzzo sezione staccata di Pescara Sezione Prima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 218 del 2022, proposto da Al. Mo., rappresentato e difeso dall'avvocato Pi. Tr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pa. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l'annullamento del provvedimento del Comune di (omissis) (prot. n. 1595) del 22.06.2022 (doc. 1), notificato in data 7.07.2022 a mezzo raccomandata A/R, che dispone la revoca dell'autorizzazione n. 1/2013 per il noleggio auto con conducente rilasciata da detto Comune al Sig. Mo. e di tutti gli atti presupposti, connessi e consequenziali Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 aprile 2024 il dott. Massimiliano Balloriani e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO Considerato che: -la parte ricorrente ha impugnato il provvedimento di revoca dell'autorizzazione NCC adottato dal Comune di (omissis); - nel ricorso si espongono le seguenti ragioni di censura: - la violazione dell'articolo 11 del Regolamento comunale, approvato con delibera del 7.11.2006, in materia NCC, rubricato "Revoca della autorizzazione", laddove prevede in tal caso l'obbligo di sentire prima "le locali organizzazioni di categoria del settore autonoleggio...quando l'attività non risulti mantenuta nelle condizioni corrispondenti agli obblighi fissati per l'esercizio stesso"; - la violazione del comma 2 dello stesso art. 11, laddove prevede che "Il provvedimento di revoca dell'autorizzazione comunale di esercizio deve essere preceduto dalla contestazione degli addebiti da comunicarsi in due successive diffide notificate, a termini di legge, a distanza non inferiore e 30 gg. l'una dall'altra"; - la violazione del comma 3 dell'art. 11, il quale prevede che "In caso di giustificazione dopo la prima diffida, con la seconda l'autorità comunale è tenuta ad indicare le motivazioni di rigetto delle giustificazioni prodotte"; - in virtù della normativa dettata in occasione della pandemia Covid 19 il ricorrente avrebbe dovuto beneficiare della proroga dell'autorizzazione pur in mancanza dei requisiti; - la revoca è intervenuta su istanza dell'Anar (associazione noleggiatori area metropolitana di Roma), ma tale istanza sarebbe manifestazione di un comportamento ostruzionistico e anticoncorrenziale, dunque trasmetterebbe per connessione funzionale la propria antigiuridicità anche al provvedimento finale; - siccome le limitazioni territoriali previste dalla L. 21/1992 non potrebbero trovare applicazione nei confronti di cittadini di altri stati membri Ue, non sarebbe lecito applicare tali disposizioni a quelli italiani, creando una disparità di trattamento; - dopo l'intervento dalla sentenza della Corte Costituzionale 26 marzo 2020, n. 56, ai sensi della legge 21 del 1992 il servizio non deve necessariamente iniziare a terminare presso l'autorimessa sita nel Comune che ha rilasciato l'autorizzazione; - vi sarebbe in ogni caso la prova di un solo servizio svolto in Roma nel febbraio 2019 e non di un'attività ivi svolta stabilmente; - il ricorrente chiede inoltre la condanna del Comune al risarcimento del danno, che, a suo dire, essendo riconducibile alla perdita di clientela, quindi al paradigma della concorrenza sleale, non necessiterebbe di prova specifica; - nelle more della decisione è stata respinta la ordinanza cautelare, ed è stato respinto dal Consiglio di Stato l'appello avverso tale provvedimento interinale; - alla udienza del 19 aprile 2024 la causa è passata in decisione; - preliminarmente, il Collegio rileva che sussiste la legittimazione in capo alla parte ricorrente, nonché l'interesse ad agire; - pur avendo la medesima ceduto a un soggetto collettivo terzo la facoltà di esercizio delle attività previste da detta autorizzazione, la legittimazione del cedente permane con la titolarità, che deve ritenersi rimasta in campo al medesimo, come si evince dal fatto che lo stesso Comune, nella nota 529 del 20 febbraio 2024, afferma che la revoca dell'autorizzazione è stata indirizzata al titolare An. Mo. e solo per conoscenza alla Ro. Tr. St. Li., cessionaria; - il ricorso è infondato; - dagli atti di causa emerge che l'Amministrazione ha fornito numerosi elementi probatori idonei a dimostrare l'assenza dello stazionamento della macchina del ricorrente nel territorio del Comune resistente (vedasi i vari verbali di controllo anche dopo l'avviso di avvio del procedimento dell'autorizzazione) oltre alla presenza della stessa auto in Roma, come denunciato dalla stessa Anar (denuncia che vale come mera notizia per il Comune, essendo un procedimento instaurabile d'ufficio e che quindi non risente delle ragioni per le quali un privato ha fatto la segnalazione al Comune stesso); - tali elementi sono quantomeno idonei a invertire l'onere probatorio, nel senso che sarebbe spettato al ricorrente superare, in modo dettagliato e circostanziato, tale compendio indiziario da cui si desume l'assenza di una rimessa e di una sede operativa effettive nel territorio del Comune che ha rilasciato l'autorizzazione (cfr. Tar Bolzano sentenza 118 del 2020); - il ricorrente, viceversa, si è limitato solo a invocare e ricordare in modo generico la disciplina applicabile e le deroghe consentite senza rappresentare e dimostrare i presupposti concreti della loro applicabilità al caso di specie nei singoli episodi; - quello che si contesta al ricorrente, in altri termini, è la mancata osservanza dell'articolo 3 comma 3 della legge 21 del 1992, non dichiarato incostituzionale dalla sentenza 56 del 2020 della Consulta, a mente del quale "La sede operativa del vettore e almeno una rimessa devono essere situate nel territorio del comune che ha rilasciato l'autorizzazione."; - ciò connota quel minimo vincolo di territorialità che deve legare l'operatore NCC con l'Ente locale che rilascia la licenza; - in altri termini, solo la necessità di ritornare ogni volta alla sede o alla rimessa per raccogliere le richieste o le prenotazioni colà effettuate può essere ritenuta superflua (determinando una inutile duplicazione dei costi del servizio), in quanto ritenuta non proporzionata dalla Corte Costituzionale (grazie anche alla possibilità, introdotta dalla stessa normativa statale di settore, di utilizzare gli strumenti tecnologici per le prenotazioni); nessuna deroga invece in ordine all'obbligo di disporre di una sede operativa e una rimessa effettive sul territorio (obbligo la cui violazione è invece sottolineata e documentata da parte del Comune: "le ulteriori verifiche consentivano di accertare che non risultavano agli atti dell'Ufficio neppure comunicazioni da parte della Ditta in oggetto in merito all'utilizzo di rimesse situate in altri Comuni all'interno della Provincia di Chieti ed emergeva altresì che la ditta titolare dell'autorizzazione risultava cancellata dal registro delle imprese per cessazione dell'attività in data 21/12/2015 e la licenza conferita alla RO. TR. ST. LI., che ugualmente non aveva mai utilizzato lo stallo di sosta e che svolgeva regolarmente l'attività altrove...nei verbali di sopralluogo redatti dallo stesso Responsabile dell'Ufficio Tecnico emergeva che l'area adibita a stalli di sosta risultava completamente abbandonata, vista la presenza della vegetazione sulla superficie asfaltata e il fatto che una parte dell'area risultava addirittura inibita allo stazionamento dalla presenza di materiale inerte depositato e da vegetazione infestante, a dimostrazione per l'appunto che l'area non era mai stata utilizzata da alcuno"); - permane in altri termini "l'obbligo di disporre di una sede o di una rimessa nel territorio del Comune che ha rilasciato la licenza di esercizio, atteso che ciò risponde all'esigenza "di preservare la dimensione locale di un servizio pubblico finalizzato, in primo luogo, a soddisfare le esigenze della comunità locale e di coloro che si vengano a trovare sul territorio comunale. La necessità di uno stabile collegamento dell'attività con la presenza di una rimessa ubicata all'interno del territorio dell'Ente è, quindi, coessenziale alla natura stessa dell'attività da espletare, diretta principalmente ai cittadini del Comune autorizzante cui si vuol garantire un servizio complementare e integrativo rispetto ai trasporti pubblici di linea" (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, n. 4795 del 2023); -del resto, viceversa, sganciando l'espletamento dell'attività dalla sede di appartenenza, perderebbe di significato la competenza in capo ai Comuni, quali enti territoriali, nel rilascio delle licenze in argomento, la loro dimensione locale, nonché il necessario contingentamento delle medesime (T.A.R. Ancona, sentenza168 del 2023); - è già stata inoltre risolta in senso negativo dalla giurisprudenza la questione di un possibile contrasto tra il principio di operatività territoriale delle licenze, come sopra delineato, e il TFUE (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 11 luglio 2022, n. 5756); - i requisiti richiesti (sede e rimessa territorialmente circoscritti) non costituiscono misure restrittive della concorrenza essendo "misure indistintamente applicabili" a cittadini italiani ed europei, inidonee, in quanto tali, a porre in essere qualsivoglia discriminazione: l'accesso a simili attività è consentito alle medesime condizioni richieste dall'ordinamento italiano nei confronti dei propri cittadini e di quelli europei (cfr. art. 49 TFUE); difatti, "l'attività di N.C.C. non è un'attività liberalizzata, ma soggetta ad autorizzazione" (cfr. Cons. Stato, sez. V, 1° marzo 2021, n. 1703; 21 settembre 2020, n. 4581), che viene rilasciata al ricorrere di determinati requisiti che non hanno natura "soggettiva" (es. precedenti penali, capacità finanziaria, competenze professionali, e per i quali troverebbe pacificamente applicazione il principio del c.d. home country control) ma piuttosto "oggettiva" in quanto legati a determinati standard di tipo organizzativo ("sede operativa" e "rimessa" entrambi da collocare nel territorio del comune che rilascia l'autorizzazione quali "fattori spia" di tale dimensionamento territoriale) e di tipo funzionale (relativi all'esigenza di prestare il servizio di noleggio prevalentemente all'interno del territorio provinciale di riferimento) (Consiglio di Stato sentenza 5756 del 2022); - inoltre, la sentenza della Corte di Giustizia Ue dell'8 giugno 2023 C 50/21, citata dal ricorrente, riguarda la diversa questione della imposizione di una duplice autorizzazione, prima statale e poi locale, per l'esercizio dell'attività di NCC; questione non oggetto della presente controversia; - le censure riguardanti l'omessa doppia diffida, a parere del Collegio, non valgono a connotare di illegittimità il provvedimento gravato atteso che, come documentato dal Comune e non specificamente contestato anche sul piano probatorio da parte ricorrente, pur dopo l'avviso di avvio del procedimento di revoca dell'autorizzazione (che sul piano sostanziale fornisce le medesime garanzie e la medesima consapevolezza di una diffida), il medesimo ha continuato a tenere il comportamento contestato; sicchè non appare verosimile che il medesimo (pur in concreto noncurante del procedimento sanzionatorio) avrebbe cessato la condotta all'atto della seconda diffida; - peraltro, siccome nella seconda diffida, a mente dell'articolo 11 del regolamento comunale, l'Amministrazione avrebbe dovuto confutare le ragioni esposte dal diffidato, prima di adottare il provvedimento definitivo, questa seconda garanzia può essere equiparata. sotto il profilo della partecipazione procedimentale, a una conferma dell'avvio del procedimento, la cui violazione può assumere rilievo sul piano di validità solo se la parte ricorrente prova in giudizio lacune istruttorie essenziali che sarebbero derivate dalla sua mancata piena partecipazione al procedimento, ex articolo 21 octies della legge 241 del 1990; - sotto altro profilo, tale duplicazione di forma, appare di per sé un inutile aggravamento e dunque può al più rilevare come mera irregolarità, essendo stato raggiunto pienamente lo scopo della consapevolezza e partecipazione del privato al procedimento che sanzionatorio che lo ha riguardato (Consiglio di Stato sentenza 3165 del 2018); - quanto alla omessa partecipazione delle organizzazioni di categoria, l'articolo 11 comma 1 del regolamento si riferisce alle organizzazioni locali, e dunque sarebbe stato onere di parte ricorrente indicare quali esano queste organizzazioni aventi carattere locale e che non sono state sentite, tanto più che il Comune nega la esistenza di organizzazioni di categoria locali; - quanto alla proroga delle autorizzazioni durante il periodo pandemico (a parte la circostanza che tale proroga era strettamente finalizzata a impedire decadenze direttamente collegate alle limitazioni disposte d'autorità, circostanza che nel caso di specie non è in questione; e non invece a sanare tutte le ipotesi di decadenza di carattere sanzionatorio), come evidenziato dal Comune la revoca è intervenuta in un momento successivo; - da tutto quanto sopra esposto consegue la infondatezza della domanda di annullamento e a valle, per mancanza del requisito della ingiustizia della condotta, anche della domanda di risarcimento del danno, peraltro sfornita di prova del nesso di causalità materiale e giuridica e del danno; - le spese seguono il criterio della soccombenza e sono liquidate in dispositivo P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo sezione staccata di Pescara Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in euro 2.500 complessive, oltre accessori come per legge; Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Pescara nella camera di consiglio del giorno 19 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Paolo Passoni - Presidente Massimiliano Balloriani - Consigliere, Estensore Giovanni Giardino - Referendario

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3501 del 2023, proposto da La. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Al. Lo., Mi. Pi., Pa. Pr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Chieti, non costituito in giudizio; nei confronti Co. Gr. It. S.p.A. in proprio e quale capogruppo del Rti con Fo. Se. S.r.l., rappresentata e difesa dagli avvocati Ri. Vi. e An. De. Es. con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Consorzio Ap. It. in proprio e quale Consorzio Stabile e Capogruppo del Rti, Rti - La. Società Cooperativa - Consorziata, Rti - Da. Sas di Ma. A& C - Consorziata, Rti - Ma. Cooperativa Sociale - Consorziata, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo, Sezione staccata di Pescara Sezione Prima n. 27/2023, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio ed il ricorso incidentale proposto dal ricorrente incidentale Co. Gr. It. S.p.A.; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 74 e 120, co. 10, cod. proc. amm.; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 giugno 2023 il Cons. Stefania Santoleri e uditi per le parti gli avvocati come da verbale di udienza; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. - Con bando pubblicato sulla GUCE in data 22.12.2020, il Comune di Chieti ha indetto una "Procedura aperta per l'appalto del servizio mensa scolastica presso le scuole d'infanzia, primarie e secondarie inferiori cittadine" da aggiudicare con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, ai sensi dell'art. 95 del d.lgs. n. 50/2016, con attribuzione di un massimo di 70 punti per l'offerta tecnica e di 30 punti per l'offerta economica. 2. - Con il ricorso introduttivo nel giudizio RG 70/2021, La. srl, gestore uscente del servizio, ha impugnato il bando di gara dinanzi al TAR per l'Abruzzo, Sezione staccata di Pescara, denunciando plurimi motivi di gravame, e chiedendone l'annullamento. La ricorrente ha comunque presentato domanda di partecipazione alla procedura di gara. 2.1 - All'esito della gara si sono collocati: al ° posto il R.T.I. Consorzio Ap. It. con un punteggio complessivo di 97,6363 punti, al 2° posto Co. Gr. It. S.p.a. con un punteggio complessivo di 94,6667 punti e al 3° posto il R.T.I. formato da La. S.r.l. - capogruppo mandataria e Sh Ge. S.r.l. mandante. 2.2 - Avverso l'aggiudicazione e gli atti di gara, ivi compresa l'ammissione di Co. Gr. alla procedura selettiva, la ricorrente ha proposto motivi aggiunti, con cui ha lamentato che sia la prima che la seconda classificata non avrebbero rispettato la disposizione, prevista dall'articolo 18 del disciplinare, a pena di esclusione, secondo cui "in relazione al prezzo offerto dovrà essere specificata la quota parte per la preparazione, trasporto e distribuzione dei pasti e a quota parte relativa alle spese di investimento per l'allestimento delle zone lavaggio nei refettori scolastici", riportando i relativi dati in maniera aggregata anziché analitica e scorporata. 2.2 - La ricorrente ha quindi proposto un secondo ricorso per motivi aggiunti, con cui ha integrato le censure avverso l'aggiudicazione nei confronti della prima classificata Consorzio Ap. It.. Quanto al RTI Co. Gr. ha dedotto che non vi sarebbe stata piena coincidenza tra le prestazioni che formano l'oggetto dell'appalto, elencate dall'art. 3 del disciplinare di gara, e quelle riferite nelle offerte da parte dei singoli componenti del RTI Co. Gr. It.; il RTI Co. Gr. It., infatti, nel modello D dell'offerta economica, avrebbe allegato un documento non rispettoso della previsione di cui all'art. 18 del disciplinare di gara, concernente il contenuto dell'offerta economica ("L'offerta deve essere corredata, sin dalla presentazione, delle giustificazioni relative alle voci di prezzo che concorrono a formare l'importo complessivo posto a base di gara..."). 3. - Co. Gr. It., a fronte di tale doglianza, ha proposto ricorso incidentale con il quale ha impugnato l'art. 18, 3° comma, del disciplinare su cui si basava la riferita censura escludente proposta da La., sostenendo che tale disposizione sarebbe illegittima, avendo previsto le c.d. giustificazioni preventive, originariamente introdotte dall'art. 86, 5° c., del d.lgs. 163/06, successivamente abrogate nel luglio 2009 (d.l. 78/09), e non più riproposte nel d.lgs. 50/16 vigente. 3.1 - Co. Gr. ha poi proposto motivi aggiunti al ricorso incidentale, rilevando che la ricorrente avrebbe dovuto essere esclusa in base agli artt. 94 d.lgs. 50/16 e 3, lett. a), del disciplinare, non avendo indicato, nell'offerta economica, le prestazioni previste dall'art. 3 cit. in relazione alla "sporzionatura", al "confezionamento", alla "consegna" e alla "distribuzione" dei pasti, non essendo state tali attività attribuite a nessuna delle due componenti del RTI. 3.2 - Infine, con il terzo ricorso per motivi aggiunti, La. ha impugnato il provvedimento con il quale la stazione appaltante aveva indetto una procedura negoziata, senza previa pubblicazione del bando di gara, disponendo il mancato invito del gestore uscente (e cioè della stessa La.) in applicazione del principio di rotazione. 4. - Con separato ricorso RG. 315/2021 proposto anch'esso dinanzi al medesimo TAR, Co. Gr., secondo classificato, ha impugnato anch'esso l'aggiudicazione in favore di Consorzio Ap. It., deducendo doglianze analoghe a quelle sollevate da La. nel ricorso RG 70/2021. 5. - Con la sentenza appellata, n. 27/2023, il TAR ha riunito i due ricorsi RG. 70/21 e RG 315/21 ed ha così deciso: - ha accolto il primo ricorso ed il secondo ricorso per motivi aggiunti della società La. (RG n. 70/21) relativamente alle censure concernenti l'omessa esclusione delle prime due graduate e ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto da Co. Gr. (RG 315/21) ed improcedibile il ricorso introduttivo di La.. 6. - Avverso tale decisione La. ha proposto appello in relazione ai capi della sentenza: - relativi alla propria esclusione dalla gara per violazione dell'art. 3 del disciplinare; - alla declaratoria di improcedibilità, per sopravvenuto difetto di interesse, del ricorso introduttivo RG 70/21 proposto dalla stessa La. e diretto ad ottenere l'annullamento dell'intera gara. 6.1 - La Stazione appaltante non si è costituita in giudizio. 7. - Co. Gr. si è costituito in giudizio ed ha proposto appello incidentale avverso il capo di sentenza nel quale era rimasto soccombente. 7.1 - Le appellanti principale ed incidentale hanno prodotto memorie difensive e di replica a sostegno delle rispettive tesi. 8. - All'udienza pubblica dell'8 giugno 2023 l'appello è stato trattenuto in decisione. 9. - L'appello principale va accolto mentre quello incidentale va respinto. 10. - Come già anticipato, il TAR con la sentenza impugnata, ha riunito i due ricorsi RG 70/2021 e RG n 315/2021 proposti, rispettivamente, da La. e da Co. Gr.: - ha accolto il primo ricorso ed il secondo ricorso per motivi aggiunti della società La. relativamente alle censure concernenti l'omessa esclusione delle prime due graduate e, precisamente: a) del consorzio stabile aggiudicatario per non essersi attenuto, nella predisposizione dell'offerta, al rispetto della prescrizione contenuta nell'art. 18 del disciplinare, da ritenere a pena di esclusione a mente degli artt. 19 e 20 del disciplinare che comminano la sanzione espulsiva in presenza di offerte non conformi al disciplinare (1° motivo del primo ricorso per motivi aggiunti); b) del RTI Co. Gr. It. (secondo in graduatoria) per non aver indicato in offerta quale componente del raggruppamento avrebbe reso le prestazioni contrattuali indicate alle lettere d), e) ed f) dell'art. 3 del disciplinare (sesto motivo del secondo ricorso per motivi aggiunti); - ha accolto anche il ricorso incidentale del RTI Co. nella parte in cui quest'ultimo aveva invocato, ai danni della società La. s.r.l., la medesima causa di esclusione sollevata da quest'ultima, sostenendo che anche la ricorrente La. non aveva indicato nel modello D dell'offerta il dettaglio esatto di tutte le obbligazioni di cui all'articolo 3 del disciplinare da ripartire tra i componenti del raggruppamento, con la sua conseguente esclusione; - ha stabilito, quindi, che tutti e tre gli operatori economici dovevano essere esclusi, "salvi gli ulteriori provvedimenti dell'Amministrazione nel rispetto dei principi enunciati nella presente sentenza"; - ha dichiarato, poi inammissibile il ricorso RG n. 315/2021 proposto da Co. per domandare l'esclusione della sola prima classificata; - ha dichiarato il sopravvenuto difetto di interesse di La. con riferimento al ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, con il quale erano state sollevate censure avverso la lex specialis volte all'annullamento dell'intera gara, in ragione del fatto che l'Amministrazione, per effetto della decisione di esclusione dei primi tre concorrenti in graduatoria, avrebbe dovuto rideterminarsi in merito alla scelta di confermare o meno la gara, o di procedere allo scorrimento della graduatoria in favore della quarta classificata; - infine, ha disposto l'assorbimento delle restanti censure proposte dalla società La. per contestare l'omessa esclusione della prima e della seconda graduata. 10.1 - È opportuno sottolineare che il capo di sentenza relativo alla esclusione della prima classificata non è stato impugnato dal Consorzio Ap. It. ed è quindi passato in giudicato. 11. - Come già anticipato, l'appello principale di La. verte su due punti: - la sua esclusione dalla gara per effetto dell'accoglimento dei motivi aggiunti al ricorso incidentale di primo grado proposto da Co. Gr.; - la declaratoria di improcedibilità del ricorso introduttivo di primo grado di La., diretto a far valere l'interesse strumentale al rifacimento della procedura di gara e la conseguente riproposizione delle censure proposte con il ricorso principale di primo grado. 12. - L'appello incidentale di Co. Gr. riguarda, invece, la declaratoria di inammissibilità del suo ricorso RG 315/21, in quanto diretto solo all'esclusione della prima classificata. Tale appello contiene anche la riproposizione delle censure avverso la posizione della prima classificata nell'ipotesi che anche quest'ultima avesse inteso appellare la sentenza (circostanza non verificatasi); poi a pag. 8 sono contenute le doglianze al capo di sentenza con cui il TAR ha accolto la censura di La., decretando la sua esclusione dalla gara. 12.1 - Nel dettaglio, Co. ha sollevato i seguenti profili di censura: - la violazione del corretto ordine di esame dei due ricorsi di primo grado, chiedendo a questa Sezione di correggere quanto effettuato dal TAR; - l'erroneità della decisione del giudice di primo grado in merito alla declaratoria di inammissibilità del suo ricorso principale RG 315/21, in quanto diretto nei soli confronti della prima classificata; - l'erroneità del capo di sentenza che aveva accolto il sesto motivo aggiunto di La., decretando la sua esclusione dalla gara. 13. - Ritiene il Collegio di doversi pronunciare, nel merito, sia sull'appello principale che su quello incidentale, essendo diretti entrambi ad ottenere l'esclusione della controparte dalla gara, e la propria ammissione ad essa. 14. - Per ragioni logiche occorre partire dal primo profilo dell'appello incidentale di Co. Gr. secondo cui il TAR, nel decidere i due ricorsi RG 70/21 e RG 315/21 avrebbe dato precedenza, erroneamente, al ricorso RG 70/21 proposto da La., terza in graduatoria. Secondo l'appellante incidentale, infatti, in base all'ordine logico, il TAR avrebbe dovuto prima esaminare il ricorso proposto da Co., seconda in graduatoria, e solo dopo il ricorso proposto dalla terza classificata. Il TAR, ha esaminato, infatti: - prima il ricorso di La., per il riconoscimento del cui interesse lo stesso TAR ha dovuto dichiarare fondata una censura rivolta verso Co. (seconda), salvo poi condividere il primo motivo dedotto da La., identico al primo motivo di Co.; - in questo modo ha confermato la permanenza dell'interesse di La. all'aggiudicazione e alla rinnovazione della gara, sebbene presupponessero l'accoglimento del sesto motivo aggiunto di quest'ultima, che - secondo Co. - sarebbe stato infondato ed inammissibile, perché proposto contra factum proprium, ovvero in virtù del ricorso incidentale di Co.. L'appellante incidentale ha quindi chiesto di ripristinare il corretto ordine di esame dei ricorsi. 15. - Ritiene il Collegio che il TAR, nel decidere l'ordine di trattazione dei due ricorsi tra loro connessi, ha fatto applicazione del principio della ragione più liquida e ha quindi assegnato priorità di esame a quello "più completo" e cioè quello che "ricomprendeva nell'oggetto" tutte le questioni, ivi comprese quelle dedotte da Co. nel ricorso RG 315/21, con il quale era stata impugnata l'aggiudicazione dei confronti del Consorzio Ap. It.. Tale scelta, criticata da Co., non ha le però arrecato alcun nocumento concreto, in quanto anche ove il TAR avesse esaminato prioritariamente il suo ricorso RG 315/21, e lo avesse accolto (per le stesse ragioni per cui ha accolto il ricorso di La. RG 70/21 decretando l'esclusione dell'aggiudicataria), avrebbe dovuto comunque esaminare anche il ricorso RG 70/21, e quindi le censure proposte da La. nei suoi confronti, dovendo applicare i principi espressi della Corte di Giustizia UE in relazione alla proposizione dei ricorsi incrociati aventi entrambi finalità escludenti (sentenze Fastweb, Puligienica, Lombardi): la Corte ha chiarito, infatti, che in questi casi entrambi i contendenti hanno diritto che sia tutelato il proprio interesse a conseguire l'aggiudicazione, mediante la garanzia che il giudice nazionale esamini entrambe le impugnative, in ossequio ai principi dell'accessibilità e dell'effettività dei mezzi di tutela contro le violazioni occorse nel corso di una gara pubblica. I principi espressi dall'appellante incidentale non risultano persuasivi neanche in relazione all'interpretazione dell'art. 2bis della direttiva ricorsi, in quanto gli offerenti possono considerarsi "definitivamente esclusi" solo se l'esclusione è definitiva, e quindi se sia stata disposta con provvedimento divenuto inoppugnabile, ovvero a seguito di sentenza passata in giudicato, in ossequio alle regole procedurali stabilite nell'ordinamento nazionale. Inoltre, La. aveva pure agito facendo valere il proprio interesse strumentale alla rinnovazione della procedura di gara. Ne consegue che, secondo il Collegio, la scelta compiuta dal TAR si è rivelata non lesiva degli interessi dell'appellante incidentale. 16. - Per quanto concerne, invece, la asserita inammissibilità del ricorso di La. per violazione del venire contra factum proprium, tenuto conto che aveva chiesto l'esclusione di Co. per violazione degli artt. 3 e 18 del disciplinare sebbene essa stessa avesse commesso la medesima mancanza, è sufficiente rilevare che tale tesi non può essere condivisa in quanto la situazione fattuale delle due concorrenti è diversa, come in seguito precisato. Ritiene infatti il Collegio che le censure proposte da Co. avverso la mancata esclusione di La. non siano persuasive a differenza di quanto dedotto da quest'ultima avverso il capo di sentenza relativo alla propria esclusione dalla gara. 16.1 - Occorre richiamare innanzitutto le prescrizioni della lex specialis. Il disciplinare di gara individuava all'art. 3 "Oggetto dell'appalto" nei seguenti termini: a) "La preparazione, comprensiva dell'approvvigionamento di tutte le derrate e dei materiali complementari necessari, la sporzionatura, il confezionamento, il trasporto e consegna, la distribuzione e la somministrazione dei pasti (scodellamento) agli alunni ed insegnanti autorizzati secondo le modalità prescritte dalla normativa vigente..."; b) La pulizia giornaliera delle stoviglie e delle attrezzature utilizzate; c) Il riassetto, riordino e pulizia della sala refezione e del settore lavaggio; d) La Ditta appaltatrice dovrà farsi carico giornalmente di trasmettere i dati relativi alla prenotazione pasti agli uffici della Pubblica Istruzione; e) L'impresa aggiudicatrice dovrà provvedere in ciascun plesso sede di refezione alla manutenzione delle lavastoviglie già esistenti, al fine di garantire il loro adeguato funzionamento ed alla tinteggiatura annuale dei locali mensa e dei locali adibiti a preparazione, sporzionamento e lavaggio; f) L'impresa aggiudicataria dovrà provvedere alla fornitura, installazione e manutenzione di n 2 lavastoviglie presso la sede della scuola dell'infanzia Tr. e scuola dell'infanzia Br.". La lett. g) definiva, infine, gli orari relativi alle singole sedi scolastiche per l'erogazione dei pasti. L'art. 18 dello stesso disciplinare, modello D, prevedeva, in relazione alla presentazione dell'Offerta Economica, che: "L'eventuale offerta congiunta deve essere sottoscritta digitalmente da tutte le imprese raggruppate e deve specificare le parti del servizio che saranno eseguite dalle singole imprese e contenere l'impegno che, in caso di aggiudicazione della gara, le stesse imprese si conformeranno alla disciplina prevista dal Codice dei Contratti". Il TAR ha ritenuto che entrambe le offerte fossero non conformi a quanto stabilito dal disciplinare. 16.2 - Dalla disamina dei due modelli D presentati dalle due concorrenti si evince, però, che la situazione fattuale è differente. Nel modello D relativo all'offerta economica, il RTI Co. Gr. It. ha dichiarato che: "il 51% dell'appalto sarà eseguito dalla mandataria Co. la quale svolgerà le seguenti prestazioni: - coordinamento del servizio; - Trasporto e consegna dei pasti; - Distribuzione e somministrazione dei pasti; - Pulizia giornaliera delle stoviglie e delle attrezzature utilizzate per la distribuzione dei pasti. La mandante Food Service srl svolgerà il 49% del servizio corrispondente alle seguenti prestazioni: - Approvvigionamento; - Preparazione; - Cottura; - Confezionamento dei pasti; - Pulizia giornaliera delle attrezzature utilizzate per la produzione dei pasti." Se si confronta tale dichiarazione con quanto previsto dall'art. 3 del disciplinare, emerge che non vi è coincidenza tra le prestazioni indicate dall'art. 3 del disciplinare di gara e quelle che i singoli componenti del RTI si sono impegnati a svolgere nel modello D: in tale modello, infatti, non sono state richiamate tutte le prestazioni che costituiscono oggetto dell'appalto e, conseguentemente, non è stato rispettato neppure l'art. 18 del disciplinare, che imponeva ai raggruppamenti di indicare le parti del servizio che sarebbero state svolte dalle imprese associate. Nel modello D, non sono richiamate le prestazioni ex art. 3 sub lettera d) trasmissione dei dati relativi alle prenotazioni pasti presso gli uffici della Pubblica Istruzione, lettera e) manutenzione, in ciascun plesso, delle lavastoviglie esistenti e tinteggiatura annuale dei locali mensa e dei locali adibiti a preparazione, sporzionamento e lavaggio; lettera f) fornitura, installazione e manutenzione di n. 2 lavastoviglie presso le sedi delle scuole Tr. e Br.. La palese incompletezza del modello D non può essere giustificata distinguendo tra "oggetto dell'appalto" e "impegni contrattuali relativi all'esecuzione del contratto" tenuto conto dalla chiarezza di quanto disposto dall'art. 3 del disciplinare in merito alle componenti del servizio e, quindi, alla definizione della prestazione oggetto di gara; correttamente il TAR ha ritenuto che "le lettere dalla d) alla f), a ben vedere, prevedono prestazioni aggiuntive e dunque ampliano l'oggetto del contratto". Ne consegue che, come rettamente ritenuto dal TAR, l'offerta di Co. doveva ritenersi manifestamente incompleta e come tale passibile di esclusione dalla gara. 16.2 - Per quanto concerne, invece, l'offerta di La., il TAR ha ritenuto che fosse anch'essa incompleta per non aver indicato "nell'offerta economica, le prestazioni previste dall'art. 3 cit. in relazione alla "sporzionatura", al "confezionamento", alla "consegna" e alla "distribuzione" dei pasti, non essendo state tali attività attribuite a nessuna delle due componenti del RTI". Il TAR ha poi aggiunto che "La. stessa, in realtà, non nega di aver assunto tutte le obbligazioni in modo dettagliato e per come indicate all'art. 3 del disciplinare, ma evoca, a propria difesa, solo l'uso di una clausola generale utilizzata da tutte le imprese del proprio RTI nel senso di impegnarsi a eseguire le prestazioni con le modalità richieste dalla lex specialis"; il primo giudice ha quindi sostenuto che il medesimo rigore interpretativo non poteva non essere utilizzato anche nella interpretazione dell'offerta dell'altra concorrente e, per tale ragione, ha accolto la censura di Co. decretando anche l'esclusione di La.. 17. - Le conclusioni del TAR non sono convincenti: innanzitutto, correttamente La. ha ricordato che l'argomento richiamato dal primo giudice non era stato l'unico dedotto in giudizio, infatti: - la capogruppo La. e la mandante Sh Ge. s.r.l., oltre ad elencare le parti del servizio di rispettiva spettanza, nel proprio Modello D, avevano espresso l'impegno, con dichiarazione di chiusura, a dare "esecuzione al servizio secondo le modalità stabilite dagli atti di gara e dall'offerta tecnica". Con tale dichiarazione il RTI La. aveva assunto un preciso impegno all'osservanza, in caso di aggiudicazione, di tutte le prescrizioni degli atti di gara e gli impegni assunti con l'offerta tecnica; - inoltre, nelle memorie difensive di primo grado, la società ricorrente aveva fatto presente che l'offerta del RTI La., era sufficientemente chiara in relazione al riparto dei compiti tra mandante e mandataria in relazione a tutte le prestazioni oggetto di appalto ed anche con riguardo a quelle di cui alla lett. a) dell'art. 3 del disciplinare. La tesi di La. risulta persuasiva. La lett. a) dell'art. 3 del disciplinare contemplava "La preparazione, comprensiva dell'approvvigionamento di tutte le derrate e dei materiali complementari necessari, la sporzionatura, il confezionamento, il trasporto e consegna, la distribuzione e la somministrazione dei pasti (scodellamento) agli alunni ed insegnanti autorizzati secondo le modalità prescritte dalla normativa vigente...". Poiché il Modello D del RTI La., in relazione alle attività indicate nell'art. 3 lettera a), demandava espressamente la "preparazione dei pasti" alla mandante Sh Ge. e riservava alla capogruppo La. le attività di "trasporto" e di "somministrazione" (oltre che di "approvvigionamento delle derrate"), deve desumersi implicitamente che le prestazioni di "sporzionatura" e di "confezionamento", in quanto logicamente antecedenti alla fase del trasporto ed immediatamente conseguenziali alla preparazione dei pasti, sarebbero state svolte dalla mandante. Ha aggiunto l'appellante principale che le prestazioni di sporzionamento e di confezionamento dei pasti negli appositi contenitori, non possono che svolgersi nel centro di produzione dei pasti (gestito dalla mandante, a cui spetta la produzione) affinché, una volta eseguite, le pietanze possano poi essere avviate al trasporto verso i luoghi di consumo; le restanti attività di "consegna" e di "distribuzione" sono invece logicamente a carico della La.. Quest'ultima ha quindi rilevato che, l'art. 3 lett. a) del disciplinare riconnette "il trasporto e la consegna", proprio perché si tratta di attività logicamente connesse (il trasporto dei pasti presso i plessi scolastici comporta evidentemente la loro consegna), che non possono che essere svolte dal medesimo soggetto. La "distribuzione" è parimenti connessa alla "somministrazione dei pasti" (i due termini possono ritenersi sinonimi), che è indicata nel Modello D quale attività spettante alla La.; l'art. 3 lett. a) del disciplinare, infatti, riconnette "la distribuzione e la somministrazione dei pasti (scodellamento) agli alunni ed insegnanti". La. ha quindi concluso, che la propria offerta doveva ritenersi completa (a differenza di quella di Co.), potendo agevolmente desumersi, in base alla suddivisione dei compiti dichiarata nella sua offerta economica (Modello D), che i pasti preparati dalla mandante Sh Ge. sarebbero dalla stessa sporzionati e confezionati all'interno del centro di cottura, per poi essere trasportati (nonché consegnati) presso gli istituti scolastici dalla società La. e dalla stessa distribuiti e somministrati agli utenti. La prospettazione di La. risulta del tutto condivisibile: la ratio della decisione del TAR, improntata al rigore interpretativo, non può giungere a conclusioni irragionevoli e sproporzionate, alla luce della semplice interpretazione di quanto dichiarato dalla stessa concorrente. 18. - Ne consegue che l'appello principale va accolto e, per l'effetto, va riformato il capo di sentenza che ha decretato l'esclusione di La. dalla gara. A ciò consegue l'assorbimento del secondo motivo di appello e dei motivi di primo grado riproposti in appello, ai sensi dell'art. 101, comma 1, c.p.a. 19. - Va invece respinto l'appello incidentale e va, quindi, confermata l'esclusione di Co. dalla gara; a ciò consegue l'inammissibilità delle ulteriori doglianze da essa proposte. 20. - Le spese del doppio grado possono compensarsi tra le parti, tenuto conto della particolarità della fattispecie esaminata. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, accoglie l'appello principale nei termini indicati in motivazione e respinge l'appello incidentale. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 giugno 2023 con l'intervento dei magistrati: Michele Corradino - Presidente Pierfrancesco Ungari - Consigliere Paolo Carpentieri - Consigliere Stefania Santoleri - Consigliere, Estensore Ezio Fedullo - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1544 del 2018, proposto dal sig. Cl. Be., rappresentato e difeso dagli avvocati Cl. Di To., Al. Ca., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Lu. Di Ra. in Roma, via (...); contro il Comune di Pescara, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pa. Di Ma., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Pescara, piazza (...); per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo Regionale per l'Abruzzo, sezione staccata di Pescara (sezione prima) n. 00206/2017, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Pescara; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 giugno 2023 il consigliere Giuseppe Rotondo; viste le conclusioni delle parti come da verbale. FATTO e DIRITTO 1. Il presente giudizio ha ad oggetto la domanda di accertamento del "mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento per il rilascio del permesso di costruire ex art. 20 del testo unico edilizia" nonché la domanda di "condanna del comune di Pescara al risarcimento dei danni" subiti dal sig. Cl. Be. (ricorrente in primo grado e odierno appellante). 2. Questi gli aspetti principali della vicenda: a) il sig. Cl. Be. è proprietario di un terreno in Pescara, via (omissis) (omissis) in catasto al foglio (omissis), particelle (omissis), per una estensione pari a 899 mq. rientrante nella sottozona B3 del P.R.G. di Pescara; b) in data 20 giugno 2006, presentava al Comune di Pescara un'istanza di permesso di costruire per la costruzione di un fabbricato di civile abitazione; c) il progetto otteneva il nulla-osta in data 13 aprile 2007, prot. n. 65028/06/52407, confermato dalla Soprintendenza ai beni architettonici e per il paesaggio per l'Abruzzo il 17 maggio 2007, provvedimento prot. n. 8628/2007; d) con nota prot. n. 5485 del 14 gennaio 2008 il dirigente del settore edilizia quantificava il contributo di costruzione per un importo complessivo di Euro 25.794,09; e) il Comune, dopo aver acquisito la prima rata del contributo di costruzione, in data 5 febbraio 2010 dichiarava che l'istruttoria della pratica edilizia era conclusa, invitando il ricorrente a confermare il proprio interesse all'ottenimento del titolo edilizio; f) il sig. Be., con propria nota del 5 marzo 2010, confermava il proprio interesse al rilascio del permesso di costruire; g) con determinazione prot. n. 166026 del 9 dicembre 2013, il dirigente del settore gestione del territorio esprimeva il diniego sulla richiesta di permesso di costruire in virtù della incompatibilità sopravvenuta del progetto con le nuove previsioni urbanistiche, a seguito della intervenuta adozione della variante al p.r.g. del Comune di Pescara di cui alla deliberazione di consiglio comunale n. 94 dell'8 giugno 2007, e la sua approvazione con successiva deliberazione di consiglio comunale n. 55 del 26 febbraio 2008 (le aree di proprietà del sig. Be. venivano ricomprese nella sottozona B5 di completamento e ristrutturazione di tipo estensivo); h) in data 10 febbraio 2014, il sig. Be. proponeva ricorso dinanzi al T.a.r. Abruzzo, sez. di Pescara, per ottenere l'annullamento di tale provvedimento di diniego, nonché il riconoscimento del diritto al rilascio del permesso di costruire richiesto e la conseguente condanna dell'Amministrazione comunale al rilascio del medesimo titolo; i) il Ta.r., con sentenza 26 marzo 2015 n. 137, respingeva il ricorso e compensava le spese di giudizio in ragione del "non univoco atteggiamento del Comune, che ha comunicato l'importo degli oneri (14.01.2008) allorché era stata già adottata la variante che impediva l'intervento ed ha chiesto la conferma dell'interesse ben dopo che la variante era stata approvata (delibera cc 26.2.2008 n. 55) così alimentando aspettative in ordine ad una pratica che già all'epoca doveva essere definita in senso negativo". 3) Il sig. Be. - nel ritenere il comportamento dell'ente locale "gravemente colposo e contraddittorio" laddove "a seguito della presentazione della richiesta di permesso di costruire in data 20.6.2006 il Comune avrebbe dovuto concludere il procedimento per il rilascio del titolo edilizio nel termine di 135 giorni dalla istanza del ricorrente secondo il testo dell'art 20 del D.P.R. n. 380/2001 all'epoca in vigore" - proponeva azione innanzi al T.a.r. per l'Abruzzo, sezione di Pescara (ricorso allibrato al n. 244 del 2015) per ottenere il risarcimento del danno da ritardo provvedimentale, basando la pretesa sui seguenti elementi di fatto: a) l'esistenza di un progetto edilizio, presentato in data 20 giugno 2006, conforme alle previsioni urbanistiche all'epoca in vigore, riguardanti le particelle in catasto al foglio (omissis) n (omissis) di proprietà del richiedente, rientranti nello specifico nella sottozona B3 di completamento e recupero del P.R.G.; b) mancato rilascio del titolo nei termini previsti dall'art 20 del d.p.r. n. 380/2001; c) comportamento ambiguo dell'amministrazione che, nonostante l'intervenuta variante urbanistica, quantificava lo stesso ammontare del contributo di costruzione e sollecitava la conferma dell'interesse al ritiro del titolo edilizio; d) la circostanza che soltanto in data 9 dicembre 2013 l'Amministrazione comunale "eccepiva l'avvenuta modifica delle previsioni urbanistiche che interessavano l'area di proprietà del ricorrente, precludendo così l'approvazione del progetto edilizio"; e) se non si fosse verificato il predetto comportamento colposo e il dirigente del settore edilizia si fosse pronunciato in merito alla richiesta del permesso di costruire nei termini scanditi dall'art. 20 del TU Edilizia, entro 135 giorni dal 20 giugno 2006, il ricorrente avrebbe conseguito il titolo edilizio richiesto; f) le nuove previsioni urbanistiche, che hanno incluso l'area del ricorrente nel perimetro del comparto (omissis), in sottozona B5 hanno così determinato un deprezzamento delle particelle (omissis), stimabile in Euro 59.714,00, in base al loro valore di trasformazione. 3.1. Si costituiva, per resistere, il Comune di Pescara. 3.2. Il T.a.r., con sentenza n. 206 del 27 giugno 2017, accoglieva l'eccezione di prescrizione del diritto azionato formulata dal Comune e, per l'effetto, respingeva il ricorso compensando le spese. 3.3. Il T.a.r. precisava che: i) il momento in cui si è verificato il danno non coincide con il diniego del titolo, ma con la modifica urbanistica che ha impresso una nuova conformazione al terreno del ricorrente, impedendo, come riconosciuto dal Tar nella sentenza 137 del 2015, il rilascio del permesso di costruire richiesto; i) non si era verificata la decadenza di cui all'articolo 30, comma 3, cpa (secondo il testo vigente nel 2010; corrispondente ora al comma 9 del medesimo articolo 30), per decorrenza del termine di 120 dal momento in cui si è verificato il fatto lesivo; iii) si applicava nel caso di specie solo l'ordinario termine di prescrizione quinquennale; iv) tale termine era abbondantemente decorso al momento della presentazione del presente ricorso, dall'approvazione della succitata variante urbanistica, avvenuta con delibera di consiglio comunale del 26.2.2008 n. 55, con la quale il terreno del ricorrente aveva ricevuto una conformazione urbanistica deteriore con impossibilità di interventi diretti di nuova costruzione e con le denunciate conseguenze economiche negative; iv) se, viceversa, si considerasse come provvedimento perfezionativo dell'illecito il provvedimento di diniego del 9 dicembre 2013, la domanda di risarcimento danni sarebbe inammissibile per l'avvenuto decorso del termine di decadenza di 120 di cui all'articolo 30 c.p.a. 4. Ha appellato il sig. Cl. Be., che censura la sentenza impugnata per "erronea applicazione dell'art. 30, commi 3 e 5, del c.p.a.: i) il termine di prescrizione quinquennale poteva decorrere soltanto dalla data di adozione del provvedimento di diniego del 9.12.2013; ii) la singolare tesi interpretativa del Tar, che imporrebbe l'esercizio dell'azione risarcitoria nel termine di 120 giorni dall'adozione del provvedimento impugnato, contrasterebbe in modo evidente con la facoltà, espressamente prevista dalla norma, di esercitare l'azione risarcitoria in qualunque momento del giudizio e sino al termine di 120 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza. 4.1. Si è costituito, per resistere, il comune di Pescara. 4.2. Il Comune di Pescara ha depositato memoria in data 8 maggio 2023. 5. All'udienza dell'8 giugno 2023, la causa è stata trattenuta per la decisione. 6. L'appello è infondato. 7. La domanda risarcitoria azionata dal sig. Be. va qualificata quale "danno da ritardo" ex art. 2-bis della legge n. 241 del 1990, conseguente alla mancata conclusione, nel termine previsto, del procedimento di rilascio del permesso di costruire; la "voce" risarcitoria sulla quale si controverte è quella relativa al deprezzamento delle particelle (omissis), stimato in Euro 59.714,00, in base al loro valore di trasformazione, subito in conseguenza della variante al p.r.g. del Comune di Pescara; la responsabilità da ritardo sarebbe ravvisabile con riferimento alla condotta tenuta dal Comune di Pescara che avrebbe dovuto concludere il procedimento (avviato in data 20 giugno 2006) nel termine di 135 giorni, secondo il testo dell'art 20 del d.p.r. n. 380/2001 all'epoca in vigore; se tale termine fosse stato rispettato, il procedimento non sarebbe incorso nella sopravvenienza urbanistica rappresentata dalla variante al piano regolatore generale, in ragione della quale i terreni hanno subito una trasformazione incompatibile con le aspettative edificatorie maturate. 8. Così correttamente qualificata la domanda, dirimente, in punto di infondatezza dell'appello, risulta la parte motiva della sentenza impugnata (sopra, par. 3.3., punto iv) con la quale il Tar ha osservato che se "si considerasse come provvedimento perfezionativo dell'illecito il provvedimento di diniego del 9 dicembre 2013, la presente domanda di risarcimento danni sarebbe inammissibile per l'avvenuto decorso del termine di decadenza di 120 di cui al menzionato articolo 30 c.p.a.". 9. Il Collegio osserva che, per giurisprudenza consolidata (tra le tante Consiglio di Stato, sez. IV, 12 novembre 2015, n. 5143 Cons. Stato, Sez. V, 4 agosto 2015, n. 3854), il danno da ritardo risarcibile non può essere presunto juris et de jure, quale effetto automatico del semplice scorrere del tempo, ma è necessaria la verifica della sussistenza dei presupposti di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante) e oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio subito), richiesti dalla menzionata norma codicistica per fondare la responsabilità ex art. 2043 c.c. (sulla natura di fatto illecito aquiliano del danno da ritardo vedi Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, sentenza 23 aprile 2021, n. 7); del pari, si è raggiunta una piena concordanza di opinioni, in giurisprudenza, nell'affermare che sul piano delle conseguenze, il fatto lesivo deve essere collegato da un nesso da causalità ai pregiudizi patrimoniali o non patrimoniali lamentati; dal punto di vista dell'onere patrimoniale, il mero superamento del termine non integra, inoltre, piena prova del danno. 10. Si è detto, in proposito, che ricorre la necessità che, ai fini dell'affermazione della responsabilità dell'Amministrazione per il ritardo e, più in generale, per la cattiva gestione del procedimento, il danneggiato provi: i. la violazione dei termini procedimentali; ii. il dolo o la colpa dell'Amministrazione procedente; iii. il nesso di causalità materiale o strutturale; iv. il danno ingiusto, inteso come lesione dell'interesse legittimo al rispetto dei predetti termini; v. sul piano delle conseguenze, poi, il fatto lesivo deve essere collegato da un nesso di causalità ai pregiudizi patrimoniali o non patrimoniali lamentati. 11. Incentrando la disamina proprio sul requisito del nesso di causalità (mancato conseguimento del titolo edilizio secondo la normativa urbanistica vigente allo scadere del termine di conclusione del procedimento, con conseguente perdita della possibilità di edificare) è evidente che la stessa vada ricondotta nell'ambito del lucro cessante. 12. Tale voce risarcitoria, per sua natura, per essere positivamente liquidata, non potrebbe prescindere dalla verifica della spettanza del bene della vita finale, costituito nella specie dalla possibilità di ottenere effettivamente, nel termine indicato, il permesso di costruire e potere realizzare così l'operare. 13. Tanto chiarito, il Collegio osserva che l'art. 30, comma 4, c.p.a. prevede quanto segue: "Per il risarcimento dell'eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, il termine di cui al comma 3 non decorre fintanto che perdura l'inadempimento. Il termine di cui al comma 3 inizia comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere". 13.1. Il precedente comma 3 dispone che: "La domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo". 14. Nel caso di specie, il procedimento avviato su istanza di parte in data 20 giugno 2006 (domanda di permesso a costruir un fabbricato di civile abitazione) si è concluso con la determinazione prot. n. 166026 del 9 dicembre 2013, con la quale il dirigente del settore gestione del territorio ha espresso il definitivo diniego sulla richiesta di permesso di costruire in virtù della incompatibilità sopravvenuta del progetto con le nuove previsioni urbanistiche, a seguito della intervenuta adozione della variante al p.r.g. del comune di Pescara di cui alla deliberazione di consiglio comunale n. 94 dell'8 giugno 2007, e la sua approvazione con successiva deliberazione di consiglio comunale n. 55 del 26 febbraio 2008 (le aree di proprietà del sig. Be. venivano ricomprese nella sottozona B5 di completamento e ristrutturazione di tipo estensivo. 15. L'illecito da ritardo provvedimentale si è perfezionato, pertanto, in data 9 dicembre 2013, allorquando si è anche cristallizzato il dies ad quem in cui è cessato l'inadempimento. 16. Tuttavia, tale dies ad quem fondava, allo stesso tempo, anche il dies a quo di decorrenza del termine decadenziale stabilito dal comma 3, dell'art. 30 c.p.a. per la proposizione dell'azione risarcitoria per il danno da ritardo; ciò in quanto, cessato l'inadempimento (si ribadisce, con l'adozione del provvedimento conclusivo del procedimento), si erano inverati tutti i presupposti oggettivi per esercitare il diritto di azione contemplato dalla suindicata norma per come inteso dalla richiamata giurisprudenza amministrativa. 17. Detto termine (120 giorni) è, infatti, iniziato a decorrere nel momento esatto in cui si era inverata la conoscenza del provvedimento n. 166026/2013 del 9 dicembre 2013; conoscenza che, ha sua volta, aveva segnato la cessazione della condotta inerte ovvero inadempiente (id est, del fatto illecito). 18. L'azione risarcitoria per danno da ritardo andava, pertanto, proposta tempestivamente nel suindicato termine decadenziale e non in quello diverso, postulato dall'appellante, previsto al successivo comma 5 del medesimo art. 30 c.p.a. riferito, invece, alla diversa fattispecie (qui non ricorrente) in cui il privato, proposta l'azione caducatoria nell'ambito di un ordinario giudizio di legittimità, abbia ottenuto l'annullamento del provvedimento impugnato. 19. Il danno da ritardo, infatti, non postula l'annullamento previo di un provvedimento amministrativo, a differenza del danno da illegittimo esercizio del potere pubblico. I due commi, 4 e 5, regolano, infatti, ambiti oggettivi di applicazione differenti e non sono tra essi sovrapponibili. 20. Deve, pertanto, convenirsi con la motivazione resa dal Tar, con l'unica precisazione che l'azione risarcitoria proposta dal sig. Be. deve essere dichiarata irricevibile (e non inammissibile) per tardività, in quanto proposta oltre il termine di 120 giorni decorrenti dal giorno in cui il diritto andava azionato. 21. In conclusione, l'appello è infondato. 22. Le spese processuali relative al grado di giudizio possono essere compensate fra le parti, tenuto conto del quadro fattuale e normativo in cui si è collocata la vicenda amministrativa in esame. P.Q.M. Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa le spese fra le parti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 giugno 2023 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Lopilato - Presidente FF Luca Lamberti - Consigliere Francesco Gambato Spisani - Consigliere Silvia Martino - Consigliere Giuseppe Rotondo - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4465 del 2022, proposto da -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ga. Mi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia contro Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, Direzione Territoriale IV - Lazio e Abruzzo, Ufficio Monopoli per L'Abruzzo, non costituita in giudizio; Agenzia delle Dogane e dei Monopoli - Monopoli di Stato - Ufficio Regionale Abruzzo - Pescara, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via (...) per la riforma della sentenza in forma semplificata del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Seconda n. -OMISSIS- Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli - Monopoli di Stato - Ufficio Regionale Abruzzo - Pescara; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 aprile 2023 il Cons. Marco Valentini e udito per la parte appellante l'avvocato Ga. Mi.; Viste le conclusioni della parte appellata come da verbale.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Avanti il giudice di prime cure, l'originaria ricorrente, odierna appellante, ha chiesto l'annullamento del provvedimento con cui l'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, DT IV - Lazio e Abruzzo, Ufficio Territoriale per l'Abruzzo, ha disposto la cancellazione della -OMISSIS- dall'elenco dei soggetti che svolgono attività funzionali alla raccolta del gioco mediante apparecchi e terminali da intrattenimento di cui all'art. 110, comma 6, lett. a) e b) del T.U.L.P.S. Rileva il primo giudice che con entrambi i motivi di gravame parte ricorrente contesta la scelta di parte resistente di ancorare il diniego di provvedimento favorevole (rinnovo dell'iscrizione negli elenchi di cui all'art. 1, comma 533, L. n. 266/2005) ad una mera omissione informativa della ditta istante, in particolare l'omessa dichiarazione dell'esistenza di una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p.. Tale rilievo, secondo la sentenza impugnata, non sarebbe meritevole di positiva valutazione per la semplice ragione che il provvedimento di rigetto gravato, lungi dall'essere motivato da un elemento meramente "negativo" (quale è l'omissione informativa), è invece motivato da un elemento "positivo" (quale è la sussistenza di una sentenza penale di condanna per il reato di furto continuato ai sensi degli artt. 81, 624, 625, comma 2, cod. pen.). Secondo la sentenza impugnata, il decreto del Direttore Generale dell'Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato del -OMISSIS-, non impugnato da parte ricorrente, prevede invece, tra gli altri, tale elemento "positivo" come ostativo al rilascio del provvedimento di iscrizione (o di rinnovo dell'iscrizione) nell'elenco dei soggetti abilitati allo svolgimento di attività di raccolta di gioco mediante apparecchi con vincita in denaro. In coerenza con quanto precede, pertanto, la comunicazione di avvio del procedimento e il successivo provvedimento finale di cancellazione dall'elenco, dispongono chiaramente che è la sentenza di condanna sopra menzionata a giustificare il rigetto dell'istanza presentata dall'odierna ricorrente. Secondo il primo giudice, non vale eccepire, in senso contrario, che la sentenza di condanna penale ex art. 444 del codice di procedura penale preveda il beneficio della sospensione condizionale della pena, beneficio che - sempre secondo la prospettazione di parte ricorrente - osterebbe all'applicazione di pene accessorie e di misure di prevenzione, nonché di qualsiasi forma di incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione, in quanto il provvedimento gravato non costituisce né una pena accessoria, né una misura di prevenzione, né tanto meno un'inibitoria alla stipula di contratti con la pubblica amministrazione. Né è dato rinvenire, soggiunge la sentenza impugnata, alcun errore scusabile in capo all'odierna ricorrente, la quale non fornisce alcuna prova sul punto, tanto più se si considera che il modulo RIES/C6 (utilizzato nella specie per la presentazione dell'istanza) non appare assolutamente ambiguo o fuorviante. Ugualmente infondata, secondo la sentenza impugnata, appare la lamentata lesione del legittimo affidamento dell'odierna ricorrente, posto che la pacifica sussistenza della condizione ostativa (la sentenza penale di condanna per furto continuato ex art. 444 cod. proc. pen.) - in uno con la chiarezza dei requisiti prescritti dal decreto direttoriale sopra menzionato - escludono in radice qualsiasi comportamento atto ad ingenerare legittimo affidamento. Non può essere accolta, infine, secondo il primo giudice, neppure la doglianza secondo cui l'amministrazione intimata - una volta rilevata la sussistenza della condanna penale sopra menzionata - avrebbe poi dovuto prescinderne in base ad un apprezzamento puramente discrezionale, apprezzamento in tesi giustificato dai principi di ragionevolezza e proporzionalità . Tale obiezione confligge con la natura evidentemente vincolata (e non discrezionale) del provvedimento gravato nel giudizio de quo. In conclusione, con la sentenza impugnata il ricorso è stato respinto. DIRITTO In sede di appello, sono stati dedotti seguenti motivi in diritto: Omesso esame da parte del Giudice di prime cure dell'argomento principale posto a fondamento del ricorso respinto con la sentenza gravata. Espone l'appellante che ciò che viene contestato al legale rappresentante di parte appellante è l'omessa dichiarazione dell'esistenza di una sentenza di patteggiamento, riscontrata solo all'esito delle verifiche compiute dall'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. La sentenza impugnata, tuttavia, non fa alcun riferimento in ordine all'asseritamente decisivo assunto per cui la sentenza ex art. 444 c.p.p. non avrebbe nemmeno dovuto essere riportata nel casellario per effetto dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 122/2018. Più nel dettaglio si lamenta: Error in iudicando per omesso esame del T.A.R. della dedotta violazione degli artt. 5 e 11 del Decreto Direttoriale Prot. n. -OMISSIS-/Giochi/ADI, soprattutto in riferimento al D.lgs. n. 122/2018. Omesso esame del T.A.R. sulla dedotta violazione dell'art. 71 del D.P.R. n. 445/2000. Secondo l'appellante la sentenza impugnata mostra, con tutta evidenza, come il primo giudice abbia totalmente omesso di pronunciarsi sul vizio di legittimità che ha inficiato l'atto impugnato. È stato invero rilevato che, allo stato attuale, non sussiste "l'elemento positivo" sulla cui base, dapprima l'Amministrazione, e poi il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, hanno giustificato la cancellazione, ex artt. 5 e 11 decreto direttoriale Prot. n. -OMISSIS-/Giochi/ADI, dall'elenco de quo, ossia la sentenza di patteggiamento. Ciò in ragione della richiamata novella legislativa intervenuta per effetto del d.lgs. n. 122/2018. L'art. 24 del d.P.R. n. 313/2002, così come modificato dal d.lgs. n. 122/2018, argomenta l'appellante, contempla espressamente l'esclusione dalle iscrizioni nel casellario giudiziale dei "provvedimenti previsti dall'articolo 445 del codice di procedura penale, quando la pena irrogata non superi i due anni di pena detentiva soli o congiunti alla pena pecuniaria, e ai decreti penali". Nel caso di specie, al legale rappresentante di parte ricorrente è stata applicata la pena della reclusione di mesi sei ed euro 200,00 di multa. Di conseguenza, il provvedimento giudiziale non avrebbe dovuto essere iscritto, ex lege, all'interno del casellario giudiziale. Ciò comporta, ad avviso dell'appellante, un duplice ordine di conseguenze: -per un verso, la Pubblica Amministrazione, nell'esercitare la propria attività di controllo e verifica non avrebbe potuto essere nella condizione di risalire al precedente in questione; -per altro verso, il legale rappresentante della parte appellante, nel compilare l'autocertificazione, non aveva alcun obbligo di indicare la sussistenza della sentenza di patteggiamento. Il fine sotteso alla novella legislativa di riforma del casellario giudiziale (d.lgs. n. 122/2018), secondo l'appellante, è quella di "allineare" quanto riportato sul casellario richiesto dal privato con le dichiarazioni rese da quest'ultimo in un'autocertificazione: quindi, ciò che non risulta dal casellario richiesto non dovrà essere dichiarato in un'autocertificazione, senza che ciò possa comportare alcuna responsabilità a carico del privato stesso. Nel caso di specie, nonostante l'intervenuta novella, il certificato del legale rappresentante non è stato aggiornato, continuando a risultare inspiegabilmente iscritta la sentenza di patteggiamento. Peraltro, il ragionamento trova conforto, secondo l'appellante, in un ulteriore motivo di carattere "sostanziale", alla luce della lettura coordinata del d.lgs. n. 122/2018 in uno con la legge n. 134/2021 di riforma del codice di procedura penale. Segnatamente, l'art. 1, co. 10, lett. a), n. 2), della legge n. 134/2021, contempla, con riferimento alla sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., la relativa diminuzione degli effetti extra-penali, "prevedendo anche che questa non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare e in altri casi". Tale disposizione, sembra porsi, secondo l'appellante, nella medesima ottica di cui al dinanzi richiamato d.lgs. n. 122/2018, risultando evidente che la ratio sottesa ad entrambi i testi legislativi sia quella di favorire l'utilizzo del rito speciale. Ferma restando l'assenza di qualsivoglia obbligo in capo al legale rappresentante in sede di dichiarazione, sarebbe stato compito dell'Amministrazione accorgersi dell'omesso aggiornamento del certificato. Se è vero che in tali fattispecie l'agere amministrativo è caratterizzato dall'assenza assoluta di discrezionalità, tale formalismo dovrebbe condurre la Pubblica Amministrazione, prosegue l'appellante, ad avere precisa contezza e, in ogni caso, ad avvedersi del quadro normativo che fa da cornice al proprio operato. Invero, laddove l'Agenzia delle Dogane e Monopoli avesse mostrato di conoscere la fattispecie così come disciplinata dal d.lgs. n. 122/2018, non avrebbe adottato il provvedimento di cancellazione, o, quantomeno, avrebbe potuto notiziare il richiedente dell'errore, consentendogli di ovviare. L'ulteriore profilo valido a giustificare l'annullamento della sentenza impugnata, secondo l'appellante, risiede nell'art. 71 del d.P.R. n. 445/2000, come novellato dal d.l. n. 34/2020 -poi convertito dalla legge n. 77/2021- il quale precisa che qualora le dichiarazioni sostitutive rese in un procedimento amministrativo contengano irregolarità od omissioni rilevabili d'ufficio che non costituiscono falsità, a pena di mancata prosecuzione del procedimento l'interessato deve riceverne apposita segnalazione da parte del funzionario competente e deve procedere alla regolarizzazione o al completamento della dichiarazione medesima. Senonché, nulla di tutto questo è avvenuto nel caso in esame, essendosi trincerata, l'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, dietro la sussistenza del provvedimento giudiziale. Trattasi, quindi, secondo l'appellante, di un'omissione, come evincibile dalla parte motivazionale del provvedimento finale secondo cui "Vista l'autocertificazione resa dalla Sig. -OMISSIS- 'dell'insussistenza negli ultimi 5 anni di condanne con sentenza passata in giudicato od applicazioni della pena su richiesta ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penale per: reati collegati ad attività di stampo mafioso, delitti contro la fede pubblica, delitti contro il patrimonio, reati di natura finanziaria o tributaria, reati riconducibili ad attività di gioco non lecitò sottoposta a controllo della veridicità ". È evidente, quindi, conclude l'appellante, che il provvedimento sia illegittimo anche avuto riguardo alle argomentazioni dinanzi rassegnate e in ordine alle quali non è dato rinvenire alcun cenno nella sentenza impugnata, per conseguenza meritevole di annullamento. L'appello è infondato. Osserva il Collegio, preliminarmente, che l'iscrizione e il rinnovo delle autorizzazioni di che trattasi, sottoposte alla disciplina del TULPS, data la loro specifica natura sono assistite da criteri di garanzia particolarmente rigorosi. Gli argomenti di parte appellante circa l'iscrizione al casellario giudiziale - che in tesi non avrebbe dovuto essere riportata - ovvero la presunta omissione da parte dell'amministrazione di regolarizzare la parte della domanda risultata incompleta, recedono, nel caso di specie, rispetto all'espressa previsione, contenuta nel decreto dirigenziale dell'AAMS del -OMISSIS-, di requisiti specifici per accedere al rilascio o al rinnovo delle autorizzazioni richieste. Tra questi requisiti, l'art. 1 del citato decreto dirigenziale espressamente menziona - in modo vincolante, non apprezzabile sotto il profilo discrezionale - la necessità che non sussistano, negli ultimi cinque anni, tra l'altro, provvedimenti "(....) di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penale....per delitti contro il patrimonio (....)". La sussistenza invece, nella fattispecie, di tale condizione ostativa, che oltre ad essere stata omessa nella relativa dichiarazione, è stata comunque riscontrata dall'amministrazione proprio in ragione della peculiarità delle autorizzazioni di che trattasi, si pone come una condizione di fatto insuperabile che depone per il non accoglimento dei motivi proposti nel presente atto di appello. Anche la circostanza, pure dedotta dalla parte appellante, che il legale rappresentante di parte ricorrente sia stato di recente assolto per il reato di falsità nella dichiarazione relativa a quella condanna patteggiata, non rileva ai fini della elisione del dato fattuale rappresentato dall'esistenza della condanna passata in giudicato quale condizione ostativa ai fini del possesso dei requisiti previsti per il rinnovo dell'autorizzazione di cui è causa. L'appello, pertanto, va respinto. Sussistono nondimeno peculiari ed eccezionali ragioni per la compensazione delle spese del presente grado di giudizio tra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, respinge l'appello e, per l'effetto, conferma la sentenza di primo grado. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2023 con l'intervento dei magistrati: Claudio Contessa - Presidente Fabio Franconiero - Consigliere Daniela Di Carlo - Consigliere Maurizio Antonio Pasquale Francola - Consigliere Marco Valentini - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9566 del 2018, proposto da S.R.L. St. 5 in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...) contro Ministero dello Sviluppo Economico, non costituito in giudizio nei confronti Ra. Wa. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. De Ve. e Ma. Pe., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Gi. De Ve. in Roma, via (...) per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Terza n. 3848/2018 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ra. Wa. S.p.A.; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 22 marzo 2023 il Cons. Rosaria Maria Castorina; Nessuno è presente per le parti; Viste altresì le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con la sentenza n. 3848/2018 il T.A.R. Lazio ha respinto il ricorso dell'odierna appellante avverso il provvedimento del Ministero dello Sviluppo Economico, Ispettorato Territoriale Abruzzo - Molise, del 26 marzo 2008, con il quale è stato ordinato alla St. 5 S.r.l. "la rimozione immediata delle cause che determinano le interferenze più volte accertate alla ricezione dei programmi trasmessi dall'impianto RA. MF. di Co. Sa. Ma. FM 93,100 MHz" con invito alla presentazione di un progetto radioelettrico di modifica dei parametri tecnici del proprio impianto operante in località (omissis) sulla frequenza 93,000 MHz". In sintesi il TAR ha respinto le doglianze dell'appellante per le seguenti ragioni: 1) i motivi dedotti dalla ricorrente si fondano su una generica contestazione riguardante le modalità di esercizio dell'impianto Ra. Wa., tralasciando che il provvedimento impugnato ha invece ad oggetto l'impianto della ricorrente; 2) sono totalmente assenti prove atte a dimostrare l'inesistenza delle interferenze provocate dal proprio impianto; 3) la ricorrente non ha illustrato l'infondatezza dei presupposti del provvedimento impugnato, ma si è limitata a sostenere che l'impianto RA. è divenuto fonte di interferenze subite dalla medesima società St. 5; 4) il richiamo della ricorrente al contratto di servizio RA. risulta inconferente, in quanto le norme indicate individuano gli standard minimi degli impianti ma non i criteri di risoluzione delle problematiche interferenziali; 5) il richiamo alle linee guida per la soluzione di problematiche interferenziali nel settore della radiodiffusione sonora è inconferente anche alla luce dell'annullamento delle suddette linee guida con sentenza del Consiglio 6 di Stato n. 145/2014 del 16 gennaio 2014; 6) la ricorrente risultava pienamente informata dell'esistenza dell'interferenza in pregiudizio delle emissioni provenienti dall'impianto Ra. Wa. di Co. Sa. Ma.: è stato infatti raggiunto un accordo tra l'Amministrazione resistente, Ra. Wa. e la stessa St. 5 al fine di individuare finalità comuni per la risoluzione dei problemi interferenziali. Inoltre il Giudice, premesso che il principio dispositivo con metodo acquisitivo del processo amministrativo possa ragionevolmente operare solo rispetto a quegli atti e documenti formati o custoditi dall'Amministrazione, evidenziava come le difese della società ricorrente, in mancanza di di precise allegazioni, non possano neppure giustificare una verificazione o una consulenza, essendo precluso al giudice di supplire all'onere probatorio gravante sulle parti mediante un utilizzo esplorativo dei suddetti strumenti. Impugnata ritualmente la sentenza, la controinteressata Ra. Wa. S.p.a. si costituiva in giudizio concludendo per l'inammissibilità e, comunque, per l'infondatezza nel merito dell'appello. Il Ministero dello sviluppo economico, non si è costituito benché regolarmente intimato. All'udienza di smaltimento del 22 marzo 2023 la causa passava in decisione. DIRITTO Con i motivi di appello l'appellante deduce: 1.Omesso pronunciamento in merito ai motivi di ricorso e ai presupposti in fatto, irrazionalità, stravolgimento motivazionale in riferimento ai principi ex artt. 1, 3 D.Lg. 104/2010, con conseguente motivazione erronea, illogica, apparente, inidonea, perplessa e gravemente contraddittoria, sotto plurimi profili; 2. Erronea ricostruzione dei fatti; 3. Violazione e falsa applicazione della normativa di settore e di quella sul giusto procedimento. Evidenzia l'erroneità ed infondatezza della sentenza appellata in quanto non erano state adeguatamente valutate le dedotte illegittimità degli atti oggetto dell'originario ricorso. Le censure non sono fondate. 4.Il Tar ha affermato: "La ricorrente quindi, senza contestare l'interferenza lamentata da Ra. Wa., assume piuttosto di subire essa stessa disturbi radioelettrici, che sarebbero determinati da modifiche delle caratteristiche d'uso della stazione gestita da Ra. Wa., in violazione del contratto di servizio. Tuttavia l'istante non introduce alcun principio di prova atto a dimostrare l'inesistenza delle interferenze provocate dal proprio impianto o, secondo la tesi sostenuta dalla medesima St. 5, piuttosto che le stesse siano riconducibili a non ben definite modifiche delle caratteristiche dell'impianto di trasmissione Ra. Wa. di Co. Sa. Ma. (AP) MF03, il quale risulta attivato nel 1958. In altri termini, l'istante articola le proprie censure muovendo da una singolare inversione di ordine logico, essa infatti non mira a illustrare la infondatezza dei presupposti del provvedimento impugnato, ma ad affermare piuttosto la irregolarità dell'impianto Rai, il quale sarebbe stato modificato nelle proprie caratteristiche di trasmissione, divenendo fonte di interferenze subite alla medesima St. 5, modifiche dell'impianto RA. che, peraltro, sarebbero desumibili - solo implicitamente - da un fax inviato il 26 giugno 2007 dal Ministero delle Comunicazioni". 5. La società ricorrente era a conoscenza, in data antecedente alla ricezione del provvedimento impugnato in primo grado, della esistenza dell'interferenza in danno al servizio pubblico trasmesso dall'impianto Ra. Wa. di Co. Sa. Ma., tanto da avere concertato con l'Amministrazione resistente e la controinteressata le modalità di risoluzione della problematica con l'accordo del 19 febbraio 2007. Tuttavia, l'appellante non ha mai presentato alcun progetto per risolvere il problema delle interferenze, interferenze che non sono state nemmeno contestate. 6. Nessun elemento può trarsi, in favore della tesi della ricorrente dal contratto di servizio in essere tra RA. e il Ministero il quale stabilisce che: "La RA. assicura un grado di qualità del servizio, salvo le implicazioni interferenziali non risolvibili con opere di compatibilizzazione radioelettrica, non inferiore a 3, riferito ai livelli della scala UIT-R (Unione Internazionale delle Telecomunicazioni - Radiocomunicazioni)". Tale norma, infatti, individua gli standard qualitativi minimi degli impianti da cui vengono trasmessi i segnali del servizio pubblico radiotelevisivo, ma non indica i criteri di risoluzione delle problematiche interferenziali con le emittenti private. Non può ritenersi, pertanto, che la norma abbia ad oggetto i criteri di risoluzione di eventuali interferenze con emittenti private a danno delle trasmissioni funzionali al servizio pubblico radiofonico. 7. Al contrario i soggetti che svolgono attività di radiodiffusione sono tenuti ad assicurare un uso efficiente delle frequenze radio ad essi assegnate ed in particolare ad assicurare che le proprie emissioni non provochino interferenze con altre emissioni lecite di radiofrequenze. Il Consiglio di Stato ha più volte affermato "l'art. 42 del testo unico della radiotelevisione, approvato con il d.lgs. n. 177/2005, afferma chiaramente il principio secondo cui ciascun concessionario, pubblico o privato sia tenuto ad "assicurare che le proprie emissioni non provochino interferenze con altre emissione lecite di radio frequenze". La norma tutela l'emissione lecita di radio frequenze proveniente dal singolo impianto, come si ricava agevolmente dall'art. 16 della 12 l. n. 223/1990 che, al primo comma, subordina l'ottenimento della concessione per l'esercizio della radiodiffusione da parte di soggetti diversi dalla concessionaria pubblica all'ottenimento della concessione "anche per l'installazione dei relativi impianti", e, al secondo comma, stabilisce che nell'atto di concessione sono determinate le frequenze sulle quali gli impianti sono abilitati a trasmettere, la potenza e l'ubicazione e l'area da servire da parte dei suddetti impianti. In base a tale normativa deve certamente escludersi che un concessionario possa appropriarsi di aree di servizio assegnate ad altri soggetti, in particolare alla concessionaria pubblica, mediante emissioni interferenti sugli impianti in esercizio a questi ultimi, occupandone le frequenze e peggiorandone la ricezione fino al livello di qualità minimo accettabile. Occorre, al contrario, che alla concessionaria pubblica l'Amministrazione assicuri sempre, anche in base agli obblighi assunti con il contratto di servizio, la piena disponibilità delle frequenze occorrenti all'espletamento del servizio ed alla copertura del territorio" (Cons. St. Sez. VI, sent. n. 2739 del 9 maggio 2011, ma anche Cons. St. Sez. VI sent. n. 145 del 16 gennaio 2014). 8. Il potere di disattivazione dell'impianto non va confuso con quello di revoca della concessione, poiché la disattivazione è prevista al fine di eliminare interferenze, disturbi e modifiche tecniche sostanziali, mentre il potere di revoca trova il suo fondamento nei consueti presupposti di riesame d'opportunità del provvedimento originario, incidendo la disattivazione sul mero esercizio dell'attività, la revoca sull'atto-fonte che costituisce la posizione giuridica dell'impresa concessionaria (Cons. St., Sez. VI, 10 settembre 2007, n. 4740). L'art. 18, III comma della legge 6 agosto 1990 n. 223 stabilisce che "le norme concernenti la protezione delle radiocomunicazioni relative all'assistenza e alla sicurezza del volo di cui alla legge 8 aprile 1983 n. 110 sono estese, in quanto applicabili, alle bande di frequenza assegnate ai servizi di polizia ed agli altri servizi pubblici essenziali", tra i quali ultimi va annoverato il servizio radiotelevisivo in concessione alla RAI. L'art. 3, II comma della legge 8 aprile 1983 n. 110, a sua volta, conferisce alla Amministrazione delle Poste e delle Telecomunicazioni il potere di procedere alla disattivazione d'ufficio degli impianti, qualora i titolari degli stessi non abbiano ottemperato all'ordine di "immediata eliminazione" delle interferenze. Più volte il Consiglio di Stato ha affermato che, ai sensi della disciplina legislativa che disciplina il settore e degli atti di concessione, è obbligo per le concessionarie private di non arrecare disturbo alle trasmissioni della concessionaria del servizio pubblico e che legittimamente l'Amministrazione ne intima la cessazione, disponendo, in difetto, la disattivazione degli impianti, non essendo tenuta ad alcuna altra forma di intervento (cfr. Cons. St. 572/2004; Sez. VI, 31 maggio 1996 n. 759 e 26 febbraio 2003, n. 1083). 9. Correttamente il Tar ha ritenuto inconferente il riferimento alle "linee guida per la soluzione di problematiche interferenziali nel settore della radiodiffusione sonora" (adottate in data 24 giugno 2005 dal Direttore Generale dei Servizi di Comunicazione Elettronica e Radiodiffusione e dal Direttore Generale Pianificazione e Gestione Spettro Elettrico del Ministero delle Comunicazioni - ora Sviluppo Economico), richiamando la sentenza n. 145/2014 del 16 gennaio 2014 del Consiglio di Stato che ha definitivamente e integralmente annullato le suddette linee guida ministeriali. 4.6.Quanto al difetto di istruttoria, il Tar ha evidenziato che, in mancanza di qualsivoglia allegazione a fondamento delle proprie ragioni, "l'ipotesi ricostruttiva prospettata dalla difesa della ricorrente, pertanto, in difetto di precise allegazioni, si rivela del tutto inidonea a giustificare una verificazione o, addirittura, una consulenza non potendo il giudice, in maniera del tutto esplorativa e apodittica supplire, in luogo della parte interessata, all'onere della prova nell'allegazione dei fatti e nella dimostrazione dei relativi elementi probatori a sostegno". "Nel processo amministrativo, com'è noto, l'onere della prova grava sul ricorrente con alcuni temperamenti dettati dalla disparità di posizioni delle parti processuali, sicché in sede di legittimità vige il principio dispositivo con metodo acquisitivo e ciò consente al giudice amministrativo di contribuire all'acquisizione delle prove in giudizio sulla base delle richieste di parte ricorrente che introduca anche parziali elementi a suffragio dell'essenza della prova e della sua rilevanza in giudizio". (Cons. St., Sez. VI, 22 giugno 2022, n. 5146). 10. Per completezza, quanto al rilievo, sebbene tardivo della incompetenza dell'Ispettorato, questo Consiglio ha già affermato che la norma regolatrice della competenza deve rinvenirsi in disposizioni di carattere generale e segnatamente nell'art. 18, comma 3, l. n. 223 del 1990, che richiama l'art. 2, comma 2, l. 8 aprile 1983, n. 110; la norma conferisce alla "Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni" il potere di procedere alla disattivazione d'ufficio degli impianti, qualora i titolari degli stessi non abbiano ottemperato all'ordine di "immediata eliminazione" delle interferenze. Al fine poi di individuare l'organo (centrale o periferico) competente e disporre la disattivazione dovrà farsi riferimento alle norme di organizzazione del Ministero, e in particolare al D.P.R. 24 marzo 1995, n. 166 che all'art. 10, lett. m), il quale attribuisce ai funzionari preposti agli uffici circoscrizionali "il controllo tecnico per l'individuazione ed i conseguenti provvedimenti in materia di interferenze radioelettriche". Le disposizioni contenute nell'art. 10 di detto decreto sono già state ritenute decisive da questo Consiglio, per affermare in fattispecie analoghe a quella in esame, che la competenza a disattivare gli impianti di radiodiffusione in caso di modifiche non autorizzate, appartiene agli organi periferici del Ministero (Cons. Stato, VI, 11 maggio 2006, n. 2644; 26 luglio 2005, n. 4001; 22 giugno 2004, n. 4419; 7 luglio 2003, n. 4027). A quanto precede si deve aggiungere che laddove l'art. 1, comma 5, l. 30 aprile 1998, n. 122 stabiliva che il Ministero "attraverso i propri organi periferici" autorizza le modificazioni degli impianti sia ai fini della loro compatibilizzazione, sia dell'ottimizzazione e razionalizzazione delle aree servite dagli emittenti, esso conferma il riconoscimento agli organi periferici della competenza in tema di disattivazione, dovendo ritenersi che il potere di autorizzare modifiche agli impianti comprende necessariamente anche quello di irrogare le conseguenti misure sanzionatorie (Cons. Stato, VI, n. 2644/2006; 14 gennaio 2009, n. 121; 20 ottobre 2010, n. 7592). 11. L'appello deve essere, conseguentemente respinto. 12. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro4000,00 oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 marzo 2023 con l'intervento dei magistrati: Claudio Contessa - Presidente Fabio Franconiero - Consigliere Raffaello Sestini - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere Rosaria Maria Castorina - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9460 del 2022, proposto dalla Regione Abruzzo, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati St. Va. e Al. Fr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia contro Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Ce., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Ministero dell'istruzione e del merito, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via (...) nei confronti Provincia di Chieti, Ufficio Scolastico Regionale per l'Abruzzo, Istituto Ag. "C. Ri.", non costituiti in giudizio per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo, sede di L'Aquila, Sezione Prima, n. 348/2022 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e del Ministero dell'istruzione e del merito; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 aprile 2023 il Cons. Daniela Di Carlo; Udito l'avvocato Al. Fr.; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con il ricorso n. 444 del 2014, proposto davanti al Tar per l'Abruzzo, sede di L'Aquila, il Comune di (omissis) ha impugnato, chiedendone l'annullamento: I) per quanto riguarda il ricorso introduttivo: a) la delibera della Giunta Regionale d'Abruzzo n. 999 del 30.12.2013, pubblicata sul B.U.R.A. n. 3 del 22.01.2014, recante Piano regionale della rete scolastica (D.C.R. n. 97/3 del 15.11.2011) - anno scolastico 2014/2015; b) il Decreto del Direttore Generale dell'Ufficio scolastico regionale per l'Abruzzo emesso in data 19.02.2014, nonché il Decreto della medesima autorità emesso il 15.01.2014 prot. AOODRAB 205 che recepisce il piano di dimensionamento della rete scolastica della Regione Abruzzo a.s. 2014/2015; II) per quanto riguarda i primi motivi aggiunti: c) la delibera della Giunta Regionale d'Abruzzo n. 874 del 23.12.2014, pubblicata sul B.U.R.A. n. 3 del 21.01.2015, recante Piano regionale della rete scolastica (D.C.R. n. 97/3 del 15.11.2011) - anno scolastico 2015/2016"; d) il Decreto del Direttore Generale dell'Ufficio scolastico regionale per l'Abruzzo emesso in data 13.01.2015, prot. AOODRAB che recepisce il piano di dimensionamento della rete scolastica della Regione Abruzzo a.s. 2015/2016; III) per quanto riguarda i secondi motivi aggiunti: e) la delibera della Giunta Regionale d'Abruzzo n. 821 del 19.12.2019, recante Piano regionale della rete scolastica (D.C.R. n. 97/3 del 15.11.2011) - anno scolastico 2020/2021; f) il Decreto del Direttore Generale dell'Ufficio scolastico regionale per l'Abruzzo emesso il 14.01.2020 prot. AOODRAB che recepisce il piano di dimensionamento della rete scolastica della Regione Abruzzo a.s. 2020/2021; IV) per quanto riguarda i terzi motivi aggiunti: g) la delibera della Giunta Regionale d'Abruzzo n. 33 del 31.01.2022, recante Piano regionale della rete scolastica (D.C.R. n. 97/3 del 15.11.2011) - anno scolastico 2022/2023; h) il Decreto del Direttore Generale dell'Ufficio scolastico regionale per l'Abruzzo emesso il 22.02.2022 prot. AOODRAB che recepisce il piano di dimensionamento della rete scolastica della Regione Abruzzo a.s. 2022/2023. 2. A sostegno del ricorso introduttivo, il Comune ha dedotto plurime violazioni di legge e svariate figure sintomatiche dell'eccesso di potere, e nello specifico: violazione e falsa applicazione degli artt. 139, decreto legislativo n. 112/1998, 79, legge regionale Abruzzo n. 11/1999, 3, comma 3, d.P.R. n. 233/1998; contraddittorietà, carenza motivazionale e illogicità manifesta; violazione dell'art. 19, comma 5, d.l. 98/2011 ed eccesso di potere per sviamento. Con i primi motivi aggiunti, oltre alle suddette censure, ha dedotto altresì : violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 del d.P.R. n. 233/1998 e 21, legge n. 59/1997, nonché del punto 4 degli indirizzi per la programmazione scolastica regionale di cui alla deliberazione del consiglio regionale dell'Abruzzo n. 97/3 del 15.11.2011 e carenza motivazionale e contraddittorietà degli atti impugnati. Con il secondo e con il terzo atto di motivi aggiunti ha articolato le medesime censure anche avverso gli atti di programmazione e relativi atti di recepimento afferenti alle successive annualità scolastiche. 3. Il Tar ha accolto il ricorso con la motivazione che "La gravata deliberazione della Giunta regionale n. 999/2013 recepisce il parere del tavolo tecnico interistituzionale istituito con deliberazioni della Giunta regionale n. 97/2011, che si è dichiarato favorevole all'accorpamento fra l'istituto "P.S. Zi. di Ca. e l'istituto "C. Ri." di Sc. con la seguente motivazione "pur considerando i vincoli che attengono alla costituzione di Istituti Omnicomprensivi, preso atto della specificità riscontrata del Comune di (omissis), si esprime a favore della prima proposta". La "specificità riscontrata nel Comune di (omissis)" indicata dall'Assessore regionale promotore della proposta fa riferimento a "criticità anche sul piano dei collegamenti dai paesi limitrofi". Si tratta, come è evidente, di una giustificazione del tutto generica, meramente apparente, perché non esprime alcuna valutazione sui collegamenti viari, né spiega, come dovrebbe con un doveroso richiamo ai criteri di valutazione indicati negli indirizzi soprarichiamati, se essi sono - in ipotesi - insufficienti, difficoltosi, a lunga percorrenza, né come l'aggregazione all'Istituto "P.S. Zi." di Ca. potrebbe costituire un fattore di superamento o attenuazione delle inespresse criticità rilevate. La motivazione a sostegno dell'aggregazione dei due istituti avrebbe dovuto invece essere specifica e circostanziata a dimostrazione di "condizioni di particolare isolamento" che secondo i richiamati indirizzi giustificano eccezionalmente l'aggregazione verticale di istituzioni scolastiche di grado diverso. Né la natura di atto generale del piano di razionalizzazione della rete scolastica avrebbe potuto esonerare la Regione dal motivare le deroghe ai criteri che essa stessa si è data mediante la puntuale indicazione delle ragioni che quegli stessi criteri indicano come le uniche che possono giustificare tali deroghe". Nel regolare le spese processuali, liquidate in Euro 3.000,00 oltre accessori di legge in favore del Comune di (omissis), il Tar le ha poste a carico esclusivo della Regione Abruzzo, compensandole invece nei confronti del Ministero dell'istruzione. 4. La Regione Abruzzo ha appellato la sentenza deducendo, anzitutto, l'erroneità della stessa in punto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. La sentenza impugnata, si sostiene, deve essere riformata per aver annullato completamente gli atti impugnati con il ricorso principale e con i motivi aggiunti, nonostante le doglianze avversarie si appuntassero esclusivamente sulla parte del piano di dimensionamento scolastico regionale relativa all'accorpamento di due plessi scolastici (quello già sede dell'Istituto Comprensivo "P. S. Zi." comprendente le scuole secondarie di primo grado di (omissis), di (omissis) e di (omissis) oltre alla scuola dell'infanzia e la primaria di (omissis) con circa 540 alunni, e quello, già sede della direzione didattica, "E. Ma." comprendente le scuole dell'infanzia e primaria dei comuni di (omissis), di (omissis) e di (omissis) con circa 529 alunni) accorpati in un Istituto omnicomprensivo ricomprendente l'Istituto Tecnico per il settore merceologico "Agraria - Agroalimentare - Agroindustria" denominato "C. Ri." di Sc. e l'Istituto Comprensivo denominato "P.S. Zi." di Ca., con conseguente soppressione di quest'ultimo. Inoltre, la Regione ha insistito sulla legittimità del proprio operato alla luce del disposto di cui all'art 138, d.lgs. n. 112/98, che richiama l'art. 118 Cost.: "(...) sono delegate alle regioni le seguenti funzioni amministrative: a) la programmazione dell'offerta formativa integrata tra istruzione e formazione professionale; b) la programmazione, sul piano regionale, nei limiti delle disponibilità di risorse umane e finanziarie, della rete scolastica, sulla base dei piani provinciali, assicurando il coordinamento con la programmazione di cui alla lettera a); c) la suddivisione, sulla base anche delle proposte degli enti locali interessati, del territorio regionale in ambiti funzionali al miglioramento dell'offerta formativa (...)". Ancora, la Regione ha rappresentato come la scelta di costituire l'Istituto omnicomprensivo trovava fondamento nell'intento di affrontare una specifica criticità territoriale relativa ad una istituzione scolastica ampiamente sottodimensionata, con un numero di studenti pari a 217 e in reggenza sul piano della dirigenza, già prospettata in sede di tavolo tecnico istituzionale in data 16/12/2013 dall'assessore all'istruzione della Provincia di Chieti. Infine, quanto alla determinazione della sede della dirigenza scolastica, la Regione ha insistito nel dire che si ritengono non fondate le affermazioni del Comune di (omissis) relative al fatto che "(...) L'unica ragione ravvisabile in tale assurdo provvedimento sembra essere quella di evitare che il predetto Istituto perda l'assegnazione della dirigenza a tempo indeterminato e degli Uffici Amministrativi connessi (...)" ritenendosi, a suo immotivatamente, che l'odierna appellante avrebbe assunto tale decisione al solo scopo di evitare all'istituto "C. Ri." di Sc. la perdita della sede della dirigenza scolastica. 5. Il Comune di (omissis) ha resistito al gravame e ha chiesto il rigetto dell'appello. 6. Anche il Ministero dell'istruzione e del merito si è costituito in giudizio. 7. Le parti hanno ulteriormente insistito sulle rispettive tesi difensive. 8. All'udienza pubblica del 18 aprile 2023, la causa è stata trattenuta in decisione. 9. L'appello è fondato limitatamente alla censura con cui si è dedotta la violazione del principio tra il chiesto e il pronunciato, mentre per il resto è infondato. Più in particolare, si è acclarato che i piani e gli atti di recepimento impugnati recano previsioni che vanno al di là delle contestazioni mosse dal ricorrente Comune di (omissis), e che dunque esulano dal suo personale interesse ad ottenere la caducazione dei suddetti atti in parte qua, anche tenuto conto della natura ad effetti scindibili dei piani e del fatto che, sulla base degli atti processuali, non consta che altri Comuni li abbiano a propria volta impugnati. Pertanto, in tale parte, la sentenza va certamente riformata. 10. Quanto alle residue censure mosse, le stesse sono invece infondate. Le ragioni che hanno spinto il Comune di (omissis) a proporre l'odierno giudizio attengono alla esistenza, nel territorio comunale di riferimento, di due plessi scolastici di cui uno, già sede dell'Istituto Comprensivo "P. S. Zi." comprendente le scuole secondarie di primo grado di (omissis), di (omissis) e di (omissis), oltre alla scuola dell'infanzia e alla primaria di (omissis) con circa 540 alunni, e l'altro, già sede della direzione didattica, "E. Ma.", comprendente le scuole dell'infanzia e primaria dei comuni di (omissis), di (omissis) e di (omissis) con circa 529 alunni, entrambi dotati di propria autonomia e personalità giuridica fino all'anno 2012, allorché veniva costituito un Istituto omnicomprensivo ricomprendente, per l'appunto, l'Istituto Tecnico per il settore merceologico "Agraria - Agroalimentare - Agroindustria" denominato "C. Ri." di Sc. e dall'Istituto Comprensivo denominato "P.S. Zi." di Ca., con la conseguente soppressione di quest'ultimo, disposta nell'ottica di razionalizzazione e di approvazione di un piano di dimensionamento scolastico. Nell'ambito della programmazione della rete scolastica provinciale, in ottemperanza all'art. 19, comma 4, del D.L. 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla legge n. 111 del 15 luglio 2011 e una volta verificata l'intesa con tutte le Istituzioni interessate, il Comune di (omissis) provvedeva, con delibera di C.C. n. 48 del 28 novembre 2011, a formalizzare la proposta di accorpamento dei predetti Istituti in un unico Istituto Comprensivo. Difatti, la normativa appena citata prevedeva che, per "garantire un processo di continuità didattica nell'ambito del primo ciclo di Istruzione", si procedesse all'accorpamento delle scuole dell'infanzia, primaria e secondaria di primo grado in Istituti comprensivi che raggiungessero il requisito minimo dei 1.000 alunni per acquisire o conservare l'autonomia. Successivamente, con D.G.R n. 954 del 29 dicembre 2011 recante "Piano regionale della rete scolastica (D.C. 97/3 del 15 novembre 2011) - anno scolastico 2012/2013", in coerenza con la proposta effettuata dal Comune di (omissis), le predette istituzioni scolastiche venivano accorpate in un unico ente, dotato di propria personalità giuridica ed autonomia, denominato Istituto comprensivo n. 13, comprendente 13 plessi-sedi, distribuiti in quattro comuni con utenza pari a circa 1.100 alunni, ben al di sopra del requisito minimo di cui alla normativa appena citata. Con il medesimo provvedimento veniva contestualmente disposta la soppressione della Direzione Didattica "E. Ma." di (omissis). Senonché, con sentenza n. 147/2012, la Corte costituzionale dichiarava l'incostituzionalità del comma 4 dell'art. 19 del D.L. n. 98/2011, sul cui presupposto erano stati emanati tutti gli atti relativi al dimensionamento scolastico "per violazione dell'art 117, terzo comma Cost. essendo una norma di dettaglio dettata in un ambito di competenza concorrente", in quanto tale riservata alla competenza della Regione Abruzzo. La stessa Corte, con la medesima pronuncia, dichiarava non fondata, invece, la questione di legittimità costituzionale relativa al successivo comma 5 dell'art. 19 del D.L. 98/2011, il quale prevede che alle Istituzioni scolastiche autonome costituite con un numero di alunni inferiori alle 600 unità non possano essere assegnati dirigenti scolastici con incarico a tempo indeterminato, essendo possibili per tali Istituzioni soltanto incarichi dirigenziali in reggenza conferiti a dirigenti scolastici con incarico su altre Istituzioni autonome, con la motivazione che la finalità di riduzione del numero dei dirigenti scolastici al fine del contemperamento della spesa pubblica è materia che rientra nell'ambito della competenza esclusiva dello Stato. Ciò detto, il Comune di (omissis) non impugnava il piano regionale del dimensionamento scolastico relativo all'a.s. 2012/2013, visto che l'accorpamento aveva riguardato istituzioni scolastiche appartenenti al medesimo ciclo di istruzione. Tuttavia, è accaduto poi che la Regione Abruzzo, con delibera n. 717 del 7 ottobre 2013, approvava le Disposizioni per le attività dirette alla definizione del Piano regionale della rete Scolastica per l'a.s. 2014/2015. Con tale provvedimento, quanto al dimensionamento della rete scolastica per l'a.s. 2014/2015, venivano confermati gli "Indirizzi per la programmazione della rete scolastica regionale" approvati con D.C.R. n. 97/3 del 15 novembre 2011, che, relativamente ai criteri per il dimensionamento delle Istituzioni Scolastiche Autonome, disponeva che: 1. con riferimento al I ciclo di istruzione, dovrà essere perseguita l'aggregazione in Istituti comprensivi delle scuole dell'infanzia, delle scuole primarie e delle scuole secondarie di primo Grado, nei limiti consentiti da specifiche situazioni territoriali; 2. con riferimento al II ciclo di istruzione dovrà essere perseguito il riequilibrio territoriale delle opportunità di scelta dell'offerta formativa da parte degli studenti. In particolare, per l'a.s. 2014/2015, le suddette disposizioni al punto 4. pag. 11 sconsigliavano la costituzione di Istituti Omnicomprensivi vista "la criticità di attivazione e funzionamento più volte rilevata, tenuto conto che la normativa ancora vigente (art. 2, comma 3 del Dpr n. 233/1988) prevede la sussistenza di peculiari situazioni" per la loro attivazione, prevedendosi che l'istituzione di Istituti comprensivi di scuole di ogni ordine e grado - i c.d. omnicomprensivi - possa avvenire soltanto "nelle piccole isole, nei comuni montani e nelle aree geografiche contraddistinte da specificità etniche o linguistiche". La proposta avanzata dal Comune di (omissis), formalizzata con delibera di C.C. n. 29 del 4.10.2012, tendente all'Istituzione di un Istituto Omnicomprensivo con l'aggregazione verticale delle scuole del primo ciclo dei territori dei comuni di (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis) con l'Istituto Tecnico Agrario di (omissis) con dirigenza scolastica presso quest'ultimo Istituto, non veniva presa in considerazione dal Piano regionale della rete scolastica 2013/2014. Tale proposta, infatti, non era ritenuta coerente con gli indirizzi summenzionati, che escludono l'attivazione di nuovi Istituti omnicomprensivi, se non come si è detto in presenza di peculiari situazioni. Senonché, nell'ambito del Piano di dimensionamento scolastico relativo all'a.s. 2014/2015, veniva replicata la medesima proposta relativa all'Istituzione dell'omnicomprensivo, già avanzata in precedenza dal Comune di (omissis) con la delibera di Consiglio Comunale sopra citata e già bocciata dalla Regione Abruzzo con l'approvazione del Piano regionale della rete Scolastica a.s. 2013/2014 di cui alla D.G.R. 937 del 28 dicembre 2012. Il Comune di (omissis), nell'ambito della procedura diretta alla formazione del Piano provinciale del dimensionamento scolastico, con delibera di Consiglio Comunale 212 del 13 dicembre 2013, formalizzava la propria contrarietà all'Istituzione dell'Omnicomprensivo così come proposto dal Comune di (omissis) e dagli organi deliberativi dell'Istituto Ag. "C. Ri.", opponendosi nel contempo alla soppressione dell'autonomia scolastica dell'Istituto Comprensivo di (omissis). In particolare, il Comune di (omissis) esprimeva il proprio "totale dissenso alla proposta del comune di (omissis) dell'Omnicomprensivo in quanto illegittima, irragionevole, manifestamente in violazione di legge e degli indirizzi della Regione Abruzzo", ribadendo così quanto già deliberato con atto consiliare n. 39 del 22 novembre 2012 di contenuto identico alla deliberazione in parola. Senonché, è poi accaduto che la Regione Abruzzo, con deliberazione di Giunta Regionale n. 999 del 30 dicembre 2013, nell'approvare le operazioni di razionalizzazione e di adeguamento del vigente dimensionamento scolastico, di cui all'allegato "1-CH" recante Provincia di Chieti - Dimensionamento della rete scolastica, provvedeva alla costituzione di un Istituto omnicomprensivo formato dall'Istituto Tecnico per il settore tecnologico "Agraria - Agroalimentare - Agroindustria" "C. Ri." di Sc. e dall'IC "P.S. Zi." di Ca., non motivando circa la decisione assunta. 11. Il quadro normativo di riferimento è sufficientemente chiaro, preciso ed adeguato: i) l'art. 138, del d.lgs. n. 112/1998, che ha conferito alle regioni e agli enti locali competenze amministrative statali in attuazione della l. 15 marzo 1997, n. 59 prevede che "ai sensi dell'articolo 118, comma secondo, della Costituzione, sono delegate alle regioni le seguenti funzioni amministrative: a) la programmazione dell'offerta formativa integrata tra istruzione e formazione professionale; b) la programmazione, sul piano regionale, nei limiti delle disponibilità di risorse umane e finanziarie, della rete scolastica, sulla base dei piani provinciali, assicurando il coordinamento con la programmazione di cui alla lettera a)". ii) il successivo art. 139 attribuisce alle province, in relazione all'istruzione secondaria superiore, e ai comuni, in relazione agli altri gradi inferiori di scuola, i compiti e le funzioni concernenti: "a) l'istituzione, l'aggregazione, la fusione e la soppressione di scuole in attuazione degli strumenti di programmazione; b) la redazione dei piani di organizzazione della rete delle istituzioni scolastiche"; iii) il d.P.R. n. 233/1998 detta le norme per il dimensionamento ottimale delle Istituzioni scolastiche e per la determinazione degli organici funzionali dei singoli istituti, a norma dell'art. 21 Legge n. 59 del 16 luglio 1997. L'art. 2 stabilisce: - "L'autonomia amministrativa, organizzativa, didattica e di ricerca e progettazione educativa è riconosciuta alle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, ivi comprese quelle già dotate di personalità giuridica che raggiungono dimensioni idonee a garantire l'equilibrio ottimale tra domanda di istruzione e organizzazione dell'offerta formativa" (comma 1); - "Ai fini indicati al comma 1, per acquisire o mantenere la personalità giuridica gli istituti di istruzione devono avere, di norma, una popolazione consolidata e prevedibilmente stabile almeno per un quinquennio, compresa tra i 500 e 900 alunni; tali indici sono assunti come termini di riferimento per assicurare l'ottimale impiego delle risorse professionali e strumentali" (comma 2); - " Nelle piccole isole, nei comuni montani, nonché nelle aree geografiche contraddistinte da specificità etniche o linguistiche, gli indici di riferimento previsti dal comma 2 possono essere ridotti fino a 300 alunni....."(comma 3) "Gli indici minimi di riferimento previsti dal comma 3 sono applicabili anche agli istituti secondari di istruzione artistica, professionale e tecnica con indirizzi formativi particolarmente specializzati e a diffusione limitata nell'ambito nazionale e regionale" (comma 8). L'art. 4 del d.P.R. n. 233/1998 stabilisce: "Agli enti locali è attribuita ogni competenza in materia di soppressione, istituzione, trasferimento di sedi, plessi, unità delle istituzioni scolastiche che abbiano ottenuto la personalità giuridica e l'autonomia. Tale competenza è esercitata su proposta e, comunque previa intesa, con le istituzioni scolastiche interessate con particolare riguardo al raggiungimento delle finalità di cui all'art. 1, comma 2, nel rispetto delle competenze di cui all'art. 137 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112". 12. Il Tar ha correttamente interpretato e applicato le suddette previsioni, nel senso che sulla base della lettura coordinata delle dette disposizioni si può affermare che un'istituzione scolastica autonoma non è soggetta ad accorpamento con altre istituzioni scolastiche provinciali se ha un'utenza compresa fra 500 e 900 alunni e conserva, pertanto, la personalità giuridica e la conseguente dotazione burocratica stabilita dalla normativa statale per le istituzioni scolastiche autonome. Viceversa, si procede ad accorpamento con altre istituzioni se la popolazione scolastica dell'istituto è inferiore a parametri che, secondo l'art. 2 d.P.R. n. 233/1998, costituiscono termini di riferimento per assicurare l'ottimale impiego delle risorse professionali e strumentali. Assumendo come premessa al proprio ragionamento un dato di fatto incontestabilmente oggettivo (ossia che l'istituto comprensivo "P.S. Zi." di Ca. aveva un'utenza che superava i 1100 alunni), il Tar ne ha tratto il logico e ragionevole convincimento che non vi era alcuna necessità di accorpare detto istituto a un'altra istituzione scolastica, in specie l'Istituto Ag. "C. Ri." che, invece, con 217 alunni non disponeva di detti requisiti ed era quindi fisiologicamente destinato ad essere soppresso e aggregato a un'altra istituzione scolastica. Inoltre, a supporto del proprio ragionamento, il Tar si è anche domandato se l'operazione di accorpamento dell'Istituto "P.S. Zi." di Ca. all'Istituto "C. Ri.", anche ove fosse giustificato dal sottodimensionamento di quest'ultimo, fosse coerente con i parametri normativi e amministrativi presupposti. Il Tar è giunto ad una risposta negativa, anch'essa tratta sulla base di dati conoscitivi oggettivi e positivamente riscontrabili, emergenti dal contenuto della deliberazione del Consiglio della Regione Abruzzo n. 97/3 del 15 novembre 2011 che ha approvato gli indirizzi per la programmazione della rete scolastica regionale richiamata nella d.G.R. n. 999/2013 che a sua volta ha approvato il piano di organizzazione della rete scolastica regionale impugnato con il ricorso introduttivo. In detti indirizzi viene specificato che "per garantire la permanenza negli ambiti territoriali definiti ai sensi dell'art. 3 di scuole che non raggiungono, da sole o unificate, con scuole dello stesso grado, dimensioni ottimali, sono costituiti istituti di scuola materna, elementare e media, allo stesso fine e per assicurare la più efficace corrispondenza fra gli istituti di istruzione secondaria superiore e le caratteristiche del territorio di riferimenti, nonché tra la necessaria varietà dei percorsi formativi proposti da ciascun istituto e la domanda di istruzione espressa dalla popolazione scolastica, si procede alla unificazione di istituti di diverso ordine o tipo che non raggiungono, separatamente, le dimensioni ottimali e insistono sullo stesso bacino d'utenza, ivi comprese le sezioni staccate e scuole coordinate dipendenti da istituti posti in località distanti e compresi in altri ambiti territoriali di riferimento, tali istituzioni assumono la denominazione di istituto di istruzione secondaria superiore (...). Richiamati i riferimenti precedentemente evidenziati, si prospettano i seguenti criteri per il dimensionamento delle Istituzioni Scolastiche Autonome: I. Con riferimento al I ciclo di istruzione, l'aggregazione in istituti comprensivi delle scuole dell'infanzia, delle scuole primarie e delle scuole secondarie di primo grado, con la soppressione delle istituzioni scolastiche autonome costituite separatamente da Direzioni Didattiche e Scuole secondarie di primo grado dovrà essere perseguita nei limiti consentititi dalle specifiche situazioni territoriali, soprattutto nel casi di località contraddistinte da sfavorevoli condizioni relative all'orografia, alla viabilità, al sistema dei trasporti, ai tempi di percorrenza, che contribuiscono a determinare condizioni di particolare isolamento (...) in condizioni di particolare isolamento possono essere costituiti Istituti comprensivi di scuole di ogni ordine e grado". Il Tar è giunto alla conclusione, condivisa anche da questo Collegio, secondo cui gli indirizzi accolti dalla Regione escludono chiaramente l'accorpamento di istituti d'istruzione appartenenti a gradi diversi del percorso formativo, laddove ammettono la formazione di istituti comprensivi verticali fra scuole appartenenti al primo ciclo di istruzione (infanzia, primarie e medie) nei limiti consentiti dalle "specifiche situazioni territoriali" e fra scuole appartenenti a gradi diversi (infanzia primarie, medie e superiori) solo "in condizioni di particolare isolamento". Confrontando la motivazione contenuta nella gravata deliberazione della Giunta regionale nella parte in cui si è dichiarata favorevole all'accorpamento ("pur considerando i vincoli che attengono alla costituzione di Istituti Omnicomprensivi, preso atto della specificità riscontrata del Comune di (omissis), si esprime a favore della prima proposta") con il substrato materiale in cui è consistita la "specificità riscontrata nel Comune di (omissis)" (ovverossia la "criticità anche sul piano dei collegamenti dai paesi limitrofi"), si può agevolmente concludere, come ha fatto il Tar, che si tratta di "una giustificazione del tutto generica, meramente apparente, perché non esprime alcuna valutazione sui collegamenti viari, né spiega, come dovrebbe con un doveroso richiamo ai criteri di valutazione indicati negli indirizzi soprarichiamati, se essi sono - in ipotesi -insufficienti, difficoltosi, a lunga percorrenza, né come l'aggregazione all''Istituto "P.S. Zi." di Ca. potrebbe costituire un fattore di superamento o attenuazione delle inespresse criticità rilevate". La motivazione a sostegno dell'aggregazione dei due istituti avrebbe dovuto invece essere specifica e circostanziata a dimostrazione di "condizioni di particolare isolamento" che secondo i richiamati indirizzi giustificano eccezionalmente l'aggregazione verticale di istituzioni scolastiche di grado diverso. Né la natura di atto generale del piano di razionalizzazione della rete scolastica avrebbe potuto esonerare la Regione dal motivare le deroghe ai criteri che essa stessa si è data mediante la puntuale indicazione delle ragioni che quegli stessi criteri indicano come le uniche che possono giustificare tali deroghe". Alle suddette considerazioni, il Collegio aggiunge le seguenti. Non è in contestazione, nel caso all'esame, il principio generale secondo cui l'intervento regionale in materia di dimensionamento scolastico non può considerarsi limitato ad un'attività di mero coordinamento dei piani provinciali, dal momento che la normativa di riferimento assegna alla Regione il compito di adottare il piano regionale della rete scolastica, non necessariamente in conformità ma "sulla base dei piani provinciali, assicurando il coordinamento con la programmazione di cui alla lett. a). Inoltre, è altrettanto indiscutibile che sulla base dell'assetto legislativo definito dal decreto legislativo n. 112/1998, alle Province e ai Comuni sia assegnata una funzione attuativa degli strumenti di programmazione regionali. Fermi, dunque, i suddetti principi, non va però sottaciuto che le ragioni dell'accoglimento sono incentrate sull'eccesso di potere per violazione degli autovincoli assunti dalla stessa Amministrazione regionale e per difetto di motivazione circa le ragioni specifiche che avrebbero consentito di superare i detti autovincoli, posto che la motivazione della delibera impugnata nella parte in cui riferiva di non meglio precisate criticità dei collegamenti viari non coincide, né può equivalere agli effetti, alla specifica clausola derivante dall'atto di autovincolo e consistente nella sussistenza di condizioni di particolare isolamento. 13. In definitiva, in parziale riforma della sentenza impugnata, il ricorso e i motivi aggiunti articolati in primo grado vanno accolti nei limiti dell'impugnazione proposta dal Comune di (omissis) e gli atti impugnati vanno caducati in parte qua. 14. La complessità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese del giudizio di appello. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, accoglie l'appello limitatamente alla parte in cui si è lamentata la totale caducazione del piano regionale impugnato e, in riforma della sentenza appellata, accoglie il ricorso di primo grado e annulla il suddetto piano nei soli limiti dell'interesse del Comune di (omissis). Le spese del giudizio di appello sono compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2023 con l'intervento dei magistrati: Claudio Contessa - Presidente Fabio Franconiero - Consigliere Daniela Di Carlo - Consigliere, Estensore Maurizio Antonio Pasquale Francola - Consigliere Marco Valentini - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 168 del 2022, proposto da Lo. Te., rappresentata e difesa dall'avvocato Ri. Go., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero della Giustizia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti Ma. Sa., non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo sezione staccata di Pescara Sezione Prima n. 287/2021, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 maggio 2023 il Cons. Stefano Filippini; Udito l'avv. Ma., in sostituzione dell'avv. Ri. Go.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Lo. Te., Ispettore del Corpo di Polizia penitenziaria, ha impugnato dinanzi al TAR per l'Abruzzo - sezione staccata di Pescara- una serie di atti (meglio indicati in ricorso) con i quali l'Amministrazione l'avrebbe demansionata subordinandola di fatto al controinteressato Vice Ispettore Ma. Sa., attribuendo a quest'ultimo le funzioni di coordinamento dei servizi di vigilanza armata e sicurezza, di gestione degli automezzi e altri servizi presso l'U.D.E.P.E. di Pescara, sovvertendo così il criterio gerarchico statuito dagli articoli 6, 9 e 10 della legge 395 del 1990, nonché attribuendo alla Te. mansioni proprie del servizio di portineria, di competenza di appartenenti al ruolo degli agenti/assistenti, nonché mansioni amministrative di collaborazione con la segreteria amministrativa e tecnica e con il personale del servizio sociale, che sarebbero dunque proprie dell'Area educativa e non di appartenenti alla Polizia penitenziaria; tutto ciò in violazione dell'articolo 23 del d.lgs. 443 del 1992 che delinea le funzioni proprie degli ispettori della Polizia penitenziaria. 1.1. A tal proposito, la Te. articolava dinanzi al TAR le censure che possono riassumersi nei termini seguenti: - in relazione ai provvedimenti attributivi delle mansioni, lamentava: violazione degli artt. 9 e 10 della legge n. 395/1990 - violazione degli artt. 2 e 23 del d.lgs. 443/1992 - violazione del d.p.r. n. 82/1999 - violazione e falsa applicazione dell'art. 1 della legge n. 241/1990 - eccesso di potere per sviamento e violazione del principio sostanziale di uguaglianza - eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità e manifesta contraddittorietà '. - ancora in relazione ai provvedimenti attributivi delle mansioni, lamentava: violazione degli artt. 1, 3, 4, 35, 36, 37 e 97 della Costituzione - eccesso di potere per discriminazione - eccesso di potere per demansionamento - eccesso di potere per sviamento e violazione del principio sostanziale di uguaglianza - eccesso di potere per illogicità, irragionevolezza e manifesta contraddittorietà - violazione degli artt. 2 e 22 del d.lgs. 442/1992 - violazione del d.p.r. n. 82/1999 - violazione e falsa applicazione dell'art. 1 della legge n. 241/1990. - quanto alle conseguenze del preteso demansionamento, lamentava: violazione del d.p.r. n. 82/1999, violazione del d.lgs. n. 443/1992 - eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità e manifesta contraddittorietà - sussistenza dei presupposti per la condanna della P.A. resistente all'adozione dei provvedimenti ex art. 34, comma 1, lett. c), c.p.a. - violazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione - sussistenza dei presupposti per la condanna della P.A. al risarcimento del danno ex art. 30, commi 2 e 5, c.p.a.. 1.2. E, in relazione a tali censure, la Te. formulava le seguenti conclusioni: - accertare la discriminazione professionale e il demansionamento operati illegittimamente dalla P.A. resistente in danno della ricorrente; - accertare il diritto della ricorrente a vedersi corrispondere l'indennità di presenza giornaliera prevista dalla circolare del Ministero della Giustizia n. GDAP-0034052-2015 del 30.01.2015 per il servizio svolto dal mese di settembre 2018 al mese di aprile 2019 e per i 15 giorni del mese di agosto in sostituzione del vice ispettore Ma. Sa.; - accertare il diritto della ricorrente a vedersi formalmente assegnare le funzioni di coordinamento dei Servizi di competenza della Polizia penitenziaria presso l'U.D.E.P.E. di Pescara confacenti alla propria qualifica di Ispettore del Corpo di Polizia penitenziaria nel rispetto dell'ordine gerarchico ex lege previsto; - annullare, previa sospensione dell'efficacia: l'ordine di servizio n. 5 del 16.05.2019 adottato dal Direttore dell'Ufficio Distrettuale di Esecuzione Penale Esterna di Pescara (di seguito U.D.E.P.E.), del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità (di seguito D.G.M.C.), notificato alla ricorrente in data 8.07.2019; la disposizione di servizio n. 6 del 29.05.2019 adottata dal Direttore dell'U.D.E.P.E. della D.G.M.C., non notificato alla ricorrente; ove occorrer possa, il derivato Ordine di servizio n. 8 del 12.06.2019 a firma del Direttore dell'U.D.E.P.E. della D.G.M.C., non notificato alla ricorrente; la nota prot. n. 2400 del 25.07.2019 a firma del Direttore dell'U.D.E.P.E. della D.G.M.C. di rigetto della richiesta di annullamento dei sopraindicati ordini di servizio nn. 5 e 6 del 2019; ogni altro atto o provvedimento consequenziale e comunque lesivo degli interessi e diritti della ricorrente; -e per l'effetto: condannare la P.A. resistente alla formale assegnazione in favore della ricorrente delle funzioni di coordinamento dei Servizi di competenza della Polizia penitenziaria presso dell'U.D.E.P.E. di Pescara confacenti alla qualifica di Ispettore dalla stessa posseduta, così come già svolte in precedenza in sostituzione del vice isp. Sa.; condannare la P.A. resistente alla corresponsione della indennità di presenza giornaliera maturata nel periodo da settembre 2018 ad aprile 2019 e durante il mese di agosto 2019 per il servizio svolto in sostituzione del vice isp. Ma. Sa.; condannare la P.A. resistente al risarcimento del danno professionale e all'immagine arrecati alla ricorrente da liquidare in via equitativa; condannare la P.A. resistente alle spese, competenze, diritti ed onorari di causa. 2. Si costituiva dinanzi al TAR l'Amministrazione per resistere al ricorso con ampie memorie ricostruttive della vicenda amministrativa. 3. Con la sentenza in epigrafe indicata, resa all'esito della camera di consiglio del giorno 9.4.2021 e pubblicata in data 1.6.2021, il TAR ha dichiarato in parte improcedibile e in parte infondato il ricorso della Te., compensando le spese del grado. A fondamento di tale decisione, il primo giudice ha sostanzialmente esposto: - la domanda di annullamento degli atti amministrativi impugnati e quella tesa a ottenere la condanna dell'Amministrazione all'attribuzione delle mansioni proprie del grado era divenuta improcedibile, atteso che con sentenza n. 267 del 2021, resa in altro giudizio (sempre proposto dalla Te.) all'esito della medesima camera di consiglio del giorno 9.4.2021 (e pubblicata il 24.5.2021), quello stesso TAR aveva dichiarato il diritto della ricorrente a essere trasferita, entro 30 giorni dalla notifica o comunicazione della medesima sentenza, presso il centro di prima accoglienza per minori dell'Aquila; sicché non si ravvisava più alcun interesse della Te. alla modifica delle mansioni cui ella è assegnata presso la sede UEPE di Pescara; - quanto ai profili risarcitori, invece, il ricorso risultava infondato, atteso che nessun danno è in re ipsa, vale a dire il danno non coincide con la lesione del diritto, che attiene all'ingiustizia, ma riguarda il pregiudizio patrimoniale o morale come evento-conseguenza di tale lesione; nella specie, la Te. non aveva né allegato né dimostrato l'effettivo pregiudizio subito, limitandosi ad allegare solo elementi di diritto in ordine alla prova della ingiustizia del demansionamento e alla descrizione astratta del danno all'immagine, senza fornire "alcun elemento di prova in grado di dimostrare in concreto l'effettiva lesione, il nesso di causalità, e l'entità della lesione stessa"; aspetti alla cui carenza probatoria sull'an non poteva sopperire il giudice in via equitativa, atteso che tale metodo attiene alla determinazione del quantum debeatur; - quanto alle spese, le stesse dovevano essere compensate in ragione della natura parzialmente in rito della decisione. 4. Avverso tale sentenza ha proposto appello la Te., articolando i motivi che possono riassumersi nei termini seguenti: - Nullità della sentenza - violazione degli artt. 1, 2, 3, 35, 73, 84, 85, 88 del c.p.a. - violazione degli artt. 99, 101 e 112 c.p.c. - omessa pronuncia - difetto assoluto della motivazione - violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato - violazione degli artt. 24 e 111 della costituzione - manifesta illogicità e irragionevolezza. Invero, l'udienza pubblica si è tenuta in data 9.4.2021 e la decisione del TAR non avrebbe potuto prendere in considerazione una decisione posteriormente assunta e pubblicata, utilizzando emergenze che non appartengono alla presente causa, ma a un parallelo giudizio; né è possibile il rilievo officioso dell'improcedibilità del ricorso senza il previo avviso di cui all'art. 73 comma 3 c.p.a., indispensabile per garantire l'effettività del contraddittorio e del diritto di difesa. Per effetto di tali violazione, la parte: - non ha ricevuto pronuncia in ordine al richiesto accertamento del demansionamento e della discriminazione professionale perpetrati in suo danno, continuando a subire entrambi per il tramite degli atti di cui aveva chiesto l'annullamento, i quali hanno continuato ad espletare la loro efficacia lesiva nei confronti della stessa anche dopo la pubblicazione della sentenza; - non ha ricevuto pronuncia sulla richiesta "corresponsione dell'indennità di presenza giornaliera per il servizio dalla stessa svolto in sostituzione del vice isp. Sa.", continuando a subire il relativo danno patrimoniale, rimasto non ristorato; - non ha ricevuto pronuncia in ordine al richiesto accertamento del suo diritto a vedersi formalmente assegnare le funzioni di coordinamento dei Servizi di competenza della Polizia penitenziaria confacenti alla propria qualifica di Ispettore del Corpo di Polizia penitenziaria nel rispetto dell'ordine gerarchico ex lege previsto, continuando a svolgere, fino all'effettivo trasferimento, mansioni non confacenti alla propria qualifica. - Erroneità della sentenza per violazione degli artt. 1, 3 e 88 del c.p.a. - violazione dell'art. 112 c.p.c. - violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato - violazione degli artt. 24 e 111 della Costituzione - omessa pronuncia - difetto della motivazione - omessa istruttoria - Manifesta illogicità e irragionevolezza. Invero, il TAR, ritenendo erroneamente che la ricorrente chiedesse altresì il (solo) risarcimento del danno all'immagine, ha completamente omesso di pronunciarsi in ordine al diverso grave danno professionale che la Te. - anche mediante gli atti di cui chiedeva l'annullamento, nonché, il demansionamento e la discriminazione perpetrati in suo danno, dei quali chiedeva l'accertamento - subiva e ha continuato a subire. Il TAR ha omesso, altresì, di scrutinare e di pronunciare sulla domanda dell'allora ricorrente con la quale, come da conclusioni rassegnate col relativo ricorso, chiedeva "accertare il diritto della ricorrente a vedersi corrispondere l'indennità di presenza giornaliera prevista dalla circolare del Ministero della Giustizia n. GDAP-0034052-2015 del 30.01.2015 per il servizio svolto dal mese di settembre 2018 al mese di aprile 2019 e per i 15 giorni del mese di agosto in sostituzione del vice ispettore Ma. Sa." con relativa condanna della P.A.. Domanda che viene ora espressamente riproposta. - Erroneità della sentenza impugnata per ingiustizia manifesta - violazione e falsa applicazione della disciplina di cui agli art. 91 e 92 c.p.c. come integrata dal d.m. n. 55/2014. - Riproposizione, in via subordinata, dei motivi del primo grado. 4.1. In relazione a tali motivi, l'appellante ha chiesto: - in via preliminare e principale, accertare e dichiarare la nullità della sentenza impugnata, disponendo il rinvio ai sensi dell'art. 105 c.p.a., con ogni conseguenza di legge; - in via subordinata, laddove l'impugnata sentenza non fosse ritenuta affetta da nullità, riformare la pronuncia medesima nei seguenti termini: - accertando e dichiarando la discriminazione professionale e il demansionamento operati illegittimamente dalla P.A. resistente in danno dell'appellante; - accertando e dichiarando il diritto dell'appellante a vedersi corrispondere l'indennità di presenza giornaliera prevista dalla circolare del Ministero della Giustizia n. GDAP-0034052-2015 del 30.01.2015 per il servizio svolto, dal mese di settembre 2018 al mese di aprile 2019 e per i 15 giorni del mese di agosto, in sostituzione del Vice Ispettore Ma. Sa., con conseguente condanna della P.A. resistente alla relativa corresponsione in favore dell'appellante; - accertando e dichiarando il diritto dell'appellante a vedersi assegnare le funzioni di coordinamento dei Servizi di competenza della Polizia penitenziaria confacenti alla propria qualifica di Ispettore del Corpo di Polizia penitenziaria, nel rispetto dell'ordine gerarchico ex lege previsto, anche presso l'U.D.E.P.E. di Pescara, con condanna della P.A. resistente - da valutarsi eventualmente come domanda di condanna in futuro - all'assegnazione delle stesse in favore dell'appellante; - accertando e dichiarando il danno professionale e all'immagine subito dall'appellante, con conseguente condanna della P.A. resistente al relativo risarcimento, da liquidare in via equitativa; - con conseguente dichiarazione di illegittimità e annullamento degli atti e provvedimenti impugnati col ricorso introduttivo in primo grado, come in epigrafe richiamati, nonché di ogni altro atto e provvedimento adottato dall'Amministrazione in adempimento alla sentenza impugnata; con vittoria di spese dei due gradi di giudizio e distrazione in favore del difensore di quelle del grado di appello. 5. Si è costituito anche in appello il Ministero appellato, contrastando i motivi di gravame e richiamando le difese già esposte in primo grado. 5.1. L'appellante ha replicato al Ministero con memoria depositata in data 9.5.2023. 6. Sulle difese e conclusioni in atti, la causa è stata trattenuta in decisione all'esito dell'udienza del 30.5.2023. DIRITTO 7. L'appello è fondato e può essere accolto nei soli limiti e termini infra precisati. 8. Quanto alla domanda proposta in principalità dall'appellante, di annullamento dell'intera sentenza impugnata perché pronunciata in violazione del diritto di difesa dell'originaria ricorrente (avendo il TAR rilevato ex officio l'improcedibilità di alcune domande e posto a fondamento di tale decisione elementi emersi dopo il passaggio in decisione della controversia), devesi considerare che, secondo l'espressa previsione contenuta nell'art. 73 co. 3 c.p.a., "Se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d'ufficio, il giudice la indica in udienza dandone atto a verbale. Se la questione emerge dopo il passaggio in decisione, il giudice riserva quest'ultima e con ordinanza assegna alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie". 8.1. Nella specie, emerge con evidenza dagli atti la duplice violazione di quest'ultima norma; invero: -all'udienza pubblica di discussione del 9.4.2021 non risulta che il TAR abbia formulato alcun avviso a verbale alle parti circa il possibile rilievo officioso di questioni; -la ritenuta improcedibilità di alcune delle domande proposte è stata fondata su elementi emersi "dopo il passaggio in decisione" e cioè dopo che il medesimo TAR ha deciso (all'esito della camera di consiglio tenutasi sempre il 9.4.2021, ma con pubblicazione della relativa sentenza, la n. 267\2021, in data 24.5.2021,) una differente controversia (quella iscritta al n. 193 del 2019, proposta dalla medesima parte privata) dichiarando il diritto della Te. a essere trasferita, entro 30 giorni dalla notifica o comunicazione di quella diversa sentenza, presso il centro di prima accoglienza per minori dell'Aquila. Se è vero che il giudice (nell'identità dell'udienza e del Collegio) può utilizzare elementi propri della distinta controversia ai fini della decisione dell'altra, essendosi anteriormente sulle stesse avuta piena discussione nel rispetto del contraddittorio, è tuttavia altrettanto vero che tali elementi non possono condurre ad una pronuncia in rito, in difetto della conoscenza della parte e, dunque, producendo un vulnus al diritto di difesa. 8.2. Ciò posto, occorre considerare che, secondo la previsione normativa espressamente invocata dall'appellante (l'art. 105, comma 1, c.p.a.) a sostegno della richiesta di declaratoria di nullità della sentenza impugnata e di rinvio al TAR, "Il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza, o riforma la sentenza o l'ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l'estinzione o la perenzione del giudizio". 8.3. Tuttavia, come sopra ampiamente esposto, la sentenza TAR impugnata non ha solamente pronunciato l'improcedibilità del ricorso, ma ha anche emesso statuizione di rigetto rispetto ai "profili risarcitori"; e, per giunta, come espressamente dedotto dall'appellante, avrebbe anche omesso di prendere in disamina alcuni capi di domanda. 8.3.1. Evidente è quindi per il Collegio l'esigenza di verificare in quali limiti la violazione della previsione di cui all'art. 73, comma 3 c.p.a. abbia ridondato sulla complessiva decisione del TAR e, di conseguenza, in quali limiti possa essere accolto il primo motivo di appello, proposto in principalità dalla difesa della Te., di radicale annullamento della sentenza con restituzione degli atti al primo giudice. 8.4. Infatti, come noto, l'interpretazione della norma che disciplina quest'ultima fattispecie (l'art. 105, comma 1, c.p.a.) ha dato luogo, nella giurisprudenza amministrativa, a numerosi contrasti interpretativi che, ad avviso del Collegio, hanno trovato adeguata e condivisa soluzione nei principi affermati nelle pronunce delle Adunanze plenarie n. 10, 11, 14 e 15 del 2018. 8.4.1. In particolare, dalle sentenze dell'Adunanza Plenaria 10/2018 e 11/2018, risultano enunciati i seguenti principi di diritto: "1. In coerenza con il generale principio dell'effetto devolutivo/sostitutivo dell'appello, le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall'art. 105 Cod. proc. amm. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive. 2. L'erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado non costituisce, di per sé, un caso di annullamento con rinvio, in quanto la chiusura in rito del processo, per quanto erronea, non determina, ove la questione pregiudiziale sia stato oggetto di dibattitto processuale, la lesione del diritto di difesa, né tanto meno un caso di nullità della sentenza o di rifiuto di giurisdizione. 3. La violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, anche quando si sia tradotta nella mancanza totale di pronuncia da parte del giudice di primo grado su una delle domande del ricorrente, non costituisce un'ipotesi di annullamento con rinvio; pertanto, in applicazione del principio dell'effetto sostitutivo dell'appello, anche in questo caso, ravvisato l'errore del primo giudice, la causa deve essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado. 4. Costituisce un'ipotesi di nullità della sentenza che giustifica l'annullamento con rinvio al giudice di primo grado il difetto assoluto di motivazione. Esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione, tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica oppure obiettivamente incomprensibile: quando, cioè, le anomalie argomentative sono di gravità tale da collocare la motivazione al di sotto del "minimo costituzionale" di cui all'art. 111, comma 5, Cost.. 5. La disciplina dei rapporti tra giudice di primo grado e giudice d'appello ha natura indisponibile, il che implica che, fermo restando l'onere di articolare specifici motivi di appello e il generale principio di conversione della nullità in motivi di impugnazione, nei casi di cui all'art. 105 Cod. proc. amm., il giudice d'appello deve procedere all'annullamento con rinvio anche se la parte omette di farne esplicita richiesta o chiede espressamente che la causa sia direttamente decisa in secondo grado. Viceversa, nei casi in cui non si applica l'art. 105 Cod. proc. amm., la possibilità per il giudice di appello di pronunciarsi sulla domande o sulle domande non esaminate in primo grado o erroneamente dichiarate irricevibili, inammissibili o improcedibili, presuppone necessariamente che, ai sensi dell'art. 101, comma 2, tali domande siano oggetto di rituale riproposizione, operando, altrimenti, la presunzione di rinuncia stabilita dallo stesso articolo, con conseguente inammissibilità per difetto di interesse dell'appello proposto senza assolvere all'onere di riproposizione". 8.4.2. Le richiamate pronunce hanno anche spiegato che la "mancanza del contraddittorio" è essenzialmente riconducibile all'ipotesi in cui doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte: il vizio è, quindi, genetico, nel senso che a causa della mancata integrazione del contraddittorio o della erronea estromissione, una o più parti vengono in radice e sin dall'inizio private della possibilità di partecipare al giudizio-procedimento. E, all'evidenza, il profilo non ha attinenza con la vicenda di specie. Invece, la "lesione del diritto di difesa" fa riferimento ad un vizio (non genetico, ma) funzionale del contraddittorio, che si traduce nella menomazione dei diritti di difesa di una parte, che ha, tuttavia, preso parte al giudizio, perché nei suoi confronti il contraddittorio iniziale è stato regolarmente instaurato, ma, successivamente, nel corso dello svolgimento del giudizio, è stata privata di alcune necessarie garanzie difensive; le relative ipotesi debbono ritenersi tipiche e presuppongono necessariamente la violazione di norme che prevedono poteri o garanzie processuali strumentali al pieno esercizio del diritto di difesa. Dalle richiamate pronunce del massimo consesso di questo Istituto si trae anche un'elencazione tassativa dei casi di violazione del diritto di difesa, tra i quali risulta compresa anche la violazione dell'art. 73, comma 3, c.p.a., per aver il giudice posto a fondamento della sua decisione una questione rilevata d'ufficio e non prospettata alle parti (richiamandosi, al proposito, ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 19 giugno 2017, n. 2974; Cons. Stato, sez. VI, 14 giugno 2017, n. 2921; Cons. Stato, sez. IV, 8 febbraio 2016 n. 478; Cons. Stato, sez. IV, 26 agosto 2015, n. 3992; Cons. Stato, sez. III, 19 marzo 2015, n. 1438). Nelle ipotesi considerate, la violazione del diritto di difesa avviene nel giudizio-procedimento, dove la parte non ha potuto difendersi; l'errore si annida nella procedura, e non nel contenuto della sentenza: il diritto di difesa, quindi, è leso nel giudizio e non dal giudizio. Se ne ricava, che non possono rientrare in tale fattispecie (comportanti restituzione della causa al primo giudice) le ipotesi nelle quali, dopo che la questione (di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado) è stata sottoposta al dibattito processale, essa sia poi accolta e per effetto di ciò non si proceda all'esame del merito (situazione questa, come si vede, differente da quella di specie, dove la questione di improcedibilità non risulta affatto prospettata alle parti). Fermo tuttavia restando che "l'ipotesi della motivazione viziata (perché incompleta o contraddittoria) si differenzia da quella della motivazione radicalmente assente (o meramente apparente). In quest'ultimo caso, l'assenza o il difetto assoluto della motivazione, quale elemento indefettibile che consenta di rinvenire un concreto esercizio di potestas iudicandi (art. 88 Cod. proc. amm.), impedisce al giudice di appello di esercitare un qualsivoglia sindacato di tipo sostitutivo per essere mancata, nella sostanza, una statuizione sulla quale egli possa incidere, seppure nella forma di integrazione/emendazione delle motivazioni. Non è possibile, infatti, lasciare al giudice dell'impugnazione il compito di integrare la motivazione sostanzialmente mancante con le più varie, ipotetiche congetture. Il difetto assoluto di motivazione integra allora un caso di nullità della sentenza, per il combinato disposto degli artt. 88, comma 2, lett. d) e 105, comma 1, cod. proc. amm.. Anche alla luce del principio processuale di cui all'art. 156, comma 2, cod. proc. civ. la motivazione rappresenta un requisito formale (oltre che sostanziale) indispensabile affinché la sentenza raggiunga il suo scopo. 8.4.3. Sulla medesima linea ermeneutica si muove il ragionamento esposto nella motivazione della Adunanza plenaria n. 15/2018, in cui viene ribadita la tassatività dell'ipotesi contemplate nell'art. 105 c.p.a., costituenti specifiche categorie inderogabili di casi d'annullamento con rinvio, ognuna delle quali è implementabile nel suo specifico ambito dalla giurisprudenza attraverso una rigorosa e restrittiva interpretazione sistematica del testo vigente del Codice, che non privilegi il solo principio del doppio grado di giudizio rispetto ad altri parametri costituzionali. Viene confermato, quindi, il divieto di far confluire la erronea declaratoria dell'inammissibilità per carenza di interesse nella violazione del diritto di difesa, perché verrebbe leso il principio del doppio grado di giudizio a fronte della chiara disposizione dell'art. 105 c.p.a., che esprime senza equivoci un numerus clausus di casi di regressione del giudizio al primo grado. Di contro è possibile ammettere il rinvio al primo giudice solo quando "a fronte di evidenti ed irrimediabili patologie del complesso della motivazione e non di singole distonie tra il chiesto e il pronunciato, ossia a fronte di quei, per vero, marginali casi in cui è inutilizzabile il decisum (che ridonda quindi nella nullità della sentenza) e sono stati conculcati i diritti di difesa delle parti. Per cui rimane confermata la irrilevanza della violazione dell'art. 112 c.p.c. ai fini dell'applicazione dell'art. 105 c.p.a. per come si erano arrestate le altre decisioni dell'Adunanza plenaria, venendo in rilievo, invece, le gravi forme di nullità della sentenza inquadrabili nel difetto assoluto di motivazione, ossia di una motivazione che non giunge alla soglia minima fissata dall'art. 111 Cost.. 8.5. Ebbene, applicando tali categorie ermeneutiche al caso di specie, pare evidente al Collegio che l'espressa statuizione di improcedibilità della "domanda di annullamento" degli atti amministrativi impugnati, al pari di "quella tesa a ottenere la condanna dell'Amministrazione all'attribuzione delle mansioni proprie del grado", sia stata assunta in evidente violazione dei diritti di difesa scolpiti nell'art. 73, comma 3, c.p.a. (perché frutto di rilievo officioso non preavvertito e di considerazione di elementi acquisiti dopo la discussione), e dunque debba essere annullata con rinvio degli atti al TAR ai sensi dell'art. 105, comma 1, c.p.a.. 8.5.1. Analogamente deve disporsi in relazione alle (strettamente) connesse domande della Te. (accertamento della discriminazione professionale, del demansionamento e del diritto a vedersi corrispondere determinate indennità di presenza giornaliera per il servizio svolto), pure proposte al TAR ma non espressamente considerate nella motivazione del primo giudice, evidentemente perché (implicitamente) giudicate assorbite dalla dichiarata improcedibilità dei predetti principali capi di domanda. Invero, a ben vedere, detti capi di domanda "trascurati" dal TAR non costituiscono capi autonomi, ma capi di domanda strettamente dipendenti da quelli principali (non scrutinati nel merito per effetto dell'illegittima declaratoria di improcedibilità ): è evidente, infatti, che nessuna indagine, sulle mansioni rivendicate, su quelle concretamente svolte, sull'eventuale demansionamento o sullo svolgimento effettivo di funzioni che danno diritto ad una determinata indennità, possa prescindere dal previo scrutinio della legittimità (o meno) delle funzioni formalmente attribuite, del contenuto di quelle svolte e della appropriatezza di quelle rivendicate (profili, questi ultimi, travolti dalla irritualmente ravvisata improcedibilità ). Sicché, in presenza del necessario rinvio al primo giudice rispetto alle questioni "pregiudiziali", non potrebbe essere possibile un autonomo scrutinio, da parte di questo giudice d'appello, di quelle "pregiudicate". E comunque, ad avviso del Collegio, per detti capi dipendenti, del tutto "trascurati" dal primo giudice, pare essersi in presenza di quella motivazione "radicalmente assente" che, anche secondo i richiamati insegnamenti dell'Adunanza Plenaria, legittimerebbe ex se il rinvio al primo giudice. 8.6. Di conseguenza, per tutte le ragioni sopra esposte, deve essere accolto il principale motivo d'appello nei limiti indicati (punti 8.5 e 8.5.1); il TAR provvederà alla rinnovazione del giudizio sui punti devoluti, anche in relazione alle relative spese di lite. 9. Non altrettanto può dirsi in relazione alle statuizioni del TAR relative "ai profili risarcitori" (cfr. foglio 4 della sentenza impugnata), per i quali il primo giudice è giunto al rigetto della relativa domanda (formulata in relazione al "danno all'immagine e professionale", che avrebbe inciso "profondamente sui suoi diritti fondamentali garantiti dall'art. 2 della Costituzione", cfr. ricorso di primo grado) in considerazione della mancanza di "alcun elemento di prova in grado di dimostrare in concreto l'effettiva lesione, il nesso di causalità, e l'entità della lesione stessa". 9.1. E' ben vero che anche per tale domanda può ravvisarsi una parziale dipendenza da quelle di annullamento degli atti amministrativi attributivi delle mansioni della Te. e di accertamento del preteso demansionamento (invero, l'illegittimità dei primi e l'illiceità di quest'ultimo costituiscono, anche secondo la prospettazione della parte privata, il requisito dell'ingiustizia del danno lamentato). 9.2. Tuttavia, rispetto alla pretesa risarcitoria, il TAR ha offerto una motivazione effettiva e (almeno parzialmente) autonoma rispetto alla ritenuta improcedibilità, incentrata, come detto, non tanto sul requisito dell'ingiustizia, ma sul differente (ma pur sempre necessariamente concorrente) profilo della ricorrenza di un danno e della sua dimostrazione, non solo a proposito del quantum, ma anche dell'an (aspetto, quest'ultimo, alla cui prova non può sopperire il giudice in via equitativa). 9.3. Sicchè, in relazione alla domanda risarcitoria, non può ritenersi ricorrere alcuno dei vizi di cui al richiamato art. 105 comma 1 c.p.a., attesa l'autonomia della relativa statuizione; e, di conseguenza, non può essere disposto l'annullamento con rinvio dinanzi al TAR. 9.4. Dovendo dunque il Collegio separare le domande e provvedere alla diretta disamina del motivo di impugnazione in parola, occorre osservare che le ragioni di rigetto esposte dal primo giudice appaiono fondate e, comunque, che il motivo di appello (al pari di quello di primo grado) risulta generico e inconducente. 9.4.1. Invero, ad avviso della difesa della Te., i denunciati atti e comportamenti della P.A. (comportanti l'ingiusta subordinazione al V. Isp. Sa. e il demansionamento), costituenti, sempre secondo la tesi dell'appellante, i fattori causativi del danno ingiusto, avrebbero determinato un evento dannoso costituito dalla lesione della reputazione intesa come idea della propria dignità personale presente nell'opinione comune e, soprattutto, nell'opinione dei soggetti interni al proprio contesto lavorativo. E, sempre secondo la difesa appellante, il danno alla reputazione e all'immagine è un danno-conseguenza, che nella specie sarebbe stato "pienamente dimostrato attraverso non solo la censurata illegittimità degli atti e provvedimenti adottati dall'Amministrazione in suo danno ma, altresì, attraverso la dettagliata illustrazione dei singoli comportamenti tenuti dall'Amministrazione stessa e dei singoli episodi descritti, come verificatesi alla presenza di altro personale dell'Ufficio, quali la sig.ra Br. e il sig. D'A. (cfr., pag. 25 del ricorso in appello). 9.4.2. Ma tale ragionamento non convince. Il tipo di danno non patrimoniale di cui si discute deve essere adeguatamente dimostrato; a tal fine non è sufficiente la dimostrazione del comportamento offensivo subito, ma occorre anche la prova delle specifiche ricadute pregiudizievoli che ne sono causalmente scaturite, atteso che il danno d'immagine risarcibile non risiede nella lesione del diritto in sé, ma solo nelle conseguenze che questa direttamente innesca. Se ne deduce che la sussistenza di un qualche danno (che, nella specie, appare dedotto solo in relazione a profili non patrimoniali) deve pur sempre essere necessariamente provata; in altri termini, come accennato, il danno non patrimoniale che potenzialmente deriva da una pretesa lesione della reputazione in ambito lavorativo o nell'autostima non può essere risarcito per principio (cioè solo per il fatto che venga accertata la presenza di un provvedimento illegittimo o di una condotta illecita), occorrendo invece anche la prova concreta di quali e quante conseguenze pregiudizievoli ne siano concretamente derivate; e ciò, a maggior ragione, laddove, come nel caso di specie, ci si trovi in presenza di una vicenda relativa a dipendente che, al momento in cui sarebbe stata destinata a compiti non appropriati, era da poco giunta nell'ufficio di servizio, aveva una ridotta anzianità lavorativa e non ha neppure dedotto le concrete esperienze di cui era portatrice. 9.4.3. Dunque, come già affermato dal TAR, nella specie non ricorre prova adeguata di apprezzabili conseguenze pregiudizievoli in capo all'appellante e, ancor meno, del necessario nesso di causalità tra atti amministrativi e pretesi danni. Sicchè, in presenza di autonoma e adeguata motivazione del capo di pronuncia in parola, la statuizione del primo giudice può, sul punto, essere confermata. 10. Infondato, alla luce delle considerazioni sopra espresse, appare anche il motivo di appello sulla regolamentazione delle spese disposta dal primo giudice; la decisione al riguardo, con riguardo ai capi ora definiti, può essere confermata, attesa la soccombenza della Te. rispetto alla domanda risarcitoria e le peculiarità del caso. 11. Analogamente, in merito alle spese del presente giudizio - e ferma ogni futura valutazione sulle spese da parte del giudice di primo grado in conseguenza della decisione sui capi ad esso rinviati - stimasi corretto disporne la compensazione, atteso il solo parziale accoglimento dell'appello. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, in parziale accoglimento dello stesso, annulla la sentenza di primo grado nei limiti di cui in motivazione, con rinvio al Tribunale amministrativo regionale per l'Abruzzo -sezione staccata di Pescara per nuovo giudizio sui capi oggetto di annullamento e sulla relativa regolazione delle spese di lite. Rigetta nel resto l'appello e, con riferimento a questa pronuncia, spese del presente grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 maggio 2023 con l'intervento dei magistrati: Oberdan Forlenza - Presidente Dario Simeoli - Consigliere Carmelina Addesso - Consigliere Giancarlo Carmelo Pezzuto - Consigliere Stefano Filippini - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1909 del 2019, proposto da Lu. D'A., Ag. Ci., rappresentati e difesi dagli avvocati Cl. Ma., Gi. Su., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Cl. Ma. in Roma, Piazzale (...); contro Comune di (omissis), in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dall'avvocato Fr. Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo Sezione Prima n. 515/2018, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 15 maggio 2023 il Cons. Roberta Ravasio, in collegamento da remoto attraverso videoconferenza, con l'utilizzo della piattaforma "Mi. Te.". Udito per le parti l'avvocato Cl. Ma. Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Gli odierni appellanti affermano di essere al possesso, da lungo tempo, di un terreno sito in Comune di (omissis), censito al locale Catasto terreni al Foglio (omissis), mapp. (omissis), al quale si accede sia da una strada privata, che si diparte da via (omissis), sia direttamente dalla pubblica Via (omissis), tramite un passo carraio, per l'uso del quale il Comune ha rilasciato anche l'autorizzazione n. 100 del 20 aprile 2000. 2. L'appellante signora Ci., unitamente al sig. Gi. D'A., in allora procedeva a collocare un cancello scorrevole, lungo circa 3 metri, in corrispondenza dell'acceso carraio, onde impedire ad estranei l'accesso all'area di pertinenza al fondo dagli stessi posseduto: ne scaturiva un contenzioso con alcuni vicini che sfociava nell'ordinanza del Tribunale civile di Avezzano 24 aprile 2006, resa nel procedimento n. 429/06 del ruolo dei procedimenti sommai, nella quale si riconosce che la signora Ci. e il sig. Gi. D'A. da anni possedevano uti dominus l'area circostante, alla quale si accedeva dall'accesso carrabile. L'area medesima, peraltro, il 19 dicembre 2006 veniva ceduta gratuitamente in proprietà al Comune dai proprietari catastali, sicché nel 2017 i signori Ci. e Gi. D'A., ancora possessori, avrebbero intrapreso una procedura finalizzata ad ottenere il riconoscimento della proprietà in di loro favore a titolo di usucapione. 3. Con provvedimento n. prot. 6331/2017 del 14.7.2017 del Responsabile dell'Ufficio Tecnico F.F., il Comune di (omissis) diffidava sia la signora Ci. che il sig. Lu. D'A. (presumibilmente figlio del sig. Gi. D'A., ma non erede del medesimo) a procedere alla rimozione del cancello di chiusura dell'accesso carraio aperto verso Via (omissis): l'ordinanza veniva adottata ai sensi dell'art. 35 d.p.r. n. 380/2001, e intimava la rimozione del cancello entro il termine di 90 giorni con comminatoria, in difetto, di procedere in danno. 4. Il sig. D'A. impugnava il suddetto provvedimento, congiuntamente agli atti connessi, dinanzi al TAR per l'Abruzzo, sede di L'Aquila. 5. Si costituiva in giudizio il Comune di (omissis) per resistere al ricorso. 6. Con sentenza n. 515/2018 il TAR respingeva il ricorso, compensando integralmente le spese. 7. Il sig. D'A. ha proposto appello avverso l'indicata pronuncia. 8. Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio per resistere al ricorso. 9. La causa è stata chiamata per la discussione in occasione dell'udienza straordinaria del 15.05.2023, a seguito della quale è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 10. Con i motivi articolati a fondamento dell'impugnazione parte appellante ha sostanzialmente riproposto i motivi articolati in primo grado, tutti esaminati e respinti dal TAR. 11. Con il primo motivo d'appello si denuncia l'erroneità della sentenza per eccesso di potere, errore, travisamento dei fatti e dei presupposti, difetto di istruttoria, vizio del procedimento per violazione dell'art. 35 d.p.r. 380/2001: si contesta la statuizione del TAR che ha ritenuto irrilevante il possesso del terreno da parte dei ricorrenti e la possibile usucapione di esso da parte degli appellanti. 11.1 In argomento il TAR ha dedotto che il possesso del suolo, per quanto risalente nel tempo ed ancora attuale, resta una mera situazione di fatto, non risultando un provvedimento giurisdizionale opponibile al Comune e non esistendo, al fascicolo del giudizio, prova di elementi dai quali possa evincersi l'avvenuto acquisto a titolo originario del suolo occupato, in vista di un eventuale accertamento della circostanza in via meramente incidentale. 11.2. Replicano sul punto gli appellanti deducendo che il TAR disponeva di elementi probatori, costituiti, in particolare da copia dell'ordinanza del Tribunale di Avezzano del 24/28 aprile 2006, resa nel corso di un procedimento possessorio, in cui si dà atto che già nel 2006 gli odierni appellanti possedevano da circa 17 l'area servita dal cancello, oggetto della ingiunzione di demolizione: da allora essi hanno continuato a possedere indisturbati il fondo, ragione per cui l'usucapione si è compiuta. 11.3. Il motivo è infondato. È pacifico che colui che agisce in giudizio asserendo di aver usucapito un bene deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva. Ancora recentemente la giurisprudenza ha affermato che "ai fini dell'usucapione è necessaria la manifestazione del dominio esclusivo sulla cosa da parte dell'interessato attraverso un'attività contrastante e incompatibile con il possesso altrui, gravando l'onere della prova su colui che invochi l'avvenuta usucapione, non essendo sufficienti atti soltanto di gestione consentiti o tollerati dal proprietario, perché comportanti solo l'erogazione di spese per il miglior godimento della cosa" (Cassazione civile, Sez. II, 07/03/2019, n. 6688). 11.4. Nella specie si dispone di un principio di prova circa il fatto che l'appellante Ci. e il sig. Gi. D'A. nel 2006 possedessero il fondo, e quindi anche l'accesso carraio protetto dal cancello, da circa 17 anni; tale principio di prova è costituito dall'ordinanza del Tribunale civile de L'Aquila, ma tale provvedimento è stato reso in sede di cognizione sommaria ex art. 703 c.p.c., non si sa se sia stata reclamato e quindi non è certo che esso sia divenuto inoppugnabile. Inoltre, circa il possesso per il periodo successivo all'ordinanza citata, si deve rilevare che non è stata prodotta alcuna prova del possesso continuativo, e gli appellanti, pur affermando di aver avviato un giudizio finalizzato alla declaratoria di avvenuta usucapione, non hanno prodotto alcun documento comprovante tale circostanza. 11.5. Di conseguenza si deve convenire con il primo Giudice circa il fatto che al fascicolo del giudizio non si dispone di elementi sufficienti per ritenere, seppure con accertamento meramente incidentale, che il terreno sul quale insiste il cancello oggetto dell'ingiunzione sia stato usucapito dagli appellanti. 12. Con il secondo motivo d'appello si contesta l'appellata sentenza per aver ritenuto irrilevante la circostanza che il cancello, oggetto dell'ordine di rimozione, era stato collocato sicuramente prima che il Comune divenisse proprietario del terreno. Sul punto il TAR ha ritenuto che il Comune ha pieno titolo ad intimare la rimozione dell'opera insistente sulla sua proprietà, e che a ciò non si oppone il fatto che il cancello sia stato realizzato in epoca antecedente all'acquisto del suolo in mano pubblica in quanto la realizzazione di opere abusive su suolo altrui costituisce un illecito permanente che si rinnova ogni giorno. 12.1. Hanno replicato gli appellanti che il punto di rilevanza della circostanza rinviene dal fatto che l'art. 35 del D.P.R. n. 380/2001 consentirebbe al dirigente comunale di ordinare la rimozione di opere insistenti su beni di proprietà dello Stato o di enti pubblici solo se anche al momento della realizzazione dell'opera abusiva il relativo sedime sia già in proprietà dello Stato o di un ente pubblico. 12.2. La censura deve essere respinta. L'art. 35, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, afferma che "Qualora sia accertata la realizzazione, da parte di soggetti diversi da quelli di cui all'articolo 28, di interventi in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il dirigente o il responsabile dell'ufficio, previa diffida non rinnovabile, ordina al responsabile dell'abuso la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, dandone comunicazione all'ente proprietario del suolo....": la norma non fa alcuna distinzione tra opere abusive realizzate su fondi già di proprietà pubblica al momento della realizzazione o divenuti tali dopo la realizzazione, pertanto può essere applicata in ambedue le situazioni, anche perché l'esigenza ad essa sottesa - cioè quella di avere i fondi pubblici liberi e sgombri dalle costruzioni che non siano state ritualmente assentite - sussiste anche nel caso di fondo che solo dopo la realizzazione dell'abuso sia divenuto di proprietà pubblica. 12.3. Sotto altro profilo con la censura in esame parte appellante contesta la statuizione del TAR secondo cui la realizzazione di opere abusive integra un illecito permanente che può essere sanzionato anche senza indicazione di una adeguata motivazione in ordine al pubblico interesse a sanzionare l'abuso anche a notevole distanza di tempo: sul punto il Collegio richiama la pronuncia dell'Adunanza Plenaria n. 9/2017, che ha definitivamente chiarito "il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino". 13. Con il terzo motivo d'appello si contesta l'impugnata decisione nella parte in cui ha ritenuto irrilevante l'estraneità del sig. Lu. D'A. all'abuso oggetto dell'ingiunzione di demolizione, estraneità determinata dal fatto che il medesimo pacificamente non è proprietario dell'area servita dal cancello, né ha partecipato alla realizzazione dell'opera, ragione per cui difetterebbe di legittimazione passiva. 13.1. Il TAR ha disatteso anche tale censura, osservando che "...non può condividersi la tesi secondo la quale a Lu. D'A. non avrebbe potuto intimarsi la rimozione del cancello perché non lo ha realizzato e non ne è proprietario. A tacer del fatto che, in mancanza di un titolo costitutivo di un diritto di superficie, un cancello ancorato al suolo appartiene al proprietario di questo per accessione ex art. 934 c.c., risponde alla ratio dell'art. 35 del d.P.R. n. 380/2001 l'intimazione alla rimozione rivolta proprio a chi ha la disponibilità materiale dell'opera e se ne avvantaggia in danno del soggetto che ne è titolare...". 13.2. Replicano gli appellanti che il TAR è caduto in errore presupponendo che il sig. Lu. D'A. sia al possesso del fondo, e quindi anche del cancello, del quale si avvantaggia. 13.3. La censura è fondata. 13.3.1. Il mero possessore di un bene immobile interessato da opere edilizie abusive non può essere destinatario dell'ingiunzione di demolizione, quando non sia accertato che l'abuso sia a lui ascrivibile. Si deve invero considerare, da una parte, che la mera utilizzazione di un'opera edilizia abusiva non costituisce in sé illecito punibile, anche se vi sia consapevolezza della natura abusiva dell'opera; d'altro canto si deve rilevare che il mero possessore di un bene di regola non ha titolo per disporre del bene medesimo, mentre il fatto di indirizzare l'ingiunzione di demolizione al mero possessore o detentore, sul mero presupposto che ha la disponibilità materiale dell'opera abusiva e che perciò ne trae vantaggio, significa, in pratica, rendere l'utilizzatore responsabile per un fatto a lui non ascrivibile. L'art. 31, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, del resto, stabilisce che l'ingiunzione di demolizione va indirizzata al proprietario o al responsabile: e se il legislatore avesse voluto porre in posizione di garanzia qualsiasi utilizzatore di un'opera edilizia abusiva, ancorché non proprietario né responsabile, l'avrebbe esplicitato in altro modo. In tal senso, la giurisprudenza si è recentemente pronunciata ritenendo che ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, "la demolizione o la rimozione dell'opera abusiva va ingiunta al proprietario e al responsabile dell'abuso" e che "il fatto di utilizzare un'opera edilizia abusiva non può considerarsi sufficiente a fondare il titolo di responsabilità e, conseguentemente, la legittimazione passiva all'ingiunzione di demolizione, ben potendo essere l'utilizzatore un terzo completamente estraneo alla realizzazione dell'opera abusiva ed alla relativa proprietà " (Consiglio di Stato, sez. VI, 20/06/2022, n. 5031). 13.3.2. La questione, poi, non è priva di rilevanza, in quanto l'art. 31, comma 4 bis, del D.P.R. n. 38072001, prevede che sia irrogata una sanzione amministrativa pecuniaria al destinatario dell'ingiunzione di demolizione che non abbia ottemperato: pertanto la censura è di interesse anche nel caso in cui l'ingiunzione sia stata legittimamente adottata nei confronti di altro destinatario. 13.3.3. Le considerazioni che precedono inducono a ritenere la censura in esame fondata, non essendo contestato che il sig. Lu. D'A. non è proprietario dell'area e neppure il fatto che egli non è autore dell'abuso edilizio. Conseguentemente l'ingiunzione impugnata deve essere annullata nella parte in cui indica il sig. Lu. D'A. tra i destinatari. 14. Con il quarto motivo si contesta la sentenza impugnata per aver ritenuto che l'art. 35 del D.P.R. n. 380/2001 trova applicazione anche con riferimento alle opere soggette a SCIA "ordinaria" o a CILA. 14.1. Parte appellante in primo grado aveva dedotto, senza essere contestato, che la posa di un cancello scorrevole, ai sensi dell'art. 6 bis d.p.r. n. 380/2001, sarebbe annoverabile fra gli interventi minori disciplinati dalla norma, restando subordinata alla presentazione di una CILA. Come tale il Comune non avrebbe potuto disporne la rimozione ai sensi dell'art. 35 del D.P.R. n. 380/2001, che contempla solo l'abusiva realizzazione di opere soggette a permesso di costruire. 14.2. Sul punto il TAR ha proposto un'interpretazione dell'art. 35 che ne estende l'applicazione anche agli abusi soggetti a SCIA affermando che "è del tutto evidente che se l'autore dell'opera edilizia non dispone del conferimento in disponibilità del bene da parte dell'ente proprietario, non ha senso distinguere fra opere assentibili (dall'Autorità competente in materia edilizia) con permesso di costruire o con SCIA e opere minori, giacchè anche quelle soggette a regime di edilizia libera costituirebbero comunque un illecito in danno del titolare del suolo". 14.3. Il motivo è da ritenersi fondato. Il comma 1 della norma è chiarissimo nel riferirsi solo ad opere realizzate in assenza o in difformità dal permesso di costruire. Una interpretazione della norma ristretta si impone anche alla luce della modifica della norma di cui al D. L.vo n. 222 del 25 novembre 2016, che ha introdotto, nel corpo della norma, il comma 3-bis, prevedendo che "Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 23, comma 01, eseguiti in assenza di segnalazione di inizio attività, ovvero in totale o parziale difformità dalla stessa": se, dunque, il legislatore, in sede di modifica della norma ha ritenuto di estendere l'applicazione dell'istituto solo a talune tipologie di interventi edilizi, assistiti - è vero - da una semplice SCIA, ma comunque realizzabili in via di principio con permesso di costruire, se ne deve concludere che non risponde alla volontà del legislatore applicare l'art. 35 del D.P.R. n. 380/2001 anche agli abusi assentibili con SCIA "ordinaria" o con CILA, ritenendo evidentemente che solo con riferimento agli interventi edilizi di maggior impatto si giustifichi l'immediata rimozione e la demolizione in danno. 14.4. Il Comune, in definitiva, non avrebbe potuto azionare l'art. 35 del D.P.R. n. 380/2001 per la rimozione del cancello, trattandosi di intervento non soggetto a permesso di costruire né a SCIA alternativa a permesso di costruire. 15. La fondatezza delle due censure che precedono risulta dirimente ai fini dell'annullamento dell'ingiunzione impugnata, nei confronti di ambedue i destinatari, ragione per cui si può prescindere dall'esame delle ulteriori censure, che rimangono assorbite. 16. Per i motivi sopra esposti, l'appello deve essere accolto nei sensi e nei limiti di cui in motivazione. Per l'effetto l'appello va accolto, e in riforma dell'appellata sentenza va accolto il ricorso di primo grado, con annullamento del provvedimento impugnato in primo grado. 17. La parziale novità di alcune questioni trattate giustifica la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie; per l'effetto, in riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo n. 515/2018, va accolto il ricorso di primo grado, e annullato il provvedimento del Responsabile dell'Ufficio Tecnico F.F. del Comune di (omissis) n. prot. 6331/2017 del 14.7.2017, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti. Compensa tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 maggio 2023, celebrata in videoconferenza ai sensi del combinato disposto degli artt. 87, comma 4 bis, c.p.a. e 13 quater disp. att. c.p.a., aggiunti dall'art. 17, comma 7, d.l. 9 giugno 2021, n. 80, recante "Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l'efficienza della giustizia", convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2021, n. 113, con l'intervento dei magistrati: Luigi Massimiliano Tarantino - Presidente FF Oreste Mario Caputo - Consigliere Giordano Lamberti - Consigliere Giovanni Sabbato - Consigliere Roberta Ravasio - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. VERGA Giovanna - Presidente Dott. BORSELLINO Maria D. - Consigliere Dott. COSCIONI Giuseppe - Consigliere Dott. DI PISA Fabio - rel. Consigliere Dott. RECCHIONE Sandra - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato ad (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 27/10/2021 della CORTE APPELLO di PERUGIA; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere FABIO DI PISA; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FULVIO BALDI, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi; uditi l'Avvocato (OMISSIS) in difesa di (OMISSIS), l'Avvocato (OMISSIS) in difesa di (OMISSIS) nonche' l'avvocato (OMISSIS) in difesa di (OMISSIS) e (OMISSIS), i quali hanno concluso chiedendo l'accoglimento dei rispettivi ricorsi. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di Appello di Ancona, con sentenza in data 12/02/2019, confermava la sentenza del 12/09/2016 con cui il Giudice dell'udienza preliminare dello stesso Tribunale, all'esito di giudizio abbreviato, aveva assolto (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) dal reato di peculato. Secondo la prospettazione accusatoria gli imputati - (OMISSIS) e (OMISSIS), nella qualita' di presidenti dei gruppi consiliari regionali; (OMISSIS) e (OMISSIS), in qualita' di consiglieri regionali, ritenuti anch'essi pubblici ufficiali- ed in concorso con i Presidenti dei rispettivi gruppi consigliari e (OMISSIS) nella qualita' di responsabile della Segreteria del gruppo consigliare ed in concorso con il presidente del gruppo - si erano appropriati dei fondi pubblici della Regione (OMISSIS), previsti per il finanziamento delle attivita' dei Gruppi consiliari dalla Legge Regionale n. 34 del 10 agosto 1988. 2. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20535/2020, in accoglimento del ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Ancona, annullava la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Perugia. In tale pronunzia la Suprema Corte formulava tutta una serie di principi in ordine: - alla natura giuridica dei gruppi Consiglieri ed al vincolo di destinazione delle somme erogate; - alla nozione di "spese rimborsabili "; - alla prova della condotta appropriativa. Nel rilevare che i giudici di merito non avevano fatto corretta applicazione dei principi di diritto indicati ha, quindi, onerato la Corte di appello di Perugia in sede di rinvio di verificare, applicando i principi indicati, in ordine alle singole posizioni processuali ed alle singole categorie di spese se, ed in che termini, fosse configurabile il reato contestato. 3. La Corte di appello di Perugia, con sentenza in data 27 ottobre 2021, pronunziando in sede di rinvio, per quello che ancora in questa sede rileva, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati (OMISSIS) e (OMISSIS) limitatamente ai reati loro ascritti riferiti all'anno 2008 per essere gli stessi estinti per intervenuta prescrizione; ha condannato (OMISSIS) alla pena ritenuta di giustizia per i reati di peculato ascritti ai capi 80), 125) e 126), limitatamente alle spese postali e convegnistiche; ha condannato (OMISSIS) alla pena ritenuta di giustizia per i reati di peculato ascritti ai capi 72), 73), 74), 75) e 76) limitatamente alle spese per i periodici "(OMISSIS)" e "(OMISSIS)" e per la messaggistica "(OMISSIS)" e per talune delle spese di ristorazione. Con provvedimento in data 17 gennaio 2022 la Corte di appello, rilevata la sussistenza di un errore materiale nel dispositivo, in relazione alla omessa statuizione di confisca, ha disposto correggersi il dispositivo inserendo l'inciso: "visto l'articolo 322-ter c.p.p. ordina la confisca della somma di Euro 4.600,00 nei confronti di (OMISSIS) e della somma di Euro 21.500,00 + Euro 1.800,00 dei confronti di (OMISSIS) o dei beni di cui gli imputati avessero la disponibilita' per un valore equivalente". 4. Contro detta sentenza hanno proposto ricorsi per cassazione entrambi i predetti imputati a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia. 4.1. (OMISSIS), con un primo ricorso a firma dell'Avv. (OMISSIS), formula i seguenti motivi. Con il primo motivo denuncia, ex articolo 606, comma 1, lettera c), c.p.p., nullita' della sentenza in ragione della mancata rinnovazione della prova dichiarativa in violazione del disposto di cui all'articolo 603 comma 3-bis c.p.p. Assume che, valutati anche i principi fissati dalla Corte EDU, nel caso in esame risultava palese la violazione dei diritti difensivi, non essendosi proceduto alla rinnovazione dell'audizione dell'imputato. Rileva che avendo il primo giudice espressamente valorizzato le dichiarazioni del (OMISSIS) ai fini assolutori e posto che la corte di merito aveva operato una "svalutazione" del peso probatorio di tali dichiarazioni, si rendeva indispensabile una rinnovata audizione dello stesso al fine di effettuare i necessari chiarimenti in ordine alla percezione dei rimborsi ed al legame istituzionale delle spese effettuate con la propria attivita' all'interno del gruppo consiliare. Con il secondo motivo denuncia, ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), vizio di motivazione per non essersi il giudice del rinvio conformato ai principi di diritto fissati dalla Suprema Corte quanto alla verifica della legittimita' delle spese in questione. Lamenta per l'anno 2009 che: - quanto alla ritenuta illegittimita' delle spesa di ristorazione di Euro 200,00 la Corte territoriale nell'affermare che non era dato sapere se la stessa fosse collegata ad un evento di natura istituzionale, per un verso, aveva finito per rovesciare l'onere della prova a carico dell'imputato e, per altro verso, aveva del tutto trascurato di prendere in esame le giustificazioni fornite dall'imputato nel corso del proprio interrogatorio e del proprio esame; in ordine alla ulteriore spesa di Euro 200,00 per un rimborso legato ad un convegno indetto dal Ministero del lavoro era palese il vizio motivazionale in quanto la Corte di merito aveva omesso di considerare che non e' possibile, da parte del giudice penale, sindacare l'attivita' politica e le scelte di merito del Presidente di un gruppo consiliare. Osserva, quanto all'anno 2010 ed all'anno 2011, che gli addebiti riguardavano spese postali inerenti la spedizione di auguri natalizi corredati da una newsletter, in relazione alle quali non poteva ritenersi, come apoditticamente affermato dalla Corte di appello, che le stesse erano "scisse" dall'attivita' consiliare e riguardavano mera attivita' propagandistica del consigliere. Con il terzo motivo lamenta, ex articolo 606, comma 1, lettera b) ed e) c.p.p., violazione dell'articolo 314 c.p. nonche' vizio di motivazione in relazione alla nozione di disponibilita' giuridica del denaro in capo all'imputato. Nel premettere che presupposto indefettibile ai fini della configurabilita' del reato di peculato e' che il pubblico ufficiale abbia il possesso o, comunque, la concreta disponibilita' del denaro osserva che i giudici territoriali avevano omesso di considerare che, come precisato dal ricorrente, lo stesso non aveva mai gestito direttamente di denaro ovvero avuto la disponibilita' di carta di credito o di fondo cassa generalizzato e preventivo per le proprie spese. Con il quarto motivo deduce, ex articolo 606, comma 1, lettera b) ed e) c.p.p., violazione degli articoli 110- 314 c.p. nonche' vizio di motivazione in ordine al ritenuto concorso dell'imputato nei delitto di peculato con i capi-gruppo pro-tempore. Rileva che la sentenza aveva del tutto omesso di motivare in relazione alla condotta concorrente del Consigliere Regionale (OMISSIS) con i tre capi-gruppo succedutisi nella Presidenza del Gruppo Consiliare, non potendosi ritenere l'attivita' concorrente integrata nella richiesta di rimborsi aventi ad oggetto attivita' regolarmente realizzate dal consigliere regionale, ove anche ritenuti non dovuti. Il medesimo (OMISSIS), con altro ricorso a firma dell'Avv. (OMISSIS) formula i seguenti motivi. Con il primo motivo lamenta, ex articolo 606, comma 1, lettera b) ed e) c.p.p., violazione dell'articolo 1-bis Legge Regionale (OMISSIS) n. 34/1988 nonche' violazione del disposto di cui all'articolo 627 c.p.p. in relazione a quanto statuito dalla Suprema Corte con la sentenza n. 20535/2020 ed, inoltre, vizio di motivazione desumibile in relazione ai seguenti atti processuali: interrogatorio reso innanzi al Nucleo Polizia Tributaria (OMISSIS)- Gruppo Tutela Spesa Pubblica; esame reso innanzi al G.U.P. in data 12/06/2016 e relazione della Dott.ssa (OMISSIS) Direzione Generale Assemblea Reg. (OMISSIS) depositata con memoria ex articolo 415-bis c.p.p. Osserva che, in disparte la considerazione che la Corte di appello aveva affermato la responsabilita' dell'imputato per l'illecito rimborso di Euro 400,00 per spese per "convegni/convegnistiche" sebbene nella parte ricostruttiva si elencavano "per convegni" solamente Euro 350,00 - dato questo sintomatico della illogicita' del ragionamento - i giudici di appello, dopo avere rilevato il rimborso di Euro 350,00 per spese convegnistiche, constatando che almeno 150,00 Euro di quelle spese erano lecite e giustificate, aveva condannato, del tutto illogicamente, l'imputato per essersi fatto rimborsare Euro 400,00 di spese per convegni. Evidenzia, ancora, che quanto alle spese di Euro 200,00 per la cena con otto commensali al Ristorante "(OMISSIS)", estranee alla suindicata tipologia, a parte la mancanza di coordinamento rispetto alla condanna ritenuta in dispositivo, il dato relativo alla mancanza di documentazione coeva non appariva decisivo, contrariamente a quanto affermato dai giudici di merito, alla luce dei principi fissati alla giurisprudenza di legittimita' in tema di irrilevanza della semplice carenza documentale. Rileva che la sentenza della Corte di appello, in relazione alla ritenuta carenza di documentazione giustificativa coeva, da un lato si poneva in contrasto con il dictum della Cassazione e, per altro verso, appariva il frutto di un errore percettivo in quanto i giudici non avevano tenuto conto di quanto dichiarato dall'imputato in sede di indagini. In ordine alla spesa di Euro 200,00 per il convegno organizzato dalla Fondazione (OMISSIS) con oggetto "Oltre l'ideologia della crisi- lo sviluppo, l'etica ed il mercato nell'enciclica (OMISSIS) con conclusioni del Ministro del Lavoro Sacconi, rileva che la Corte di appello nel affermarne la "non inerenza" aveva violato i principi affermati dalla Suprema Corte in sede di annullamento, non considerando che tale partecipazione costituiva espressione di una scelta politica e che l'evento corrispondeva appieno a quelli che sono gli obiettivi ed i compiti del gruppo consiliare e del singolo consigliere. Con il secondo motivo lamenta, ex articolo 606, comma 1, lettera b) ed e) c.p.p., violazione dell'articolo 1-bis Legge Regionale (OMISSIS) n. 34 del 1988, violazione dell'articolo 314 c.p. nonche' violazione del disposto di cui all'articolo 627 c.p.p. in relazione a quanto statuito dalla Suprema Corte con la sentenza n. 20535/2020 ed, inoltre, vizio di motivazione in relazione ai seguenti atti processuali: interrogatorio reso innanzi alla Procuratore Generale della Corte dei Conti in data 15/10/2015; provvedimento di archiviazione del Procuratore Generale della Corte dei Conti Sezione Giurisdizionale per le (OMISSIS) in data 12/06/2016 e documenti depositati unitamente alla memoria ex articolo 415-bis c.p.p. Deduce che la Corte di appello non aveva considerato che quanto alle "spese postali" ne era previsto il rimborso ai sensi dell'articolo 1-bis Legge Regionale (OMISSIS) n. 34 del 1988, spese in relazione alle quali il Procuratore Generale della Corte dei Conti aveva disposto l'archiviazione e che del tutto erronee erano le conclusioni cui erano pervenuti i giudici in ragione di una asserita insufficienza documentale. Osserva che, nella specie, le spese postali riguardavano gli auguri natalizi inviati dal (OMISSIS) nell'ambito dell'attivita' istituzionale espletata e che il foglio notizie allegato - stampato senza ricorrere a fondi istituzionali - aveva il solo scopo di informare gli elettori della attivita' istituzionale posta in essere dal gruppo, e che i giudici appello aveva omesso di prendere in esame le dichiarazioni rese dall'imputato il quale aveva chiarito la insussistenza di qualunque fine propagandistico. Con il terzo motivo lamenta, ex articolo 606, comma 1, lettera b) ed e) c.p.p., violazione degli articoli 516 e 522 c.p.p. nonche' violazione del disposto di cui all'articolo 627 c.p.p. in relazione a quanto statuito dalla Suprema Corte con la sentenza n. 20535/2020 ed, inoltre, vizio di motivazione. Assume che la condanna dell'imputato era stata basata su una asserita carenza documentale per tutti i capi, non tenendo conto che lo stesso era stato archiviato in sede contabile e che aveva riguardato, nella sostanza, fatti del tutto diversi sostenendosi la non inerenza di spese che, per contro, non apparivano per nulla eccentriche rispetto a quelle ammesse dalla legge regionale. Con il quarto motivo lamenta, ex articolo 606, comma 1, lettera b) ed e) c.p.p., violazione del disposto di cui all'articolo 603 comma 3-bis c.p.p. inoltre, vizio di motivazione in relazione ai seguenti atti processuali: interrogatorio reso innanzi al Nucleo Polizia Tributaria (OMISSIS)- (OMISSIS); esame reso innanzi al G.U.P. in data 12/06/2016 nonche' spontanee dichiarazioni rese dall'imputato innanzi alla Corte nel precedente grado di appello. Rileva che, in ragione della riforma della pronunzia assolutoria alla luce di quanto in precedenza dichiarato dall'imputato, la corte di appello, al fine di accertare la responsabilita' oltre ogni ragionevole dubbio avrebbe dovuto procedere d' ufficio alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale con l'audizione dell'imputato. Con il quinto motivo lamenta, ex articolo 606, comma 1, lettera b) ed e) c.p.p., violazione dell'articolo 1-bis Legge Regionale (OMISSIS) n. 34/1988, violazione dell'articolo 314 c.p. nonche' violazione del disposto di cui all'articolo 627 c.p.p. in relazione a quanto statuito dalla Suprema Corte con la sentenza n. 20535/2020 ed, inoltre, vizio di motivazione. Osserva che dal momento che la giustizia contabile aveva escluso anche profili di colpa dell'imputato la Corte di appello avrebbe dovuto motivare in relazione all'elemento psicologico del reato, profilo in relazione al quale la motivazione era assai carente. Con il sesto motivo lamenta, ex articolo 606, comma 1, lettera b) ed e) c.p.p. violazione degli articoli 314 e 640 c.p. nonche' vizio di motivazione in relazione ai seguenti atti processuali: interrogatorio reso innanzi al Nucleo Polizia Tributaria (OMISSIS)- (OMISSIS); esame reso innanzi al G.U.P. in data 12/06/2016. Osserva che la Corte di appello non aveva considerato che dalle complessive risultanze istruttorie era emerso che il (OMISSIS) non aveva la disponibilita' di somme sicche', in ipotesi, si era in presenza del reato di truffa. L'Avv. (OMISSIS) ha depositato in data 18 gennaio 2023 nell'interesse dell'imputato memoria, contenente motivi nuovi, con la quale ha precisato che all'esito del giudizio dibattimentale instaurato nell'ambito del medesimo procedimento nei confronti di alcuni imputati che non avevano optato per il rito abbreviato, la Corte d'appello di (OMISSIS), con sentenza del 23 maggio 2022, divenuta irrevocabile il 16 ottobre 2022 stante l'omessa impugnazione da parte del Procuratore generale, aveva assolto gli imputati (OMISSIS) e (OMISSIS) (oltre a (OMISSIS)) dall'accusa di peculato contestata agli stessi in qualita' di "Presidenti pro-tempore del Gruppo Consiliare (OMISSIS)", gruppo di cui (OMISSIS) era consigliere. Ha precisato che agli stessi era contestato di essersi appropriati indebitamente di importi assegnati al gruppo e nella loro disponibilita' "a titolo di rimborso delle spese sostenute per ristorazioni, valori bollati, omaggi, telefonia, affitti, stampe, manifesti e servizi televisivi" (in parte riferibili agli imputati personalmente, in parte "genericamente al gruppo"), addebiti fondati sul rilievo per cui "le spese non erano fornite di documentazione idonea a giustificare il costo e la sua riconducibilita' ad attivita' funzionali al Gruppo", rilevando che dalle motivazioni della sentenza della Corte d'Appello di Ancona si aveva riscontro della piena sovrapponibilita' - rispetto al presente giudizio di legittimita' - delle categorie di spesa esaminate (spese per ristorazione, spese postali e spese di rappresentanza), vuoi delle modalita' di documentazione (documentazione contabile coeva alla spesa) vuoi degli indici presuntivi dell'addebito (l'asserita mancanza di idonea giustificazione successiva delle spese da parte degli imputati). Ha, ancora, rilevato che (OMISSIS) e (OMISSIS), in qualita' di Capigruppo del Gruppo consiliare di (OMISSIS) ((OMISSIS)), erano stati irrevocabilmente assolti, quindi, da due contestazioni coincidenti con quelle per le quali l'odierno ricorrente, (OMISSIS), era stato condannato in concorso proprio con i predetti capigruppo. Ha ribadito che, come rilevato nell'atto di ricorso, la decisione impugnata aveva omesso di esaminare il profilo relativo al contributo concorsuale di (OMISSIS) rispetto alla disposizione dei rimborsi operata da quegli stessi Capigruppo, definitivamente ritenuti estranei ad ogni ipotesi appropriativa e che allo stato la conferma della sentenza di appello avrebbe implicato l'accertamento di un dolo di concorso rispetto alla condotta dei capogruppo, la cui illiceita' e' stata definitivamente esclusa nel collegato processo penale. Ha, ancora, osservato che la sentenza della Corte d'appello di (OMISSIS), che aveva assolto i Presidenti del Gruppo consiliare al quale apparteneva l'odierno ricorrente, (OMISSIS), rileva nel presente giudizio di legittimita' anche con riferimento alla definizione del perimetro di legalita' delle spese dei gruppi regionali, fondato specificamente sull'interpretazione della legge regionale vigente al momento dei fatti (I. r. 34/1998), ribadendo come una corretta ermeneusi della disciplina della Regione (OMISSIS) riferita all'epoca dei fatti faceva riferimento a quel parametro indicato dalla Corte in sede di annullamento per sindacare la legittimita' delle spese (sono illegittime le spese "del tutto scisse" dalle iniziative del Gruppo consiliare), radicalmente disatteso dal giudice del rinvio, come gia' dedotto in ricorso. 4.2. (OMISSIS) formula i seguenti motivi. Con il primo motivo, articolato in piu' censure, in relazione alla condanna relativa alle spese telefoniche ed all'acquisto di messagistica (OMISSIS), denuncia, ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), omissione della motivazione rafforzata a seguito della riforma della sentenza di primo grado nonche' omessa disamina della memoria difensiva ed omessa valutazione del dolo del reato contestato; violazione dell'articolo 627 comma 3 c.p.p.; violazione del combinato disposto dell'articolo 314 c.p. in relazione all'articolo 1-bis Legge Regionale (OMISSIS) n. 34/1988; violazione del diritto di difesa per mancata audizione del teste (OMISSIS). Assume che la corte di appello, nel riformare la pronunzia assolutoria di primo grado, non si era adeguatamente confrontata con la ricostruzione del giudice di primo grado il quale, nel pronunziare l'assoluzione sul punto, aveva affermato che trattavasi di "invii evidentemente finalizzati ad informare la popolazione su attivita' politico istituzionali in corso" da ritenere ammissibili in forza della normativa regionale laddove la corte di appello, del tutto apoditticamente, aveva concluso nel senso che si trattava di attivita' totalmente avulsa da quella istituzionale. Rileva che la motivazione, in proposito, era gravemente carente in quanto i giudici di merito avrebbero dovuto valutare il contenuto dei singoli messaggi per verificare se avessero un mero fine di propaganda elettorale, come ritenuto e che nel pervenire alle proprie conclusioni i giudici del rinvio non si erano conformati ai principi di diritto fissati dalla Suprema Corte quanto alla verifica della legittimita' delle spese in questione non chiarendo per quale ragione le stesse dovevano essere ritenute "scisse" dall'attivita' consiliare e riguardanti mera attivita' propagandistica del consigliere. Deduce, ancora, che la Corte di merito aveva omesso di considerare che le spese per la messagistica (OMISSIS) alla luce del disposto di cui all'articolo 34 L.Reg. 34/1998 erano da ritenere legittime. Assume, altresi', che in ragione della riforma della sentenza assolutoria in primo grado si rendeva necessaria ex articolo articolo 603 comma 3-bis c.p.p. la rinnovazione dell'audizione del teste (OMISSIS) sentito in sede di indagini difensive ed il cui verbale di audizione era stato allegato alla memoria in data 4 marzo 2015, teste il quale aveva reso delle dichiarazioni decisive in relazione alla finalizzazione dei messaggi in questione. Con il secondo motivo articolato in piu' censure, in relazione alla condanna relativa alle spese per la spedizione dei periodici "(OMISSIS)" e "(OMISSIS)" denuncia, ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), omissione della motivazione rafforzata a seguito della riforma della sentenza di primo grado nonche' omessa disamina della memoria difensiva ed omessa valutazione del dolo del reato contestato; violazione dell'articolo 627 comma 3 c.p.p.; violazione del combinato disposto dell'articolo 314 c.p. in relazione all'articolo 1-bis Legge Regionale Marche n. 34 del 1988. Assume che la corte di appello, nel riformare la pronunzia assolutoria di primo grado, non si era adeguatamente confrontata con la ricostruzione del giudice di primo grado il quale, nel pronunziare, l'assoluzione sul punto aveva affermato che trattavasi di spese lecite "aventi ad oggetto tematiche strettamente connesse a questioni di interesse regionale ed all'attivita' consiliare e del suo Presidente " da ritenere legittime in forza della normativa regionale ex articolo 1-bis Legge Regionale (OMISSIS) n. 34/1988, laddove la corte di appello, del tutto apoditticamente, aveva concluso nel senso che si trattava di attivita' totalmente avulsa da quella istituzionale. Rileva che la motivazione, in proposito, era gravemente carente in quanto i giudici di merito avrebbero dovuto valutare l'autonomia della scelta del politico di veicolare nel modo ritenuto opportuno le prospettive e le attivita' del gruppo, come ritenuto dal primo giudice, omettendo di considerare che, nel caso in esame, trattavasi di gruppo unipersonale composto dal solo (OMISSIS) e che, peraltro, non potevano immaginarsi mere finalita' propagandistiche in quanto i fatti risalivano agli anni 2008-2009 mentre le elezioni regionali si sarebbero svolte nel 2010. Osserva, ancora, che la corte di merito non aveva adeguatamente motivato sul punto, non aveva rispettato i dicta della Suprema Corte in sede di annullamento ed aveva omesso di considerare che le spese in questione, riguardanti le riviste "(OMISSIS)" e "(OMISSIS)", erano da ritenere legittime alla luce del disposto di cui all'articolo 1 bis- L.Reg. 34 del 1998. Assume che risultando evidente che dette spese erano legittime e che mancava una condotta distrattiva doveva essere pronunzia sentenza di proscioglimento nel merito in luogo della dichiarata prescrizione per i fatti del 2008. Con il terzo motivo articolato, in piu' censure, in relazione alla condanna relativa alle spese di ristorazione denuncia, ex articolo 606, comma 1, lettera b) c) ed e), c.p.p., violazione dell'articolo 546 comma 3 c.p.p. in relazione all'articolo 81 c.p., violazione dell'articolo 627 comma 3 c.p.p. nonche' vizio di motivazione. Evidenzia che la sentenza doveva essere ritenuta viziata sul punto in quanto nella parte dispositiva si faceva riferimento alla condanna per le spese di ristorazione di cui alla parte motiva in relazione ai capi 72), 73), 74), 75) e 76) ma in seno a tali capi difettava una esatta indicazione dei singoli fatti contestati. Osserva che la corte di appello da un lato non aveva fatto corretta applicazione dei principi di diritto fissati dalla Suprema Corte in sede di annullamento e, per altro verso, aveva finito per operare una invasione di campo laddove aveva ritenuto che all'imputato era precluso la possibilita' di svolgere la propria attivita' istituzionale con lo strumento ritenuto piu' idoneo. Con il quarto motivo denuncia, ex articolo 606, comma 1, lettera c), c.p.p., nullita' della sentenza in ragione della mancata rinnovazione della prova dichiarativa in violazione del disposto di cui all'articolo 603 comma 3-bis c.p.p. Assume che, pure valutati i principi fissati dalla Corte EDU, nel caso in esame risultava palese la violazione dei diritti difensivi non essendosi proceduto alla rinnovazione dell'audizione dell'imputato il quale nel corso dell'interrogatorio aveva chiarito che tutte le spese erano finalizzate a fare conoscere l'attivita' del gruppo. Con il quinto motivo deduce, ex articolo 606, comma 1, lettera b) ed e) c.p.p., violazione degli articoli 81 nonche' vizio di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio. Assume che la corte non aveva in alcun modo motivato in relazione ai singoli aumenti di pena in continuazione. Con il sesto motivo deduce, ex articolo 606, comma 1, lettera b) ed e) c.p.p., violazione dell'articolo 130 c.p.p. in combinato disposto con l'articolo 546 comma 3 c.p.p. e dell'articolo 81 c.p. Assume che in ragione dell'esatto ammontare dei profitti non era possibile procedere alla confisca nella forma di correzione di un errore materiale. Gli avv. ti (OMISSIS) e (OMISSIS), difensori del sig. (OMISSIS), hanno depositato in data 19 gennaio 2023 memoria contenente motivi nuovi con cui hanno ribadito che la sentenza impugnata aveva male individuato il perimetro delle spese legittimamente realizzate dai Presidenti dei Gruppi consiliari alla luce della legge regionale in vigore al tempo nella Regione (OMISSIS) (I. r. 34 del 1998). Hanno rilevato che la patologia che aveva inficiato l'iter valutativo di cui in motivazione della sentenza impugnata appariva ancor piu' evidente sulla scorta dal parallelo giudizio intervenuto nei confronti di alcuni degli altri Presidenti di Gruppi consiliari istituiti in seno all'Assemblea regionale marchigiana definito con sentenza irrevocabile. Hanno assunto che i rilievi contenuti - per la piena omogeneita' del contesto (normativo), della tipologia di spese (spese per ristorazione, spese postali, spese di rappresentanza) e delle contestazioni mosse (mancanza di adeguata giustificazione "successiva") - sgombravano il campo da ogni dubbio in ordine alla legittimita' dei rimborsi ottenuti dal Presidente del Gruppo (OMISSIS), risultando evidente la manifesta illogicita' della motivazione della sentenza gravata e il mancato adeguamento della stessa ai principi di diritto stabiliti dalla sentenza di annullamento con riferimento ai tre insiemi di spese per i quali era intervenuta la condanna dell'imputato e in relazione ai quali erano stati partitamente esposte le doglianze nell'atto di ricorso: le spese di telefonia e concernenti il servizio di messaggistica (OMISSIS) (doglianze raccolte nel motivo n. 1); le spese relative alla spedizione dei periodici "(OMISSIS)" e (OMISSIS)" (doglianze di cui al motivo n. 2); le spese di ristorazione (doglianze di cui al motivo n. 3). CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi meritano accoglimento per le ragioni appresso specificate. 2. Appare opportuno un preliminare richiamo ai principi fissati dalla Suprema Corte nella pronunzia di annullamento, indispensabile al fine di valutare la fondatezza delle censure formulate. 2.1. Relativamente alla prima questione, avente ad oggetto la natura giuridica dei gruppi Consigliari ed il vincolo di destinazione delle somme erogate, nel precisare che trattavasi di un argomento rilevante ai fini della corretta definizione delle finalita' in ragione delle quali sarebbe stato possibile fare uso delle somme messe a disposizione dei gruppi consigliari regionali da parte del Consiglio della Regione (OMISSIS), la Corte di Cassazione ha richiamato, in primo luogo, la sentenza n. 1130 del 1988 della Corte Costituzionale in cui e' stato affermato che " dal momento che i gruppi sono gli organi nei quali si raccolgono e si organizzano all'interno dell'assemblea i consiglieri eletti al fine di elaborare congiuntamente le iniziative da intraprendere e di trovare in essi gli adeguati supporti organizzativi per poter svolgere adeguatamente i propri compiti, non e' arbitrario che i gruppi consiliari vengano dotati di mezzi adeguati e di personale idoneo, affinche' ogni consigliere sia messo in grado di concorrere all'espletamento delle molteplici e complesse funzioni attribuite al Consiglio regionale e, in particolare, all'elaborazione dei progetti di legge, alla preparazione degli atti di indirizzo e di controllo, all'acquisizione di informazioni sull'attuazione delle leggi e sui problemi emergenti dalla societa', alla stesura di studi, di statistiche e di documentazioni relative alle materie sulle quali si svolgono le attivita' istituzionali del Consiglio regionale". Ha evidenziato che la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 187 del 1990, aveva avuto modo di precisare che "i gruppi consiliari sono organi del Consiglio regionale, caratterizzati da una peculiare autonomia in quanto espressione, nell'ambito del Consiglio stesso, dei partiti o delle correnti politiche che hanno presentato liste di candidati al corpo elettorale, ottenendone i suffragi necessari alla elezione dei consiglieri. Essi, pertanto, contribuiscono in modo determinante al funzionamento e all'attivita' dell'assemblea, curando l'elaborazione di proposte, il confronto dialettico fra le diverse posizioni politiche e programmatiche, realizzando in una parola quel pluralismo che costituisce uno dei requisiti essenziali della vita democratica". Dunque, i gruppi consigliari sono organi del Consiglio regionale al cui interno esprimono i partiti o le correnti che hanno presentato liste di candidati. I gruppi contribuiscono al funzionamento dell'attivita' assemblare ed ogni consigliere deve essere messo in condizione di concorrere, nel modo indicato, all'espletamento delle molteplici e complesse funzioni attribuite al Consiglio regionale; un'attivita', quella dei gruppi consigliari, funzionale a quella del Consiglio regionale. Ha, quindi, ulteriormente precisato: " Si tratta di affermazioni riprese in seguito dalla stessa Corte costituzionale che, con la sentenza n. 39 del 2014, richiamando una precedente pronuncia delle Sezioni Unite civili di questa Corte (Sez. U, n. 609 del 01/09/1999, Rv. 529547), ha chiarito e valorizzato ulteriormente la connotazione pubblicistica delle funzioni svolte dai gruppi 5 costituiti in seno ai consigli regionali, definendoli non solo come organi del consiglio e proiezioni dei partiti politici in assemblea regionale, ma anche "come uffici comunque necessari e strumentali alla formazione degli organi interni del consiglio", in quanto funzionalmente inerenti all'istituzione regionale. Nello stesso senso Corte Cost. n. 107 del 2015, in cui si e' aggiunto significativamente che i gruppi consiliari contribuiscono in modo determinante al funzionamento ed all'attivita' dell'assemblea regionale, assicurando "l'elaborazione di proposte, il confronto dialettico fra le diverse posizioni politiche e programmatiche, realizzando in una parola quel pluralismo che costituisce uno dei requisiti essenziali della vita democratica". Si tratta di principi recepiti dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 8145 del 2010, ha concorso a delineare ulteriormente la connessione tra gruppi consigliari e partiti politici. Secondo il giudice amministrativo infatti: "(...) in via generale il gruppo consiliare non e' un'appendice del partito politico di cui e' esponenziale, ma ha una specifica configurazione istituzionale come articolazione del consiglio regionale, i cui componenti esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato dai partiti e dagli elettori (...)". Il Gruppo consigliare non e' un'appendice del partito politico a cui appartiene il singolo consigliere. Non diversamente, le Sezioni Unite civili sono giunte alle stesse conclusioni con l'ordinanza 31 ottobre 2014, n. 23257 (cui hanno fatto seguito le ordinanze 21 aprile 2015, n. 8077, 28 aprile 2015, n. 8570, e 29 aprile 2015, n. 8622) con riguardo alla gestione dei fondi pubblici erogati ai gruppi partitici dei consigli regionali ed alla ritenuta giurisdizione della Corte dei conti in ordine alla responsabilita' erariale del componente del gruppo, autore di "spese di rappresentanza" prive di giustificativi. Si e' affermato che: a) i gruppi consiliari hanno "natura pubblicistica" "in rapporto all'attivita' che li attrae nell'orbita della funzione istituzionale del soggetto giuridico, assemblea... regionale, nel cui ambito sono destinati ad operare"; b) i contributi pubblici sono erogati ai gruppi consiliari "con gli specifici vincoli ad essi impressi dalla legge": vincoli "dettagliatamente predefiniti... con esplicito esclusivo asservimento a finalita' istituzionali del consiglio regionale e non a quelle delle associazioni partitiche o, tanto meno, alle esigenze personali di ciascun componente"; c) tenuto conto della qualifica di pubblico ufficiale, ai sensi dell'articolo 357 c.p., comma 1, che la giurisprudenza penale della Corte attribuisce al presidente del gruppo partitico del consiglio regionale, questi, nel suo ruolo, partecipa alle modalita' progettuali ed attuative della funzione legislativa regionale, nonche' alla procedura di controllo del vincolo di destinazione dei contributi erogati al gruppo". (in tal senso, Sez. 6, n. 1561 del 14/01/2019, Fiorito, Rv. 274940). In questo contesto assume rilevante valenza Sez. U. civ. n. 12 marzo 2019, n. 10772 in cui la Corte, richiamando le proprie precedenti pronunce (Sez. U, 31 ottobre 2014, n. 23257; Sez. U, 21 aprile 2015, n. 8077; Sez. U, 28 aprile 2015, n. 8570; Sez. U, 29 6 aprile 2015, n. 8622; Sez. U, 8 aprile 2016, n. 6895; Sez. U, 7 settembre 2018, n. 21927; Sez. U., 17 dicembre 2018, n. 32618; Sez. U, 16 gennaio 2019, n. 1035 e 1034, quest'ultima con riferimento alla Regione Emilia Romagna) ha ulteriormente chiarito che "la gestione dei fondi pubblici erogati ai gruppi partitici dei consigli regionali e' soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilita' erariale, sia perche' a tali gruppi - pur in presenza di elementi di natura privatistica connessi alla loro matrice partitica - va riconosciuta natura essenzialmente pubblicistica in relazione alla funzione strumentale al funzionamento dell'organo assembleare da essi svolta, sia in ragione dell'origine pubblica delle risorse e della definizione legale del loro scopo". Nell'occasione, le Sezioni unite, richiamando Corte Cost. n. 235 del 2015, hanno ulteriormente precisato che: a) in ordine alla gestione delle somme erogate a titolo di contributi pubblici ai gruppi consiliari, i capigruppo dei Consigli regionali e tutti i consiglieri regionali, anche se sottratti alla giurisdizione di conto, restano assoggettati alla responsabilita' amministrativa e contabile (oltre che penale, ricorrendone i presupposti); b) l'accertamento rimesso in tale ambito alla Corte dei conti, affinche' non debordi dai limiti esterni imposti alla sua giurisdizione, non puo' investire l'attivita' politica del presidente del gruppo consiliare o le scelte di "merito" dal medesimo effettuate nell'esercizio del mandato, ma deve mantenersi nell'alveo di un giudizio di conformita' alla legge dell'azione amministrativa (articolo 1 della L. n. 20 del 1994), come ribadito anche dalla Corte costituzionale (n. 235 e 107 del 2015) e che la riconducibilita' delle spese sostenute dai singoli consiglieri a determinate categorie di spesa, pur astrattamente previste, non vale, di per se', a fare escludere necessariamente la possibilita' che le singole spese siano "non inerenti" all'attivita' del gruppo, nei casi in cui non sia rispettato il parametro di ragionevolezza, soprattutto con riferimento alla entita' o proporzionalita', oltre che all'effettivita' delle spese, anche sotto il profilo della veridicita' della relativa documentazione; c) in siffatto alveo rimane la verifica, rimessa alla Corte dei conti, della "manifesta difformita'", in cio' consistendo propriamente il giudizio di non "inerenza" delle attivita' di gestione del contributo erogato ai gruppi consiliari rispetto alle finalita', di preminente interesse pubblico, che allo stesso imprime la normativa vigente, in termini di congruita' e di collegamento teologico delle singole voci di spesa ammesse al rimborso alle finalita' pubblicistiche dei gruppi. Dunque: 1) un collegamento teleologico tra spese e finalita' di preminente interesse pubblico da verificare in termini di congruita'; 2) una verifica che non attiene al merito delle scelte ovvero all'attivita' politica, ma alla conformita' alla legge dell'azione amministrativa, in cui l'astratta riconducibilita' delle spese a determinate categorie, pur teoricamente previste, non esclude che le stesse siano non inerenti rispetto all'attivita' dei gruppo, come definita dalla Corte costituzionale; 3) una verifica che si realizza anche attraverso il parametro di ragionevolezza, in relazione all'entita', alla proporzionalita', alla effettivita' delle spese, alla veridicita' della relativa documentazione e che puo' condurre 7 alla manifesta difformita' della spesa rispetto al perseguimento delle finalita' sottese al funzionamento del Gruppi consigliari. Un denaro, quello attribuito ai gruppi consigliari regionali, pubblico, gestito da pubblici ufficiali, funzionalmente vincolato nel senso indicato; il gruppo consigliare non e' un'appendice del partito politico a cui appartiene il singolo consigliere. Non e' in discussione il principio secondo cui, a seguito delle modifiche apportate alla norma incriminatrice di cui all'articolo 314 co. pen., con la L. n. 86 del 1990, l'origine o - se si preferisce-la natura pubblica o privata del denaro altrui e/o delle altre cose mobili altrui, che costituiscono l'oggetto materiale del peculato, e' un dato irrilevante ai fini del perfezionamento del reato, che e' integrato dal fatto appropriativo di denaro o cosa mobile "altrui" di pertinenza di qualunque soggetto giuridico, pubblico o privato, individuale o collettivo, e non piu' dal denaro o dalla cosa mobile "appartenente alla p.a." secondo la previgente disciplina normativa. Il tema, decisivo rispetto ai fatti oggetto del processo, attiene invece al se ed in che limiti l'attivita' del singolo consigliere componente di un gruppo consiliare, esterna rispetto alla diretta partecipazione ai lavori dell'assemblea dell'ente pubblico territoriale, debba essere scandita da nessi di collegamento funzionale con la vita e le esigenze del gruppo, nel senso indicato dalla Corte costituzionale e dalla giurisprudenza richiamata. La questione e' quella di definire la portata del vincolo di destinazione impresso ai contributi erogati dall'ente al gruppo consiliare e, quindi, i limiti entro cui di quei contributi e' possibile fare uso legittimo da parte del singolo consigliere. Limiti in relazione ai quali divenga possibile tracciare, con criteri compatibili con il principio di determinatezza delle condotte pena/mente rilevanti, la pertinenzialita' dell'avvenuto impiego (spendita) da parte del gruppo (e per esso del suo presidente e dei singoli consiglieri) dei contributi gli scopi e obiettivi che di essi contributi costituiscono causa. Sulla base della ricostruzione normativa compiuta e dei principi richiamati, discende in negativo che: a) non possono essere imputate al fondo per il funzionamento dei Gruppi consigliari le spese connesse all'attivita' politica dei partiti, di cui i consiglieri sono espressione, che non siano espressione e connesse ad iniziative del gruppo, volte, cioe', al funzionamento del gruppo; b) non possono essere imputate al fondo le spese che i singoli consiglieri sostengono per la loro personale attivita' politica, spese volte alla "cura" del proprio consenso politico, delle relazioni personali sul territorio con esponenti della societa' civile, con l'informazione, con gli elettori; rapporti finalizzati alla conservazione o all'incremento del consenso politico soggettivo, della visibilita' personale del consigliere, ma del tutto scissi da iniziative e dalle funzioni del gruppo consigliare, nel senso indicato; 8 c) non possono essere imputate al fondo le spese che i consiglieri hanno in ragione dei rapporti personali tra essi, ovvero per l'organizzazione di iniziative politiche che non trovino nel gruppo consigliare la fonte di riferimento e di legittimazione; d) non possono chiaramente essere imputate le spese connesse alle esigenze private del consigliere. Affermare che anche il singolo consigliere possa dare attuazione alle attivita' del gruppo non consente di ritenere che le spese derivanti da ogni atto o comportamento del consigliere possano essere imputate al fondo solo in ragione del rapporto con lo status di consigliere; affermare che le iniziative del gruppo consigliare possano essere attuate anche attraverso il singolo consigliere non consente di ritenere che ogni condotta, ogni comportamento, ogni partecipazione del singolo consigliere ad un evento, anche pubblico, sia espressione dell'iniziativa del gruppo consigliare e che quindi ogni spesa- in quanto di per se' legata all'attivita' del singolo consigliere- sia imputabile al Fondo per il funzionamento. Sul tema si evoca spesso un precedente giurisprudenziale di questa Sezione (Sez. 6, n. 33069 del 12/5/2003, Tretter, Rv. 226531), secondo cui l'attivita' di un gruppo consiliare, estranea alla diretta partecipazione ai lavori dell'assemblea dell'ente pubblico territoriale, sarebbe sempre scandita da nessi di collegamento funzionale con la vita e le esigenze del gruppo, inteso come proiezione del partito politico dei cui progetti e interessi e' portatore". Nell'osservare che con la sentenza impugnata la Corte di merito aveva affermato il principio secondo cui " non risponde del delitto di peculato il presidente di un gruppo consiliare provinciale che si appropri di contributi ottenuti dalla provincia per l'esplicazione dei compiti del proprio gruppo, impiegandoli per sostenere spese di propaganda politica o di rappresentanza (nella specie, per l'acquisto di materiale propagandistico e di oggetto-regalo di modesto valore per gli elettori, per pranzi e rinfreschi in occasione di incontri pre-elettorali), trattandosi di attivita', benche' non istituzionali, comunque legate da nesso funzionale con la vita e le esigenze del gruppo" ha evidenziato la necessita' di una rivisitazione di dette considerazioni in ragione dei principi generali evidenziati. 2.2. In ordine al concetto di spese rimborsabili ed al tema delle spese "c.d. di rappresentanza e di quelle di ristorazione" la Corte di Cassazione ha precisato che il legislatore ha individuato le singole categorie di spesa di rappresentanza ed e' stata la giurisprudenza, soprattutto contabile, a specificare una serie di criteri e principi necessari per delimitarne l'ammissibilita' e la liceita', precisando che vi sono cioe' degli elementi sostanziali e formali che consentono di delimitare la nozione di spesa di rappresentanza e chiarendo che: " La spesa deve essere strettamente correlata con le finalita' istituzionali dell'ente; pertanto, "le spese di rappresentanza possono essere ritenute lecite, solo se sono rigorosamente giustificate e documentate, con l'esposizione, caso per caso, dell'interesse istituzionale perseguito, della dimostrazione del rapporto tra l'attivita' dell'ente e la spesa, della qualificazione del soggetto destinatario e dell'occasione della spesa" (cfr., Corte dei conti, Sez. 2, 20 marzo 2007, n. 64). La spesa deve avere inoltre uno scopo anche promozionale per l'ente; essa deve essere effettuata per l'immagine o per l'attivita' dell'ente: "Le attivita' di rappresentanza, in altri termini, garantiscono una proiezione esterna dell'amministrazione verso la collettivita' amministrata e sono finalizzate ad apportare vantaggi che l'ente trae dall'essere conosciuto"(cfr. Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, 30 luglio 2012, n. 356) Se, quindi, la spesa viene effettuata a fini promozionali di un singolo, per quanto rappresentativo dell'ente (es. il sindaco), la stessa non e' ammissibile e non puo' essere considerata quale spesa di rappresentanza appena delineata (cosi', testualmente, Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione 5 novembre 2012, n. 466). Inoltre, si sottolinea, la spesa deve rispondere a criteri di ragionevolezza, sobrieta', sia con riguardo all'evento eventualmente realizzato, sia con riferimento ai valori di mercato. (cfr., fra gli altri, Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l'Abruzzo, sentenza 30 ottobre 2008, n. 394). Ancora, secondo la Corte dei conti, affinche' possano essere considerate legittime le spese di rappresentanza, esse devono avere i caratteri dell'ufficialita' e dell'eccezionalita'. Nel primo senso, devono, quindi, finanziare "manifestazioni della pubblica amministrazione idonee ad attrarre l'attenzione di ambienti qualificati o dei cittadini amministrati al fine di ricavare i vantaggi correlati alla conoscenza dell'attivita' amministrativa. L'attivita' di rappresentanza ricorre in ogni manifestazione ufficiale attraverso gli organi muniti, per legge o per statuto, del potere di spendita del nome della pubblica amministrazione di riferimento" (Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione 5 novembre 2012, n. 466, citata.) Ovviamente, come ripetuto sovente dalla giurisprudenza, la spesa non puo' essere rivolta nei confronti di politici o di dipendenti interni all'ente, ma dev'essere rivolta all'esterno (cfr., fra le altre, Corte dei conti, sezione giurisdizionale per l'Umbria, sentenza 30 marzo 2000, n. 160). Si aggiunge che, alla luce dei principi di trasparenza e del generale obbligo di motivazione, e' necessario fornire una rigorosa giustificazione del fine istituzionale perseguito e del rapporto tra l'attivita' dell'ente e la spesa; le spese devono essere rendicontate analiticamente, evidenziandone, in modo documentale, la natura, le circostanze che hanno generato la spesa, i modi e i tempi di tali erogazioni (Cfr. Corte 10 dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Toscana, sentenza 5 luglio 2013, n. 246). Una nozione di spesa di rappresentanza rigorosa ma coerente con i principi generali in precedenza indicati; una nozione di spesa conforme alla consolidata definizione che di essa fornisce anche la Corte di cassazione secondo cui per "spese di rappresentanza" devono intendersi solo quelle destinate a soddisfare la funzione rappresentativa esterna dell'ente pubblico al fine di accrescere il prestigio dell'immagine dello stesso e darvi lustro nel contesto sociale in cui si colloca (fra le tante, Sez. 6, n. 36827 del 04/07/2018, M, Rv. 274023; Sez. 6, n. 16529 del 23/02/2017, Ardigo', Rv. 270794; Sez. 6, n. 10135 Raimondi, Rv, 254763). Si tratta di principi che certo non possono essere derogati per i gruppi consigliari regionali, atteso che: a) questi non sono "altro" o "cosa diversa" rispetto all'ente Regione; b) i gruppi consigliari gestiscono denaro pubblico della stessa Regione; c) le somme erogate per il fondo per il funzionamento dei gruppi fanno parte del bilancio della Regione; d) le somme erogate devono essere utilizzate per le finalita' di cui si e' detto; e) rispetto a quelle somme vi era un intrinseco dovere di giustificazione e di controllo. Il tema non e' quello del se l'iniziativa e l'attivita' del gruppo possa essere attuata dal singolo consigliere, quanto, piuttosto, come gia' detto, del se esista una "iniziativa" del gruppo in ragione della quale il singolo consigliere regionale opera. Le somme erogate per il funzionamento dei Gruppi consigliari non costituiscono una sorta di "zona franca", di elargizione liberale di denaro da parte della Regione che i singoli consiglieri possono "modellare" e "piegare" liberamente in ragione del senso politico personale, del loro status, come se fossero state somme di cui si possa disporre per creare o gestire il consenso politico del singolo o per tessere relazioni personali in prospettiva di convenienze e di utilita' della propria carriera politica, all'interno o all'esterno del partito di appartenenza. Dunque, ad esempio, non sono spese di rappresentanza e non sono spese di ristorazione rimborsabili quelle prive di uno specifico collegamento con il gruppo, quelle cioe' non imputabili al gruppo nel senso indicato, quelle aventi ad oggetto donativi del singolo consigliere in occasione di feste o ricorrenze, quelle giustificate in ragione dell'attivita' politica e della visibilita' della sola persona; non sono spese di rappresentanza quelle relative ad incontri con colleghi interni all'ente di appartenenza; non sono spese di rappresentanza quelle sostenute in occasione di incontri con avventori casuali, quelle sostenute per cene o pasti con i propri collaboratori, quelle sostenute in occasioni di incontri con politici, ma pur sempre sganciate da funzioni di visibilita' del gruppo consigliare. Non sono spese di rappresentanza, cioe', tutte quelle estranee alla rappresentanza del gruppo, all'accrescimento della sua capacita' operativa all'interno del Consiglio, e connesse solo alla proiezione esterna ed alle esigenze di visibilita' del consigliere o del partito di appartenenza". Ha, infine, chiarito che: "le considerazioni esposte assumono rilievo anche per le altre categorie di spese, nel senso che, pur volendo prescindere dal tema del se all'epoca in cui i fatti sarebbero stati commessi, fosse o meno previsto un trattamento economico onnicomprensivo anche per quel che concerne le spese rimborsabili, il tema che deve essere verificato e' se le "ulteriori" spese, anche diverse da quelle espressamente disciplinate, siano sostenute per il funzionamento del gruppo consigliare e per il perseguimento delle finalita' ad esso sottese, cosi' come indicate". 2.3. Per quanto concerne la prova della condotta appropriativa, nel rilevarevtale concetto "non coincide affatto con l'assenza di giustificazione della spesa" ha evidenziato che ai fini della prova della responsabilita' penale e della condotta di appropriazione, secondo quanto affermato costantemente dalla giurisprudenza di legittimita': " a) non puo' darsi di per se' rilievo alla mancanza di coeva giustificazione, nel senso che non puo' intendersi come intrinsecamente illecita la spesa per il solo profilo formale, salva la sua concreta verifica; b) la prova della condotta appropriativa deve essere fornita dalla Pubblica Accusa. (Sez. 6, n. 38245 del 03/07/2019, De Luca Cateno, Rv. 276712; Sez. 6, n. 35683 del 01/06/2017, Adamo, Rv. 270549). In tale contesto, si pone il tema: a) delle c.d. spese ambivalenti, cioe' di spese la cui natura strutturale non sia di per se' rivelatrice della loro incompatibilita' ontologica rispetto alle finalita' pubbliche attributive del potere di spesa; b) della impossibilita', ai fini penali, di far discendere la prova della condotta appropriativa per le c.d. spese ambivalenti da una giustificazione incerta, incompleta dubbia, non univoca (Sez. 6, n. 2166 del 09/04/2019, Marino, Rv. 276067). Si tratta di un tema che risente tuttavia di quanto gia' in precedenza detto in ordine: a) all'onere oggettivo in capo ai consiglieri di documentazione della spesa e della sua giustificazione, derivante dalla natura del denaro e dalla sua destinazione funzionale; b) alla necessita' che la spesa sia finalizzata al perseguimento degli scopi per cui le somme erano erogate al fondo di funzionamento dei gruppi consigliari; c) all'esatta individuazione delle finalita' del Fondo, di cui pure si e' detto. Il giudizio di ambivalenza, ovvero quello della strutturale incompatibilita' della spesa rispetto alle finalita' istituzionali del gruppo, e' un giudizio di relazione che viene formulato avendo come polo di riferimento la corretta individuazione, nel senso indicato, della 12 finalita' dei gruppi consigliari; la spesa e' davvero ambivalente se e' in astratto compatibile con le reali finalita' del fondo, queste ultime correttamente individuate. Quanto alle spese effettivamente ambivalenti, il tema dell'appropriazione deve senza dubbio prescindere da meccanismi presuntivi e di distribuzione dell'onere della prova; in tal senso va in parte rimodulato il principio affermato da Sez. 6, n. 23066 del 2009, Provenzano, secondo cui integra il delitto di peculato l'utilizzazione di denaro pubblico accreditato su un capitolo di bilancio intestato a "spese riservate", quando non si dia una giustificazione certa e puntuale del suo impiego per finalita' strettamente corrispondenti alle specifiche attribuzioni e competenze istituzionali del soggetto che ne dispone, tenuto conto delle norme generali della contabilita' pubblica, ovvero di quelle specificamente previste dalla legge. La questione ha una dimensione fattuale e probatoria, oltre che giuridica. La prova della finalita' illecita della spesa per cui si chiede ed ottiene il rimborso e' innanzitutto direttamente proporzionale alla "distanza", al "quantum" che intercorre tra la causa apparente della spesa rispetto alla ragione giustificativa dell'attribuzione del potere di spesa. La necessita' di approfondire sul piano probatorio la causale della spesa si pone dunque in senso progressivo rispetto alla capacita' dimostrativa della documentazione "ex ante" prodotta, cioe' al momento in cui viene chiesto il rimborso; quanto piu' sara' neutra o ambigua la documentazione originaria, tanto piu' potra' essere evidente la necessita' di approfondire ed investigare. E' possibile che le indagini colorino di significato indiziario l'originaria documentazione, ed allora, davanti a richieste di spiegazioni, puo' assumere rilievo la capacita' dimostrativa della documentazione "ex post", eventualmente prodotta nell'ambito dello sviluppo dialettico del procedimento, ovvero le giustificazioni fornite. In situazioni come quella in esame, la prova dell'appropriazione e' connessa innanzitutto alla rilevanza causale apparente della spesa, alla sua specificita' originaria, per come rappresentata al momento in cui fu richiesto il rimborso, nel senso che e' possibile che sin dall'inizio la spesa abbia una giustificazione documentale pienamente compatibile ovvero, viceversa, strutturalmente incompatibile con le finalita' giustificative del potere di spesa (es., in astratto, spesa per una festa di compleanno di un parente, per pagare stanze di albergo a soggetti terzi, o per un regalo privato) In questi ultimi casi la prova della condotta appropriativa, per certi versi, e' docu mentale. Nel caso in cui, invece, la documentazione originaria sia causalmente muta (uno scontrino relativo ad una consumazione tra due o piu' persone, o ad un acquisto da un dato negozio, una ricevuta di ristorazione) ovvero sia indicativa di una causale astrattamente compatibile con quelle giustificanti la spesa, ma tuttavia generica (es. "spese di rappresentanza" "spese di ristorazione"), il tema della prova della condotta 13) appropriativa assume una valenza indiziaria e si sposta all'interno dell'accertamento processuale. La questione si pone nei casi in cui, a fronte di una documentazione originaria muta od opaca, vi siano risultanze di indagini che colorino quella documentazione originaria di significato penalmente rilevante sotto molteplici profili; ci si puo' riferire: a) ai casi in cui venga accertato che il consigliere si trovasse in un posto diverso da quello in cui risulta emesso il documento contabile per il quale si e' chiesto il rimborso; b) ai casi in cui, nel corso dello stesso giorno, risultino emessi piu' scontrini in luoghi diversi e distanti tra loro; c) ai casi in cui risultino una quantita' di scontrini o di documenti che, per frequenza e sistematicita', riveli una finalita' non compatibile con quella istituzionale, perche' esplicita la sostanziale inesistenza di una iniziativa del gruppo; d) ai casi in cui la documentazione contabile riguardi spese avvenute in luoghi ovvero in giorni che solitamente si frequentano in periodi di vacanza, quando l'attivita' istituzionale dei gruppi consigliari e' sospesa; e) ai casi in cui le contabili di prelievi dal conto corrente del gruppo siano anticipate e temporalmente distanti dalla data della documentazione per cui si chiede il rimborso. Si tratta di situazioni in cui le risultanze investigative si sviluppano sulla base di una documentazione "neutra" e portano a far emergere una situazione in cui il difetto di giustificazione della spesa si manifesta in modo chiaro e stringente, atteso il numero, il tipo, la sequenza, la sistematicita', l'oggetto, le coordinate di tempo e di luogo delle spese, le modalita' di gestione complessiva del denaro. In tali contesti la dialettica probatoria puo' rivelare e fare emergere l'esistenza di situazioni altamente significative sul piano probatorio della condotta appropriativa. Non si intende fare riferimento ai casi in cui, a fronte di situazioni come quelle appena indicate ed ad una fisiologica richiesta di spiegazioni a seguito delle risultanze di indagini, il soggetto interessato produca documenti o alleghi circostanze che, pur incomplete, pur non decisive, lascino il fondato, ragionevole dubbio che quella spesa possa essere stata comunque sostenuta per il conseguimento delle finalita' istituzionali. Assumono invece i casi in cui l'interessato, in situazioni come quelle descritte, non fornisca nessuna spiegazione - ad esempio del perche' sia stato chiesto il rimborso di una spesa sostenuta in un luogo ed in un tempo in cui egli era altrove - ovvero adduca spiegazioni o produca documenti che, al di la' dei convincimenti soggettivi (che al piu' possono assumere rilievo sul piano dell'accertamento del dolo), confermino, anche solo implicitamente, la causale esterna della spesa rispetto alle finalita' attributive del potere e finiscono per provare l'interversione del possesso. Un procedimento probatorio indiziario complesso, in cui il requisito della molteplicita' degli indizi, che consente una valutazione di concordanza, e quello di gravita' si completano a vicenda; un ragionamento indiziario in cui elementi singoli di limitata valenza possono assumere rilievo per il loro numero elevato e per la loro cadenza 14 sistematica e possono accompagnarsi ad altri indizi, forse numericamente minori, ma di maggiore consistenza dimostrativa del fatto da provare. (ex multis Sez. 5, n. 16397 del 21/2/2014, P.G. in proc. Maggi, Rv. 259552) ". 3. Cio' premesso occorre muovere da un primo dato che inficia la tenuta logica della sentenza impugnata con riferimento alla posizione di entrambi gli imputati, non risultando rispettato il dictum della Cassazione quanto alla esatta individuazione delle "spese non rimborsabili". 3.1. Secondo quanto stabilito in dispositivo (OMISSIS) e' stato condannato alla pena ritenuta di giustizia per i reati di peculato ascritti ai capi 80), 125) e 126): "limitatamente alle spese postali e convegnistiche" e (OMISSIS) e' stato condannato alla pena ritenuta di giustizia per i reati di peculato ascritti ai capi 72), 73), 74), 75) e 76) "limitatamente alle spese per i periodici "(OMISSIS)" e "(OMISSIS)" e per la messaggistica "(OMISSIS)" e per quelle di ristorazione meglio indicate in motivazione", risultando evidente la (parziale) "indeterminatezza" del dispositivo. Orbene i rapporti che regolano la motivazione ed il dispositivo della sentenza penale sono complessi e non sono soggetti ad un'unica disciplina, perche' la regola secondo la quale il rapporto esistente nel processo penale tra il dispositivo e la motivazione della sentenza, regola che si risolve nel ritenere quest'ultima inidonea a svolgere una autonoma efficacia giuridica, capace di incidere, a posteriori, sul contenuto essenziale del dispositivo, puo' essere derogata nei casi in cui, essendo la motivazione ed il dispositivo emessi contestualmente, la prima puo' possedere l'attitudine ad incidere sul comando giuridico che dalla sentenza penale deriva, posto che entrambe le parti essenziali di essa trovano una simultanea origine, capace di rendere intelligibile il comando stesso. Tuttavia, fuori dai casi di emanazione contestuale di motivazione e dispositivo della sentenza penale, e' alla pronuncia di quest'ultimo che e' affidata nel processo penale la funzione dell'applicazione della legge al fatto contestato all'imputato, mentre la motivazione adempie ad una finalita' meramente strumentale per cui e' improduttiva di conseguenze giuridiche diverse da quelle coerenti col dispositivo. Ne consegue che la motivazione non puo', di regola, supplire alle eventuali omissioni del dispositivo. Nel caso in esame la mancata esatta indicazione delle spese "non rimborsabili" oggetto delle contestate condotte di peculato nel dispositivo non poteva essere integrata dalla motivazione ove, peraltro, i giudici di merito, quanto alla specifica posizione del (OMISSIS), hanno introdotto un altro elemento di confusione ed incertezza in quanto hanno indicato come non consentite "spese per ristorazione" che non possono logicamente ricomprendersi nelle speSe "convegnistiche", non comprendendosi, quindi, per quali esatti fatti, alla lettura del dispositivo, il suindicato imputato e' stato ritenuto responsabile. Altrettanto "anomala" appare la condanna dello (OMISSIS) ritenuto responsabile per fatti di peculato individuati solo ex posta fronte di una ben piu' ampia contestazione contenuta nel capo di imputazione riguardante numerose spese. Sotto questo profilo, ove non volesse ritenersi sussistente una vera e propria nullita' ex articolo 546 c.p.p., sussiste certamente un vizio di motivazione decisivo in quanto la suddetta carenza si ripercuote sulla coerenza e logicita' del complessivo impianto motivazionale. 4. Risultano, parimenti, fondate le censure relative alle gravi carenze motivazionali della pronunzia de qua con la quale e' stato operato un parziale "overturning" rispetto alla pronunzia assolutoria di primo grado, senza che la Corte territoriale si sia, peraltro, conformata al thema decidendum come delineato nella sentenza di annullamento. La giurisprudenza di questa Corte si e' ripetutamente occupata del tema del "ribaltamento" della sentenza assolutoria di primo grado. Secondo una prima elaborazione giurisprudenziale la sentenza che, in riforma totale della decisione di primo grado, sostituisce l'assoluzione dell'imputato con l'affermazione di colpevolezza, deve contenere una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni raggiunte. Ne discende che il giudice di appello dovra' confrontarsi con le ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata, giustificandone l'integrale riforma senza limitarsi ad inserire delle generiche notazioni critiche di dissenso, ma riesaminando, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice e quello eventualmente acquisito in seguito, per offrire un percorso argomentativo, nuovo e compiuto, che dimostri, in primo luogo, con una rigorosa analisi, "l'incompletezza o l'incoerenza" della decisione appellata, "non essendo altrimenti razionalmente giustificata la riforma" (Sez. U, n. 33748 del 12/7/2005, Mannino, Rv. 231679; Sez. U, n. 6682 del 4/2/1992, Musumeci, Rv. 191229; Sez. U, n. 45276 del 30/10/200.3, Andreotti, Rv. 226093). Per la riforma di una sentenza assolutoria nel giudizio di appello non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera diversa valutazione del materiale probatorio gia' acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, ma occorre invece una "forza persuasiva superiore", tale da far venire meno "ogni ragionevole dubbio". La condanna, infatti, come significativamente evidenziato da Sez. 6, n. 40159 del 3/11/2011, Galante, Rv. 251066 "presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l'assoluzione non presuppone la certezza dell'innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza". Orbene appare evidente che la corte territoriale ha posto a fondamento i medesimi elementi di prova gia' valorizzati dal Tribunale per pervenire ad una pronuncia liberatoria, fornendone una lettura prospettata come piu' plausibile. Nel delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio, non ha, pero', proceduto alla necessaria confutazione delle difformi valutazioni del primo giudice, mettendone in luce le carenze o le aporie o, quanto meno, dando conto delle ragioni dell'incompletezza o incoerenza dei piu' rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza. In particolare la Corte territoriale, senza affrontare funditus il tema delle spese c.d. ambivalenti e di quelle del tutto scisse da iniziative e dalle funzioni del gruppo consiliare (ed in tal modo violando anche il disposto di cui all'articolo 627 c.p.), si e' limitata a richiamare genericamente il tenore della documentazione in atti ed ha ritenuto ininfluenti le dichiarazioni rese dagli imputati sulle quali era stata fondata la pronunzia assolutoria proprio in ragione dei chiarimenti forniti circa la legittimita' delle stesse, pervenendo, del tutto apoditticamente, alla conclusione circa la finalita' di "propaganda politica personale" delle spese per cui e' intervenuta la statuizione di condanna. E sebbene il G.U.P., nel pervenire alla pronunzia assolutoria, aveva anche esaminato la documentazione prodotta dagli imputati e le loro memorie (vedi, in particolare, quanto al (OMISSIS) memoria con allegato provvedimento di archiviazione da parte della Procura Regionale presso la Sezione Giurisdizionale delle (OMISSIS) della Corte dei Conti in data 19/11/2015 e quanto allo (OMISSIS) la messagistica (OMISSIS) e le riviste con allegate memorie) la Corte di appello di Perugia non ne ha fatto cenno alcuno (se non per sommi capi) ovvero ne ha richiamato il contenuto con considerazioni del tutto generiche ed apodittiche Il ribaltamento dello scrutinio di responsabilita' compiuto nel processo di appello sullo stesso materiale probatorio acquisito in primo grado doveva essere, comunque, sorretto da 20 argomenti dirimenti, conseguenti alla rinnovata disamina delle prove tale da rendere evidente l'errore della sentenza assolutoria, la quale deve rivelarsi, rispetto a quella di appello, non piu' razionalmente sostenibile, per essere stato del tutto fugato ogni ragionevole dubbio sull'affermazione di responsabilita', procedimento nel caso in esame non correttamente seguito. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata, in accoglimento dei motivi sin qui esaminati dedotti dai suindicati ricorrenti, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte d'appello di Firenze, che, nella piena liberta' delle valutazioni di merito di sua competenza, dovra' porre rimedio alle rilevate carenze motivazionali, uniformandosi ai richiamati principi di diritto. Giova rilevare che, a fronte dei cennati vizi e delle anzidette gravi lacune motivazionali, la questione relativa alla nullita' della sentenza impugnata in ragione della mancata rinnovazione della prova dichiarativa in violazione del disposto di cui all'articolo 603 comma 3-bis c.p.p. rimane di fatto assorbita: spettera' al giudice del rinvio valutare, se a fronte di quanto argomentato dal primo giudice - le cui argomentazioni dovranno costituire punto di partenza ed oggetto "adeguato confronto" - appaia indispensabile, per esigenze legate ad una rivalutazione di prove dichiarative ritenute decisive, disporre la rinnovazione dell'attivita' istruttoria. Rimangono assorbiti tutti i rimanenti motivi perche' afferenti a questioni la cui delibazione resta logicamente subordinata all'esito del nuovo scrutinio del tema, principale, della responsabilita', fermo restando che gia' in questa sede deve rilevarsi che, alla luce del devoluto e di quanto statuito dalla Suprema Corte con la suddetta sentenza, non potra' piu' essere messa in discussione la qualificazione dei fatti in questione quale ipotesi di peculato ex articolo 314 c.p. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Firenze.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SCARANO Luigi Alessandro - Presidente Dott. SCODITTI Enrico - Consigliere Dott. IANNELLO Emilio - Consigliere Dott. MOSCARINI Anna - Consigliere Dott. GORGONI Marilena - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso n. 25167/2020 proposto da: (OMISSIS), nella qualita' di procuratore di (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende; - ricorrente - contro MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato ex lege in Roma, Via Dei Portoghesi 12 presso l'Avvocatura Generale dello Stato da cui e' difeso per legge; - controricorrente - avverso la sentenza n. 300/2020 della CORTE D'APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata in data 09/04/2020; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/12/2022 da GORGONI MARILENA; lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero. FATTI DI CAUSA (OMISSIS) ricorre per la cassazione della sentenza n. 300-2020 della Corte d'Appello di Reggio Calabria, pubblicata in data 9 aprile 2020, articolando un solo motivo. Resiste con controricorso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Il ricorrente, nella qualita' di curatore speciale di (OMISSIS), espone di aver convenuto presso il Tribunale di Reggio Calabria, sezione distaccata di Melito Porto Salvo, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, perche', accertatane la responsabilita', lo condannasse al risarcimento dei danni subiti dal fondo di proprieta' di (OMISSIS). A tal fine rappresentava che (OMISSIS) aveva ricevuto per testamento un appezzamento di terreno situato nei Comune di (OMISSIS) e che, a causa della realizzazione del porto industriale di (OMISSIS) ad opera della ex Cassa del Mezzogiorno, cui era subentrata l'Agenzia per la promozione e lo sviluppo del Mezzogiorno e, a seguito della sua soppressione, il Ministero convenuto, non preceduta da sufficienti studi volti ad accertare le condizioni climatiche e le dinamiche meteomarine, detto fondo aveva subito un massiccio fenomeno erosivo, iniziato nel 1984 e protrattosi con danni via via crescenti ed irreversibili che ne avevano determinato l'inghiottimento. Il Ministero, costituitosi in giudizio, eccepiva l'inammissibilita' della domanda per incompetenza territoriale del Tribunale adito, la prescrizione del credito risarcitorio, il proprio difetto di legittimazione passiva, stante che l'opera mirava a realizzare interessi pubblici locali, e, nel merito, deduceva l'infondatezza delle pretese attoree. A seguito dell'accoglimento dell'eccezione di incompetenza territoriale, il giudizio proseguiva dinanzi al Tribunale di Reggio Calabria, il quale, con sentenza n. 1356/10, accoglieva, ritenendola fondata, la eccezione di prescrizione sollevata dal Ministero. Pur ritenendo l'illecito permanente, per cui il dies a quo del diritto risarcitorio non poteva essere individuato nel 1984, anno in cui avrebbe cominciato a manifestarsi il danno, il giudice di primo grado osservava che l'avvenuto trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni aveva determinato la cessazione della condotta del soggetto estinto e l'inizio della condotta di quello ad esso succeduto, con la conseguenza che era cessato un periodo prescrizionale e ne era iniziato un altro; pertanto, il diritto al risarcimento del danno fatto valere nei confronti del Ministero era ritenuto prescritto al momento della proposizione dell'azione, essendo la responsabilita' del Ministero cessata al momento del trasferimento delle competenze alla Regione Calabria, avvenuto con il Decreto Legislativo n. 112 del 1998. (OMISSIS) e il Ministero impugnavano la predetta sentenza dinanzi alla Corte d'Appello di Reggio Calabria, il primo, in via principale, il secondo, in via incidentale. La Corte d'Appello, con la decisione oggetto dell'odierno ricorso, accoglieva l'appello incidentale e, quindi, riteneva il Ministero carente di legittimazione passiva, in quanto, con le disposizioni contenute nel Decreto Legislativo n. 112 del 1998, lo Stato aveva trasferito alle Regioni ogni competenza sui porti di interesse regionale o interregionale, riservando a se' solo quella sui porti di interesse nazionale ed internazionale, e accoglieva, "non potendosi applicare alla fattispecie la disposizione di cui all'articolo 111 c.p.c. - che prevede la successione nel processo qualora il trasferimento del rapporto controverso da un ente all'altro avvenga in corso di causa mentre, nella fattispecie, il trasferimento delle funzioni era avvenuto prima dell'instaurazione del giudizio (in termini Cass., sez. Un., n. 21690/2019)- l'eccezione di carenza di legittimazione passiva proposta dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti... in quanto quest'ultimo non era piu' titolare di alcun diritto sui porti non di interesse nazionale, come quello di (OMISSIS), al momento della notifica dell'atto di citazione dell'atto introduttivo del giudizio, avvenuta il l'1.3.2004". Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore, Dott. Mauro Vitiello, si e' espresso, nelle sue conclusioni scritte, per l'inammissibilita' del ricorso. Entrambe le parti hanno presentato memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE 1) Con l'unico motivo formulato il ricorrente deduce "Violazione e/o falsa applicazione dell'articolo 2043 c.c., e del Decreto Legislativo n. 112 del 1998 - Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio". Oggetto di censura e' la statuizione con cui la Corte territoriale ha accolto, diversamente dal Tribunale, l'eccezione di carenza di legitimatio ad causam sollevata dal Ministero, giustificata facendo leva sul quadro normativo, costituito dal Decreto Legislativo n. 112 del 1998, e dal D.P.C.M. 12 ottobre 2000: il primo (relativo al conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle Regioni e agli Enti locali, in attuazione della L. n. 59 del 1997, volto alla riforma della Pubblica Amministrazione e alla semplificazione amministrativa), perche' all'articolo 105, lettera e), aveva riservato alle Regioni le funzioni di programmazione, pianificazione, progettazione ed esecuzione degli interventi di costruzione, bonifica e manutenzione dei porti di rilievo regionale e interregionale e delle opere edilizie a servizio dell'attivita' portuale, e all'articolo 7, aveva rinviato ai provvedimenti di cui alla L. n. 59 del 1997, articolo 7, per definire tanto la decorrenza dell'esercizio da parte delle Regioni e degli Enti locali delle funzioni loro conferite quanto le modalita' di trasferimento dei beni e delle risorse finanziarie; il secondo, perche', all'articolo 9, aveva specificato che il trasferimento dei beni e delle risorse finanziarie di cui al Decreto Legislativo n. 112 del 1998, articolo 5, lettera e), sarebbe stato effettuato dopo la nuova classificazione dei porti. La conclusione della Corte territoriale e' stata che, "non potendosi applicare alla fattispecie la disposizione di cui all'articolo 111 c.p.c. - che prevede la successione nel processo qualora il trasferimento del rapporto controverso da un ente all'altro avvenga in corso di causa mentre, nella fattispecie, il trasferimento delle funzioni era avvenuto prima dell'instaurazione del giudizio - il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti non era piu' titolare di alcun diritto sui porti non di interesse nazionale, come quello di (OMISSIS), al momento della notifica della citazione dell'atto introduttivo del giudizio". Allo scopo di confutare tale statuizione il ricorrente ipotizza che, postulando che la legittimazione passiva coincida con la titolarita' del rapporto processuale, nel caso di trasferimento di competenze amministrative, la titolarita' del rapporto processuale debba individuarsi sulla base degli effetti prodotti dal trasferimento: se il trasferimento produce un effetto successorio, nel senso che sono trasferiti i diritti e gli obblighi facenti capo alla struttura amministrativa cedente, allora quest'ultima acquistera' la legittimazione ad causam, se il trasferimento non implica detta successione, la titolarita' dei rapporti conclusi prima del passaggio delle competenze non sara' attribuito al soggetto succeduto. La tesi del ricorrente fa leva, a sua volta, sul Decreto Legislativo n. 112 del 1998, articolo 105, lettera e), mettendo in evidenza il fatto che esso non contiene alcuna prescrizione in ordine alla successione delle Regioni nei diritti e negli obblighi sorti precedentemente al trasferimento. La conclusione che parte ricorrente ne trae e' che il quadro normativo richiamato dalla Corte d'Appello non supporti affatto la sostituzione della legittimazione ad agire dello Stato da parte di quella delle Regioni. Ne' - aggiunge - potrebbe fondatamente sostenersi che, dato il mancato esaurimento del rapporto all'atto del trasferimento, la Regione Calabria sia subentrata allo Stato. In forza di tali premesse, (OMISSIS) ritiene che i giudici di merito abbiano errato nel non rilevare che il sopravvenuto trasferimento di competenze, con la sostituzione del soggetto responsabile della condotta lesiva, aveva comportato l'esaurimento del comportamento contra ius riferibile al soggetto sostituito e l'avvio di un nuovo comportamento suscettibile di porsi quale causa autonoma di un nuovo illecito (permanente). Di qui l'affermazione della persistente legittimazione passiva del Ministero, in considerazione della imputabilita' esclusiva allo stesso della condotta perpetrata prima del trasferimento delle funzioni, a prescindere dalla individuazione del momento in cui detto trasferimento era avvenuto, rilevante al solo fine della verifica della avvenuta prescrizione del diritto azionato, ma ininfluente al fine di escludere la legittimazione passiva del Ministero sostituito. La fonte dell'errore attribuito alla Corte d'Appello risiederebbe nell'omesso esame del fatto che quand'anche le competenze in materia di gestione dei porti fossero state trasferite alla Regione Calabria, lo Stato, attraverso il Ministero competente, avrebbe dovuto considerarsi esposto all'obbligo risarcitorio derivante dalle proprie condotte illecite anteriori al trasferimento. A supporto del motivo il ricorrente pone la decisione delle Sezioni Unite n. 493 del 22/07/1999, relativa ad una fattispecie che ritiene sovrapponibile a quella per cui e' causa, la quale, decidendo della captazione di acque pubbliche senza titolo, inizialmente realizzata dalla Cassa del Mezzogiorno e successivamente dalla Regione Abruzzo, subentrata alla prima, ha affermato che, agli effetti del risarcimento del danno da illecito permanente, la permanenza debba individuarsi non gia' con riferimento al danno, bensi' avendo riguardo per il rapporto tra il comportamento illecito dell'agente e il danno. Il ricorrente pretende di trarre la conclusione che la condotta lesiva riferibile al Ministero sia cessata per effetto del trasferimento delle competenze, di tal che' la relativa responsabilita', facendo riferimento a fatti verificatisi anteriormente al trasferimento, sia rimasta in capo al Ministero, "a prescindere dalla individuazione del momento in cui detto trasferimento sia avvenuto, che diviene rilevante al solo fine - a questo punto - non del riconoscimento della persistente legittimazione del Ministero, bensi' soltanto della verifica della avvenuta prescrizione del diritto azionato nei suoi confronti". A tale ultimo scopo il ricorrente rileva che non solo vi era la legittimazione passiva del Ministero, ma che il credito risarcitorio verso lo stesso non si era affatto estinto per prescrizione, perche' l'exordium praescriptionis non poteva che coincidere con la cessazione della permanenza della condotta illecita del Ministero, conseguente al trasferimento delle competenze in materia portuale dallo Stato alle Regioni, avvenuto non prima del D.P.C.M. 31 dicembre 2000. 2) Il motivo merita accoglimento. In primo luogo, va richiamato il principio secondo il quale "la successione tra enti pubblici non e' regolata in via generale dall'ordinamento e percio' essa viene, di regola, disciplinata dalle singole leggi che la dispongono. Puo' ipotizzarsi l'applicabilita' dei principi civilistici solo in assenza di contrarie disposizioni relative alla singola vicenda successoria" (cosi' Cass. 5/04/2001, n. 5072, la quale, proprio facendo leva su detto principio, ha negato l'applicazione della disciplina civilistica in una fattispecie nella quale trovava applicazione il Decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977, disciplinante la successione tra enti esponenziali di ordinamenti giuridici, e quindi tra soggetti ben diversi da quelli di diritto privato). Nel caso oggetto dell'odierno scrutinio, la decisione della Corte territoriale non ha affatto verificato se il legislatore avesse disposto la successione "in universum ius" a favore della Regione Calabria, applicando i criteri che ormai costituiscono ius receptum, i quali fanno leva sulla c.d. "sopravvivenza dello scopo": la successione si attua in "universum ius", e tutti i rapporti giuridici che facevano capo all'ente soppresso passano al subentrante, se la legge o l'atto amministrativo che l'hanno disposta abbiano considerato il permanere delle finalita' dell'ente ed il loro trasferimento ad altro soggetto, unitamente al passaggio, sia pure parziale, delle strutture e del complesso delle posizioni giuridiche facenti capo all'ente soppresso, mentre avviene a titolo particolare se la cessazione dell'ente sia stata disposta "previa liquidazione" (Cass. 27/04/2016, n. 8377); in quest'ultimo caso, "difettando la contemplazione del permanere degli scopi dell'ente soppresso, non avrebbe senso una successione a titolo universale nelle strutture organizzatorie che fosse attuata ai soli fini del loro dissolvimento, e deve ritenersi che la successione avvenga a titolo particolare, limitata ai soli beni che residuino alla procedura di liquidazione, con la conseguenza che l'ente liquidatore non solo non si sostituisce nella titolarita' della sfera giuridica originaria, ma non assume, neppure, alcuna diretta responsabilita' patrimoniale per le obbligazioni contratte dall'ente estinto e che gia' risultavano all'atto della liquidazione" (Cass. 13/10/1983, n. 5971; Cass. 18/01/2002, n. 535). La decisione impugnata, infatti, a differenza di quella di prime cure, che aveva rigettato la richiesta risarcitoria per prescrizione del credito fatto valere, ha escluso la legittimazione passiva del Ministero, per il solo fatto che al momento della notificazione della citazione in appello le competenze in materia portuale fossero state trasferite alle Regione, ed in particolare, nel caso di specie alla Regione Calabria, ma non ha preso in considerazione l'eventualita' che detto trasferimento comportasse anche il trasferimento della legittimazione (attiva o) passiva per fatti verificatisi anteriormente al trasferimento di dette funzioni. In applicazione della giurisprudenza evocata da parte ricorrente, infatti, nel caso di trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni il primo sarebbe legittimato passivo per le condotte tenute prime del trasferimento. La questione non puo' essere affrontata senza porsi, come, invece, ha fatto la Corte d'Appello, il problema della natura dell'illecito. In caso di illecito istantaneo con effetti permanenti, la condotta lesiva si esaurirebbe in un fatto quod unico actu perficitur, un fatto destinato, cioe', ad esaurirsi in una dimensione unitaria (sul piano logico e sostanzialmente cronologico) di concreta realizzazione, a prescindere dalla eventuale diacronia dei relativi effetti, onde la prescrizione del diritto al risarcimento del danno ad esso conseguente non potrebbe che iniziare a decorrere dal momento del fatto (rectius, della concreta percezione o percepibilita' di esso), mentre all'illecito permanente si ricollegherebbe non il danno permanente, ma il danno plurimo, destinato a rinnovarsi continuamente nel tempo (Cass. 22/04/2013, n. 9711); se tale, cioe' permanente, dovesse ritenersi l'illecito in questione il trasferimento delle funzioni in materia di porti alla Regione Calabria non basterebbe ad escludere la responsabilita' risarcitoria del Ministero per i danni derivanti dal comportamento contra ius da esso eventualmente tenuto anteriormente al trasferimento delle funzioni, giacche' nel caso di illecito permanente il termine di prescrizione non decorre fino al momento in cui il comportamento "contra ius" non sia cessato, ne' sussistono limiti alla proposizione della domanda ed al conseguente soddisfacimento del diritto ad essa sotteso per tutto il tempo durante il quale la condotta e' stata perpetuata (Cass. 04/11/2021, n. 31558). Vero e' che ai fini della verifica della permanenza, secondo questa Corte - Cass., Sez. un., n. 493/1999, citata - e' necessario altresi' che il soggetto interferente prosegua senza interruzione la sua condotta contra ius - solo a lui spetta porre in essere la condotta volontaria che determina la cessazione dello stato di danno o di pericolo. Assai chiaramente la pronuncia n. 493/1999 ha affermato che "il presupposto della sussistenza dell'illecito permanente e' che la condotta venga posta in essere sempre dalla stessa persona, essendo l'elemento soggettivo del fatto causale (ovverosia gli elementi materiale e psicologico) ontologicamente riferibile ad un'unica persona"; sicche' "nel caso di successione in una situazione di illecito extracontrattuale, in seguito al venir meno di una persona ed al subentrare di un'altra, bisogna distinguere il fatto, che si definisce in un preciso ambito temporale, dalle conseguenze fattuali e giuridiche che si protraggono nel tempo. Laddove sussiste una situazione di illecito extracontrattuale, la successione di una persona ad un'altra non permette che si prefiguri un illecito permanente. Se apparentemente la situazione produttiva del danno o del pericolo continua (per esempio, nel caso di possesso o di detenzione abusivi), in realta' il fatto non si protrae, ma perdurano le conseguenze predeterminate dall'ordinamento. Invero, distinguendo analiticamente il fatto e gli effetti pregiudizievoli, nell'apparente continuita' bisogna individuare il nuovo fatto illecito, configurato da una autonoma condotta, la quale fin dal momento iniziale puo' anche rivestire i caratteri della permanenza, dalle conseguenze giuridiche (effettuali) di essa. Anche dove l'ordinamento ipotizza la continuazione (per esempio, l'articolo 1446 c.c., comma 1, in materia di successione nel possesso), in realta' disciplina in modo unitario le conseguenze derivanti da fatti diversi... Ai fini del decorso della prescrizione nel caso di illecito permanente, senza dubbio, si deve accertare la data di cessazione della permanenza. (Da questa data decorre la prescrizione per il risarcimento del danno, in consonanza con la disposizione dell'articolo 2947 c.c., secondo cui il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si e' verificato. Cio' significa, dal giorno in cui il carattere di permanenza dell'illecito e' venuto a cessare). Quando in un rapporto interviene la sostituzione di un soggetto ad un altro, al momento in cui questo evento si verifica, poiche' ha termine una certa condotta e ne incomincia un'altra, la permanenza cessa ed inizia a decorrere la prescrizione. Se il successore pone in essere una nuova, autonoma condotta illecita, si configura un nuovo illecito permanente e solo alla sua cessazione la nuova prescrizione decorre". 2) Il ricorso va, dunque, accolto, la sentenza impugnata e' cassata con rinvio alla Corte d'Appello di Reggio Calabria, in diversa composizione, che, premessa la legittimazione passiva del Ministero, dovra' accertare la ricorrenza di un illecito a carico del Ministero e, in caso di esito positivo, trarne le conseguenze in tema di prescrizione del credito risarcitorio, tenuto conto della natura dell'illecito e del se la condotta causativa del danno si fosse compiuta oppure no anteriormente al trasferimento delle competenze in materia di porti regionali e infraregionali alla Regione Calabria. Al giudice del rinvio e' demandata anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimita'. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la decisione impugnata e rinvia alla Corte d'Appello di Reggio Calabria, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. RAMACCI Luca - Presidente Dott. ACETO Aldo - Consigliere Dott. GENTILI Andrea - Consigliere Dott. SCARCELLA Alessio - rel. Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS) nata ad (OMISSIS); avverso la sentenza del 17/02/2022 della CORTE APPELLO di PALERMO; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. SCARCELLA ALESSIO; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. MIGNOLO OLGA, che ha concluso per l'annullamento con rinvio in accoglimento dell'ultimo motivo di ricorso, con declaratoria di inammissibilita' nel resto, come da memoria regolarmente depositata; udito il difensore presente, Avv. (OMISSIS), che ha insistito per l'accoglimento del ricorso e l'annullamento della sentenza impugnata. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza 17.02.2022, la Corte d'appello di Palermo ha confermato la sentenza 22.04.2021 del tribunale di Agrigento, appellata da (OMISSIS), ritenuta colpevole dei reati edilizi, nonche' delle violazioni in materia di cemento armato e della normativa antisismica alla stessa ascritti (Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44, lettera b); Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articoli 64 - 71; articoli 65 - 72, articoli 93 e 95), e contestati come commessi sino al (OMISSIS), esclusa l'aggravante di cui all'articolo 61 c.p., n. 2, e ritenuta la continuazione tra i reati, con condanna della stessa alla pena di 3 mesi di arresto ed Euro 13.428,00 di ammenda, oltre alla demolizione e rimessione in pristino cui subordinava la sospensione condizionale della pena, con dissequestro e restituzione all'imputata del manufatto e degli eventuali materiali da costruzione ancora in sequestro per eseguire la demolizione. 2. Avverso la sentenza impugnata nel presente procedimento, la predetta propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo sei motivi, di seguito sommariamente indicati. 2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di mancata assunzione di prova decisiva in relazione all'articolo 603 c.p.p. e correlato vizio di motivazione in ordine alla richiesta di acquisizione documentale. In sintesi, si premette che la difesa in considerazione dell'errore commesso dal primo giudice che aveva ritenuto insussistente il requisito della doppia conformita' urbanistica, aveva richiesto la riapertura dell'istruttoria dibattimentale al fine di acquisire una relazione tecnica che comprovasse come la ricorrente, sia al momento dell'edificazione che a quello del rilascio del permesso di costruire in sanatoria, era proprietaria di un coacervo di terreni che le consentivano di realizzare anche il maggiore volume oggetto di contestazione. Su tale punto vi sarebbe un'omessa pronuncia della Corte d'appello, nonostante si trattasse di prova decisiva. 2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione al combinato disposto del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articoli 36 e 45, per la mancata declaratoria di estinzione del reato edilizio contestato al capo a) per il sopravvenuto rilascio del permesso di costruire in sanatoria. In sintesi, la difesa della ricorrente si duole per avere la Corte d'appello erroneamente ritenuto che il p.d.c. in sanatoria n. 84 del 2021, rilasciato alla figlia della ricorrente, avente causa, non producesse l'effetto estintivo del reato edilizio sub a), in quanto le opere in questione non avrebbero avuto la c.d. doppia conformita' richiesta dall'articolo 36 citato, cio' in quanto solo successivamente all'esecuzione dell'opera la figlia della ricorrente, dopo aver acquisito la proprieta' dell'immobile, avrebbe asservito altro terreno di sua proprieta' che le avrebbe consentito di regolarizzare il volume realizzato. Si tratterebbe di rilievo errato, in quanto la ricorrente, come dichiarato dal teste (OMISSIS), tanto al momento della realizzazione del manufatto quanto a quello della presentazione della domanda di sanatoria, aveva la proprieta' e la disponibilita' di terreni idonei al raggiungimento dell'indice di fabbricabilita' fondiario sufficiente a regolarizzare il maggior volume realizzato senza il preventivo titolo. Come risulterebbe infatti dalla relazione tecnica dell'arch. (OMISSIS), l'intervento edilizio oggetto dell'istanza di sanatoria ricadrebbe su un compendio immobiliare di terreni, tra loro confinanti e contigui, per un'estensione complessiva di mq. 16.605 che avevano, sia al momento della realizzazione che al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria, la medesima destinazione omogenea di zona. La ricorrente, pertanto, aveva ed ha il lotto minimo su cui edificare, conformemente a quanto previsto dall'articolo 20 delle NTA del PRG della citta' di Agrigento, ed il maggior volume realizzato rientrerebbe nell'indice di fabbricabilita' dei terreni di sua proprieta' ed oggi in comproprieta' della figlia. La ricorrente, per ragioni di eta' e di salute, avrebbe infatti donato alla figlia la meta' indivisa del suo immobile, nonche' tutti i terreni di pertinenza, sicche' la figlia avrebbe presentato "nuova" istanza di sanatoria dimostrando attraverso l'accorpamento dei vari terreni contigui tra loro di avere il lotto minimo previsto dalle NTA del PRG nonche' la doppia conformita' urbanistica, con una situazione che rifletterebbe quella della madre. Pertanto, si conclude, il p.d.c. in sanatoria rilasciato alla figlia dovrebbe ritenersi valido ed efficace, producendo l'estinzione del reato edilizio sub a) nei confronti dell'autore dell'illecito edilizio. 2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di motivazione nella parte in cui la Corte d'appello respinge la tesi difensiva affermando che, pur volendo ammettere che la volumetria ricavabile dai fondi di proprieta' dell'imputata fosse astrattamente sufficiente ai fini della sopraelevazione, cio' che conterebbe e' la mancanza di un concreto atto di asservimento, ossia di cessione di siffatta volumetria al terreno in cui e' stato edificato il fabbricato abusivo. La difesa contesta tale affermazione, sostenendo che l'atto di asservimento non e' altro che un mero adempimento pratico e propedeutico che la P.A. richiede prima del rilascio del p.d.c. ai fini della conseguenziale trascrizione nei pubblici registri, richiamando a sostegno giurisprudenza amministrativa (Cons. St., 547/2016; Cons. St., 3823/2011). In sostanza, l'atto di asservimento, secondo la difesa, diversamente da quanto affermato dai giudici di merito, non sarebbe un requisito tecnico - giuridico previsto dalla norma per avere la doppia conformita', ma un mero adempimento negoziale avente effetti obbligatori, meramente funzionale al rilascio del titolo abilitativo edilizio. Cio' che conterebbe ai fini dell'applicazione della norma sull'accertamento di conformita' sarebbe la disponibilita', sia al momento della realizzazione dell'opera che al momento della domanda, condizioni e presupposti che sarebbero stati provati nel caso in esame. 2.4. Deduce, con il quarto motivo, il vizio di violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'articolo 62-bis c.p., atteso il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. In sintesi, si duole la difesa dell'erroneita' del diniego, basato sulla natura dell'abuso edilizio e della condotta complessivamente tenuta dall'imputata, non essendo ex se sufficiente il mero stato di incensuratezza. Diversamente, si sostiene, avrebbe dovuto essere considerata la disponibilita', giuridica e di fatto del lotto minimo, nonche' di terreni sufficienti a raggiungere la cubatura realizzata, elementi idonei a riconoscere le invocate attenuanti, unitamente allo stato di incensuratezza. 2.5. Deduce, con il quinto motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all'articolo 131-bis c.p. In sintesi, si duole la difesa per aver negato la Corte d'appello la speciale causa di non punibilita' ostandovi il non esiguo danno cagionato all'ambiente nonche' la condotta complessivamente tenuta. Diversamente, il danno paventato sarebbe insussistente e la richiesta di regolarizzazione presso l'ente competente comproverebbero una particolare tenuita' della condotta. 2.6. Deduce, con il sesto ed ultimo motivo, il vizio di violazione di legge per aver subordinato il giudice il beneficio della sospensione condizionale della pena alla demolizione del fabbricato, con conseguente illegittimita' della sanzione accessoria irrogata. In sintesi, si duole la difesa del diniego della sospensione condizionale della pena, motivato sul fatto che l'imputata avesse cercato di aggirare il primo diniego di sanatoria per il tramite della cessione a titolo gratuito dell'immobile alla propria figlia. Richiamato quanto sopra dedotto circa la disponibilita' da parte della ricorrente del lotto minimo che le consentiva la sopraelevazione rientrando il maggior volume realizzato nell'indice di fabbricabilita' dei propri terreni, oggi in comproprieta' con la figlia, sostiene che sussistevano i presupposti per il riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale senza subordinarlo alla demolizione, sussistendo i presupposti per ritenere che la ricorrente si asterra' da future condotte illecite, a prescindere dal deterrente rappresentato dalla demolizione. Tra l'altro, si aggiunge, il fabbricato e' stato regolarizzato, sia a livello edilizio che sismico, e quindi la demolizione si porrebbe in contrasto con i titoli abilitativi, essendo conforme alle prescrizioni di legge e regolamentari, peraltro risultando ineseguibile appartenendo l'immobile per meta' ad altro soggetto estraneo all'abuso ed al relativo provvedimento emesso dal giudice ordinario. 3. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato in data 28.11.2022 la propria requisitoria scritta con cui ha chiesto l'annullamento con rinvio limitatamente all'ordine di demolizione, dovendosi dichiarare nel resto inammissibile il ricorso. In particolare, il P.G.: a) quanto ai primi tre motivi, rileva che, ai fini della volumetria edificabile sfruttando la titolarita' di aree diverse da quella oggetto dell'intervento edilizio, l'atto di asservimento costituisce un presupposto legale del permesso a costruire (anche, come nella specie, in sanatoria), poiche' solo in tal modo ai fondi interessati viene impressa, in modo definitivo e conoscibile mediante l'annotazione negli atti comunali, la destinazione servente necessaria per la costruzione, mentre la mera disponibilita' costituisce una situazione di fatto inidonea a garantire l'irreversibilita' dell'accorpamento tra i fondi prima della edificazione, con la conseguenza che correttamente e' stata ritenuta superflua la rinnovazione istruttoria circa tale disponibilita' in capo alla ricorrente; b) quanto al quarto motivo, rileva che la conferma del diniego delle circostanze attenuanti generiche viene censurata invocando la predetta disponibilita' di fatto di fondi sufficienti a raggiungere la cubatura necessaria, dato non univoco, anche tenendo presente che solo a seguito della donazione della meta' dell'immobile alla figlia quest'ultima ha ottenuto la sanatoria previo formale atto di asservimento; c) quanto al quinto motivo, rileva che la speciale tenuita' ex articolo 131-bis c.p. e' stata esclusa sulla base della consistenza dell'abuso, in linea con la giurisprudenza secondo cui, "in tema di violazioni urbanistiche, quando la consistenza dell'opera e' tale da escludere in radice l'esiguita' del danno o del pericolo, correttamente il giudice nega l'applicazione della causa di non punibilita' di cui all'articolo 131-bis c.p." (Sez. III, n. 33414/2021, Rv. 282328 - 01); d) quanto al sesto motivo, rileva che la stessa sentenza da' atto del rilascio del permesso a costruire in sanatoria alla figlia della ricorrente, con la conseguente necessita' di verificarne la portata ai fini della conferma dell'ordine di demolizione dell'opera abusiva previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 31, comma 9, (cfr. Sez. 3, n. 7109/2010, Rv. 246201 - 01: "il rilascio della sanatoria edilizia conseguente alla definizione della procedura di condono attivata da terzi estranei all'abuso, successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna dell'autore dell'illecito rimasto estraneo a detta procedura, pur regolarizzando la costruzione abusiva sotto il profilo urbanistico, non produce alcun effetto estintivo per il condannato, ne' comporta l'obbligo di annotazione dell'oblazione nel casellario giudiziale ai sensi della L. 28 febbraio 1985, n. 47, articolo 38, comma 4. In motivazione la Corte ha precisato che il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria puo' comportare l'inapplicabilita' od anche la revoca dell'ordine di demolizione eventualmente disposto dal giudice). 4. In data 17.11.2022 l'Avv. (OMISSIS) ha depositato istanza in via telematica per la trattazione orale del ricorso, accolta con provvedimento del Presidente titolare in data 23.11.2022. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso - trattato in presenza a seguito della richiesta, accolta, di discussione orale ai sensi del Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, articolo 23, e successive modifiche ed integrazioni - e' complessivamente infondato e deve essere rigettato. 2. Al fine di meglio lumeggiare le ragioni che hanno condotto questa Corte al rigetto dei motivi proposti dalla ricorrente, soprattutto alla luce delle censure di vizio motivazionale proposte, appare opportuno un sintetico inquadramento della vicenda processuale. La vicenda in esame ha avuto origine da un sopralluogo effettuato, in data (OMISSIS), dalla Polizia Municipale di Agrigento in seno al quale emergeva lo svolgimento di lavori di sopraelevazione di un piano realizzato al di sopra del lastrico solare su di un immobile sito in Agrigento Contrada Carapezza snc. di proprieta' dell'odierna ricorrente, anch'ella presente in sede di rilievo. Le attivita' appena descritte venivano eseguite in difetto di qualsivoglia permesso di costruire o del rispetto della normativa sismica. L'immobile veniva sottoposto a sequestro preventivo visto lo stato in itinere dei lavori e la presenza del materiale per la loro esecuzione. Nel 2018, l'imputata presentava un'istanza volta al rilascio del permesso di costruire in sanatoria per la sopraelevazione, ma l'Amministrazione non accoglieva la domanda proposta perche', come e' emerso in sede di escussione del tecnico dell'Ufficio Comunale ex articolo 507 c.p.p., il terreno interessato dalla domanda del titolo abilitativo non raggiungeva la cubatura necessaria per sviluppare la volumetria richiesta dalla sopraelevazione. La ricorrente allora donava meta' della proprieta' alla figlia la quale, dopo avervi asservito un ulteriore terreno al fine di acquisire la cubatura necessaria a completare la sopraelevazione, ripresentava l'istanza di sanatoria in qualita' di comproprietaria, che veniva accolta con l'adozione del permesso di costruire n. 84 del 13.11.2020. Il giudice di prime cure, ritenuta sussistente la responsabilita' dell'imputata, la condannava alla pena come sopra riportata. Condividendo le conclusioni compendiate nella pronuncia dinanzi a lui appellata, il giudice territoriale rigettava l'impugnazione proposta e confermava la precedente statuizione. 3. Con il primo motivo si deduce la violazione di legge per la mancata assunzione di una prova decisiva quale la relazione tecnica dell'Arch. (OMISSIS). Quest'ultima non costituisce un novum, bensi' e' appartenente al contesto probatorio gia' in qualche modo oggetto della sua valutazione e la mancata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel giudizio di appello puo' costituire violazione dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera d), solo nel caso di prove sopravvenute o scoperte dopo la sentenza di primo grado (Sez. 5, n. 34643 del 08/05/2008, Rv. 240995; Sez. 1, n. 3972 del 28/11/2013, dep. 29/01/2014, Rv. 259136; Sez. 1, Sentenza n. 40705 del 10/01/2018, Rv. 274337 - 01), potendo invece essere denunciata la mancata rinnovazione in appello dell'istruttoria dibattimentale ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e) nel caso in cui si dimostri l'esistenza, nell'apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicita', ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, che sarebbero state presumibilmente evitate se si fosse provveduto all'assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello (Sez. 5, Sentenza n. 32379 del 12/04/2018; Rv. 273577 - 01). 3.1. Sul punto, va rilevato che la completezza e la piena affidabilita' logica dei risultati del ragionamento probatorio seguito dalla Corte territoriale giustificano la decisione contraria alla rinnovazione dell'istruzione dibattirnentale sul rilievo che, nel giudizio di appello, essa costituisce un istituto eccezionale fondato sulla presunzione che l'indagine istruttoria sia stata esauriente con le acquisizioni del dibattimento di primo grado, sicche' il potere del giudice di disporre la rinnovazione e' subordinato alla rigorosa condizione che egli ritenga, contro la predetta presunzione, di non essere in grado di decidere allo stato degli atti (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 25/03/2016, Rv. 266820). Non basta, pertanto, l'ipotetica attitudine dei mezzi di prova richiesti a influire sulla decisione del punto controverso per obbligare il giudice di secondo grado a disporre la chiesta rinnovazione, occorrendo, invece, che il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti. Ne deriva che la rinnovazione del dibattimento in appello costituisce esercizio del potere discrezionale del giudice dell'impugnazione il cui giudizio al riguardo e' sottratto al sindacato di legittimita', se adeguatamente motivato. (Sez. 3, n. 7908 del 29/07/1993, Rv. 194487; Sez. 3, n. 6595 del 06/04/1994, Rv. 198068.) 3.2. Cio' posto, la Corte di legittimita' ha altresi' stabilito che il rigetto dell'istanza di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello si sottrae al sindacato di legittimita' quando la struttura argomentativa della motivazione della decisione di secondo grado si fonda su elementi sufficienti - come si vedra' per il caso di specie - per una compiuta valutazione in ordine alla responsabilita' (Sez. 6, Sentenza n. 2972 del 04/12/2020 (dep. 25/01/2021) Rv. 280589 - 01) potendo quindi il provvedimento di rigetto della richiesta di rinnovazione istruttoria in appello essere motivato anche implicitamente in presenza di un quadro probatorio definito, certo e non bisognevole di approfondimenti indispensabili (Sez. 6, n. 11907 del 13/12/2013, dep. 12/03/2014, Rv. 259893; Sez. 4, n. 47095 del 02/12/2009, Rv. 245996). Soprattutto, infine, va tenuto conto del principio affermato dalle Sezioni Unite a proposito della richiesta di perizia, ma analogamente applicabile anche al caso di una relazione di consulenza tecnica di parte, secondo cui la mancata effettuazione di un accertamento peritale non puo' costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera d), in quanto la perizia non puo' farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova "neutro", sottratto alla disponibilita' delle parti e rimesso alla discrezionalita' del giudice, laddove l'articolo citato, attraverso il richiamo all'articolo 495 c.p.p., comma 2, si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisivita'. Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, Rv. 270936 - 01). 3.3. Tanto premesso in diritto, la pronuncia impugnata risulta dunque immune dal vizio denunciato con conseguente rigetto del primo motivo di ricorso. 4. Il secondo e terzo motivo possono essere trattati in modo congiunto perche' entrambi volti a contestare l'assenza dei presupposti, affermata dai giudici di merito, per il rilascio della sanatoria alla ricorrente nonche' gli effetti della stessa. 4.1. Le questioni dedotte si sostanziano in censure generiche nonche' manifestamente infondate che trovano un'agevole smentita nelle valutazioni svolte nei precedenti gradi di giudizio e puntualmente espresse nelle relative pronunce. Ed e' proprio la chiarezza che le caratterizza che induce a riportare il contenuto delle sentenze per favorire una completa comprensione di quanto si argomentera' di seguito. In particolare, il Tribunale argomenta: "(...) 7. Tanto premesso in diritto, cio' che in fatto e' avvenuto e' chiaro ed emerge dalla deposizione del teste ammesso ai sensi dell'articolo 507 c.p.p., (OMISSIS), dell'Ufficio Tecnico Comunale: a seguito della realizzazione dell'abuso, la (OMISSIS) aveva presentato una prima istanza di sanatoria, che veniva rigettata proprio in ragione del difetto della cubatura necessaria per sviluppare la volumetria richiesta dalla sopraelevazione; ella, allora, aveva donato la meta' dell'immobile alla propria figlia, che andava ad asservire altre particelle di terreno al fine di raggiungere la cubatura necessaria; era poi la stessa figlia, in qualita' di neo-comproprietaria, a reiterare la medesima istanza di sanatoria, che stavolta veniva accolta, essendo stato risolto il profilo relativo al difetto di volumetria. Tutto cio' portava, nel corso di questo processo, al rilascio di un permesso in sanatoria nei confronti della figlia. (...) 18. Coniugando il fatto e il diritto, l'atto di sanatoria in considerazione non puo' determinare alcun effetto estintivo del reato, poiche' non e' riconducibile alla sanatoria c.d. propria, delineata dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 36: anzitutto, quest' ultima - come da ultimo ribadito anche da Cass. Sez. 3 n. 37050 del 09.04.2019- puo' riguardare soltanto lavori ultimati, laddove nel caso di specie essi erano palesemente ancora in corso; ma soprattutto, il rigetto della prima istanza di sanatoria per difetto di volumetria palesa l'originaria difformita' dell'opera rispetto alle previsioni urbanistiche ed edilizie, solo in seguito sanata mediante atto di asservimento di altri terreni da parte della figlia della (OMISSIS). Lo stesso fatto che sia stata la figlia dell'imputata a presentare la seconda istanza di sanatoria, a seguito di una donazione intervenuta medio tempore in proprio favore, tradisce l'intento di celare l'esistenza di un primo rigetto, in quanto esso e' sintomatico dell'originaria difformita' dell'opera. 19. Conclusivamente, sussiste il fatto di cui al capo a) (Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44, lettera b) ed esso non risulta estinto dall'intervenuta sanatoria, in quanto trattasi di sanatoria c.d. impropria, come tale improduttiva di alcun effetto estintivo del reato." (pagine 5/6). Dello stesso tenore sono le parole dei Giudici territoriali "la doglianza non e' fondata in quando smentita dalle risultanze dibattimentali. Ed invero, come correttamente rappresentato nella pronuncia impugnata, l'originaria istanza di sanatoria presentata dalla (OMISSIS) veniva rigettata dal competente ufficio comunale in quanto il terreno da edificare risultava inizialmente sprovvisto della volumetria richiesta ai fini della sopraelevazione. Questo dato, a differenza di quanto assunto dalla difesa, e' inequivocabilmente asseverato dalle emergenze probatorie raccolte. Anzitutto, sul punto, rileva la deposizione resa all'udienza del 2503/2021 dal teste (OMISSIS). In particolare, il (OMISSIS) rappresentava come la prima istanza di sanatoria, presentata dall'imputata, non fosse stata accolta attesa la carenza di cubatura del terreno in cui si era provveduto a edificare abusivamente: a seguito del rigetto dell'istanza, allora, la (OMISSIS) si determinava a donare la meta' dell'immobile alla figlia ( (OMISSIS)). In tal modo permettendo a quest'ultima di presentare una nuova richiesta di sanatoria nella quale si sarebbe colmato il difetto di cubatura riscontrato nel precedente procedimento amministrativo, attraverso l'asservimento di ulteriore cubatura. D'altra parte, l'originaria carenza di volumetria necessaria al fine della realizzazione del fabbricato e' confermata proprio dal permesso di costruire in sanatoria rilasciato, in un secondo momento alla (OMISSIS), figlia dell'imputata. Ed invero, il competente ufficio comunale, al fine del rilascio del suddetto titolo edilizio, richiedeva espressamente l'allegazione di un "atto unilaterale di asservimento (...) ad integrazione del precedente alto di asservimento redatto dal notaio (OMISSIS) in data 3/6/2003 (sul punto, si veda il documento rilasciato dal comune di Agrigento, iscritto al prot. n. 88516 del 04/12/2019, ed acquisito al processo in data 12/11/2020). Pertanto, anche il suddetto provvedimento amministrativo attesta che la conformazione originaria del fondo non fosse sufficiente a giustificare la realizzazione dell'opera in contestazione. Infatti, l'amministrazione richiedeva come condizione necessaria al rilascio della sanatoria "un ulteriore alto di asservimento", capace di colmare il deficit di cubatura del fondo da edificare. In conclusione, non appare dirimente la circostanza, evidenziata dalla difesa, secondo la quale la (OMISSIS) fosse astrattamente titolare di terreni che avrebbero consentito di realizzare il maggior volume oggetto di contestazione. Ed invero, pur volendo ammettere che la volumetria ricavabile dai fondi di proprieta' dell'imputata fosse astrattamente sufficiente ai fini della sopraelevazione, cio' che conta e' la mancanza di un concreto atto di cessione di siffatta volurnetria al terreno su cui e' stato edificato il fabbricato abusivo. Sotto altro punto di vista, al fine di escludere la penale responsabilita' dell'imputata, non puo' essere neppure valorizzata la sopravvenienza della sanatoria rilasciata nei confronti della (OMISSIS). A tal riguardo, ha correttamente statuito la pronuncia di primo grado, la quale ha diffusamente rilevato sulla distinzione incorrente tra la "sanatoria impropria" (o giurisprudenziale) e la "sanatoria in senso stretto- ex Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 36. Precisamente, soltanto in forza di quest'ultimo istituto puo' escludersi la punibilita' del reato e l'irrogazione del conseguente ordine di demolizione, sussistendo il requisito della "doppia conformita'". Di contro, la "sanatoria impropria" (che emerge nel caso in esame) non produce effetti rispetto alla realizzazione del reato di cui all'articolo 44 Decreto del Presidente della Repubblica cit., atteso che essa assevera la sopravvenuta legittimita' di opere inizialmente abusive. Se ne deduce che, nel caso in esame, sebbene sia intervenuto un atto sanante l'originale abuso edilizio, il fatto commesso conserva la propria piena rilevanza penale. Difatti, come gia' sopra evidenziato, il fondo originario non consentiva la volumetria richiesta ai fini dell'edificazione, essendo la sanatoria postuma resasi possibile solamente a seguito dell'atto di asseveramento successivo posto in essere dalla figlia della (OMISSIS); sicche', il menzionato asservimento non incide in alcun modo sulla rilevanza penale del fatto contestato, ma, al contrario, conferma l'insussistenza originaria della volumetria richiesta per legge al fine di edificare" (pagine 2/3). 4.2. Quanto argomentato dai Giudici non e' in questa sede censurabile posto che, con specifico riguardo al primo profilo, ovvero la natura della sanatoria n. 84 rilasciata e quindi dell'assenza dell'effetto estintivo, ben si conforma ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimita'. 4.3. Giova rilevare, pero', che la ricorrente ha basato la sua linea difensiva sulla relazione dell'Arch. (OMISSIS) mai acquisita e, quindi, non facente parte del materiale probatorio, quindi, non valutabile, agli effetti del denunciato travisamento, da parte della Cassazione. Non sono, infatti, ricevibili dal giudice di legittimita' "documenti nuovi", ovvero gia' non facenti parte del fascicolo, diversi da quelli che non esigono alcuna attivita' di apprezzamento sulla loro efficacia nel contesto delle prove gia' raccolte, come accade in via esemplificativa per i certificati di nascita - rilevanti ai fini dell'imputabilita' - o di morte - rilevanti ai fini della declaratoria di estinzione del reato-, perche' tale attivita' e' estranea ai compiti istituzionali della Corte di cassazione. (Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012 - dep. 11/01/2013; Sez. 3, n. 5722 del 07/01/2016, Rv. 266390). 4.4. Stante, quindi, il materiale probatorio, non vi e' alcun dubbio circa la natura impropria della sanatoria rilasciata, peraltro alla figlia della ricorrente all'esito di una nuova domanda. Ed infatti, il Decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, articolo 36, al comma 1, dispone che "in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformita' da esso, fino alla scadenza dei termini di cui all'articolo 31, comma 3, articolo 33, comma 1, articolo 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione della stessa, sia al momento della presentazione della domanda". La norma impone, quindi, la cosiddetta "doppia conformita'", cioe' l'intervento realizzato deve risultare conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria e solo a tali casi e' possibile ricondurre l'effetto estintivo di cui all'articolo 45 del Testo Unico Edilizia. E' infatti granitico l'orientamento della Suprema Corte per cui in tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, articolo 44, a precludere l'irrogazione dell'ordine di demolizione dell'opera abusiva previsto dall'articolo 31, comma 9, del cit. Decreto del Presidente della Repubblica e a determinare, se eventualmente emanata successivamente al passaggio in giudicato della sentenza, la revoca di detto ordine, puo' essere solo quella rispondente alle condizioni espressamente indicate dall'articolo 36 del decreto stesso citato, che richiede la doppia conformita' delle opere alla disciplina urbanistica vigente, sia al momento della realizzazione del manufatto, sia al momento della presentazione della domanda di permesso in sanatoria, dovendo escludersi la possibilita' che tali effetti possano essere attribuiti alla cd. "sanatoria giurisprudenziale" o "impropria", che consiste nel riconoscimento della legittimita' di opere originariamente abusive che, solo dopo la loro realizzazione, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica. (Sez. 3, n. 45845 del 19/09/2019, Rv. 277265 - 01; Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Rv. 260973 - 01; Sez. 3, n. 24451 del 26/04/2007, Rv. 236912 - 01). 4.5. Il caso in esame difetta di tale doppia conformita', in quanto dall'istruttoria era emerso che, per sviluppare la volumetria richiesta dalla sopraelevazione, il terreno in questione non aveva la cubatura necessaria dandosene espressamente atto nel documento rilasciato dal comune di Agrigento, iscritto al prot. n. 88516 del 04/12/2019 in cui si richiedeva l'allegazione di un ulteriore atto di asservimento per il rilascio della sanatoria. Richiesta a cui la stessa ricorrente non adempieva, segnando cosi' il rigetto della domanda, e donando la meta' dell'immobile alla figlia la quale presentava una nuova istanza dopo avervi asservito un altro terreno di sua proprieta' al fine di raggiungere la cubatura necessaria. In caso sostanzialmente sovrapponibile, del resto, questa stessa Corte ha avuto modo di affermare che in tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44 puo' essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'articolo 36 Decreto del Presidente della Repubblica cit. e, precisamente, la conformita' delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilita' di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, successivamente, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (Fattispecie relativa ad illegittimo rilascio di un permesso di costruire in sanatoria rilasciato per intervento eseguito su particella catastale alla quale, successivamente all'abuso, era stata asservita altra particella al fine di superare il limite di cubatura stabilito dalle previsioni urbanistiche: Sez. 3, sentenza n. 7405 del 15/01/2015 -dep. 19/02/2015, Rv. 262422 - 01). Ad analogo approdo e' poi pervenuta questa stessa Sezione con altra decisione (Sez. 3, n. 8540 del 18.10.2017, dep. 22.02.2018, Petracca, non massi-mata), precisando, in fattispecie analoga, che "nel caso in esame la conformita' agli strumenti urbanistici, che ha determinato il rilascio del permesso di costruire, e' stata ottenuta successivamente alla realizzazione delle opere, mediante l'asservimento della volumetria espressa da un fondo limitrofo al terreno su cui erano state edificate le opere in assenza di permesso di costruire e in totale difformita' da quello ottenuto nel 2003, con il conseguente aumento dell'area disponibile (da 10.040,00 metri quadrati a 18.220,00 metri quadrati) e il raggiungimento dei limiti di superficie necessari per la lecita realizzazione delle opere. Cio', tuttavia, esclude la configurabilita' del necessario requisito della doppia conformita' richiesto affinche' il permesso di costruire in sanatoria determini l'effetto estintivo del reato di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2011, articolo 45, u.c., giacche' tale requisito deve essere escluso non soltanto quando la conformita' delle opere consegua a una modifica della disciplina di riferimento o degli strumenti urbanistici che regolano l'assetto del territorio, ma anche quando essa derivi da una modifica della sola situazione di fatto, come nel caso dell'asservimento di una maggiore superficie alla costruzione gia' realizzata, attraverso l'accorpamento di terreni adiacenti. Il riferimento del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 36 alla conformita' alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione dell'opera non puo' che essere inteso con riferimento alla situazione di fatto di tale epoca, sulla base della quale dovra', dunque, necessariamente, essere verificata detta conformita', posto che tale indagine non puo' non tenere conto dello stato di fatto esistente al momento della realizzazione delle opere, sulla base del quale dovra', quindi, esserne verificata la conformita' agli strumenti urbanistici dell'epoca, nonche' a quelli vigenti al momento del rilascio del permesso di costruire in sanatoria. Il solo asservimento di maggiori superfici a quelle originariamente disponibili non consente, pertanto, di ritenere che le opere fossero assentibili anche al momento della loro realizzazione in assenza di permesso di costruire o in totale difformita' da quello ottenuto, posto che la situazione di fatto esistente in tale momento non lo consentiva e che la sola modifica successiva di tale situazione non consente di ritenere che anche in precedenza dette opere fossero conformi agli strumenti urbanistici vigenti. Correttamente, dunque, la Corte d'appello ha escluso l'invocata portata estintiva del reato ascritto alla ricorrente del permesso di costruire in sanatoria dalla stessa ottenuto, non sussistendo la conformita' delle opere al momento della loro realizzazione, con la conseguente manifesta infondatezza delle doglianze di violazione di legge e vizio della motivazione sollevate dalla Petracca con il primo motivo di ricorso". Principio, questo, che il Collegio condivide, e cui deve essere data senz'altro continuita'. 5. A cio' va aggiunto, inoltre, che il rispetto del requisito della "doppia conformita'" e' escluso anche dalla violazione della disciplina antisismica, per il quale e' intervenuta la condanna della ricorrente. Ed invero, per quanto riguarda le zone soggette alla normativa antisismica, si pone il problema del raccordo tra le disposizioni che regolano la sanatoria ex articolo 36 del TU Edilizia e le specifiche disposizioni di cui agli articoli 83 e ss. del medesimo testo unico e la conseguente possibilita' di sanatoria degli abusi edilizi realizzati in zona sismica. Considerando le palesi finalita' di tutela dell'incolumita' pubblica che la specifica disciplina persegue e la diffusa sismicita' del territorio nazionale, si tratta di questione particolarmente delicata. Cio' nonostante, l'argomento non risulta essere stato mai compiutamente trattato da questa Corte, la quale ha soltanto ripetutamente confermato l'ormai consolidato principio che esclude gli effetti estintivi del reato di cui all'articolo 45, comma 3 del TU per tutti i reati diversi da quelli previsti dall'articolo 44 (Cass. Sez. 3, n. 54707 del 13/11/2018, Cardella, Rv. 274212; Sez. 7, n. 11254 del 20/10/2017 (dep. 2018), Franchino ed altri, Rv. 272546; Sez. 3, n. 3895:3 del 04/07/2017, Rizzo, Rv. 270792), mentre la giurisprudenza amministrativa ha formulato interessanti considerazioni le quali, pur non pervenendo ad univoche conclusioni, offrono diversi spunti di riflessione. In sintesi, la questione che si pone e' abbastanza simile a quella affrontata con riferimento alla sanatoria degli abusi in zona vincolata, dovendosi invero considerare, in primo luogo, se sia o meno possibile rilasciare un'autorizzazione postuma ai fini della disciplina antisismica; quali siano i rapporti tra i titoli conseguiti in base alla disciplina antisismica ed il permesso di costruire ed, infine, se possa rilasciarsi il permesso di costruire in sanatoria per interventi abusivi eseguiti in zona sismica. Il controllo esercitato dall'amministrazione competente per gli interventi in zone sismiche e' certamente di natura preventiva, come si ricava, ad esempio, dall'articolo 93 del testo unico - il quale impone, a chiunque intenda procedere ad interventi nelle zone sismiche, di darne "preavviso" scritto allo sportello unico, che a sua volta provvedera' alla trasmissione al competente ufficio tecnico regionale nonche' dal successivo articolo 94, il quale si riferisce ad una "preventiva autorizzazione", sicche' la procedura deve essere inequivocabilmente completata prima dell'esecuzione dell'intervento, nel rispetto delle formalita' richieste. Dal contenuto delle particolari disposizioni ed in considerazione delle loro specifiche finalita' risulta evidente, inoltre, l'autonomia del procedimento autorizzatorio in esame rispetto a quello previsto per il rilascio del titolo abilitativo edilizio, l'obbligo del quale resta fermo, come espressamente indicato dall'articolo 94, comma 1 cosicche' esso dovra' essere conseguito, in aggiunta all'autorizzazione di cui si tratta, qualora la tipologia dell'intervento da eseguire lo richieda. Diversamente da quanto previsto per la costruzione di opere in assenza del permesso di costruire, la specifica disciplina antisismica non contempla alcuna forma di sanatoria o autorizzazione postuma per gli interventi eseguiti senza titolo, prevedendone invece la mera riconduzione a conformita', come si ricava da quanto dispone l'articolo 98, comma 3 il quale stabilisce non soltanto che, con il decreto o con la sentenza di condanna, il giudice deve ordinare la demolizione delle opere o delle parti di esse costruite in difformita' dalla specifica disciplina, ma anche che possa impartire le prescrizioni necessarie per rendere le opere conformi ad essa, fissando il relativo termine. Secondo la giurisprudenza il potere-dovere del giudice di ordinare la demolizione dell'immobile, ai sensi dell'articolo 98, comma 3 sussiste soltanto con riferimento alle violazioni sostanziali, ovvero per la inosservanza delle norme tecniche, e non anche per le violazioni meramente formali come stabilito da Sez. 3, n. 6371 del 7/11/2013 (dep. 2014), De Cesare, Rv. 258899 ed in altre prec. conf. Analoga situazione e' prevista dall'articolo 100 in caso di estinzione del reato, laddove e' stabilito che la Regione, in alternativa alla demolizione, possa ordinare l'esecuzione di analoghi interventi finalizzati alla riduzione in conformita' delle opere illecitamente realizzate. Sulla base delle disposizioni appena richiamate deve rilevarsi che esse non soltanto non prevedono effetti estintivi del reato conseguenti alla regolarizzazione postuma, ma neppure effetti propriamente sananti, fermo restando che la demolizione dell'intervento abusivo puo' essere evitata qualora tale regolarizzazione sia possibile. Il tutto all'esito di un procedimento penale, come si evince dal riferimento specifico al decreto penale ed alla sentenza di condanna. Manca, in definitiva, una procedura che consenta all'interessato di richiedere un'autorizzazione postuma (in tal senso si e' espressa anche la giurisprudenza amministrativa in TAR Campania (NA) Sez. 8 n. 1347 del 1/3/2021 ove si esclude che le disposizioni di cui agli articoli 96 e ss. del TU diano "in alcun modo vita a un procedimento amministrativo di autorizzazione in sanatoria su istanza del privato, limitandosi a consentire la conservazione del manufatto eretto in difetto di autorizzazione sismica preventiva, una volta che la vicenda penale sia stata comunque definita"), e pertanto, prescindendo per il momento dal considerare l'eventuale incidenza della specifica disciplina di cui all'articolo 36, l'unica possibilita' offerta dalla normativa antisismica per il mantenimento in essere dell'intervento abusivo e' la decisione del giudice di impartire le prescrizioni per rendere le opere conformi in luogo di ordinarne la demolizione (o le ulteriori procedure regolate dagli articoli 99 e 100). Tale decisione, poi, oltre a prevedere la pronuncia di una sentenza o un decreto di condanna, dovra' ovviamente essere motivata (come precisato, sotto la vigenza della L. n. 74 del 1964 Cass. Sez. 3, n. 1509 del 6/12/1983 (dep. 1984), Pone, Rv. 162710) e presuppone, altrettanto ovviamente, specifiche verifiche di natura tecnica, poiche' pare evidente che lo scopo sia quello di eliminare cio' che puo' costituire pericolo per la pubblica incolumita' o, in alternativa, di scongiurare tale pericolo mediante particolari interventi. La giurisprudenza risalente al periodo di vigenza della L. n. 64 del 1974 ha, peraltro, precisato che il giudice penale, nell'operare la scelta tra le due alternative, non puo' limitarsi ad esaminare se, attraverso l'esecuzione di determinati lavori, l'opera possa o meno essere adeguata alla normativa antisismica, ma deve invece esaminare, innanzi tutto, se l'opera abusivamente realizzata si presenti conforme agli strumenti urbanistici vigenti nel territorio ed, in caso negativo, non puo' ordinare la esecuzione di lavori di adeguamento, ma deve, invece, ordinare la demolizione del manufatto abusivo (Cass. Sez. 3, n. 1710 del 12/12/1984 (dep. 1985), Barone, Rv. 167984). In altra occasione, invece, si e' detto che la verifica di conformita' da parte del giudice avrebbe dovuto riguardare la normativa urbanistica in genere (nella specie, l'allora vigente L. n. 10 del 1977: Cass. Sez. 3, n. 5611 del 13/5/1986, Marani, Rv. 173133). Le particolari disposizioni in materia di costruzioni in zone sismiche lasciano, dunque, uno spazio estremamente esiguo al mantenimento in essere degli interventi abusivi. Il destino del manufatto illecitamente realizzato in zona sismica resta, peraltro, comunque segnato qualora debba essere demolito perche' in contrasto con la disciplina urbanistica (come, ad esempio, nel caso in cui sia configurabile anche il reato di cui all'articolo 44 del TU Ed.), dal momento che, come si e' detto, il legislatore regola, nell'articolo 94, l'autorizzazione per l'inizio dei lavori in zone sismiche "fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio..." ed, infatti, si e' in piu' occasioni condivisibilmente specificato che l'autorizzazione costituisce presupposto tassativo ai fini del rilascio del titolo edilizio (Cons. di Stato Sez. 3, n. 4142 del 31/5/2021 la definisce "presupposto indispensabile"; anche la Corte costituzionale (sent. 101/2013) ha affermato che "l'accertamento del rispetto delle specifiche norme tecniche antisismiche e' sempre un presupposto necessario per conseguire il titolo che consente di edificare"). 5.1. Considerando ora l'articolo 36 del TU Edilizia, e' evidente - come affermato dalla dottrina - che la stretta connessione tra autorizzazione sismica e permesso di costruire, di cui si e' appena detto, incide in maniera significativa anche sulla procedura di sanatoria, venendosi a porre, in primo luogo, la questione della totale assenza di norme specifiche che consentano il rilascio di un'autorizzazione sismica postuma. Tale evenienza risulta determinante, perche' e' evidente che se la possibilita' di ottenere una autorizzazione simica "in sanatoria" ad intervento ormai eseguito non e' prevista, viene a mancare un necessario presupposto per il rilascio del permesso di costruire ai sensi dell'articolo 36 TU Edilizia. La questione non e' stata esaminata finora dalla giurisprudenza di legittimita', che pero' ha implicitamente considerato, in alcune decisioni, l'avvenuto rilascio dell'autorizzazione postuma, per lo piu' trattando degli effetti estintivi limitati ai soli reati urbanistici della sanatoria ex articolo 36 o per altre ragioni (v., tra le piu' recenti, Cass. Sez. 3 n. 49679 del 18/5/2018, Paccusse, non niassimata, ove si e' ritenuto irrilevante il deposito a sanatoria del progetto e la mancanza di violazioni sostanziali delle norme tecniche che disciplinano l'edificazione nelle zone sismiche ai fini del riconoscimento della causa di non punibilita' di cui all'articolo 131-bis c.p.), mentre i giudici amministrativi, come segnalato in dottrina, hanno assunto posizioni non concordi. Vi e' da un lato, infatti, una posizione piu' radicale che sembra escludere in ogni caso la possibilita' dell'autorizzazione postuma (v. ad es. TAR Campania (NA) Sez. 7 n. 3450 del 20/5/2022; TAR Campaniai (NA) Sez. 8 n. 7.347 del 1/3/2021; TAR Lazio (LT) Sez. 1 n. 376 del 13/10/2020. V. anche TAR Abruzzo (AQ) Sez. 1 n. 415 del 13/7/2022), non soltanto sul presupposto dell'assenza di una disciplina analoga a quella prevista dall'articolo 36 del TU, ma anche per il fatto che gli articoli 96 e ss. "non danno in alcun modo vita a un procedimento amministrativo di autorizzazione in sanatoria su istanza del privato, limitandosi a consentire la conservazione del manufatto eretto in difetto di autorizzazione sismica preventiva, una volta che la vicenda penale sia stata comunque definita" (TAR Lazio (LT) n. 376/2020, cit.), ed inoltre, considerando che "mancando una puntuale disciplina positiva dell'autorizzazione sismica in sanatoria, va evitato il rischio di introdurre in una materia cosi' delicata per l'incolumita' delle persone - peraltro neppure pienamente disponibile da parte del legislatore regionale - una sorta di sanatoria giurisprudenziale fondata sull'accertamento postumo della conformita' dell'opera comunque edificata alle norme tecniche per la costruzione in zone sismiche al momento della richiesta" (TAR Campania (NA) n. 1347/2021, cit.). Altre pronunce propendono, invece, per la possibilita', a determinate condizioni, di una autorizzazione ad intervento eseguito (Cons. di S1:ato n. 4142/2021, cit. nell'indicare, come gia' detto, la natura di indispensabile presupposto dell'autorizzazione sismica per ottenere il rilascio del titolo edilizio aggiunge, tra parentesi, le parole "anche quello in sanatoria" implicitamente riconoscendo, dunque, tale possibilita', come fa anche Cons. di Stato Sez. 6, n. 3096 del 15/4/2021), senza tuttavia confrontarsi con l'opposto orientamento e dando, anzi, per scontata tale possibilita', sempreche' sussista, anche sotto il profilo della specifica normativa sismica, la doppia conformita'. Piu' recentemente, ribadendo che l'autorizzazione sismica deve essere acquisita preventivamente rispetto al rilascio del titolo in sanatoria, si e' osservato che l'articolo 36 del TU Ed. subordina il rilascio del titolo in sanatoria alla conformita' sostanziale delle opere gia' eseguite alla normativa edilizia ed urbanistica "occorrendo, dunque, verificare, ancora prima dell'adozione del permesso di costruire in sanatoria, se le opere possano o meno ritenersi sostanzialmente conformi alla disciplina di riferimento: a tali fini, risulta necessario accertare, tra l'altro, il previo rilascio dell'autorizzazione sismica (ove prevista), idonea ad escludere quei pericoli per la staticita' delle opere abusive che, ove esistenti, impedirebbero la sanatoria, imponendo l'irrogazione della sanzione demolitoria" (cosi' Cons. di Stato, Sez. 6, n. 3963 del 19/5/2022). Si e' inoltre osservato in dottrina che tale orientamento avrebbe trovato autorevole conferma in due pronunce della Corte costituzionale (Corte Cost. n. 101 del 29/5/2013 e n. 2 del 13/1/2021), anche se il Giudice delle Leggi, pur affermando che la regola della doppia conformita' vale anche per la normativa antisismica e che "gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, sia quelli consentiti a seguito di denuncia, presuppongono sempre la previa verifica del rispetto delle norme sismiche", cosicche' "non pare possa dubitarsi che la verifica della doppia conformita', alla quale l'articolo 36 del testo unico subordina il rilascio dell'accertamento di conformita' in sanatoria, debba riferirsi anche al rispetto delle norme sismiche, da comprendersi nelle norme per l'edilizia, sia al momento della realizzazione dell'intervento che al momento di presentazione della domanda di sanatoria", non pare offrire decisivi spunti di riflessione circa l'assenza, nella disciplina urbanistica, di norme che prevedano espressamente un'autorizzazione sismica postuma, in quanto, pur non negando esplicitamente tale possibilita', focalizza piuttosto l'attenzione sul requisito della doppia conformita' e precisa che la stessa comprende la disciplina urbanistica ed edilizia nel suo complesso, con la conseguenza che il permesso di costruire in sanatoria non puo' riguardare opere non conformi anche alla disciplina antisismica. Ulteriore conseguenza di tale condivisibile assunto e' che trattandosi, appunto, di doppia conformita', deve comunque escludersi ogni possibilita' di sanatoria "condizionata" nei termini in precedenza descritti o che comunque preveda l'esecuzione di interventi di adeguamento. Secondo l'orientamento piu' permissivo, dunque, sarebbe possibile il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria per opere realizzate in zona sismica ponendo rimedio all'originaria mancanza del nulla osta sismico attraverso una valutazione postuma della conformita' dell'intervento eseguito alla specifica disciplina antisismica vigente all'epoca della sua realizzazione ed al momento in cui essa avviene. 5.2. Tale soluzione, tuttavia, come sostenuto anche in dottrina, presenta alcuni aspetti critici. Quello piu' evidente e' la gia' ricordata assenza di specifiche disposizioni che prevedano espressamente la possibilita' di una valutazione postuma della compatibilita' sismica, stabilendo al contrario gli articoli 93 e ss. che tale verifica deve precedere l'esecuzione dei lavori. Per tale ragione, inoltre, la procedura regolata dalle richiamate disposizioni risulta incompatibile con la sanatoria sismica di creazione giurisprudenziale, tanto che ci si e' cercato di individuare il procedimento amministrativo necessario per il conseguimento di tale sanatoria, considerando la possibilita' che lo stesso sia "modellato" su quello qia' previsto per il rilascio della autorizzazione sismica "ordinaria", osservando peraltro che "non e' pensabile che il conseguimento del nulla osta sismico possa soggiacere al medesimo procedimento amministrativo che si sarebbe dovuto applicare all'epoca dell'intervento ove tale procedimento non sia piu' vigente, poiche' cio' contrasterebbe evidentemente con il principio del tempus regit actum". La mancanza di una procedura puntualmente disciplinata dalla legge, inoltre, potrebbe portare alla adozione di differenti prassi nei singoli uffici competenti, aggravando ulteriormente l'attuale situazione, gia' caratterizzata talvolta da disinvolte applicazioni della disciplina nazionale, come si e' visto, ad esempio, con la piu' volte menzionata sanatoria condizionata. Si tratterebbe, inoltre, di una procedura che ingiustamente porrebbe sullo stesso piano colui che, diligentemente, agisce osservando la legge rispetto a chi realizza un intervento senza titolo, sottraendo le opere ad ogni preventivo controllo, perche' il rilascio dell'autorizzazione antisismica postuma effettuato adattando il procedimento ordinario non prevede, ovviamente, a differenza di quanto stabilito dall'articolo 36, alcun pagamento di somme a titolo di oblazione, ne' termini specifici trascorsi i quali si perfeziona il silenzio-rifiuto. Ma cio' che sembra maggiormente preoccupante e' che tutto cio' avverrebbe con riferimento ad una disciplina appositamente dettata per tutelare la pubblica incolumita', offrendo la possibilita' di regolarizzare interventi edilizi eseguiti in assenza del necessario preventivo controllo attraverso procedure non disciplinate dalla legge e con tempistica non prevedibile, senza contare gli inevitabili effetti criminogeni generati dalla consapevolezza di poter realizzare un intervento edilizio senza titolo con la possibilita' di sanarlo a posteriori, magari solo in caso di verifica da parte delle amministrazioni competenti, come gia' spesso avviene per il permesso di costruire in sanatoria. Vero e', come osservato in dottrina, che la soluzione interpretativa la quale ammette la sanatoria antisismica consente di colmare la mancanza di una normativa specifica e di evitare il rigetto di qualsiasi sanatoria di immobili realizzati in zona sismica anche nel caso in cui risultino pienamente conformi alla normativa tecnica di settore e, in quanto tali, inidonei a ledere l'interesse pubblico alla sicurezza delle costruzioni, ma l'orientamento piu' rigoroso della giurisprudenza amministrativa sembra rispondere a criteri di maggiore prudenza, in considerazione della materia trattata e conforme al dettato normativo che non ha finora previsto, nonostante le numerose modifiche, alcuna possibilita' di autorizzazione simica postuma, dovendosi pertanto dubitare che l'osservanza della legge comporti la paventata violazione dei principi di buon andamento dell'azione amministrativa di cui all'articolo 97 Cost., nonche' di economicita' ed efficacia presidiati dalla L. n. 241 del 1990, articolo 1. Da qui, dunque, la soluzione, che questo Collegio condivide (in assenza peraltro di precedenti giurisprudenziali sul punto da parte della giurisprudenza di legittimita' che, come si e' detto, non ha mai direttamente trattato i temi di cui si e' ripetutamente occupato il giudice amministrativo, limitandosi a ribadire che il deposito allo sportello unico, dopo la realizzazione delle opere e, quindi, "a sanatoria", della comunicazione richiesta dall'articolo 93 TU Ed. e degli elaborati progettuali non estingue la contravvenzione antisismica: tra le piu' recenti, Cass. Sez. 3, n. 19196 del 26/2/2019, Greco Rv. 275757; Sez. 3, n. 11271 del 17/2/2010, Brac-colino, Rv. 246462; le stesse conclusioni sono state peraltro tratte con riferimento ai reati in materia di costruzioni in cemento armato in Sez, 3, n. 54707 del 13/11/2018, Cardella, Rv. 274212), secondo cui il rispetto del requisito della doppia conformita' e' da ritenersi escluso in caso di violazione della disciplina antisismica, come avvenuto nel caso in esame. 6. La difesa erra anche laddove non ritiene l'atto di asservimento una con-dicio sine qua non al fine del rilascio della sanatoria. 6.1. In via preliminare e in termini generali si rileva che l'asservimento, definito dalla normativa (cfr. Decreto Legge n. 70 del 2011, articolo 5, comma 1, lettera c, convertito con modificazioni, in L. n. 106 del 2011) consiste, come specificato sia dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sent. n. 3 del 2009) che dalla Suprema Corte (Sez.3, n. 8635 del 18/09/2014, dep.27/02/2015, Rv.262512), in una fattispecie negoziale atipica avente effetti obbligatori in base ai quali un'area viene destinata a servire al computo dell'edificabilita' di altro fondo. La legittimita' di tale istituto e' stata ripetutamente avallata in sede giurisprudenziale (per tutte si richiama Cons. St., Sez. V, 28 giugno 2000, n. 3636), in forza del quale e' consentita, a prescindere dalla comune titolarita' dei due terreni, la "cessione" della cubatura edificabile propria di un fondo in favore di altro fondo, cosicche', invariata la cubatura complessiva risultante, il fondo cessionario sara' caratterizzato da un indice di edificabilita' superiore a quello originariamente goduto. L'asservimento realizza, in definitiva, una specie particolare di relazione pertinenziale, nella quale viene posta durevolmente a servizio di un fondo la qualita' edificatoria di un altro. Scopo dell'atto di asservimento e' quello di incrementare la cubatura disponibile su un fondo, sfruttando quella concessa (e non utilizzata) ad altro fondo della medesima area, il quale viene, conseguentemente, assoggettato a vincolo di inedificabilita'. L'atto di asservimento dei suoli comporta la cessione di cubatura tra fondi contigui ed e' funzionale ad accrescere la potenzialita' edilizia di un'area per mezzo dell'utilizzo della cubatura realizzabile in una particella contigua e del conseguente computo anche della superficie di quest'ultima, ai fini della verifica del rispetto dell'indice di fabbricabilita' fondiaria. Tale meccanismo, tuttavia, onde evitare la facile elusione dei vincoli posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione della corretta gestione del territorio, e' soggetto a determinate condizioni delle quali le principali, rilevanti nella presente vicenda, sono costituite: a) dall'essere i terreni in questione se non precisamente contermini, quanto meno dotati del requisito della reciproca prossimita' (si veda in tal senso anche la giurisprudenza amministrativa cfr. Cons. Stato, sez. V, 10 marzo 2003, n. 1278); b) dall'essere i medesimi caratterizzati sia dalla omogeneita' urbanistica, avere cioe' tutti la medesima destinazione, sia dal medesimo indice di fabbricabilita' originario (anche in questo caso cfr. Cons. Stato, sez. IV, 4 maggio 2006, n. 2488; Cons. Stato, sez. V, 30 ottobre 2003, n. 6734). E', infatti, evidente che in assenza delle predette condizioni, attraverso l'utilizzazione del predetto strumento, astrattamente del tutto legittimo, sarebbe possibile realizzare scopi del tutto estranei ed anzi confliggenti con le esigenze di corretta pianificazione del territorio. Secondo quanto premesso in diritto, e' logico affermare che l'atto di asservimento sia un presupposto legale del permesso a costruire, arche se in sanatoria, perche' il rilascio del titolo abilitativo si fonda sulla verifica della legittimita' della cessione di cubatura e non solo, come afferma il PG, solo in tal modo ai fondi interessati viene impressa, in modo definitivo e conoscibile mediante l'annotazione negli atti comunali, la destinazione servente necessaria per la costruzione, mentre la mera disponibilita' costituisce una situazione di fatto inidonea a garantire l'irreversibilita' dell'accorpamento tra i fondi prima della edificazione. 6.2. Giova poi precisare che l'ordinamento giuridico conosce, attualmente, due ipotesi di sanatoria degli abusi edilizi: una sanatoria di carattere straordinario (comunemente definita "condono edilizio", introdotta per la prima volta dalla L. n. 47 del 1985, articoli 31 e ss. della e, successivamente, dalla L. n. 724 del 1994 e dalla L. n. 326 del 2003) e una sanatoria ordinaria ("a regime"), definita "accertamento di conformita'", introdotta dalla L. n. 47 del 1985, articolo 13 e oggi prevista dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 36. A queste due tipologie se ne affianca un'altra di natura pretoria, la c.d. "sanatoria giurisprudenziale" o "impropria", ancor piu' risalente perche' creata nella vigenza della cosiddetta Legge Bucalossi (L. n. 10 del 1977), della cosiddetta Legge Ponte (L. n. 765 del 1967) e della L.U.F. (L. n. 1150 del 1942). Se la sanatoria ex Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 36 si realizza allorquando l'opera realizzata in assenza di permesso di costruire, o in difformita' da esso, sia conforme tanto alle norme vigenti al momento della sua realizzazione quanto a quelle vigenti alla presentazione della domanda di regolarizzazione, la sanatoria giurisprudenziale opera quando l'intervento, sia pure privo del titolo abilitativo, e' sostanzialmente non contrastante con le norme e le prescrizioni urbanistiche, pertanto sanabili con atto successivo. A tal proposito, la V Sezione del Consiglio di Stato cosi' si pronunciava: "La concessione in sanatoria e' istituto dedotto dai principi generali attinenti al buon andamento e all'economia dell'azione amministrativa, e consiste nell'obbligo di rilasciare la concessione quando sia regolarmente richiesta e conforme alle norme urbanistiche vigenti al momento del rilascio, anche se l'opera alla quale si riferisce sia gia' stata realizzata abusivamente; pertanto, tale generale istituto resta fermo anche successivamente alla previsione espressa della concessione in sanatoria di cui alla L. 28 febbraio 1985, n. 47, articolo 13". Nel parere reso sulla proposta di Testo Unico per il riordino delle materie e dei procedimenti relativi al rilascio delle concessioni edilizie e del certificato di agibilita', l'Adunanza generale del Consiglio di Stato aveva auspicato la "codificazione" dell'istituto della "sanatoria giurisprudenziale". La riproposizione tale e quale del testo previgente ha comportato, nella giurisprudenza amministrativa, una sorta di "presa d'atto" della mancata adesione, da parte del Legislatore delegato, all'auspicio espresso dal Consiglio di Stato in sede consultiva. Ed infatti, nelle piu' recenti decisioni del Consiglio di Stato prevale l'indirizzo contrario alla "sanatoria giurisprudenziale", fondato principalmente sull'assunto per cui qualsivoglia forma di regolarizzazione atipica degli abusi edilizi sarebbe esclusa dalla formulazione testuale contenuta nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 36 (e, in precedenza, nella L. n. 47 del 1985, articolo 13). Secondo tale orientamento, la sanatoria, lungi dal rappresentare un principio generale dell'azione amministrativa, costituirebbe un istituto di carattere eccezionale, soggetto a esegesi restrittiva; inoltre, i principi di proporzionalita' e buon andamento della P.A. dovrebbero cedere di fronte a quello di legalita', che non consentirebbe la legittimazione di situazioni antigiuridiche al di fuori dei casi tassativamente contemplati. In tal senso, si veda, da ultimo, Consiglio di Stato Sez. VI n. 7291 del 19 agosto 2022 "Sul piano letterale, il Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 36 richiede chiaramente la conformita' dell'intervento edilizio abusivo "alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda", con la conseguenza che l'unico illecito sanabile, come sopra osservato, e' quello formale, dato dalla realizzazione di opere originariamente conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia all'uopo applicabile, abusive soltanto per la loro mancata sottoposizione al previo controllo amministrativo, da svolgere in sede di rilascio del prescritto titolo edilizio abilitativo (eventualmente anche in variante di un titolo precedentemente rilasciato). Opere, invece, difformi ab origine dal quadro regolatorio di riferimento non potrebbero essere ammesse a sanatoria, dando luogo ad un abuso sostanziale, da sanzionare attraverso l'ordine di demolizione e di riduzione in pristino ex Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 31, comma 3, articolo 33, comma 1, articolo 34, comma 1, richiamati dallo stesso Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 36. 13.4 Sul piano teleologico, si osserva che, come precisato dalla Corte Costituzionale, il requisito della doppia conformita' riveste importanza cruciale nella disciplina edilizia, imponendo che "la conformita' alla disciplina edilizia e urbanistica deve essere salvaguardata "durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformita'"(fra le molte, sentenza n. 68 del 2018, punto 14.2. del Considerato in diritto)" (Corte costituzionale, 28 gennaio 2022, n. 24). Difatti, "costituisce principio fondamentale della materia governo del territorio la verifica della cosiddetta "doppia conformita'" di cui al menzionato articolo 36 Testo Unico edilizia" (Corte costituzionale, 21 aprile 2021, n. 77), con la conseguenza che il requisito della doppia conformita' non potrebbe essere derogato neppure dalla legislazione regionale. Il giudice costituzionale, nel richiamare la giurisprudenza amministrativa, ha pure valorizzato "la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame, "anche di natura preventiva e deterrente", finalizzata a frenare l'abusivismo edilizio, in modo da escludere letture "scstanzialiste" della norma che consentano la possibilita' di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell'istanza per l'accertamento di conformita' (citata pronuncia del Consiglio di Stato, sezione IV, 21 dicembre 2012, n. 6657)" (Corte 29 maggio 2013, n. 101). Si conferma, dunque, che il requisito della doppia conformita' risulta strettamente correlato alla natura della violazione edilizia sottostante, potendo riferirsi agli abusi meramente formali, come tali afferenti ad opere sin dall'origine conformi alla disciplina edilizia e urbanistica di riferimento." 6.3. Dall'altro lato, invece, la giurisprudenza penale della Corte di Cassazione non rinnega l'istituto della "sanatoria impropria", evidenziando che tale regolarizzazione atipica "discende dai principi generali attinenti al buon andamento ed all'economia dell'azione amministrativa", tuttavia rilevando come la stessa possa avere esclusivamente effetti sul piano amministrativo, pur non essendo idonea - a differenza dell'accertamento di conformita' disciplinato dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 36 - a estinguere i reati contravvenzionali ex Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44. Invero, tutti gli interpreti (sia quelli favorevoli alla "sanatoria giurisprudenziale" sia quelli contrari) sono sempre stati concordi nel ritenere che la sanatoria atipica - a differenza dell'accertamento di conformita' ex L. n. 47 del 1985, articolo 13 - non avesse efficacia estintiva del reato edilizio: la cosiddetta "sanatoria giurisprudenziale" vale soltanto a regolarizzare dal punto di vista amministrativo l'intervenuta costruzione (cio' che eminentemente interessa e rileva per la P.A. a tutela del pubblico interesse), ma non elimina le conseguenze penali che sono di stretta competenza dell'autorita' giudiziaria. (Cass. pen., Sez. 3, n. 45845 del 19/09/2019; Rv. 277265 - 01; Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014; Rv. 260973 01; Sez. 3, n. 19587 del 27/04/2011; Rv. 250477 - 01; Sez. 3, n. 291 del 26/11/2003). A contrario, la sanatoria propria o ex articolo 36 T. U. Edilizia determina un effetto estintivo sul reato, secondo quanto disposto dall'articolo 45 del medesimo testo normativo. La causa di estinzione del reato per violazioni edilizie, prevista dall'articolo 45 T. U. Edilizia, ha stabilito la Suprema Corte, dopo un primo indirizzo contrario (si veda Sez. 3, sentenza n. 11425 del 02/10/1997, Rv. 209642 - 01; contraria alla pronuncia della Consulta n. 370/1988), a seguito del rilascio del permesso di costruire in sanatoria, si estende a tutti i responsabili dell'abuso, e non soltanto ai soggetti che abbiano richiesto ed ottenuto il provvedimento sanante, atteso che il meccanismo di estinzione non si fonda, nonostante la impropria formulazione letterale adottata dall'articolo 36, comma 2, del citato D.P.R., su un effetto estintivo connesso al pagamento di una somma a titolo di oblazione, bensi' sull'effettivo rilascio del permesso di costruire successivamente alla verifica della conformita' delle opere abusive alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione sia in quello della richiesta. (Sez. 3, n. 261232 del 12/04/2005, Rv. 231940 - 01). 6.4. Tanto premesso, per cio' che concerne i fatti che occupano, si conclude legittimando l'operato dei giudici di secondo grado, i quali rispondono in maniera esaustiva alla doglianza, che era gia' stata loro posta e che oggi viene riprodotta tout court, evidenziando come giustamente gia' il giudice di prime cure avesse ritenuto che nella fattispecie non sussistessero i presupposti per la sanatoria, versandosi in ipotesi di sanatoria impropria, e rigettando entrambi i motivi dedotti. 7. Con il quarto motivo di ricorso la difesa si duole del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche sulla scorta della disponibilita' del lotto minimo, dei terreni per raggiungere la cubatura necessaria e dello stato di incensuratezza. 7.1. Entrambi i giudici di merito, invece, ne hanno escluso l'applicabilita' "non sussistendo alcun elemento positivo concretamente valorizzabile e viceversa, si rileva la presenza degli indici oggettivi e soggettivi complessivamente negativi" (pag. 5 della sentenza di secondo grado) ed invero, "poco apprezzabile e' stato il tentativo dell'imputata di celare il rigetto della prima istanza di sanatoria, donando parte dell'immobile alla figlia e facendo si' che fosse lei, una volta ottenuta la conformita' urbanistica, a ripresentare l'istanza" (pag. 7 Sentenza di primo grado). Ricorre, nel caso di specie, la c.d. doppia conforme, potendo quindi integrarsi reciprocamente le due motivazioni dei precedenti gradi di giudizio di merito al fine di valutare la tenuta logico-giuridica dell'iter espresso nella pronuncia impugnata (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218 -01), unico sindacato invero concesso in sede di legittimita' dovendosi, infatti, ricordare che in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione e' insindacabile nella suddetta sede, purche' sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'articolo 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione. (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269; Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Rv. 242419). 7.2. Quando addotto dai giudici di merito non e' ne' contraddittorio, ne' manifestamente illogico ne' tanto meno apparente, al contrario la puntualita' e congruita' logica che emerge dal provvedimento impugnato porta a ritenere la do-glianza proposta, peraltro gia' dedotta con i motivi di appello, manifestamente infondata e generica con conseguente declaratoria di inammissibilita' della stessa. 8. Con il quinto motivo di ricorso la difesa, in sintesi, si duole per l'omessa applicazione dell'articolo 131 bis c.p. ai fatti oggetto di contestazione, nonostante l'assenza di un effettivo danno cagionato all'ambiente poiche' rientrava nelle sue possibilita' realizzarlo, come sarebbe attestato dalla regolarizzazione con l'Ufficio del Genio Civile di Agrigento, e la condotta tenuta dalla ricorrente. 8.1. La doglianza e' priva di pregio. La questione concernente l'applicabilita' dell'articolo 131-bis c.p. alla fattispecie concreta risulta essere stata affrontata da entrambi i giudici del merito, i quali, sulla questione, hanno speso le considerazioni che seguono. Il Tribunale di Agrigento ha affermato che "non sussistono gli estremi per applicare la causa di non punibilita' prevista dall'articolo 131 bis c.p., poiche' non si rinvengono elementi positivi che facciano ritenere che, per le modalita' della condotta e per l'esiguita' del danno o del pericolo, l'offesa sia da ritenersi di particolare tenuita'; il disvalore espresso dal fatto addebitato all'imputata, infatti, e' quello normalmente espresso da fatti similari, senza che possa predicarsene una particolare lievita' in virtu' di particolari elementi emersi nel corso del giudizio." (pag. 6). Successivamente, la Corte territoriale e' tornata sulla questione ritenendo che "il fatto non puo' ritenersi di particolare tenuita', ostandovi il non esiguo danno cagionato all'ambiente, nonche' la condotta complessivamente tenuta dall'imputata. Ed invero, l'illecito edilizio contesto ha avuto ad oggetto la realizzazione abusiva e non autorizzata di un intero piano sopraelevato (adibito di apposita scala esterna in cemento armato), per di piu' realizzato in zona sismica ed in assenza di un progetto redatto da un tecnico qualificato. Inoltre, osta la complessiva condotta tenuta dall'imputata, che ha cercato di aggirare il primo diniego di sanatoria per il tramite della cessione a titolo gratuito dell'immobile alla propria figlia" (pag. 4). 8.2. Orbene, dalla lettura congiunta delle due sentenze di condanna (che, come detto, si integrano reciprocamente: Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Rv. 257595), si ricava che i giudici del merito hanno invero fatto buon governo del consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, ai fini della configurabilita' della causa di esclusione della punibilita' per particolare tenuita' del fatto, prevista dall'articolo 131 bis c.p., il giudizio sulla tenuita' richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarita' della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'articolo 133 c.p., comma 1, delle modalita' della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entita' del danno o del pericolo. (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Rv. 266590 - 01.). Tuttavia, non e' necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti. (Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018, Rv. 274647 - 01; Sez. 3, n. 34151 del 18/06/2018, Rv. 273678 - 01). Dirimente sul punto e' soprattutto l'orientamento enucleato da questa Sezione secondo cui in tema di violazioni urbanistiche, quando la consistenza dell'opera e' tale da escludere in radice l'esiguita' del danno o del pericolo, correttamente il giudice nega l'applicazione della causa di non punibilita' di cui all'articolo 131-bis c.p. (Fattispecie relativa ad un fabbricato a due piani in cemento armato, in zona sismica e totalmente abusivo) Sez. 3, n. 33414de1 04/03/2021, Rv. 282328 - 01). 8.3. Ed invero, nel caso di specie, i giudici del merito hanno ritenuto di escludere la particolare tenuita' del fatto in ragione, essenzialmente, di due elementi ritenuti assorbenti: la non esiguita' del danno e la condotta tenuta dalla ricorrente. La Corte territoriale soprattutto ha tenuto a precisare sia come gli interventi in questione hanno inciso in modo significativo sul territorio, avendo comportato la realizzazione di una costruzione in zona sismica senza il rispetto della normativa prevista sia il tentato raggiro dei limiti da parte della stessa imputata. Infine, per quanto riguarda i reati edilizi e paesaggistici, giova ricordare che sebbene sia vero che in tema di particolare tenuita' del fatto, il reato permanente, in quanto caratterizzato dalla persistenza, ma non dalla reiterazione, della condotta, non e' riconducibile nell'alveo del comportamento abituale che preclude l'applicazione di cui all'articolo 131 bis c.p., e' anche vero che importa una attenta valutazione con riferimento alla configurabilita' della particolare tenuita' dell'offesa, la cui sussistenza e' tanto piu' difficilmente rilevabile quanto piu' a lungo si sia protratta la permanenza. (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, Rv. 255448 - 01) 8.4. Per quanto sopra, le doglianze difensive si presentano distoniche rispetto al contenuto delle sentenze di condanna, non solo perche' la Corte territoriale non ha mancato di spiegare il motivo per cui ha ritenuto non minimale il danno ambientale dalle stesse arrecato in un'area che - giova ricordarlo - risulta essere zona sismica, ma anche perche' i ricorrenti pretenderebbero di mettere in crisi le valutazioni dei giudici del merito esclusivamente richiamando la richiesta di regolarizzazione presso l'Ente competente. Tanto basta a ritenere anche la presente doglianza infondata. 9. Resta da esaminare l'ultimo motivo di ricorso, con cui la difesa censura la subordinazione della sospensione della pena alla previa demolizione dell'abuso edilizio. 9.1. Il Tribunale di Agrigento ha infatti ritenuto sussistenti "i requisiti di legge per sospendere la pena ai sensi degli articoli 163 e ss. c.p., essendo l'imputata senza precedenti penali e potendosi ritenere che in futuro si asterra' da eventuali occasioni di reato; per meglio perseguire la ratio della norma, la concessione del beneficio deve essere subordinata all'adempimento dell'ordine di demolizione dell'opera con rimessione in pristino dello stato dei luoghi entro il termine indicato dal dispositivo." (pag. 7). Il Giudice territoriale avallando le conclusioni del primo giudice, ha poi ribadito che: "neppure puo' trovare accoglimento l'ulteriore motivo di impugnazione tendente alla revoca della condizione della demolizione alla quale e' stato subordinato il beneficio della sospensione della pena. Difatti, il tentativo di aggirare l'originario provvedimento di rigetto della sanatoria attraverso la donazione dell'immobile e' indice al sicuro di pervicacia criminosa da neutralizzarsi al fine di evitare la possibile ricaduta nell'illecito. In ogni caso, l'apposizione di una condizione al beneficio della sospensione della pena, ai sensi degli articoli 164 e 165 c.p. rientra a pieno nella piena discrezionalita' del giudice che deve tendere pur sempre al fine ultimo dell'eliminazione delle conseguenze dannose dell'illecito"(pag. 4). 9.2. E' ben vero che e' riconosciuta la possibilita', per il giudice penale, di subordinare l'applicazione della sospensione condizionale alla demolizione delle opere abusive. Tale possibilita', confermata anche dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 714 del 20/11/1996 (dep. 03/02/1997), Rv. 206659) appare, peraltro, giustificata dalla circostanza che la presenza sul territorio di un manufatto abusivo rappresenta, indiscutibilmente, una conseguenza dannosa o pericolosa del reato, da eliminare (Sez. 3, n. 32351 del 1/7/2015, Rv. 264252; Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013 (dep. 28/01/2014), Rv. 258517; Sez. 3, n. 28356 del 21/5/2013, Rv. 255466; Sez. 3, n. 38071 del 19/9/2007" Rv. 237825; Sez. 3, n. 18304 del 17/1/2003, Rv. 22471; Sez. 3, n. 4086 del 17/12/1999 (dep. 07/04/2000), Rv. 216444). Non rileva, poi, il fatto che l'immobile sia in comproprieta' con la figlia, posto che l'ordine di demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale ha carattere reale e natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato. (Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009 Rv. 245403 - 01; Sez. 3, n. 801 del 02/12/2010, Rv. 249129 - 01; Sez. 3, n. 42699 del 07/07/2015, Rv. 265193 - 01). Ne consegue che l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, legittimamente adottato, deve essere eseguito nei confronti del proprietario dell'immobile indipendentemente dall'essere egli stato anche autore dell'abuso, salva la facolta' del medesimo di far valere, sul piano civile, la responsabilita', contrattuale o extracontrattuale, del proprio dante causa (Sez. 3, n. 39322 del 13/07/2009, Rv. 244612). Allo stesso modo e per le medesime ragioni, non rileva che la parte della proprieta' del manufatto abusivo appartenga ad altro soggetto, posto che l'ordine di demolizione ha colpito il cespite nella sua interezza in capo al dante causa e che percio' anche nei confronti del comproprietario l'ordine di demolizione deve essere eseguito. 9.3. Non rileva nemmeno la circostanza che sia intervenuto il rilascio del permesso a costruire in sanatoria in favore della figlia della ricorrente, quale comproprietaria dell'immobile, cio' che, per il P.G., sarebbe in astratto ostativo alla demolizione. Ed invero, la decisione richiamata dal Procuratore Generale (Sez. 3, n. 7109/2010, Rv. 246201 - 01), secondo cui "il rilascio della sanatoria edilizia conseguente alla definizione della procedura di condono attivata da terzi estranei all'abuso, successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna dell'autore dell'illecito rimasto estraneo a detta procedura, pur regolarizzando la costruzione abusiva sotto il profilo urbanistico, non produce alcun effetto estintivo per il condannato, ne' comporta l'obbligo di annotazione dell'oblazione nel casellario giudiziale ai sensi della L. 28 febbraio 1985, n. 47, articolo 38, comma 4", ha correttamente precisato in motivazione che il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria puo' comportare l'inapplicabilita' od anche la revoca dell'ordine di demolizione eventualmente disposto dal giudice. Essa e' tuttavia relativa ad una sanatoria conseguente ad istanza di condono edilizio, che e' fondata su presupposti e condizioni diverse rispetto alla sanatoria "per doppia conformita'" rilasciata a norma degli articoli 36 e 45, TU Edilizia. Sul punto, del resto, questa Corte ha gia' avuto modo di pronunciarsi con l'autorevole insegnamento impartito dalle Sezioni Unite (Sez. U, sentenza n. 15427 del 31/03/2016 - dep. 13/04/2016, Cavallo, Rv. 267042), richiamando l'attenzione sulle differenze intercorrenti tra la disciplina del "condono edilizio", di cui alle leggi 28 febbraio 1985, n. 47, 23 dicembre 1994, n. 724, e 24 novembre 2003, n. 326 (quest'ultima di conversione, con modificazioni, del Decreto Legge 30 settembre 2003, n. 269), e quella della "sanatoria" conseguente ad accertamento di conformita', disciplinata dall'articolo 36 del Testo Unico dell'edilizia (Decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380). Come e' noto, con la L. 28 febbraio 1985, n. 47, si e' individuata, per la prima volta, una disciplina organica dell'attivita' edilizia, sulla quale era in precedenza intervenuta la L. 28 gennaio 1977, n. 10, operandosi una consistente revisione della normativa previgente. L'entrata in vigore della L. n. 47 del 1985 venne accompagnata dalla previsione del primo condono edilizio, che aveva lo scopo di dare un netto taglio al passato, recuperando le opere abusive fino ad allora realizzate. Tale scelta legislativa, venne poi replicata, per ragioni di razionalizzazione della finanza pubblica, con la L. 23 dicembre 1994, n. 724, e, successivamente, con la L. 24 novembre 2003, n. 326, la quale convertiva, con modificazioni, il Decreto Legge 30 settembre 2003, n. 269. La L. n. 724 del 1994 e la successiva L. n. 326 del 2003, pur prevedendo" per la definizione degli illeciti edilizi presi in considerazione, requisiti e formalita' differenti, fanno comunque riferimento alle disposizioni di cui ai capi IV e V della L. n. 47 del 1985, alle quali hanno anche apportato modifiche. Come si rileva, dunque, dalla lettura delle menzionate disposizioni, il condono edilizio si caratterizza per l'efficacia limitata nel tempo, poiche' e' finalizzato alla regolarizzazione di determinati abusi edilizi realizzati entro un limite temporale individuato dalla norma. Il suo effetto estintivo, inoltre, consegue al pagamento di un'oblazione, formalizzato attraverso l'attestazione, da parte dell'autorita' comunale, della congruita' di quanto corrisposto a tale titolo. Esso opera, peraltro, anche con riferimento ad interventi in contrasto con gli strumenti urbanistici e produce effetti estintivi anche verso reati conseguenti alla violazione delle norme antisismiche e sulle costruzioni in cemento armato. La sanatoria disciplinata dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articoli 36 e 45 (e, in precedenza, dalla L. n. 47 del 1985, articoli 13 e 22) opera, al contrario, su un piano del tutto diverso, in quanto destinata, in via generale, al recupero degli interventi abusivi previo accertamento della conformita' degli stessi agli strumenti urbanistici generali e di attuazione, nonche' alla verifica della sussistenza di altri requisiti di legge specificamente individuati. In base al menzionato articolo 36, la sanatoria puo' essere ottenuta quando l'opera eseguita in assenza del permesso sia conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati o non in contrasto con quelli adottati, tanto al momento della realizzazione dell'opera, quanto al momento della presentazione della domanda, che puo' avvenire fino alla scadenza dei termini di cui all'articolo 31, comma 3, articolo 33, comma 1, articolo 34, comma 1, e, comunque, fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative. Sulla richiesta di sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi - con adeguata motivazione - entro sessanta giorni, trascorsi inutilmente i quali la domanda si intende respinta. L'istanza e' subordinata, inoltre, al pagamento di una somma a titolo di oblazione, secondo le modalita' descritte nello stesso articolo. In base a quanto espressamente disposto dall'articolo 45, il rilascio della sanatoria "estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti", con esclusione, quindi, di altri reati eventualmente concorrenti. 9.4. Si tratta, dunque, di istituti che hanno finalita' ed ambito di applicazione del tutto differenti e che non possono essere confusi, come ha gia' rilevato la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 6331 del 20/12/2007, dep. 2008, Latteri, Rv. 238822; Sez. 3, n. 10307 del 28/9/1988, Serra, Rv. 179501; Sez. 3, n. 9797 del 22/6/1987, Scarcella, Rv. 176643), riconoscendo, tra l'altro, la specialita' della disciplina del condono edilizio rispetto a quella della sanatoria conseguente all'accertamento di conformita' (Sez. 3, n. 23996 del 12/5/2011, De Crescenzo, Rv. 250607). A conclusioni analoghe e' peraltro pervenuta anche la giurisprudenza amministrativa, rilevando l'antiteticita' dei presupposti dei due procedimenti di sanatoria, per il fatto che il condono edilizio concerne il perdono ex lege per la realizzazione, senza titolo abilitativo, di un manufatto in contrasto con le prescrizioni urbanistiche, comportante una violazione sostanziale, mentre la sanatoria riguarda l'accertamento postumo della conformita' dell'intervento edilizio realizzato senza permesso di costruire agli strumenti urbanistici e riguarda una violazione formale (cosi', Cons. Stato, sez. 6, n. 466 del 02/02/2015). Proprio tale ragione, la circostanza che la sanatoria edilizia rilasciata (peraltro erroneamente, in difetto del requisito della doppia conformita' e ostandovi la accertata violazione della normativa antisismica, come ampiamente chiarito in precedenza), alla figlia della ricorrente fosse conseguente ad una procedura formalmente avviata ex articoli 36 e 45, TU Edilizia, esclude qualsiasi sua rilevanza rispetto alla sopravvivenza della costruzione edilizia in questione, posto che solo il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria a seguito dell'istanza di condono puo', come affermato nella richiamata decisione citata dal Procuratore Generale, comportare l'inapplicabilita' od anche la revoca dell'ordine di demolizione eventualmente disposto dal giudice. 10. Il ricorso dev'essere, pertanto, rigettato, con condanna ex lege della ricorrente al pagamento delle spese processuaii, non essendo peraltro ancora maturato il termine di prescrizione dei reati, consumatisi al momento del sequestro ((OMISSIS)), in quanto al termine di prescrizione massima (3.04.2022), devono essere aggiunti gg. 376 di sospensione del termine di prescrizione, verificatisi nel giudizio di primo grado, con conseguente spirare del termine alla data del 14.04.2023. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. RAGO Geppino - Presidente Dott. DI PAOLA Sergio - Consigliere Dott. DE SANTIS Anna Maria - Consigliere Dott. PELLEGRINO Andrea - Consigliere Dott. TUTINELLI Vincenzo - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS) s.r.l., in persona del legale rappresentante (OMISSIS), rappresentata ed assistita dall'avv. (OMISSIS) e dall'avv. (OMISSIS), di fiducia; avverso il decreto n. 46/21 in data 14/06/2022 della Corte di appello di Milano, quinta sezione penale; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Andrea Pellegrino; letta la requisitoria scritta con la quale il Sostituto procuratore generale, Luigi Birritteri, ha concluso chiedendo di dichiararsi l'inammissibilita' del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con decreto in data 14/06/2022, la Corte di appello di Milano rigettava l'appello proposto da (OMISSIS) s.r.l. avverso il decreto emesso dal Tribunale di Milano in data 21/09/2021 con il quale era stata respinta la richiesta di controllo giudiziario ex articolo 34-bis, comma 6, Decreto Legislativo n. 159 del 2011. 2. Avverso il predetto decreto, nell'interesse di (OMISSIS) s.r.l., e' stato proposto ricorso per cassazione per i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex articolo 173 disp. att. c.p.p.. La societa' ricorrente, dopo aver evidenziato che la domanda e' stata proposta per evitare le conseguenze paralizzanti dell'attivita' d'impresa che verrebbe privata non solo della possibilita' di contrattare con enti pubblici ma anche la possibilita' di continuare la propria attivita' in favore di soggetti privati nonche' il concreto rischio di perdere l'iscrizione all'Albo Nazionale Gestori Ambientali con l'ineludibile conseguenza di essere posta in liquidazione con licenziamento dei suoi dipendenti, lamenta quanto segue. -Primo motivo: mancanza di motivazione. Nell'atto di appello erano stati forniti plurimi spunti ermeneutici volti a dimostrare come il diniego di iscrizione all'elenco dei fornitori prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa, operanti nei settori esposti maggiormente a rischio (cd. white list), debba considerarsi produttivo dei medesimi effetti lesivi dell'interdittiva antimafia. La Corte territoriale, dopo aver evidenziato tutte le criticita' derivanti dal paradosso che si verrebbe a creare concedendo la misura nei casi di interdittiva e negandola nei casi di diniego dell'iscrizione nella White List, con un evidente salto logico, si ricollega sic et simpliciter alla statuizione del primo giudice affermando apoditticamente che, mancando il presupposto costituito dall'interdittiva, la misura non e' applicabile. Anche volendo ritenere l'interpretazione letterale come la piu' corretta, il giudice d'appello avrebbe dovuto pronunciarsi sulla questione di costituzionalita' (per violazione degli articoli 2, 3, 24 e 25 Cost.) sollevata dalla difesa, inerente all'ingiustificata disparita' di trattamento che deriverebbe dall'applicare il controllo giudiziario solo in caso di formale provvedimento interdittivo. -Secondo motivo: violazione e falsa applicazione dell'articolo 34-bis Decreto Legislativo n. 159 del 2011. Si e' osservato che la peculiarita' dell'accertamento giudiziale relativo al controllo ex articolo 34-bis, e a maggior ragione al controllo volontario, sta nel fatto che il fuoco dello scrutinio deve individuarsi nella verifica di concrete possibilita' che la singola realta' aziendale abbia o meno di compiere fruttuosamente il cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano, anche avvalendosi dei controlli e delle sollecitazioni che il giudice delegato puo' rivolgere nel guidare la impresa infiltrata"; in questa prospettiva, "l'accertamento dello stato di condizionamento e di infiltrazione non puo' (...) essere soltanto funzionale a fotografare lo stato attuale di pericolosita' oggettiva in cui versi la realta' aziendale a causa delle relazioni esterne patologiche, quanto piuttosto a comprendere e a prevedere le potenzialita' che quella realta' ha di affrancarsene seguendo l'iter che la misura alternativa comporta". Pertanto, sebbene sia indubbio che il tribunale non abbia potere di sindacato sulla legittimita' della interdittiva antimafia adottata dal prefetto, per la evidente autonomia dei mandati delle due giurisdizioni, e' anche vero che l'intera gamma delle situazioni richiamate dall'articolo 34-bis, comma 6, Decreto Legislativo n. 159 del 2011 e' devoluta alla sua cognizione, dovendosi esso esprimere non solo sulla applicabilita' del controllo giudiziario di cui alla lettera b) del comma 2 dell'articolo citato - cioe' quello che prevede la nomina del giudice delegato e dell'amministratore giudiziario con poteri di controllo - ma anche di verificare il ricorso dei relativi presupposti - e cioe' la occasionalita' della agevolazione ai soggetti mafiosi e non ivi previsti, il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose e la sua intensita' - e saggiare la sussistenza delle condizioni per applicare uno o piu' degli obblighi informativi ed anche gestionali previsti dal comma 3 dell'articolo 34-bis" (Sez. 5, n. 3856 del 06/11/2020, Biessemme S.r.l., Rv. 279982; nello stesso senso, Sez. 2, n. 18265 del 31/03/2022, S.a.s. Moviter, non mass.). L'indagine condotta dalla Corte territoriale si ferma al 2019, allorquando la figura del (OMISSIS) e' stata del tutto estromessa. Non vi e' alcun giudizio prognostico rivolto alla futura attivita' della societa', bensi' vi e' un pregiudizio fondato sui precedenti penali del (OMISSIS) risalenti a prima del 2010 che avrebbero la forza cogente di influenzare non solo il comportamento del (OMISSIS), ma anche dell'intero nucleo familiare. Pur volendo aderire alla tesi secondo cui vi sarebbe stata l'ingerenza dal 2011 al 2014 del (OMISSIS) sulla gestione della societa', non si e' tenuto conto del fatto che vi sono stati plurimi atteggiamenti di ravvedimento certamente antecedenti al provvedimento prefettizio. -Terzo motivo: violazione dell'articolo 183, comma 1, lettera I) Decreto Legislativo n. 152 del 2006 e 452-quataerdecies c.p. La connotazione di illiceita' alla condotta di intermediazione non puo' in alcun modo sussistere allorquando, come nella fattispecie, sussiste prova del rispetto di tutte le condizioni di esercizio dell'attivita'. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso e' fondato e, come tale, meritevole di accoglimento. 2. La giurisprudenza di legittimita' ha gia' chiarito, con principio che qui si intende ribadire, che in tema di misure di prevenzione, il ricorso per cassazione avverso il provvedimento della corte d'appello che, in sede di impugnazione, decide sull'ammissione al controllo giudiziario ex articolo 34-bis, comma 6, Decreto Legislativo n. 6 settembre 2011, n. 159, e' ammissibile solo per violazione di legge, essendo, in tal caso, applicabili i limiti di deducibilita' di cui agli articoli 10, comma 3, e 27 del medesimo decreto (Sez. 5, n. 3856 del 06/11/2020, Biessemme S.r.l., Rv. 279982). Si e' in tal senso osservato che: "L'assetto dei rimedi impugnatori previsti per il controllo giudiziario ex articolo 34-bis del Decreto Legislativo n. 6 settembre 2011, n. 159 riflette quello delineato per la misura dell'amministrazione giudiziaria dall'articolo 34 del medesimo decreto legislativo; ora, quest'ultima disposizione richiama espressamente, a proposito della disciplina delle impugnazioni, l'articolo 27, Decreto Legislativo n. 159 del 2011, il quale, a sua volta, in tema di impugnazioni, richiama l'articolo 10 del Decreto Legislativo n. 159 cit., il cui comma 3 limita alla violazione di legge l'ambito delle censure proponibili con il ricorso per cassazione. In questa prospettiva, del resto, e' univoca l'indicazione che si trae da Sez. U, n. 46898 del 26/09/2019, Ricchiuto, Rv. 277156, che, nello stabilire che il provvedimento con cui il tribunale competente per le misure di prevenzione nega l'applicazione del controllo giudiziario richiesto ex articolo 34-bis, comma 6, del Decreto Legislativo n. 6 settembre 2011, n. 159, e' impugnabile con ricorso alla corte di appello anche per il merito, ha chiarito che, nella riedizione degli articoli 34 e 34-bis effettuata con la L. 161 del 2017, l'intervento del legislatore sembra essersi concentrato piuttosto sulla previsione di procedure camerali ex articolo 127 c.p.p. destinate a garantire, in molti dei casi previsti, la conoscenza ed il contraddittorio anticipati: cosi' dando la sensazione di non occuparsi, o meglio, (...) lasciando libero, in punto di impugnabilita', uno spazio che e' possibile ed anzi doveroso occupare, col ricorso al principio generale sotteso al sistema delle impugnazioni delle misure di prevenzione", che e' quello elaborato nell'articolo 10 del Decreto Legislativo n. 159 del 2011 (la "norma fondamentale delle impugnazioni"); di qui la conclusione circa la fisionomia di un sistema che, col doppio grado di giudizio - il primo dei quali, di merito, ed il secondo per sola violazione di legge - si pone come quello generale e di riferimento a tutela degli interessi perseguiti dal corpo normativo, aventi tanto natura pubblicistica, quanto garanzia costituzionale come la liberta' di iniziativa economica e la proprieta' privata, ed ancora quanto alle caratteristiche del giudizio ex articolo 34-bis predetto che con riferimento, poi, alla domanda della parte privata, che sia raggiunta da interdittiva antimafia, di accedere al controllo giudiziario il sindacato del giudice, deve essere indirizzato ad accertare i presupposti della misura, necessariamente comprensivi della occasionalita' dell'agevolazione dei soggetti pericolosi, come si desume dal rilievo che l'accertamento della insussistenza di tale presupposto ed eventualmente di una situazione piu' compromessa possono comportare il rigetto della domanda e magari l'accoglimento di quella, di parte avversa, relativa alla piu' gravosa misura della amministrazione giudiziaria o di altra ablativa". Si e' quindi osservato, nella prospettiva che la stessa ricorrente ha evidenziato, che: "La peculiarita' dell'accertamento giudiziale relativo al controllo ex articolo 34-bis, e a maggior ragione al controllo volontario, sta nel fatto che il fuoco dello scrutinio deve individuarsi nella verifica di concrete possibilita' che la singola realta' aziendale abbia o meno di compiere fruttuosamente il cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano, anche avvalendosi dei controlli e delle sollecitazioni (nel caso della amministrazione, anche vere intromissioni) che il giudice delegato puo' rivolgere nel guidare la impresa infiltrata"; in questa prospettiva, "l'accertamento dello stato di condizionamento e di infiltrazione non puo' (...) essere soltanto funzionale a fotografare lo stato attuale di pericolosita' oggettiva in cui versi la realta' aziendale a causa delle relazioni esterne patologiche, quanto piuttosto a comprendere e a prevedere le potenzialita' che quella realta' ha di affrancarsene seguendo l'iter che la misura alternativa comporta". Pertanto, sebbene sia indubbio che il tribunale non abbia potere di sindacato sulla legittimita' della interdittiva antimafia adottata dal prefetto, per la evidente autonomia dei mandati delle due giurisdizioni, e' anche vero che l'intera gamma delle situazioni richiamate dall'articolo 34-bis, comma 6, Decreto Legislativo n. 159 del 2011 e' devoluta alla sua cognizione, dovendosi esso esprimere non solo sulla applicabilita' del controllo giudiziario di cui alla lettera b) del comma 2 dell'articolo citato - cioe' quello che prevede la nomina del giudice delegato e dell'amministratore giudiziario con poteri di controllo - ma anche di verificare il ricorso dei relativi presupposti e cioe' la occasionalita' della agevolazione ai soggetti mafiosi e non ivi previsti, il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose e la sua intensita' - e saggiare la sussistenza delle condizioni per applicare uno o piu' degli obblighi informativi ed anche gestionali previsti dal comma 3 dell'articolo 34-bis (Sez. 5, n. 3856 del 06/11/2020, cit.; da ultimo, Sez. 2, n. 18265 del 31/03/2022, Sas Moviter, non mass.). 3. E' stato dedotto come (OMISSIS) s.r.l., costituita il 19/09/2011, operante nel settore ambientale, fornisca servizi di intermediazione per la gestione, smaltimento e recupero di residui pericolosi e rifiuti in genere provenienti da attivita' industriali, civili e artigianali. La lettera I) dell'articolo 183 del codice dell'ambiente (Decreto Legislativo n. 152 del 2006) definisce intermediario "qualsiasi impresa che dispone il recupero o lo smaltimento dei rifiuti per conto di terzi, compresi gli intermediari che non acquisiscono la materiale disponibilita' dei rifiuti". Dal 14/12/2011, la (OMISSIS) s.r.l. risulta iscritta all'Albo Nazionale Gestori Ambientali ed attualmente e' iscritta per la categoria 8 (Intermediazione e commercio di rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi) per la Classe A (quantitativi superiori a 200.000 ton.); a seguito delle verifiche previste dall'ente certificatore, (OMISSIS) ha ottenuto, il 20/07/2021, il rinnovo della propria certificazione di qualita' ambientale fino al 12/08/2024; il responsabile tecnico della societa' e amministratore unico e' (OMISSIS) e nella societa' sono impiegati sei dipendenti; il fatturato societario e' passato da Euro 6.645.047 nel 2017 ad Euro 13.317.538 nel 2020. Dal 14/09/2016, la (OMISSIS) ha chiesto ed ottenuto dalla Prefettura di Varese l'iscrizione nell'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa operanti nei settori maggiormente a rischio (cd. White List) di cui all'articolo 1, comma 52, della L. n. 190/2012. L'ultimo rinnovo favorevole rilasciato dalla Prefettura di Varese e' stato emesso con provvedimento del 14/03/2019, a seguito di richiesta del 17/07/2018. In data 18/02/2021, la societa', a seguito di richiesta di rinnovo di iscrizione nella citata lista del 24/01/2020, si vedeva recapitare una nota della Prefettura di Varese ai sensi dell'articolo 10 bis della L. n. 214/1990, con la quale veniva notiziata del c.d. preavviso di rigetto dell'istanza, adducendo l'esistenza di condizioni ostative al rilascio in capo a (OMISSIS), familiare convivente dell'amministratore unico, (OMISSIS). Nella successiva data del 17/03/2021 veniva notificato alla (OMISSIS) il decreto del Prefetto di Varese in data 04/03/2021 con il quale veniva rigettata la domanda di iscrizione nell'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa, operanti nei settori maggiormente a rischio di cui all'articolo 1, comma 52, della L. n. 190/2012, non ricorrendo le condizioni di cui all'articolo 2, comma 2, lettera b) del D.P.C.M. 18/04/2013. Nella comunicazione di avvio del procedimento di cancellazione, la Sezione Regionale dell'Albo riporta una notazione della Prefettura di Varese, nella quale il diniego di iscrizione alla white list viene definito espressamente come "interdittiva antimafia"; il diniego risulta motivato con esclusivo riferimento ad una condanna (risalente al 2011 ed estinta) del (OMISSIS) e a circostanze (la convivenza ed i presunti rapporti di lavoro) che sussistevano anche nel 2016, nel 2017 e nel 2019, allorche' l'iscrizione fu rilasciata e successivamente rinnovata. 4. Con il decreto impugnato la Corte di Appello di Milano ha respinto l'appello della societa' ricorrente avverso il decreto emesso dal Tribunale di Milano in data 21/09/2021 che aveva rigettato la richiesta di applicazione del controllo giudiziario ai sensi del comma 6 dell'articolo 34-bis Decreto Legislativo n. 159 del 2011 per assenza dei presupposti legittimanti l'applicazione della misura. Entrambi i giudici hanno respinto nel merito la richiesta senza risolvere, in via pregiudiziale, la questione dell'ammissibilita' della richiesta stessa, in quanto proveniente da una impresa non sottoposta ad informazione antimafia interdittiva ai sensi dell'articolo 84 quarto comma del suddetto decreto, ma destinataria di un diniego (di rinnovo) di iscrizione nell'elenco di fornitori di beni, prestatori di servizi e esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa (c.d. white list), ai sensi dell'articolo 1 comma 52 della L. n. 190 del 2012. 5. La societa' ricorrente denuncia, con il primo motivo, vizio di motivazione per omessa pronuncia proprio sull'ammissibilita' della richiesta di controllo giudiziario in conseguenza del diniego di iscrizione ritualmente impugnato dinanzi al competente giudice amministrativo. Sul punto la ricorrente deduce l'equivalenza dei presupposti operativi e degli effetti tra tale provvedimento e l'interdittiva antimafia, trattandosi di istituti disciplinati dagli stessi principi, tanto e' vero che, ai sensi dell'articolo 1 comma 52-bis della legge anticorruzione (n. 190/2012), l'iscrizione nell'elenco di cui al comma 52 tiene luogo della comunicazione e dell'informazione antimafia liberatoria. La societa' ricorrente richiama a sostegno della propria posizione la giurisprudenza di merito e, in termini piu' generali, la pronuncia delle Sezioni unite n. 46898 del 26/09/2019, Ricchiuto, Rv. 277156, denunciando l'omessa motivazione anche in ordine alla questione di costituzionalita' formulata con l'atto di appello, per ingiustificata disparita' di trattamento, laddove l'accesso al controllo giudiziario dovesse ritenersi impedito in presenza di un diniego di iscrizione nella white list rispetto a chi fosse soggetto alla "sola" interdittiva antimafia. 5.1. L'esame di questo primo motivo assume evidente carattere pregiudiziale. 5.1.1. Con il provvedimento impugnato, la Corte territoriale ha confermato la decisione del giudice di prime cure rimanendo del tutto equivoca sul tema prioritario dell'ammissibilita' del ricorso, avendo affermato la condivisibilita' del pensiero del Tribunale che, adottando un'interpretazione tassativa della norma, ha ritenuto che l'interdittiva antimafia sia presupposto ineludibile per l'applicazione del controllo volontario e, superando il profilo dell'ammissibilita' o meno della richiesta, aveva introdotto assorbenti considerazioni di merito che avevano imposto il suo rigetto. 5.1.2. Il sistema della documentazione antimafia, previsto dal c.d. Codice antimafia (Decreto Legislativo n. 159 del 2011), in attuazione della legge delega n. 136 del 13 agosto 2010 (articolo 2), si fonda sulla distinzione tra le comunicazioni antimafia e le informazioni antimafia (articolo 84 del Decreto Legislativo n. 159 del 2011), che - come e' noto costituiscono le fondamentali misure di prevenzione amministrative previste dal Codice nel libro II e tuttora confermate, nel loro impianto anche dalla modifica del Codice antimafia, di cui alla L. n. 161 del 17 ottobre 2017, entrata in vigore il 19 novembre 2017. Le comunicazioni antimafia mantengono un legame di tipo almeno formale con tale apparato, per il loro contenuto vincolato, poiche' il presupposto della loro emissione consiste nell'attestazione che a carico di determinati soggetti, individuati dall'articolo 85 del Decreto Legislativo n. 159 del 2011, non siano state emesse dal Tribunale misure di prevenzione personali definitive. 5.1.3. Le informazioni antimafia, invece, si distinguono per uno spiccato momento di autonomia valutativa da parte del Prefetto, nel soppesare il rischio di permeabilita' mafiosa dell'impresa, di contenuto discrezionale, poiche' ben possono prescindere dagli esiti delle indagini preliminari o dello stesso giudizio penale, che comunque la Prefettura ha il dovere di esaminare in presenza dei cc.dd. delitti spia (articolo 84, comma 4, del Decreto Legislativo n. 159 del 2011), non vincolanti per l'apprezzamento che, a fini preventivi, la Prefettura e' chiamata a compiere in ordine al rischio di condizionamento mafioso. La nuova legislazione antimafia persegue, per finalita' di sicurezza pubblica e di contrasto alla criminalita' organizzata di stampo mafioso, l'obiettivo di prevenire le infiltrazioni mafiose nelle attivita' economiche non solo nei rapporti dei privati con le pubbliche amministrazioni (contratti pubblici, concessioni e sovvenzioni), mediante lo strumento delle informazioni antimafia (articoli 90-95 del Decreto Legislativo n. 159 del 2011), ma anche quello di inibire l'esercizio dell'attivita' economica, nei rapporti tra i privati stessi, mediante lo strumento delle comunicazioni antimafia (articoli 87-89 del Decreto Legislativo n. 159 del 2011), richieste per l'esercizio di qualsivoglia attivita' soggetta ad autorizzazione, concessione, abilitazione, iscrizione ad albi, o anche alla segnalazione certificata di inizio attivita' (c.d. s.c.i.a.) e alla disciplina del silenzio assenso (articolo 89, comma 2, lettera a) e lettera b) del Decreto Legislativo n. 159 del 2011). La collocazione sistematica della documentazione antimafia - nel libro II del Codice, dedicato appositamente alle "Nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia" - ne rivela, nell'intendimento del legislatore, l'estraneita' gia' solo formale rispetto all'apparato di misure aventi carattere penale o para-penale e, dunque, anche al sistema delle misure di prevenzione personali, separatamente regolato dal libro I del Codice antimafia. Per quanto riguarda la ratio dell'istituto della interdittiva antimafia, va precisato che si tratta di una misura volta - ad un tempo - alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica amministrazione: nella sostanza, l'interdittiva antimafia comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore - pur dotato di adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione - meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti "affidabile") e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge. Fondamentale e' la distinzione tra le comunicazioni antimafia e le informazioni (o informative) antimafia. La comunicazione antimafia consiste nell'attestazione della sussistenza, o meno, di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'articolo 67 (articolo 84, comma 2, del Decreto Legislativo n. 159 del 2011) e, cioe', l'applicazione, con provvedimento definitivo, di una delle misure di prevenzione personali previste dal libro I, titolo I, capo II, del Decreto Legislativo n. 159 del 2011 e statuite dall'autorita' giudiziaria, ovvero condanne penali con sentenza definitiva o confermata in appello per taluno dei delitti consumati o tentati elencati all'articolo 51, comma 3-bis c.p.p. e' di competenza delle Direzioni distrettuali antimafia 3-bis. Si tratta di condanne definitive per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 416, sesto e comma 7, 416, realizzato allo scopo di commettere taluno dei delitti di cui all'articolo 12, commi 3 e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286, 416, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 473 e 474, 600, 601, 602, 416-bis, 416-ter, 452-quaterdecies e 630 del codice penale, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonche' per i delitti previsti dall'articolo 74 del testo unico approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, dall'articolo 291-quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e (dall'articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152,) le funzioni indicate nel comma 1, lettera a), sono attribuite all'ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente. Al riguardo, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito che per "definitivo", ai sensi dell'articolo 84, comma 2, del Decreto Legislativo n. 159 del 2011, nel sistema del Codice antimafia, alla luce di una interpretazione sistematica delle disposizioni in materia, si deve intendere il provvedimento non impugnato o non piu' impugnabile, che ha acquisito, quindi, la stabilita' connessa o, comunque, equivalente al giudicato (Cons. St., Sez. 3, 1 aprile 2016, n. 1234, che ribadisce la "distinzione, ben netta ed ancorata a tassativi presupposti, tra informazione antimafia e comunicazione antimafia, vincolata, quest'ultima, alla definitivita' della misura di prevenzione"). La comunicazione antimafia descrive, quindi, il cristallizzarsi di una situazione di permeabilita' mafiosa contenuta in un provvedimento giurisdizionale ormai definitivo, con il quale il Tribunale ha applicato una misura di prevenzione personale prevista dal Codice antimafia, ed ha un contenuto vincolato, di tipo accertativo, che attesta l'esistenza, o meno, di tale situazione tipizzata nel provvedimento di prevenzione. Il legislatore ha espressamente previsto che le comunicazioni antimafia, come si e' accennato, hanno efficacia interdittiva rispetto a tutte le iscrizioni e ai provvedimenti autorizzatori, concessori o abilitativi per lo svolgimento di attivita' imprenditoriali, comunque denominati, nonche' a tutte le attivita' soggette a segnalazione certificata di inizio attivita' (c.d. s.c.i.a.) e a silenzio assenso (articolo 89, comma 2, lettera a) e b), del Decreto Legislativo n. 159 del 2011), a differenza di quanto ordinariamente la legge prevede per le informazioni antimafia e comportano, altresi', il divieto di concludere contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di cottimo fiduciario e relativi subappalti e subcontratti, compresi i cottimi di qualsiasi tipo, i noli a caldo e le forniture con posa in opera (articolo 84, commi i e 2, del Decreto Legislativo n. 159 del 2011). L'informazione antimafia consiste nell'attestazione della sussistenza, o meno, di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto, di cui all'articolo 67 (l'esistenza, come detto, di un provvedimento di prevenzione definitivo), nonche' nell'attestazione della sussistenza, o meno, di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte o gli indirizzi della societa' o delle imprese interessate (articolo 84, comma 3, del Decreto Legislativo n. 159 del 2011). Detta forma di documentazione antimafia, dunque, ha un duplice contenuto, di tipo vincolato, da un lato, e analogo a quello della comunicazione antimafia, nella parte in cui attesta o meno l'esistenza di un provvedimento definitivo di prevenzione personale emesso dal Tribunale, e di tipo discrezionale, dall'altro, nella parte in cui, invece, il Prefetto ritenga la sussistenza, o meno, di tentativi di infiltrazione mafiosa nell'attivita' di impresa, desumibili o dai provvedimenti e dagli elementi, tipizzati nell'articolo 84, comma 4, del Decreto Legislativo n. 159 del 2011, o dai provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all'attivita' delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulti che l'attivita' di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attivita' criminose o esserne in qualche modo condizionata. A differenza delle comunicazioni antimafia, il cui effetto interdittivo, come visto, e' esteso non solo ai contratti e alle concessioni, ma anche alle autorizzazioni, le informazioni antimafia, normalmente, esplicano i loro effetti solo in rapporto ai contratti pubblici, alle concessioni e alle sovvenzioni salvo quanto si dira' a seguito dell'introduzione dell'articolo 89-bis del codice antimafia. Con riguardo alla natura giuridica e degli effetti dell'interdittiva antimafia, va precisato che: 1) si tratta di un provvedimento di natura cautelare e preventiva, espressione del bilanciamento tra tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica e liberta' di iniziativa economica riconosciuta dall'articolo 41 Cost.; 2) costituisce una misura volta alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica amministrazione; 3) mira a prevenire tentativi di infiltrazione mafiosa nelle imprese volti a condizionare le scelte e gli indirizzi della pubblica amministrazione; 4) preclude all'imprenditore di essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni ovvero destinatario di titoli abilitativi o di contributi, finanziamenti, mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo; 5) determina una particolare forma di incapacita' giuridica, parziale e tendenzialmente temporanea, in quanto comporta l'inidoneita' del destinatario ad essere titolare di talune situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi). 5.2. Discorso solo in parte diverso va fatto per le c.d. white list. Il legislatore, con l'articolo 29, comma 1, del Decreto Legge n. 90 del 2014, e' intervenuto in modo organico sul sistema delle c.d. white list e, cioe', su quell'apposito elenco "di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa operanti" in delicati settori delle opere pubbliche, tenuto dalla Prefettura, il cui provvedimento negativo si fonda sugli stessi elementi che devono essere posti a base dell'informazione antimafia, in quanto la Prefettura "effettua verifiche periodiche circa la perdurante insussistenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa e, in caso di esito negativo, dispone la cancellazione dell'impresa dall'elenco": detti settori sono costituiti dalle attivita' di estrazione, fornitura e trasporto di terra e materiali inerti; confezionamento, fornitura e trasporto di calcestruzzo e di bitume; noli a freddo di macchinari; fornitura di ferro lavorato; noli a caldo; autotrasporti per conto di terzi; guardiania dei cantieri; servizi funerari e cimiteriali; ristorazione, gestione delle mense e catering; servizi ambientali, comprese le attivita' di raccolta, di trasporto nazionale e transfrontaliero, anche per conto di terzi, di trattamento e di smaltimento dei rifiuti, nonche' le attivita' di risanamento e di bonifica e gli altri servizi connessi alla gestione dei rifiuti. Per poter essere iscritte nell'elenco white list, le imprese devono presentare un'apposita istanza alla Prefettura territorialmente competente, ossia alla Prefettura della provincia in cui l'impresa ha la propria sede legale. All'istanza dovranno essere allegate la dichiarazione sostitutiva del certificato di iscrizione alla Camera di Commercio e le autocertificazioni, rese da ciascun soggetto sottoposto a verifica ai sensi dell'articolo 85 del Codice Antimafia. A seguito della presentazione dell'istanza di iscrizione, la Prefettura territorialmente competente verifica: - l'assenza di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'articolo 67 del Decreto Legislativo n. 159 del 2011; - l'assenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi dell'impresa di cui all'articolo 84, comma 3, del Decreto Legislativo n. 159 del 2011. Se le verifiche danno esito positivo, la Prefettura dispone l'iscrizione dell'impresa nell'elenco pubblicato sul sito. Nel caso in cui emergano condizioni ostative, la stessa rigetta l'istanza di iscrizione comunicandolo all'impresa interessata. Eventuali modifiche degli organi sociali (soci, amministratori e collegio sindacale) devono essere segnalate alla Prefettura territorialmente competente entro trenta giorni, tramite l'apposita modulistica presente all'interno della sezione del sito dedicata alla white list. Entro trenta giorni dalla scadenza (l'iscrizione nell'elenco white list ha una durata di dodici mesi dalla data di iscrizione indicata nell'elenco accanto al numero di iscrizione), l'impresa che ha interesse a mantenere la propria iscrizione nell'elenco white list dovra' comunicare l'interesse a permanere. La mancata comunicazione dell'interesse a permanere entro 30 giorni dalla scadenza comporta la cancellazione dall'elenco white list. Le imprese che non presentano la comunicazione di interesse a permanere devono pertanto procedere con nuova iscrizione. L'iscrizione alla white list sostituisce la comunicazione ed anche l'informazione antimafia liberatoria, anche ai fini della stipula, approvazione o autorizzazione di contratti o subcontratti relativi ad attivita' diverse da quelle per la quali essa e' stata disposta: quindi, una volta iscritte nelle c.d. white list, le imprese non dovranno presentare altri documenti alle pubbliche amministrazioni ai fini della cosiddetta "liberatoria antimafia" (articolo 1, comma 52-bis L. n. 190/2012). Il potenziamento della c.d. white list, modulo ormai generalizzato nella legislazione antimafia, dopo le esperienze delle ricostruzioni postsismiche in Abruzzo e in Emilia, e raccreditamento" antimafia degli operatori economici in appositi elenchi, tenuti dalle Prefetture, marginalizza la problematica dei protocolli di legalita' e del sistema pattizio delle misure antimafia, che purtuttavia mantiene una propria vitalita', in quanto scongiura a priori il rischio di infiltrazioni mafiose in imprese chiamate a svolgere attivita' di particolare rilievo, tenute, per svolgere la loro attivita' (anche nei rapporti con privati, laddove sovvenzionati dallo Stato, come per la ricostruzione post-sismica), ad essere iscritte in appositi elenchi, previa verifica, appunto, della loro impermeabilita' mafiosa da parte delle Prefetture. 6. L'equivalenza dei presupposti legittimanti il diniego della iscrizione nella white list con quelli che comporta la adozione della interdittiva determina una sostanziale equiparazione tra i due istituti, con la differenza che il primo consegue ad un procedimento promosso dal privato, la seconda ad un procedimento avviato d'ufficio. Detta equivalenza costituisce consolidato ed univoco orientamento dei giudici amministrativi. In tal senso, si e' affermato che il diniego di iscrizione nella white list provinciale presenta identica ratio delle comunicazioni interdittive antimafia, in quanto si tratta di misure volte alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica amministrazione (cfr., Cons. St. Sez. 3, 5 agosto 2021, n. 5765; Cons. St. Sez. 1, 1 febbraio 2019, n. 337; Cons. St. Sez. 1, 21 settembre 2018, n. 2241). Si e' inoltre affermato (Cons. St. Sez. 1, 20 febbraio 2019, n. 1182; Cons. St. Sez. 1, 24 gennaio 2018, n. 492) come le disposizioni relative all'iscrizione nella c.d. white list formano un corpo normativo unico con quelle dettate dal codice antimafia per le misure antimafia (comunicazioni ed informazioni), tanto che, come chiarisce l'articolo 1, comma 52-bis, della L. n. 190 del 2012 introdotto dall'articolo 29, comma 1, Decreto Legge n. 90 del 2014 conv., con mod., dalla L. n. 114 del 2014 "l'iscrizione nell'elenco di cui al comma 52 tiene luogo della comunicazione e dell'informazione antimafia liberatoria anche ai fini della stipula, approvazione o autorizzazione di contratti o subcontratti relativi ad attivita' diverse da quelle per la quali essa e' stata disposta". Inoltre, "l'unicita' e l'organicita' del sistema normativo antimafia vietano all'interprete una lettura atomistica, frammentaria e non coordinata dei due sottosistemi - quello della c.d. white list e quello delle comunicazioni antimafia che, limitandosi ad un criterio formalisticamente letterale e di c.d. stretta interpretazione, renda incoerente o addirittura vanifichi il sistema dei controlli antimafia...". 7. La Procura generale dubita della sovrapponibilita' di questi due sottosistemi, affermando che l'informativa antimafia prevista dall'articolo 84 del Decreto Legislativo n. 159 del 2011 e' strumento generale, riferibile a tutte le imprese ed a qualsiasi attivita' economica esercitata, per la cui applicazione l'autorita' amministrativa, sulla base degli indici espressamente previsti dalla norma, accerta, in positivo, il tentativo di infiltrazione mafiosa nella gestione dell'impresa e ne interdice l'operativita'. La sua adozione determina, in via cautelare e preventiva, una particolare forma di incapacita' giuridica per il destinatario ad essere titolare di rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione, ovvero destinatario di titoli abilitativi da questa rilasciati, ovvero ancora ad essere destinatario di "contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate". Pur muovendosi nello stesso ambito, per cosi' dire, preventivo, invece, il diniego di iscrizione nella white list ha innanzi tutto una diversa (e piu' ridotta) sfera di operativita' soggettiva., essendo detta iscrizione prevista soltanto per le imprese che esercitano la loro attivita' negli specifici settori di cui al comma 53 dell'articolo 1 della legge anticorruzione (e limitatamente ad essi). In particolare, secondo l'Accusa, quel che la norma afferma e' che una volta verificata, in negativo, l'assenza di infiltrazioni mafiose per l'iscrizione nella lista, questa stessa iscrizione esime l'impresa (e la pubblica amministrazione) di richiedere una nuova certificazione antimafia liberatoria per dedicarsi anche ad altre attivita': il che - contrariamente all'assunto argomentato in ricorso - non determina affatto una piena sovrapponibilita' degli effetti tra i due istituti. Invero, il diniego di iscrizione nella white list continua ad impedire soltanto lo svolgimento delle attivita' espressamente indicate al comma 53 e non le altre attivita' per le quali andra', invece, richiesta la comunicazione liberatoria. In altri termini, e' opinione del requirente che, il diniego di iscrizione non e' atto giuridicamente equivalente all'informativa antimafia che legittima la richiesta di controllo giudiziario ex articolo 34-bis, perche' solo quest'ultima impedisce all'impresa di operare indistintamente con la pubblica amministrazione. Del tutto legittimamente, dunque, il legislatore ha previsto, a salvaguardia della stessa impresa, di consentire il controllo giudiziario a richiesta soltanto per le imprese colpite da un provvedimento amministrativo che impedisce in radice di operare in ambito pubblico e non anche per quelle oggetto del diniego di iscrizione nella white list, trattandosi di situazioni distinte e non equivalenti. Tanto premesso, il controllo giudiziario (c.d. a richiesta) previsto dal comma 6 dell'articolo 34-bis del codice antimafia e' norma di sicuro carattere eccezionale (e dunque di stretta interpretazione) che prevede tre fondamentali presupposti operativi: 1) l'applicazione a carico dell'impresa richiedente della misura dell'interdittiva antimafia da parte del Prefetto ai sensi dell'articolo 84 del codice antimafia; 2) l'impugnazione di tale provvedimento dinanzi al competente giudice amministrativo; 3) la pendenza di quel giudizio. In presenza di tali condizioni (e laddove risulti l'occasionalita' dei tentativi di infiltrazione mafiosa) il giudice della prevenzione adotta un provvedimento di natura interinale finalizzato alla prosecuzione dell'attivita' di impresa in condizioni, per cosi' dire, di rafforzata sicurezza e per una durata la cui misura massima e' determinata dalla norma stessa (non superiore a tre anni). L'ammissione al controllo determina, ai sensi del comma 7 dell'articolo 34-bis, la sospensione degli effetti dell'interdittiva previsti dall'articolo 94. E, l'eccezionalita' dello strumento, si ricaverebbe agilmente dalla lettera della legge, che soltanto all'interdittiva di cui all'articolo 84 fa riferimento, nonche' dall'evidente intersezione con il giudizio amministrativo che consegue dall'automatica sospensione del provvedimento prefettizio in caso di ammissione del controllo. 8. Il Collegio non condivide le conclusioni della Procura generale, risultando di contro pienamente fondati i rilievi contenuti nei primi due collegati ed assorbenti motivi di ricorso proposti dalla difesa. In generale, va subito detto che, in ordine al rapporto tra questi due sottosistemi, e' pacifico in giurisprudenza che il diniego di iscrizione nella white list costituisce una determinazione conseguente e di natura vincolata rispetto alla misura interdittiva antimafia, tanto che non occorre la previa comunicazione del preavviso di rigetto previsto dall'articolo 10-bis, L. n. 241 del 1990; e' altrettanto pacifico che l'iscrizione nella white Iist e' ricollegata ad un'attivita' istruttoria della medesima tipologia e contenuto di quelle previste per le informative antimafia e, anche in questo caso, e' stabilita la necessita' di un aggiornamento periodico degli elementi che evidenziano tentativi di infiltrazione mafiosa, con conseguente sussistenza di un obbligo di provvedere, in capo all'Amministrazione, in ordine alla revisione di tali procedimenti. Detto orientamento ha trovato conferma anche in sede di giudizio di merito, laddove (Trib. Bologna Sez. Misure di prevenzione, decreto n. 14/20 dep. il 07/09/2020) si e' affermato che "... all'indirizzo giurisprudenziale piu' restrittivo, a tenore del quale le due situazioni non sarebbero equiparabili, giacche' l'istituto di cui all'articolo 34-bis, comma 6, cod. ant. sarebbe fattispecie eccezionale rispetto a quello di cui all'articolo 34-bis, comma 1, cod. ant., e pertanto sarebbe preclusa qualsiasi interpretazione analogica, deve preferirsi il contrapposto orientamento che valorizza l'identita' dei presupposti applicativi e degli effetti dell'interdittiva prefettizia e del diniego di rinnovo alla white list. Entrambi i provvedimenti, infatti, pur estrinsecandosi con mobilita' distinte, si fondano sulla sussistenza di un pericolo di infiltrazione e/o attivita' agevolativa dell'impresa nei confronti della criminalita' organizzata. In altre parole, l'informazione interdittiva antimafia accerta positivamente - seppure alla luce di un giudizio probabilistico - la presenza del pericolo menzionato; il provvedimento prefettizio, invece, formula un giudizio in termini negativi sulla insussistenza del pericolo di infiltrazione". Equiparazione che, come si e' detto, e' stata normativizzata dall'articolo 1, comma 52-bis L. n. 190/2012. E, una interpretazione che consente di dare una lettura coerente e sistematica a tutta la normativa antimafia, in una prospettiva costituzionalmente orientata che consenta il superamento di una contraddittorieta' intrinseca ed una irragionevole disparita' di trattamento, impone la parificazione delle due situazioni, ben potendosi riconoscere come il diniego di iscrizione all'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti maggiormente a rischio debba considerarsi produttivo dei medesimi effetti lesivi dell'interdittiva antimafia. Detta interpretazione, come evidenziato dalla difesa, e' stata accolta dalle stesse Prefetture con la finalita' di non aggravare il procedimento amministrativo con l'adozione di diversi provvedimenti con identico contenuto. La stessa difesa, in sede di merito, ha depositato un documento recante la comunicazione alla (OMISSIS) di avvio del procedimento di cancellazione dall'Albo dei gestori ambientali e il Ministero della Transizione Ecologica aveva informato che la Prefettura di Varese aveva effettuato un'interdittiva antimafia nei confronti della predetta societa' in data 4 marzo 2021: e, detta interdittiva, altro non e' che il diniego opposto al rinnovo dell'iscrizione nella white list, adottato in pari data. 9. Il provvedimento impugnato viene censurato anche perche' i giudici d'appello, dopo aver riconosciuto il paradosso che si verrebbe a creare concedendo la misura richiesta nei casi di interdittiva antimafia e negandola nei casi di diniego dell'iscrizione nella white list, con un evidente salto logico, ricollegandosi al provvedimento di prime cure, affermano apoditticamente che, mancando il presupposto costituito dall'interdittiva, la misura non sia applicabile. Invero, ferme le considerazioni che precedono sulla sovrapponibilita' dei due sottosistemi, rileva il Collegio come la Corte territoriale, notiziata della pendenza del giudizio amministrativo (il ricorso cautelare della (OMISSIS) avverso il diniego di rinnovo di iscrizione risulta essere stato respinto dal Tar territorialmente competente con ordinanza n. 476/2021 e l'udienza per il giudizio di merito non e' stata ancora fissata, con conseguente verificata pendenza del giudizio), abbia del tutto omesso di motivare sulla ricorrenza dei presupposti normativi di cui all'articolo 34-bis Decreto Legislativo n. 159 del 2011, necessariamente comprensivi della occasionalita' dell'agevolazione dei soggetti pericolosi. Come evidenziato dalle Sez. U, n. 46898 del 26/09/2019, Ricchiuto, cit., nel caso di controllo giudiziario richiesto dalla parte privata che sia stata raggiunta da interdittiva antimafia, l'accertamento rimesso al Tribunale si connota in modo specifico, atteso che anche la domanda presentata dalla parte privata ai sensi del comma 6 rappresenta una richiesta di applicazione di una misura di prevenzione. In sostanza, l'impresa liberamente operante sul mercato a seguito dell'interdittiva sceglie di affidarsi al Tribunale della prevenzione al fine di gestire e proseguire la propria attivita' nell'ambito di una efficace vigilanza prescrittiva dell'azienda da parte del commissario nominato dal Tribunale. Si e' quindi evidenziato come sia certamente rilevante la considerazione del presupposto relativo all'occasionalita' della agevolazione di soggetti pericolosi, ma pur tuttavia "il fuoco dell'attenzione e quindi del risultato di analisi deve essere posto non solo su tale pre-requisito, quanto piuttosto, valorizzando le caratteristiche strutturali del presupposto verificato, sulle concrete possibilita' che la singola realta' aziendale ha o meno di compiere fruttuosamente il cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano, anche avvalendosi dei controlli e delle sollecitazioni che il giudice delegato puo' rivolgere nel guidare la impresa infiltrata. L'accertamento dello stato di condizionamento e di infiltrazione non puo', cioe', essere soltanto funzionale a fotografare lo stato attuale di pericolosita' oggettiva in cui versi la realta' aziendale a causa delle relazioni esterne patologiche, quanto piuttosto a comprendere e a prevedere le potenzialita' che quella realta' ha di affrancarsene seguendo l'iter che la misura alternativa comporta". La giurisprudenza di legittimita' successiva ha ulteriormente specificato come la necessita' che la valutazione relativa alla sussistenza o meno di un'infiltrazione connotata da occasionalita' "non sia finalizzata all'acquisizione di un dato statico - consistente nella cristallizzazione della realta' preesistente: una mera fotografia del passato - bensi' all'argomentata formulazione di un giudizio prognostico circa l'emendabilita' della situazione rilevata, connotata da condizionamento e/o agevolazione di soggetti o associazioni criminali, mediante l'intera gamma di strumenti previsti dall'articolo 34-bis" (Sez. 6, n. 1590 del 14/10/2020, Senesi S.p.a., Rv. 280341). 10. Di fatto, l'argomentazione del giudice di appello si e' caratterizzata per una ricostruzione, certamente analitica, della posizione giudiziaria di (OMISSIS) (v. pagg. 1 e 2 del provvedimento impugnato), per poi concludere ritenendo che "nessuna dimostrazione la ricorrente ha fornito relativamente al distacco dagli interessi familiari e relazionali posti in essere da (OMISSIS) e della possibilita' della societa' di poter agire sul mercato indipendentemente da essi. Ebbene, da un lato, l'opacita' e la poca trasparenza nelle vere figure di riferimento della societa', soprattutto per quanto concerne la posizione di (OMISSIS) quale amministratrice e, dall'altro, lo sviluppo delle attivita' economiche che avevano visto protagonista il marito, disinvoltamente transitato, sempre all'interno della societa', prima come dipendente e poi come collaboratore, senza alcun vero distacco dalle sue precedenti esperienze, non rendono attuabile in via prospettica il controllo richiesto in relazione alle finalita' dell'istituto". In realta', non e' stata, invece, in alcun modo affrontata, risultando sul punto del tutto assente la motivazione, la valutazione relativa al giudizio prognostico di cui si e' detto quanto alle concrete possibilita' che la singola realta' aziendale, indipendentemente dal ruolo e dalla figura del (OMISSIS) e dalle sue "influenze" societarie, ha o meno di compiere fruttuosamente il cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano, anche avvalendosi dei controlli e delle sollecitazioni che il giudice delegato puo' rivolgere nel guidare la impresa infiltrata. La Corte territoriale ha, pertanto, omesso qualsiasi considerazione relativa al progetto di gestione e della compagine societaria che erano state considerate invece criticamente dal Tribunale, al fine di escludere la possibilita' di accedere alla misura di cui all'articolo 34-bis del Decreto Legislativo n. 159 del 2011. Risulta conseguentemente omessa la motivazione, sul punto necessaria, in ordine alla natura occasionale o meno dell'infiltrazione mafiosa e la valutazione relativa ad una eventuale prognosi favorevole quanto al possibile riallineamento dell'azienda nel circuito imprenditoriale sano (Sez. 6, n. 1590 del 14/10/2020, Senesi, cit.), in base alla valutazione, in concreto, e non vincolata da alcun automatismo, del giudice della prevenzione (cfr., Sez. 2, n. 22083 del 20/05/2021, Imprecoge S.r.l., Rv. 281450; Sez. 5, n. 13388 del 17/12/2020, Societa' Costruzioni S.r.l., Rv. 280851). 11. Da qui l'annullamento del decreto impugnato con rinvio alla stessa sezione della Corte di appello di Milano - in diversa composizione - per nuovo giudizio che dovra' tener conto dei principi di diritto sopra espressi. P.Q.M. Annulla il decreto impugnato con rinvio alla stessa sezione della Corte di appello di Milano - in diversa composizione - per nuovo giudizio.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. RAMACCI Luca - Presidente Dott. ACETO Aldo - Consigliere Dott. GENTILI Andrea - Consigliere Dott. SCARCELLA Alessio - rel. Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro M - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI TERAMO; nei confronti di: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso l'ordinanza del 14/04/2022 del TRIB. LIBERTA' di TERAMO; udita la relazione svolta dal Consigliere ALESSIO SCARCELLA; lette le conclusioni del PG PASQUALE FIMIANI, che ha concluso per l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata; lette le memorie difensive dell'Avv. (OMISSIS), con cui, in replica al ricorso del Pubblico Ministero ed alle conclusioni scritte del PG, ha chiesto il rigetto del ricorso e la conferma del provvedimento impugnato. RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza 14.04.2022, il tribunale del riesame di Teramo ha accolto il ricorso proposto nell'interesse di (OMISSIS), quale legale rappresentante della soc. (OMISSIS) s.n.c. avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP/Tribunale di Teramo in data 18.03.2022 avente ad oggetto le opere ricadenti in area demaniale marittima senza valido titolo autorizzatorio, il tutto presso il ristorante pub ad insegna "(OMISSIS)" di proprieta' della predetta societa', e nelle sue aree di pertinenza, corrente in (OMISSIS). 2. Avverso l'ordinanza impugnata nel presente procedimento, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Teramo propone ricorso per cassazione, deducendo un unico ed articolato motivo, di seguito sommariamente indicato. 2.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all'articolo 1161 c.n. In sintesi, il ricorso evidenzia come la concessione demaniale marittima denominata "(OMISSIS)" risultava in capo alla societa' dell'indagato in forza del titolo rilasciatogli in data 18.03.2002, titolo che, rilasciato per la durata di sei anni, aveva una validita' dal 1.01.2002 al 31.12.2007. Nel predetto titolo concessorio era presente la clausola di rinnovo automatico in forza del Decreto Legge 400 del 1993 articolo 1, comma 2, conv. con modd. in L. 494 del 1993, come sostituito dall'articolo 10, L. n. 88 del 2001. Al punto 10 delle condizioni indicate nella concessione demaniale in questione veniva specificato che il tacito rinnovo della concessione in questione era subordinato al pagamento dei canoni e al versamento dei depositi cauzionali entro il termine stabilito, a pena di decadenza e con l'onere di sgombero e riconsegna. Orbene, rileva il PM ricorrente che dalle indagini svolte e' emerso che il canone del 2009 non risultava pagato e lo stesso risultava essere stato richiesto dall'autorita' competente alla ditta concessionaria con nota 1.09.2009. Ne consegue, quindi, che deve escludersi che possa essersi verificato il tacito rinnovo della concessione demaniale in questione, atteso che il pagamento del canone del 2009 aveva impedito il rinnovo della concessione demaniale in questione, donde la stessa e' da ritenersi spirata prima dell'entrata in vigore delle norme che hanno introdotto il regime delle proroghe tacite delle concessioni demaniali marittime turistico - ricreative, di cui all'articolo 18, Decreto Legge 194 del 2009, conv. con modd. in L. 25 del 2010, e successive modifiche ed integrazioni, dovendosi pertanto ritenere fondata l'occupazione arbitraria in totale carenza di un valido titolo demaniale marittimo. Il tribunale, dunque, aderendo alla tesi difensiva proposta in sede di riesame, non avrebbe adeguatamente effettuato quell'indispensabile attivita' critica che avrebbe dovuto essere svolta. A tal fine, il PM ricorrente, dopo aver operato un'ampia e dettagliata ricognizione normativa e giurisprudenziale sul tema delle proroghe tacite delle concessioni demaniali marittime, osserva come il tribunale del riesame avrebbe errato nel configurare il rinnovo automatico come una vera e propria protrazione del medesimo rapporto concessorio, senza soluzione di continuita', essendo giunto a tale soluzione senza analizzare i presupposti dell'istituto del rinnovo, insistendo sull'assunto che, rinnovata automaticamente, la concessione demaniale in questione sarebbe stata prorogata. In altri termini, sarebbe stato erroneamente applicato il principio secondo cui, in sede di proroga, e non quindi in sede di rinnovo alla data della scadenza del 31.12.2007, vi fosse l'esonero dell'Amministrazione dall'istruire qualsiasi procedimento di rinnovo, nonche' l'esonero di attivita' istruttorie finalizzate a qualsiasi accertamento di carattere ammi-nistrativo/finanziario, anche in relazione alla pretesa correttezza del concessionario nel pagamento dei canoni concessori dovuti. Diversamente, ribadisce il PM ricorrente, nel caso in esame non sussisterebbero le condizioni del c.d. rinnovo automatico, attesa l'assenza dei requisiti richiesti dalla normativa, tra cui la regolarita' della corresponsione dei canoni dovuti alla data di scadenza, nonche' la sottoscrizione e registrazione di un titolo valido, che ove esistente e regolarmente formalizzato, avrebbe eventualmente dato accesso al regime di proroga. Sul punto, evidenzia come la regione Abruzzo, ufficio demanio marittimo, con nota 9.02.2021 aveva evidenziato che la societa' riferibile all'indagato non aveva effettuato il pagamento dei canoni demaniali marittimi dal 2009 ad oggi, per una somma totale di quasi 364.000 Euro, senza nemmeno pagare le imposte regionali, pari al 10% del canone, per una somma di poco inferiore ai 42.000 Euro. Operata, infine, una puntualizzazione sulle differenze tra "proroga" e "rinnovo", in cui si anniderebbe l'errore dei giudici del riesame, ribadisce il PM che detta tesi sarebbe stata suffragata anche da plurime decisioni del giudice amministrativo, richiamando quattro sentenze del Consiglio di Stato pronunciate in data 3.12.2018 e riguardanti l'accoglimento di ricorsi in appello promossi proprio dall'Agenzia del Demanio di Pescara contro le opposizioni proposte rispettivamente da altrettanti stabilimenti balneari del teramano. Di conseguenza, nessun procedimento amministrativo preordinato alla decadenza della concessione avrebbe dovuto essere instaurato dalla Regione Abruzzo, in quanto il descritto istituto cadu-catorio presuppone la sussistenza di un rapporto giuridico valido ed efficace e non, come nel caso in esame, una situazione scaduta e quindi definitivamente esaurita. Da ultimo, infine, si duole il PM ricorrente per aver i giudici del riesame operato un distinguo delle difformita' edilizie accertate in sede di ispezione demaniale alla concessione, parte delle quali derubricata ad innovazioni anziche' ad abusi, atteso che, diversamente, la prospettazione accusatoria sarebbe confermata dalla circostanza per la quale, in assenza di un provvedimento mai formalmente rinnovatosi, e quindi mai prorogato di validita', permarrebbe la piena operativita' del reato di cui all'articolo 1161 c.n., nei termini dell'abusiva occupazione dell'intera area assentita in concessione, illecito penale posto a base del carattere permanente della fattispecie e del requisito del periculum in mora ravvisato dal GIP, dovendosi in ultima analisi ritenere che il periculum risulterebbe in re ipsa. Sarebbe, conseguentemente, superato il dubbio espresso dal Tribunale circa la maggiore occupazione della superficie demaniale (1610 mq. anziche' 1530 mq.) condizione che da sola aveva determinato il tribunale a disporre l'annullamento del decreto di sequestro, atteso che l'indagato dal 2009 non aveva effettuato alcun pagamento dei canoni demaniali, e che l'ultimo titolo concessorio demaniale marittimo rilasciato era quello scaduto il 31.12.2007. Erroneamente, pertanto, i giudici del riesame avrebbero ritenuto insussistenti le esigenze cautelari solo in ragione dell'incerta perimetrazione delle maggiori aree occupate, trascurando invece le occupazioni del demanio marittimo constatate dalla PG e contestate nel capo b) dalla lettera b) alla lettera k). 3. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato in data 28.11.2022 la propria requisitoria scritta con cui ha insistito per l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata. In particolare, il P.G. ha evidenziato: (a) che e' ormai consolidato l'orientamento di legittimita' il quale, partendo dalle pronunce della Corte Costituzionale (sentenze n. 213 del 2011, n. 340 del 2010, n. 233 del 2010 e n. 180 del 2010), ha affermato che le disposizioni che prevedono proroghe automatiche di concessioni demaniali marittime violano l'articolo 117 Cost., comma 1, per contrasto con i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario in tema di diritto di stabilimento e di tutela della concorrenza (c.d. Direttiva Bolkestein), con conseguente obbligo di disapplicazione delle norme (nazionali o regionali) che prevedono taciti rinnovi delle concessioni per il periodo in cui sono state in vigore, e relativa caducazione di tali taciti rinnovi in ragione del venire meno del presupposto normativo su cui si fondavano (in argomento, anche Sez. 3, sentenza n. 7267 del 09/01/2014 - dep. 14/02/2014, Granata e altri, Rv. 259294 - 01, secondo cui dalla immediata operativita' della direttiva CE sopra indicata consegue la disapplicazione del Decreto Legge n. 400 del 1993, come conv. e succ. modif., con l'effetto che le concessioni demaniali che scadevano il 31.12.2007, quale e' quella di specie, non potevano essere piu' prorogate automaticamente); (b) che la proroga legale dei termini di durata delle concessioni, prevista dall'articolo 1, comma 18, Decreto Legge n. 30 dicembre 2009, n. 194 (conv. in L. 26 febbraio 2010, n. 25), la quale, se applicabile alla concreta fattispecie, esclude la configurabilita' del reato di cui all'articolo 1161 c.n., presuppone la titolarita' di un provvedimento concessorio valido ed efficace ed opera solo per gli atti ampliativi successivi all'entrata in vigore del medesimo Decreto Legge n. 194 del 2009 (su cui si richiama anche Sez. 3, sentenza n. 29763 del 26/03/2014 - dep. 08/07/2014, Di Francia, Rv. 260108 - 01; succ. conformi, da ultimo, Sez. 3, sentenza n. 15676 del 13/04/2022 - dep. 22/04/2022, Galli, n. m.), mentre nella specie, al momento di entrata in vigore dell'articolo 1 citato, la concessione demaniale de qua era gia' scaduta, non operando cosi' il regime di rinnovo automatico; (c) il dictum di Sez. 3, sentenza n. 29105 del 16/09/2020 - dep. 21/10/2020, Longino, n. m., relativa ad analoga vicenda, peraltro nella stessa zona demaniale. 4. In data 21.10.2022 l'Avv. (OMISSIS), nell'interesse dell'indagato, ha fatto pervenire memoria difensiva, con cui, in replica al ricorso del Pubblico Ministero, ha chiesto il rigetto del ricorso e la conferma del provvedimento impugnato. Con successiva memoria datata 2.12.2022, il predetto difensore, in replica alla requisitoria scritta del PG, ha insistito per il rigetto del ricorso del PM. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso - in assenza di richiesta di discussione orale, trattato ai sensi dell'articolo 23, Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, e successive modifiche ed integrazioni e' fondato. 2. Al fine di meglio chiarire le ragioni che hanno determinato il Collegio a tale soluzione, e' utile ripercorrere, sebbene sinteticamente, la vicenda storico processuale al medesimo sottesa. 3. Il 9.02.2021 l'Ufficio Demanio Marittimo della Giunta Regionale abruzzese, Dipartimento Territorio - Ambiente, Servizio Pianificazione territoriale e Paesaggio segnalava alcune criticita' relative alla concessione demaniale accordata alla societa' " (OMISSIS) s.n.c.", di cui e' legale rappresentante l'indagato. In tale nota si rappresentava l'emersione, a seguito di alcuni sopralluoghi eseguiti negli anni 1997 e 2008, di tutta una serie di manufatti, abusivamente realizzati e connessi funzionalmente alla concessione in questione, e si disponeva la rettifica dei canoni demaniali in ragione dell'effettiva consistenza riscontrata. La nota veniva, poi, inoltrata all'Ufficio Circondariale Marittimo - Guardia Costiera di (OMISSIS), a sua volta richiesto di eseguire ulteriori accertamenti sulla regolarita' delle opere e sulla tempestivita' dei versamenti degli oneri concessori. In sede di attivita' compiuta in data 11.11.2021, la societa' dell'indagato non era in grado di esibire il titolo concessorio in corso di validita'; l'indagato negava di aver ricevuto solleciti di pagamento di canoni relativi alla concessione demaniale e non presentava documentazione inerente all'avvenuto pagamento delle imposte regionali dovute. A questo punto, l'Agenzia del Demanio di Pescara rimetteva una nota con cui evidenziava il mancato pagamento dei canoni demaniali dovuti per la concessione a partire dal 2009. Veniva, peraltro, acquisita ulteriore documentazione inerente al titolo concessorio demaniale, che veniva identificato nella concessione n. 29/2002 rilasciata dalla Capitaneria di Porto di Pescara. Tale concessione aveva una durata di sei anni, come previsto dal Decreto Legge n. 400 del 1993 articolo 1, comma 2, (poi abrogato dall'articolo 1, comma 1, lettera a), L. n. 217/2011 al dichiarato fine di favorire la rapida e favorevole definizione di procedure d'infrazione a carico dello Stato avviate dalla Commissione Europea). Il personale dell'Agenzia del Demanio, Direzione Regionale Abruzzo e Molise intraprendeva un'attivita' ispettiva nell'ambito della quale veniva esaminata la documentazione tecnico-amministrativa, veniva avviato il contraddittorio con l'indagato, e veniva espletato un sopralluogo sempre in data 11.11.2021: in questo contesto venivano acquisiti i titoli edilizi che assentivano gli interventi eseguiti sul compendio immobiliare oggetto di concessione (ossia dell'autorizzazione edilizia n. 114 del 12.09.1984, n. 103 del 04/05/1987, n. 384 del 16/06/1987 e n. 199 del 21/07/1987). All'esito dei rilievi venivano accertate: 1) attivita' di rilevanza edilizia poste in essere in assenza o in difformita' ai titoli edilizi (per cui si veda il capo a) d'imputazione); 2) rilevanti scostamenti dal titolo concessorio, ritenuto scaduto, quanto all'effettiva occupazione di spazi demaniali. In conseguenza di cio', in data 18.03.2022, il G.I.P. presso il Tribunale di Teramo disponeva il sequestro preventivo del ristorante/pub, con aree di pertinenza, ritenendo sussistente il fumus boni iuris in relazione ad entrambi i reati contestati in via provvisoria all'indagato. Quanto al capo a) della rubrica (reato p. e p. dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 e s.m.i. articolo 35, 44 lettera c), Decreto Legislativo n. 42 del 2004 e s.m.i. articolo 142, comma 1 lettera a), articolo 146, commi 1 e 2, articolo 181, comma 1-bis lettera A)), risultava, infatti, essere stata accertata, in sede di sopralluogo presso i locali in uso all'impresa dell'indagato, la realizzazione di tutta una serie di opere, vuoi in totale difformita' dai titoli edilizi, vuoi in totale carenza degli stessi, da identificare, in ragione della natura demaniale del bene immobile destinato ad ospitare le opere, nel permesso a costruire. Quanto al capo b) della rubrica (reato p. e p. dagli articoli 54, 1161, comma 1, Regio Decreto n. 327/1942 - Codice della Navigazione), anche in questo caso (dopo aver operato una sintetica rassegna delle principali disposizioni e pronunce in materia) venivano ritenuti sussistenti gli elementi del fumus boni iuris in relazione al reato di occupazione arbitraria, poiche' avente ad oggetto superficie maggiore di quella assentita dai titoli demaniali e poiche' discendente da "innovazioni non consentite" ai sensi dell'articolo 1161 codice navale idonee a determinare un ampliamento dell'occupazione (risultando, infatti, che la concessione in favore dell'indagato consentiva l'occupazione di una superficie totale massima di 1530 mq, a fronte dell'effettiva occupazione di 1610 mq, in ragione evidentemente delle innovazioni non consentite). Infine, veniva ritenuto sussistente anche il periculum in mora, dato che "la realizzazione di numerosi interventi edilizi sine titulo, l'ampliamento per le vie di fatto dell'oggetto della concessione e l'omissione di pagamenti dei canoni concessori per vari anni (...) consentivano di ritenere assai probabile l'aggravamento delle conseguenze dell'illecito penale" (pag. 3 decreto di sequestro G.I.P. Teramo). In data 31.03.2022, l'indagato interponeva istanza di riesame avverso il provvedimento di sequestro, chiedendo in via principale l'annullamento del decreto di sequestro preventivo del 18.03.2022 oppure, in via subordinata, la sostituzione della misura con altra meno onerosa (sostenendosi peraltro, a pag. 12, come vi fosse una differenza tra la volumetria concessa, pari a 1530 mq, e quella effettivamente occupata, pari a 1610 mq). Erano due i motivi di riesame: il primo concernente l'asserita insussistenza del fumus boni iuris della misura cautelare reale (peraltro sollevando la questione relativa alla prescrizione dell'illecito di cui al capo a) di imputazione); il secondo relativo all'insussistenza del periculum in mora, indefettibile ai fini dell'adozione del provvedimento cautelare di sequestro preventivo. In data 14.04.2022, il Tribunale penale di Teramo, Sezione per il riesame nei provvedimenti di sequestro, accoglieva il ricorso e revocava il sequestro preventivo in essere (definitivamente disponendo il dissequestro lo stesso 14.04.2022, come da verbale di dissequestro ex articolo 263 c.p.p.). Difatti, richiamando l'impostazione e le argomentazioni difensive, il Giudice del Riesame affermava di non ritenere sussistente il fumus boni iuris che aveva portato all'emissione della misura da parte del G.I.P. in quanto, ai fini del rinnovo della concessione, non erano necessari gli incombenti di cui parlava l'accusa a carico dell'indagato, non sussistendo in definitiva il reato di occupazione arbitraria posta in totale carenza di titolo demaniale. Nessun argomento veniva speso in punto di periculum in mora e, conclusivamente, veniva operato un incerto riferimento a come "non sia possibile allo stato dei fatti determinare e circostanziare l'area che e' abusivamente occupata" (pag. 4 ord. Riesame Trib. Teramo). 4. Tanto premesso, puo' quindi procedersi nell'esame del ricorso del Procuratore della Repubblica che, come anticipato, e' fondato. 5. In punto di fatto, innanzitutto merita ricordare che la concessione demaniale marittima denominata "(OMISSIS)", presente nel Comune di (OMISSIS) ed oggetto del ricorso, risultava in Capo alla Ditta " (OMISSIS) s.n.c." di (OMISSIS) in forza del titolo concessorio n. 29 - Rep. 29710 in data 18.03.2002, redatto ai sensi del Codice della Navigazione e del relativo Regolamento, nonche' a quanto prescritto dalla L. n. 88/2001, che prevedeva da quattro a sei anni la durata dei titoli concessori. Di fatto, dunque, il titolo risultava rilasciato per la durata di sei anni, dal 01.01.2002 al 31.12.2007 (con la clausola secondo cui "alla scadenza si rinnova automaticamente per altri sei anni e cosi' successivamente ad ogni scadenza, salvo diverso provvedimento di revoca da parte dell'Amministrazione concedente ex articolo 42 del codice navale ovvero di decadenza ex articolo 47 del c.n., fermo restando il pagamento della tassa di registrazione da richiedersi a cura della medesima Amministrazione"), e la clausola di "rinnovo automatico della concessione demaniale marittima" sopra indicata veniva redatta nel titolo in forza dell'articolo 1, comma 2 del Decreto Legge n. 400/1993, poi sostituito dall'articolo 10 della L. n. 88/2001 (dall'esame del testo della concessione, peraltro, risultano le seguenti annotazioni: "Si rilascia la presente licenza subordinata oltre che alle discipline doganali e di pubblica sicurezza alle condizioni che seguono:", al cui successivo punto 10 si rileva che "il tacito rinnovo della presente concessione e' comunque subordinato al pagamento dei canoni ed al versamento dei depositi cauzionali entro il termine stabilito, sempre sotto pena di decadenza e con l'onere di sgombero e riconsegna di cui alle condizioni precitate"). Dall'attivita' di P.G. svolta, tuttavia, si rilevava che il canone del 2009 non risultava pagato e lo stesso risultava essere stato richiesto dall'Autorita' competente alla ditta concessionaria sopra indicata con nota protocollo n. 437/DE3 del 09.01.2009. Pertanto, a fronte di tale clausola ed al mancato pagamento del canone 2009, deve escludersi che possa considerarsi tacitamente rinnovata la concessione demaniale marittima in questione, oltre al fatto che non vi e' evidenza dei depositi cauzionali eseguiti ai fini del rinnovo della concessione demaniale. Quindi, se il mancato pagamento del canone 2009 ha impedito il rinnovo della concessione demaniale, la stessa e' da considerarsi spirata prima del regime normativo che stabilisce le tacite proroghe delle concessioni demaniali marittime turistico ricreative, disposta dall'articolo 18 del Decreto Legge n. 194/2009, convertito in L. n. 25/2010, dovendosi ritenere fondata l'arbitraria occupazione in totale carenza di un valido titolo demaniale marittimo. 6. In merito alla durata delle concessioni demaniali marittime, l'articolo 10, comma 1, L. n. 88 del 2001 ha introdotto il principio del c.d. "rinnovo automatico" di sei anni in sei anni alla scadenza del titolo concessorio e, contestualmente, l'articolo 37 del Codice della Navigazione, come modificato dal Decreto Legge n. 400 del 1993 ha enunciato il "diritto di insistenza" dei concessionari sui beni oggetto della concessione, stabilendo che in sede di rinnovo delle stesse, dovesse esser accordata preferenza al precedente concessionario. La disciplina normativa fin qui esaminata e' stata poi oggetto di attenzione da parte del Legislatore, il quale, in sede di approvazione della Legge Finanziaria 2007 (L. n. 296 del 2006) ha modificato l'articolo 3 del Decreto Legge n. 400 del 1993, tramite l'inserimento del comma 4-bis, che prevede la possibilita' di essere titolari di concessioni demaniali marittime per una durata non inferiore a 6 anni e non superiore a 20 anni "in ragione dell'entita' e della rilevanza economica delle opere da realizzare e sulla base dei piani di utilizzazione delle aree del demanio marittimo predisposti dalle Regioni" (articolo 1, comma 253). L'impianto normativo italiano pocanzi esaminato ha dovuto uniformarsi alla pronuncia della direttiva comunitaria del 12.12.2006 n. 2006/123/CE - Bolkestein, che (in particolare, ai §§ 1-2, articolo 12) ha ritenuto che nel comparto servizio-turismo la modalita' di assegnazione della concessione demaniale marittima debba essere assoggettata a gara, con la conseguente applicazione delle norme che sovrintendono le procedure ad evidenza pubblica. Lo strappo con il diritto comunitario e' divenuto cosi' inevitabile e nel 2008 la Commissione Europea, nel verificare il rispetto della Direttiva da parte dello Stato italiano, rilevata l'incompatibilita' con i principi in essa contenuti delle disposizioni rinvenibili nel Codice della Navigazione e del Decreto Legge n. 400/1993, attinenti il diritto di insistenza, ha formalmente ammonito l'Italia con la procedura d'infrazione n. 2008/4908, intimando la revisione dell'ordinamento giuridico interno al fine di armonizzare le disposizioni normative nazionali ai principi comunitari. Sul punto sono anche intervenute diverse pronunce della Giustizia Amministrativa (ex multis, Cons. St., 25.09.2009, n. 5765), che hanno affermato il principio giuridico in base al quale "alle concessioni di beni pubblici di rilevanza economica (specificamente le concessioni demaniali marittime), poiche' idonee a fornire una situazione di guadagno a soggetti operanti nel libero mercato, devono applicarsi i principi discendenti dall'articolo 81 del Trattato UE e dalle Direttive comunitarie in materia di appalti, quali quelli della loro necessaria attribuzione mediante procedure concorsuali, trasparenti, non discriminatorie, nonche' tali da assicurare la parita' di trattamento ai partecipanti" (TAR Campania, Napoli, Sez. VII, n. 3828/2009; occorrendo anche nell'assegnazione di un bene demaniale l'individuazione del soggetto maggiormente idoneo a consentire il perseguimento dell'interesse pubblico, garantendo a tutti gli operatori economici una parita' di possibilita' di accesso all'utilizzazione dei beni demaniali, sic TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 23.04.2010, n. 2085). Rebus sic stantibus, il Legislatore italiano e' intervenuto con il Decreto Legge n. 194 del 2009, convertito con L. n. 25/2010, il cui articolo 1, comma 18, ha abrogato il comma 2 dell'articolo 37 del c.n., disciplinante il "diritto di insistenza" e, contestualmente, disponendo una proroga sino al 31.12.2015 della scadenza di tutte le concessioni in essere alla data di entrata in vigore del decreto. Tale emendamento ha poi comportato l'apertura di una seconda procedura di infrazione comunitaria (la n. 2010/2734), legata al permanere della disposizione relativa al rinnovo automatico delle concessioni gia' esistenti. 7. Orbene, il Tribunale, aderendo sostanzialmente ai contenuti dell'istanza di riesame datata 31.03.2022, depositata dalla difesa dell'indagato in sede di riesame, non risulta aver adeguatamente effettuato quella indispensabile attivita' critica che doveva ineludibilmente essere operata nel caso di specie, se solo si considera che il richiamato giudizio si rivelava evidentemente incentrato su un taglio interpretativo della norma pro-assistito, che, sebbene offrisse un apprezzabile quadro generale della disciplina generale della materia trattata, trascurava alcuni passaggi critici indispensabili per delineare la corretta soluzione. Occorre, infatti, rilevare come il Collegio adito configuri il rinnovo automatico (il primo istituto in ordine cronologico reputato sussistente che, solo al suo concretizzarsi, avrebbe poi legittimato le successive proroghe riconosciute ai titoli concessori) come una vera e propria protrazione del medesimo rapporto conces-sorio, senza soluzione di continuita'. Tuttavia, tale conclusione e' offerta a fondamento della motivazione dell'ordinanza impugnata senza analizzare in alcuna maniera i presupposti dell'istituto del rinnovo, insistendo ulteriormente sull'assunto che, rinnovata automaticamente, la concessione in esame sia stata prorogata, con cio' richiamando il principio secondo cui in sede di proroga - e non di rinnovo (alla data della scadenza al 31.12.2007) - sussistessero i presupposti per l'esonero dell'Amministrazione dall'istruire qualsiasi procedimento di rinnovo, nonche' per l'esonero di attivita' istruttorie finalizzate a qualsivoglia accertamenti di carattere amministrativo/finanziario, anche in relazione alla pretesa correttezza del concessionario nel pagamento dei canoni concessori dovuti. Nel caso in esame, tuttavia, non sussistono le condizioni del c.d. rinnovo automatico, stante l'assenza dei presupposti richiesti dalla normativa; tra questi, proprio la regolarita' nella corresponsione dei canoni dovuti alla data di scadenza, nonche' la sottoscrizione e registrazione di un titolo valido che, qualora esistente e regolarmente formalizzato, avrebbe eventualmente dato in seguito accesso al regime di proroga. E invero, per il perfezionamento del citato iter procedimentale di rinnovo, la Regione Abruzzo e' tenuta, ineludibilmente, a riscontrare l'avvenuto pagamento dei canoni dovuti. Conformemente a tali disposizioni normative, la Regione Abruzzo - Servizio di Pianificazione Territoriale e Paesaggio - Ufficio Demanio Marittimo tramite la nota n. 48641 del 09.02.2021 evidenziava del resto che la societa' (OMISSIS) s.n.c. non aveva effettuato il pagamento dei canoni demaniali marittimi dell'anno 2009 ad oggi per una somma totale pari a Euro 363.915,17 e altresi' non aveva pagato le imposte regionali (10/0 del canone) per una somma totale pari a Euro 41.794,61. Nel caso di specie, invece, il mancato configurarsi di tali essenziali presupposti ha conseguentemente inibito la definizione del procedimento e, con esso, anche l'adozione e l'emanazione di un titolo concessorio valido, titolo che, qualora regolarmente formalizzato, avrebbe avuto poi accesso al gia' richiamato istituto della proroga. Infatti, sulla base della normativa richiamata, il distinguo tra l'istituto del rinnovo dell'atto concessorio e quello della mera proroga e' rappresentato dalla ineludibile circostanza che, mentre quest'ultima presuppone la continuazione di un rapporto in corso, il rinnovo, invece, incide, rivitalizzandolo, su un rapporto ormai esaurito. Perche' tale rivitalizzazione si concretizzi, non si puo' prescindere dal concretizzarsi degli estremi di una nuova concessione, che si sostituisce alla precedente gia' scaduta. In tal senso, si noti, anche alcune pronunce della giurisprudenza amministrativa riguardanti l'accoglimento di ricorsi in appello promossi proprio dall'Agenzia del Demanio di Pescara contro le opposizioni proposte dagli stabilimenti balneari del teramano (Cons. St., sentenze nn. 6850-6851-68526853/2018, tutte in data 03/12/2018). Di fatto, nella concreta fattispecie, nessun procedimento amministrativo, preordinato alla decadenza della concessione, doveva essere instaurato dalla Regione Abruzzo, in quanto tale istituto caducatorio presuppone inevitabilmente la sussistenza di un rapporto giuridico valido ed efficace e non, come in questo caso, una situazione gia' scaduta e, quindi, definitivamente esaurita. 8. Alla stregua di quanto sopra, poi, non rileva, a giudizio del Collegio, la questione relativa alla "proroga automatica" delle concessioni che, infatti, presuppone un titolo concessorio valido ed efficace e non, invece, un titolo scaduto, peraltro alla data del 31.12.2007, dunque antecedente alla normativa interna, succedutasi nel tempo (ossia Decreto Legge n. 194 del 2009articolo 1, comma 18, , che ha prorogato i termini di scadenza delle concessioni di beni demaniali marittimi con finalita' turistico - ricreative dapprima al 31.12.2015; successivamente, le modifiche apportate dal Decreto Legge n. 18 ottobre 2012, convertito nella L. 17 dicembre 2012, n. 221, sino al 31.12.2020 e, infine, per effetto dell'articolo 1, commi 682 e 683 della successiva L. n. 145/2018, sino al 31.12.2033), dichiarata incompatibile alla luce della Direttiva n. 2006/123/CE. Ed invero, va ricordato che Decreto Legge n. 400 del 1993articolo 1, comma 2, , abrogato dal L. 15 dicembre 2011, n. 217 articolo 11, comma 1, (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunita' Europee Legge comunitaria 2010) stabiliva che "le concessioni di cui al comma 1, indipendentemente dalla natura o dal tipo degli impianti previsti per lo svolgimento delle attivita', hanno durata di sei anni. Alla scadenza si rinnovano automaticamente per altri sei anni e cosi' successivamente ad ogni scadenza, fatto salvo l'articolo 42, comma 2, codice navale Le disposizioni del presente comma non si applicano alle concessioni rilasciate nell'ambito delle rispettive circoscrizioni territoriali dalle autorita' portuali di cui alla L. 28 gennaio 1994, n. 84". L'abrogazione di quella disposizione, come espressamente chiarito dalla L. n. 217 del 2011, che vi provvedeva, si era resa necessaria per chiudere la procedura di infrazione n. 2008/4908 avviata ai sensi dell'articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea e per rispondere all'esigenza degli operatori del mercato di usufruire di un quadro normativo stabile che, conformemente ai principi comunitari, consentisse lo sviluppo e l'innovazione dell'impresa turistico-balneare-ricreativa. L'instaurazione della procedura d'infrazione e la successiva abrogazione della norma erano conseguenza di un contrasto della normativa interna, oltre che con i principi del Trattato in tema di concorrenza e di liberta' di stabilimento, con la direttiva n. 2006/123/CE nella parte in cui, con l'articolo 12, comma 2, esclude il rinnovo automatico della concessione. 9. Conclusivamente, la concessione rilasciata alla 4G, con scadenza alla data del 31 dicembre 2007, non "esisteva" piu' al momento dell'entrata in vigore del Decreto Legge n. 194 del 2009 articolo 1, comma 18, , conv. in L. n. 25 del 2010, e come tale non poteva essere non solo oggetto di rinnovo (posto che il mancato pagamento del canone ex articolo 47, lettera d), c.n., ne comporta la decadenza, imponendo all'Amministrazione l'esercizio di un potere di discrezionalita' vincolata, con conseguente esclusione di ogni possibile bilanciamento tra l'interesse pubblico e le esigenze del privato concessionario: tra le tante, Cons. St., Sez. VI, n. 465 del 2 febbraio 2015) ne', tantomeno, oggetto di proroga. Sul punto, del resto, e' sufficiente in questa sede ricordare che in relazione allo svolgimento del rapporto concessorio conseguente al rilascio di una concessione demaniale marittima, la decadenza del concessionario per omesso pagamento del canone concessorio costituisce atto doveroso, unitamente alle altre ipotesi previste dall'articolo 47 del Codice della Navigazione, che (con l'esclusione della lettera f), che fa generico riferimento alla " inadempienza degli obblighi derivanti dalla concessione") rappresentano altrettante clausole risolutive espresse, integrate le quali la risoluzione opera di diritto (v., sul punto: Cass. civ., Sez. 2, sentenza n. 20854 del 02/10/2014, Rv. 632838 - 01), senza necessita' di provare la gravita' dell'inadempimento della controparte (T.A.R. Cagliari, Sardegna, sez. I, 18/09/2019, n. 746). La concessione demaniale in questione era scaduta e non prorogata ne' prorogabile; e cio' in quanto gia' Decreto Legge n. 30 dicembre 2009, n. 194, articolo 1, comma 18 conv. in L. 26 febbraio 2010, n. 25 prevedeva che il termine di durata delle concessioni "in essere" alla data di entrata in vigore del predetto decreto e in scadenza entro il 31 dicembre 2015 fosse prorogato fino al 31 dicembre 2020, con la logica conseguenza che la proroga dovesse intendersi come valevole solo per le concessioni "nuove" (nel senso di successive al Decreto Legge n. 194 del 2009 conv. in L. n. 25 del 2010) in quanto "in essere alla data di entrata in vigore del Decreto Legge n. 194 del 2009 e in scadenza" e tale non era la concessione originariamente emessa a favore della 4G (v., in senso conforme: Sez. 3, n. 29763 del 26/03/2014 - dep. 08/07/2014, Di Francia, Rv. 260108; Sez. 3, n. 32966 del 02/05/2013 - dep. 30/07/2013, Vita, Rv. 256411). Del tutto inconferente e' dunque il richiamo, da parte del Tribunale distrettuale e della difesa della 4G, dell'omessa attivazione, da parte dell'Amministrazione, del procedimento di decadenza dalla concessione per l'omesso pagamento del canone di concessione, di cui all'articolo 47, comma 1, lettera d), c.n., per l'assorbente ragione che, essendo la concessione scaduta, non era piu' in essere alcun rapporto giuridico tra l'amministrazione e la 4G. Ne', infine, risulta che la concessionaria abbia usufruito del c.d. condono balneare di cui all'articolo 100, di. 4 agosto 2020, n. 104, convertito con modificazioni dalla L. 13 ottobre 2020, n. 126. 10. Che, del resto, questa sia la conclusione corretta, era stato gia' affermato da questa stessa Sezione (Sez. 3, n. 29105 del 16 settembre 2020, dep. 21 ototbre 2020, PM in proc. Longino, n. m.). Va, infine, richiamata la giurisprudenza di legittimita' secondo cui il reato di abusiva occupazione di spazio demaniale marittimo si configura anche in caso di occupazione protrattasi oltre la scadenza del titolo, a nulla rilevando l'esistenza della pregressa concessione e la tempestiva presentazione dell'istanza di rinnovo (da ultimo: Sez. 3, n. 34622 del 22/06/2011 - dep. 23/09/2011, P.M. in proc. Barbieri, Rv. 250976), attesa la natura costitutiva del diritto e non meramente autorizzatoria del provvedimento amministrativo di concessione. 11. Da ultimo, ritiene il Collegio che parimenti non abbia rilievo l'articolo 3, comma 3, L. 5 agosto 2022, n. 118 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021, in G.U. n. 188 del 12-8-2022), in vigore dal 27/08/2022, che ha disciplinato l'annosa questione delle concessioni demaniali marittime all'articolo 3, introducendo un inciso al comma 3 che impedisce di ritenere configurabile, fino al 31.12.2023 o, in presenza delle condizioni ivi indicate, fino al 31.12.2024, il reato di cui all'articolo 1161 c.n. Tale disposizione, che proroga ex lege l'efficacia, fino alle predette date, delle concessioni indicate dalla lettera a) della medesima disposizione, subordina infatti la proroga "a tempo" dell'efficacia alla condizione che la concessione sia "in essere alla data di entrata in vigore della presente legge sulla base di proroghe o rinnovi disposti anche ai sensi della L. 30 dicembre 2018, n. 145, e del Decreto Legge 14 agosto 2020, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla L. 13 ottobre 2020, n. 126", con la conseguenza che tale disposizione non trova applicazione, invece, a quelle concessioni che non sono in essere alla data del 27.08.2022, ossia data di entrata in vigore della L. 118/2022. E' quindi lo stesso Legislatore a prevedere espressamente che tale "beneficio" non possa estendersi alle concessioni scadute, tra cui vi rientra quella in esame, soggetta si' a rinnovo automatico in forza della clausola n. 10, ma subordinatamente alla condizione del regolare pagamento dei canoni concessori, non corrisposti a far data dal 2009, come emerge dagli atti, donde la stessa da tale data era da considerarsi scaduta perche' decaduta ex articolo 47, comma 1, lettera d), c.n., con conseguente permanenza dell'abusiva occupazione dello spazio demaniale marittimo, integrante l'illecito di cui all'articolo 1161 c.n. 12. L'impugnata ordinanza dev'essere pertanto annullata per nuovo giudizio davanti al tribunale di Teramo. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Teramo competente ai sensi dell'articolo 324, comma 5, c.p.p.

Ricerca rapida tra migliaia di sentenze
Trova facilmente ciò che stai cercando in pochi istanti. La nostra vasta banca dati è costantemente aggiornata e ti consente di effettuare ricerche veloci e precise.
Trova il riferimento esatto della sentenza
Addio a filtri di ricerca complicati e interfacce difficili da navigare. Utilizza una singola barra di ricerca per trovare precisamente ciò che ti serve all'interno delle sentenze.
Prova il potente motore semantico
La ricerca semantica tiene conto del significato implicito delle parole, del contesto e delle relazioni tra i concetti per fornire risultati più accurati e pertinenti.
Tribunale Milano Tribunale Roma Tribunale Napoli Tribunale Torino Tribunale Palermo Tribunale Bari Tribunale Bergamo Tribunale Brescia Tribunale Cagliari Tribunale Catania Tribunale Chieti Tribunale Cremona Tribunale Firenze Tribunale Forlì Tribunale Benevento Tribunale Verbania Tribunale Cassino Tribunale Ferrara Tribunale Pistoia Tribunale Matera Tribunale Spoleto Tribunale Genova Tribunale La Spezia Tribunale Ivrea Tribunale Siracusa Tribunale Sassari Tribunale Savona Tribunale Lanciano Tribunale Lecce Tribunale Modena Tribunale Potenza Tribunale Avellino Tribunale Velletri Tribunale Monza Tribunale Piacenza Tribunale Pordenone Tribunale Prato Tribunale Reggio Calabria Tribunale Treviso Tribunale Lecco Tribunale Como Tribunale Reggio Emilia Tribunale Foggia Tribunale Messina Tribunale Rieti Tribunale Macerata Tribunale Civitavecchia Tribunale Pavia Tribunale Parma Tribunale Agrigento Tribunale Massa Carrara Tribunale Novara Tribunale Nocera Inferiore Tribunale Busto Arsizio Tribunale Ragusa Tribunale Pisa Tribunale Udine Tribunale Salerno Tribunale Verona Tribunale Venezia Tribunale Rovereto Tribunale Latina Tribunale Vicenza Tribunale Perugia Tribunale Brindisi Tribunale Mantova Tribunale Taranto Tribunale Biella Tribunale Gela Tribunale Caltanissetta Tribunale Teramo Tribunale Nola Tribunale Oristano Tribunale Rovigo Tribunale Tivoli Tribunale Viterbo Tribunale Castrovillari Tribunale Enna Tribunale Cosenza Tribunale Santa Maria Capua Vetere Tribunale Bologna Tribunale Imperia Tribunale Barcellona Pozzo di Gotto Tribunale Trento Tribunale Ravenna Tribunale Siena Tribunale Alessandria Tribunale Belluno Tribunale Frosinone Tribunale Avezzano Tribunale Padova Tribunale L'Aquila Tribunale Terni Tribunale Crotone Tribunale Trani Tribunale Vibo Valentia Tribunale Sulmona Tribunale Grosseto Tribunale Sondrio Tribunale Catanzaro Tribunale Ancona Tribunale Rimini Tribunale Pesaro Tribunale Locri Tribunale Vasto Tribunale Gorizia Tribunale Patti Tribunale Lucca Tribunale Urbino Tribunale Varese Tribunale Pescara Tribunale Aosta Tribunale Trapani Tribunale Marsala Tribunale Ascoli Piceno Tribunale Termini Imerese Tribunale Ortona Tribunale Lodi Tribunale Trieste Tribunale Campobasso

Un nuovo modo di esercitare la professione

Offriamo agli avvocati gli strumenti più efficienti e a costi contenuti.