Sentenze recenti Tribunale Amministrativo Regionale Sardegna

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 198 del 2023, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Ma. De. e Sa. Po., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Azienda Ospedaliero Un. di Ca., rappresentata e difesa dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Cagliari, domiciliata in Cagliari presso gli uffici della medesima, via (...); Regione Autonoma della Sardegna, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. Pa. e Fl. Is., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l'annullamento - della determinazione dell'Assessorato degli Affari Generali, Personale e Riforma della Regione n. -OMISSIS-, avente ad oggetto l'accertamento dei requisiti psico-fisici, approvazione elenco ammessi al corso di formazione degli agenti del corpo forestale, nella parte in cui non ricomprende il nome del ricorrente nel relativo elenco e lo include in quello - non conosciuto - degli inidonei, nonché, ove adottato, del provvedimento di esclusione del ricorrente; - del giudizio finale della Commissione medica dell'Azienda Ospedaliera Un. di Ca. del -OMISSIS-, recante giudizio di inidoneità alla prova medica; - nonché di tutti gli altri atti presupposti, inerenti e consequenziali, anche se non conosciuti, compresi gli eventuali verbali della Commissione Medica e il giudizio analitico; e per la condanna ex art. 30 c.p.a. dell'Amministrazione al risarcimento in forma specifica del danno subito dal ricorrente ordinando l'ammissione con riserva dello stesso al corso di formazione, avente una durata di 3 mesi o, in subordine, ordinando la verificazione ex artt. 19 e 66 c.p.a., ovvero consulenza tecnica d'ufficio ex art. 67 c.p.a, nonché, ove occorra e, comunque in via subordinata, al risarcimento del danno per perdita di chance e delle relative somme, con interessi e rivalutazione, come per legge. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Azienda Ospedaliero Un. di Ca. e della Regione Autonoma della Sardegna; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 maggio 2024 il dott. Tito Aru e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Il ricorrente ha partecipato al Concorso pubblico per esami per il reclutamento a tempo pieno e indeterminato n. 78 unità di personale da inquadrare nell'area A - Livello retributivo A1 - Agente del Corpo forestale e di vigilanza ambientale della Regione Autonoma della Sardegna, indetto con Determinazione n. 1894, prot. n. 34817, del 19 ottobre 2021. Dopo aver superato le prove di selezione (scritta e orale/pratica), ai sensi dell'art. 2 del bando, lett. m) disciplinante l'accertamento dei requisiti psico-fisici previsti dall'art. 12, comma 3, della L.R. 5 novembre 1985, n. 26, veniva sottoposto, ai fini dell'accertamento dei requisiti psico-fisici, ad un esame clinico generale e a prove strumentali e di laboratorio presso l'Azienda Ospedaliero Un. di Ca. (S.C. di Medicina del Lavoro), all'esito della quale, in data -OMISSIS-, veniva giudicato non idoneo dalla Commissione Medica, con la seguente motivazione: "ipotiroidismo e pancolite in trattamento Ministero dell'Interno D.M. 30/06/2003 n° 198 Capo II Tabella 1 punto 12 e 13b e punto 6.b.". Il ricorrente produceva in giudizio apposita documentazione medica attestante la totale assenza di pregiudizio sulla sua idoneità al lavoro a causa della riscontrata patologia. La relazione integrativa prodotta dall'Amministrazione confermava, invece, il giudizio di inidoneità del ricorrente in ragione esclusiva dell'accertata sussistenza di una condizione clinica riconducibile a diverse cause di esclusione previste dalla lex specialis. In particolare: - quanto all'ipotiroidismo alle "Sindromi dipendenti da alterata funzione delle ghiandole endocrine. Ministero dell'interno DM 30/06/2003 n. 198. Capo II Tabella 1 punto 12"; - quanto alla pregressa tiroidectomia per carcinoma papillare alla tiroide al punto 13.b, Tabella 1, del DM 30/06/2003 n. 198; - quanto al quadro di Pancolite ulcerosa al punto 6.b, Tabella 1, del DM 30/06/2003 n. 198. Con decreto presidenziale n. 57 del 17 marzo 2023, confermato con ordinanza collegiale n. 85 del 13 aprile 2023, l'istanza cautelare è stata accolta ai fini dell'ammissione con riserva del ricorrente al corso di formazione di cui all'art. 13 del bando di concorso, nonché agli esami tecnico-pratici da sostenere al termine del corso di formazione. Poiché nella documentazione medica versata in giudizio dal ricorrente - come detto - veniva certificata l'assenza di alcuna conseguenza di tali patologie sulla sua idoneità lavorativa, sicché le stesse non potrebbero rappresentare causa ostativa e di inidoneità psico-fisica all'impiego nel profilo oggetto della procedura concorsuale in questione, il Tribunale - con ordinanza n. 912 del 4 dicembre 2023 - riteneva opportuno disporre apposita verificazione, ai sensi degli art. 19 e 66 cod. proc. amm., finalizzata ad accertare: -- se la riscontrata alterata funzione delle ghiandole endocrine sia, alla luce della condizione clinica del ricorrente, riconducibile alle sindromi declinate al Capo II Tabella 1 punto 12 del D.M. 30.6.2003, n. 198; - se sussistano i presupposti per qualificare la neoplasia benigna dotata delle caratteristiche di cui al punto 13 b della predetta Tabella I; -se le riscontrate infermità all'apparato digerente del ricorrente siano idonee a produrre disturbi funzionali ai sensi della lett. 6.b della predetta Tabella. - se, nel complesso, tale riscontrata condizione possa comportare limitazioni allo svolgimento delle ordinarie attività di servizio afferenti al profilo di Agente Corpo Forestale oppure rischi per la salute del candidato. Riteneva, a tal fine, di avvalersi della collaborazione delle Autorità sanitarie operanti presso il Dipartimento Militare di Medicina Legale dell'Ospedale Mi. di Ca. e, in particolare, di un Collegio composto da due ufficiali medici, uno dei quali specialista della materia (rispettivamente Gastroentero ed Endocrino), che, previa acquisizione del giudizio reso dalla commissione medico legale, dei test strumentali sostenuti da parte ricorrente e delle connesse regole tecniche previste dall'Amministrazione intimata, accertasse la sussistenza e la consistenza della ragione di non idoneità ritenuta dalla predetta Amministrazione a fondamento del provvedimento impugnato. Con nota dell'11 dicembre 2023 il Direttore del Dipartimento Militare di Medicina Legale dell'Ospedale Mi. di Ca. comunicava di non poter assolvere all'incombente istruttorio "a causa dell'assenza di un Medico Specialista in Endocrinologia e Gastroenterologia". Alla luce di tale comunicazione, ai fini dello svolgimento del predetto accertamento sanitario, si rendeva dunque necessario integrare l'incaricato Collegio Medico Legale con un Medico Specialista in Endocrinologia e in Gastroenterologia. Per quanto sopra il Collegio con ordinanza n. 26 del 19 gennaio 2024, disponeva di individuare nel Direttore del Dipartimento di Endocrinologia e di Gastroenterologia dell'Azienda Ospedaliera Br. gli specialisti ritenuti idoneo all'espletamento dell'incarico descritto nella predetta ordinanza. Con nota -OMISSIS-2024 del Direttore Sanitario dell'ARNAS G. Brotzu veniva nominato il dott. Pa. Us., Medico Specialista in Gastroenterologia. Non veniva invece nominato lo specialista in Endocrinologia. Il giorno 8 marzo 2024, alla presenza dello Specialista in Gastroenterologia incaricato, si svolgeva la valutazione medico legale del ricorrente. All'esito, quanto alla malattia infiammatoria cronica intestinale (Pancolite ulcerosa Mayo 3) si affermava che la stessa "è in totale remissione bioumorale e clinica, grazie al trattamento farmacologico e allo stato attuale NON produce disturbi funzionali. Tale riscontrata condizione NON comporta, allo stato attuale, limitazioni allo svolgimento delle ordinarie attività di servizio afferenti al profilo di Agente Corpo Forestale oppure rischi per la salute del candidato, ma potrebbe determinare in futuro assenza dal servizio per malattie e/o limitarne l'impiego con riqualificazione a lavoro d'ufficio". Le riscontrate infermità all'apparato digerente del ricorrente sono state dunque ritenute inidonee a produrre disturbi funzionali ai sensi della lett. 6.b della predetta Tabella, restando dunque superato uno dei motivi che aveva condotto al giudizio di inidoneità della Commissione Medica concorsuale. Quanto alla patologia tiroidea il Collegio rilevava che la valutazione era stata espressa senza la presenza di un Medico Specialista in Endocrinologia, come richiesto dal Tribunale col menzionato provvedimento ordinatorio n. 912/2023. Il Collegio riteneva quindi di individuare nel Direttore del Dipartimento di Endocrinologia dell'Azienda Ospedaliera Br. lo specialista ritenuto idoneo all'espletamento dell'incarico descritto nella predetta ordinanza, demandando al Direttore Generale dell'Azienda Ospedaliera Br. l'adozione dei provvedimenti di competenza; Con nota n. -OMISSIS- 2024 (depositata in relazione ad ana ricorso, RG n. 152/2023) il Direttore Sanitario dell'ARNAS G. Brotzu comunicava che presso detta Azienda non era presente alcun Medico Specialista in Endocrinologia che potesse far parte del Collegio Medico Legale di cui sopra. La causa veniva quindi iscritta nuovamente al ruolo dell'udienza camerale per l'adozione di un provvedimento integrativo del precedente ordine istruttorio. In relazione a quanto sopra il Collegio, con ordinanza n. 338 del 26 aprile 2024, individuava nel Direttore del Servizio di Endocrinologia dell'Azienda Ospedaliera Universitaria di Sa. lo specialista ritenuto idoneo all'espletamento dell'incarico sopra descritto. Con nota del 6 maggio 2024 il Direttore Generale dell'AOU di Sa. nominava il Dott. Ma. Ca. Pa., Direttore della SC Endocrinologia e malattie della nutrizione e del ricambio dell'Azienda Ospedaliero Universitaria di Sa., quale verificatore per l'espletamento dell'incarico in questione. All'esito della visita collegiale in data 23 maggio 2024 veniva depositata agli atti la relazione di verificazione. Alla pubblica udienza del 29 maggio 2024, sentiti i difensori delle parti, la causa è stata posta in decisione. DIRITTO Il ricorso merita accoglimento. Il quadro clinico del ricorrente, quanto alla patologia tiroidea, è descritto nella Relazione Endocrino-Oncologica a firma del dott. Gi. Pi. resa in data 8 marzo 2023: "Si certifica, su richiesta dell'interessato, che il paziente è sotto la mia cura dal 2011, per una diagnosi inziale di Ipotiroidismo da Tiroidite Autoimmune con piccolo nodulo di 7 mm del lobo tiroideo destro. Nel 2018, a seguito di una modifica morfologica e dimensionale (11 mm), tale lesione veniva sottoposta ad agobiopsia ecoguidata con riscontro di Carcinoma Papillare della Tiroide (C1607/2018). Per tale ragione veniva indirizzato ad intervento di Tiroidectomia Totale con istologico (n. 9911/2018) compatibile per carcinoma papillare multicentrico, variante a cellule alte, con nodulo prevalente del lobo destro (BRAF V600E positivo) in tiroidite cronica linfocitaria (TNM: pT1b(m), N0). Come da protocollo in questi casi eseguiva successiva terapia radioablativa c/o centro di Medicina Nucleare. Nel 2020 eseguiva controllo di follow-up con riscontro di indosabilità dei marcatori tumorali ematici, ecografia del collo negativa e scintigrafia totale corporea negativa per persistenza di malattia tumorale tiroidea. Anche i controlli ematochimici ed ecografici del collo nel 2021 e 2022 sono risultati negativi. Al momento il paziente risulta pertanto libero da malattia ed è definibile come soggetto curato radicalmente. Assume regolarmente la terapia ormonale sostitutiva. Sulla base di quanto in mio possesso il paziente non mostra alcuna controindicazione endocrino-oncologica a qualsivoglia attività lavorativa". Quanto sopra ha trovato pieno riscontro nelle conclusioni della Commissione Medica incaricata dal Tribunale della verificazione istruttoria. Quest'ultima ha infatti precisato che "La riscontrata Tiroidectomia totale per Carcinoma Papillare della Tiroide è SI ascrivibile al novero delle Sindromi dipendenti da alterata funzione delle ghiandole endocrine" sottolineando tuttavia che "il buon compenso metabolico-bioumorale degli ormoni tiroidei è ottenuto grazie all'assunzione di terapia farmacologica sostitutiva (levotiroxina) che il candidato dovrà necessariamnete assumere a vita". Nel caso di specie, dunque, la patologia è stata trattata con adeguate terapie e la stessa deve ritenersi ormai sostanzialmente superata consentendo senz'altro al ricorrente, grazie all'assunzione regolare della terapia ormonale sostitutiva, il suo inserimento nel mondo del lavoro. Sul punto il dott. Gi. Pi., Specialista in Endocrinologia, precisa nel suo certificato dell'8 marzo 2023 che "Al momento il paziente risulta pertanto libero da malattia ed è definibile come soggetto curato radicalmente" e che "il paziente non mostra alcuna controindicazione endocrino-oncologica a qualsivoglia attività lavorativa". La stessa Commissione Medica di verificazione, nella relazione da ultimo depositata, precisa che "La riscontrata funzionalità tiroidea NON comporta, allo stato attuale, limitazioni allo svolgimento delle ordinarie attività di servizio afferenti al profilo di Agente del Corpo Forestale oppure rischi per la salute del candidato, stante la necessaria assunzione continuativa della terapia ormonale sostitutiva prescritta". Pertanto, seppur astrattamente riconducibile alle sindromi declinate al Capo II Tabella 1 punto 12 del D.M. 30.6.2003, n. 198, la patologia sofferta dal ricorrente non conduce ex se al giudizio di inidoneità adottato dalla Commissione concorsuale, dovendosi secondo il Collegio privilegiare l'interpretazione del quadro normativo vigente in termini funzionali, ossia nel senso che solo laddove sussista una possibile incidenza negativa sul servizio da svolgere o sulla salute dell'interessato le patologie menzionate nel decreto ministeriale possano assumere un automatico rilievo escludente nelle procedure concorsuali cui si riferiscono, non essendo cioè a tal fine sufficiente una mera alterazione della funzione delle ghiandole endocrine. Vi è un ulteriore profilo da esaminare. La Commissione Medica concorsuale ha richiamato, a fondamento del giudizio di inidoneità, anche il punto 13.b della Tabella 1 del DM 198/2003. Recita testualmente il punto 13 citato: "13. Neoplasie: a) i tumori maligni (ad evoluzione incerta o sfavorevole); b) i tumori benigni ed i loro esiti quando per sede, volume, estensione o numero siano deturpanti o producano alterazioni strutturali o funzionali". Orbene, la Commissione Medica di verificazione ha precisato che "La riscontrata tiroidectomia totale per Carcinoma Papillare della Tiroide NON è in pieno ascrivibile al novero dei "tumori benigni ed i loro esiti quando per sede, volume, estensione o numero siano deturpanti o producano alterazioni strutturali o funzionali" in quanto trattasi di neoplasia maligna (DTC) completamente eradicata chirurgicamente con completa asportazione della ghiandola tiroidea". Ha dunque ricondotto la classificazione della patologia in questione, escludendo il riferimento al punto 13 a della Tabella 1 (tumori maligni ad evoluzione incerta o sfavorevole, cui non è riconducibile il tumore alla tiroide), al pertinente punto 12 della Tabella 1 del DM 198/2003, in quanto patologia determinante alterazione funzionale dell'apparato endocrino. Si è però già rilevato sul punto che l'alterazione funzionale dell'apparato endocrino assume rilievo escludente dalle procedure concorsuali solo laddove connotata da un'incidenza negativa sul servizio da svolgere o sulla salute dell'interessato, circostanza neppure adombrata - ed anzi specificamente esclusa - dai verificatori. Quanto alla malattia infiammatoria cronica intestinale (Pancolite ulcerosa Mayo 3) la relazione conclusiva ha confermato che la stessa "è in totale remissione bioumorale e clinica, grazie al trattamento farmacologico e allo stato attuale NON produce disturbi funzionali" come già valutato nella visita dell'8 marzo 2024 alla presenza dello specialista in Gastroenterologia dott. Pa. Us.). Resta dunque confermato il giudizio per il quale "Tale riscontrata condizione NON comporta, allo stato attuale, limitazioni allo svolgimento delle ordinarie attività di servizio afferenti al profilo di Agente Corpo Forestale oppure rischi per la salute del candidato, ma potrebbe determinare in futuro assenza dal servizio per malattie e/o limitarne l'impiego con riqualificazione a lavoro d'ufficio". Resta dunque superato l'altro motivo che aveva condotto al giudizio di inidoneità della Commissione Medica concorsuale. Pertanto, per quanto emerso in sede di verificazione, il giudizio della Commissione originariamente preposta all'accertamento dei requisiti di idoneità deve ritenersi viziato per erroneità . Il Tribunale, invero, ben conosce - e condivide - il consolidato indirizzo giurisprudenziale circa la tendenziale irripetibilità dei giudizi medico - legali espressi dalle commissioni mediche concorsuali, sia in omaggio al principio della par condicio dei concorrenti e sia in considerazione del fatto notorio che il tempo trascorso tra l'esame medico in sede di concorso e la rivalutazione fatta in altra sede, ivi compresa quella giurisdizionale, può comportare una modifica della situazione oggetto di valutazione. Ciò non toglie tuttavia che, fermo restando il principio della discrezionalità tecnica che caratterizza le valutazioni medico - legali, il che le sottrae al sindacato di legittimità, salve le ipotesi di manifesta arbitrarietà e illogicità, non possono esistere atti o valutazioni dell'amministrazione che, come tali, siano sottratte al controllo giurisdizionale, pena la violazione del principio fondamentale posto dall'art. 113 Cost. Deve pertanto ammettersi che anche nel caso delle valutazioni medico - legali svolte dalle commissioni mediche dell'amministrazione possano esistere ambiti di sindacabilità soprattutto in alcuni - sia pur limitati - casi in cui ciò che viene contestato è la stessa sussistenza o il carattere più o meno rilevante, in relazione alle prescrizioni della procedura concorsuale, della patologia riscontrata dalla competente commissione: in questi casi non dare ingresso al mezzo istruttorio della verificazione significherebbe escludere in radice la sindacabilità dell'atto o della valutazione, il che, come si è detto, non è ammissibile. Nel caso di specie il Tribunale ha deciso di dover ricorrere alla verificazione non già per una mera rivalutazione del giudizio medico formulato dalla commissione, quanto piuttosto per accertare l'effettiva rilevanza della patologia riscontrata sulla prestazione del servizio cui il concorso era finalizzata, questa essendo in definitiva la contestazione fatta dal ricorrente, contestazione affidata ad una non irrilevante documentazione medica. Infatti la Tabella 1, punto 12, D.M. 30 giugno 2003 richiede che "Le sindromi dipendenti da alterata funzione delle ghiandole endocrine", come inteso nell'interpretazione del Tribunale, abbia conseguenze sul piano della funzionalità e l'accertamento disposto con la verificazione era teso ad accertare se sussistesse la limitazione funzionale, aspetto che non era stato valutato dalla commissione medica concorsuale. Ne deriva che, come rilevato da parte ricorrente, l'atto di esclusione gravato risulta inficiato da difetto dei presupposti e, dunque, dev'essere annullato. In definitiva non resta al Collegio che accogliere il ricorso principale disponendo per l'effetto, nei limiti di interesse, l'annullamento degli atti impugnati, con conseguente definitiva ammissione del ricorrente alle ulteriori fasi della procedura. Le spese di giudizio possono essere compensate sussistendo giusti motivi. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, annulla per quanto di interesse gli atti di esclusione impugnati e il presupposto giudizio di inidoneità . Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all'articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all'articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate. Così deciso in Cagliari nella camera di consiglio del giorno 29 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Tito Aru - Presidente, Estensore Antonio Plaisant - Consigliere Jessica Bonetto - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 152 del 2023, integrato da motivi aggiunti, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Ta., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto in Cagliari presso lo studio del medesimo legale, via (...); contro Azienda Ospedaliero Universitaria di Ca., rappresentata e difesa dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Cagliari, domiciliata in Cagliari presso gli uffici della medesima, via (...); Regione Autonoma della Sardegna, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. Pa. e Fl. Is., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti -OMISSIS-, non costituito in giudizio; per l'annullamento, per quanto riguarda il ricorso introduttivo: del provvedimento di accertata "non idoneità " in data -OMISSIS- formulato dalla Commissione medica presso l'Azienda Ospedaliero Universitaria di Ca. (S.C. di Medicina del Lavoro) nel "Giudizio finale" del -OMISSIS-, con il quale la citata Commissione ha giudicato il ricorrente non idoneo al superamento del concorso pubblico per esami per il reclutamento a tempo pieno e indeterminato di n. 78 unità di personale da inquadrare nell'area A - livello retributivo A1 - Agente del corpo forestale e di vigilanza ambientale della Regione Autonoma della Sardegna, di cui al bando approvato con determinazione n. 1894 del 19 ottobre 2021, con la seguente motivazione: "Sindromi dipendenti da alterata funzione delle ghiandole endocrine. Ministero dell''interno DM 30/06/2003 n. 198. Capo II Tabella 1 punto 12", nonché - per quanto di ragione - degli atti e degli accertamenti medici della medesima commissione; - di tutti gli altri atti presupposti, consequenziali o, comunque, connessi, non conosciuti, ivi compreso - se esistente - il provvedimento motivato della Direzione Generale del personale e riforma della Regione che ha preso atto del detto giudizio, al fine di escludere l'esponente dalla procedura concorsuale; nonché le graduatorie di merito e degli idonei ove modificate a seguito del giudizio di non idoneità oggi impugnato (tutti atti non conosciuti). Per quanto riguarda i motivi aggiunti depositati il 27 marzo 2023: per l'annullamento previa sospensiva - della Determinazione RAS Direzione generale del personale e riforma della Regione - Servizio Concorsi, -OMISSIS- avente ad oggetto: "Concorso pubblico per esami per il reclutamento a tempo pieno e indeterminato di n. 78 unità di personale da inquadrare nell''area A - livello retributivo A1 - Agente del Corpo forestale e di vigilanza ambientale della Regione autonoma della Sardegna. Accertamento dei requisiti psico-fisici. Approvazione elenco ammessi al corso di formazione" e dei suoi Allegati 1 e 2 contenenti rispettivamente l'Elenco dei Candidati ammessi al Corso di formazione e l'elenco dei candidati esclusi dalla graduatoria di merito degli idonei. Per quanto riguarda i motivi aggiunti depositati il 31 ottobre 2023: per l'annullamento per quanto di ragione, quale atto consequenziale, della graduatoria allegata alla determinazione n. -OMISSIS- della Direzione Generale del personale e Riforma della regione - Servizio Concorsi, nonché della medesima determinazione. Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Azienda Ospedaliero Universitaria di Ca. e della Regione Autonoma della Sardegna; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 maggio 2024 il dott. Tito Aru e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Il ricorrente ha partecipato al Concorso pubblico per esami per il reclutamento a tempo pieno e indeterminato n. 78 unità di personale da inquadrare nell'area A - Livello retributivo A1 - Agente del Corpo forestale e di vigilanza ambientale della Regione Autonoma della Sardegna, indetto con Determinazione n. 1894, prot. n. 34817, del 19 ottobre 2021. Dopo aver superato le prove di selezione (scritta e orale/pratica), ai sensi dell'art. 2 del bando, lett. m) disciplinante l'accertamento dei requisiti psico-fisici previsti dall'art. 12, comma 3, della L.R. 5 novembre 1985, n. 26, veniva sottoposto, ai fini dell'accertamento dei requisiti psico-fisici, ad un esame clinico generale e a prove strumentali e di laboratorio presso l'Azienda Ospedaliero Universitaria di Ca. (S.C. di Medicina del Lavoro), all'esito della quale, in data -OMISSIS-, veniva giudicato non idoneo dalla Commissione Medica, con la seguente motivazione: "Sindromi dipendenti da alterata funzione delle ghiandole endocrine. Ministero dell'interno DM 30/06/2003 n. 198. Capo II Tabella 1 punto 12"; Il ricorrente produceva in giudizio apposita documentazione medica attestante la totale assenza di pregiudizio sulla sua idoneità al lavoro a causa della riscontrata patologia, peraltro lieve e in evoluzione favorevole. La relazione integrativa prodotta dall'Amministrazione confermava, invece, il giudizio di inidoneità del ricorrente in ragione esclusiva dell'accertata sussistenza di una condizione clinica (Ipertiroidismo in Morbo di Basedow) riconducibile alle "Sindromi dipendenti da alterata funzione delle ghiandole endocrine. Ministero dell'interno DM 30/06/2003 n. 198. Capo II Tabella 1 punto 12". Poiché nella documentazione medica versata in giudizio dal ricorrente veniva certificata l'assenza di alcuna conseguenza di tale patologia sulla sua idoneità lavorativa, sicché la stessa non potrebbe rappresentare causa ostativa e di inidoneità psico-fisica all'impiego nel profilo oggetto della procedura concorsuale in questione, il Tribunale - con ordinanza n. 240 del 28 marzo 2024 - riteneva opportuno disporre apposita verificazione, ai sensi degli art. 19 e 66 cod. proc. amm., finalizzata ad accertare: - se la riscontrata condizione clinica del ricorrente (Ipertiroidismo in Morbo di Basedow), riconducibile alle "Sindromi dipendenti da alterata funzione delle ghiandole endocrine. Ministero dell'interno DM 30/06/2003 n. 198. Capo II Tabella 1 punto 12" potesse comportare limitazioni allo svolgimento delle ordinarie attività di servizio afferenti al profilo di Agente Corpo Forestale oppure rischi per la salute del candidato; Riteneva, a tal fine, di avvalersi della collaborazione delle Autorità sanitarie operanti presso il Dipartimento Militare di Medicina Legale dell'Ospedale Militare di Cagliari e, in particolare, di un Collegio composto da due ufficiali medici, uno dei quali specialista della materia (Endocrino), che, previa acquisizione del giudizio reso dalla commissione medico legale, dei test strumentali sostenuti da parte ricorrente e delle connesse regole tecniche previste dall'Amministrazione intimata, accertasse la sussistenza e la consistenza della ragione di non idoneità ritenuta dalla predetta Amministrazione a fondamento del provvedimento impugnato. Il Collegio riteneva quindi di individuare nel Direttore del Dipartimento di Endocrinologia dell'Azienda Ospedaliera Brotzu lo specialista ritenuto idoneo all'espletamento dell'incarico descritto nella predetta ordinanza, demandando al Direttore Generale dell'Azienda Ospedaliera Brotzu l'adozione dei provvedimenti di competenza; Con nota n. -OMISSIS-2024 il Direttore Sanitario dell'ARNAS G. Brotzu comunicava che presso detta Azienda non era presente alcun Medico Specialista in Endocrinologia che potesse far parte del Collegio Medico Legale di cui sopra. La causa è stata quindi iscritta nuovamente al ruolo dell'udienza camerale per l'adozione di un provvedimento integrativo del precedente ordine istruttorio. In relazione a quanto sopra il Collegio, preso atto della menzionata nota -OMISSIS-2024 del Direttore Sanitario dell'ARNAS G. Brotzu, con ordinanza n. 337 del 26 aprile 2024 individuava nel Direttore del Servizio di Endocrinologia dell'Azienda Ospedaliera Universitaria di Sa. lo specialista ritenuto idoneo all'espletamento dell'incarico descritto nella presente ordinanza. Con nota del 6 maggio 2024 il Direttore Generale dell'AOU di Sa. nominava il Dott. Ma. Ca. Pa., Direttore della SC Endocrinologia e malattie della nutrizione e del ricambio dell'Azienda Ospedaliero Universitaria di Sa., quale verificatore per l'espletamento dell'incarico in questione. All'esito della visita collegiale in data 22 maggio 2024 veniva depositata agli atti la relazione di verificazione. Alla pubblica udienza del 29 maggio 2024, sentiti i difensori delle parti, la causa è stata posta in decisione. DIRITTO E' incontestato che al ricorrente sia stato a suo tempo diagnosticato (vedi referto della visita endocrinologica del 23 dicembre 2022) "ipertiroidismo da morbo di Basedow in trattamento con Tapazole in lieve miglioramento". In sede di accertamento del possesso dei requisiti psico-fisici richiesti per il reclutamento ad Agente del Corpo Forestale la Commissione medica concorsuale l'ha escluso dalla procedura selettiva ritenendo che tale condizione clinica fosse riconducibile al punto 12, Tabella 1, D.M. 30 giugno 2003 n. 298 che indica, appunto, tra le cause di non idoneità per l'ammissione ai concorsi pubblici per l'accesso ai ruoli del personale della Polizia di Stato (applicabile al caso di specie) "Le sindromi dipendenti da alterata funzione delle ghiandole Endocrine". Nel contestare tale provvedimento escludente il ricorrente ha versato agli atti certificazioni specialistiche (in particolare, certificato dott. Marco Orrù del 27 febbraio 2023) attestanti che l'ipertiroidismo sofferto "non compromette assolutamente l'idoneità al lavoro, sia esso di tipo fisico e/o di tipo intellettuale... l'unica raccomandazione che faccio al mio assistito è quella di sottoporsi a controlli ematici e a dosaggio degli ormoni tiroidei ogni 8/12 mesi, consiglio che dispenso comunque a tutti i miei assistiti anche da quelli esenti da tale condizione". In definitiva, nell'assunto del ricorrente, la situazione sanitaria in cui egli versava al momento dell'espletamento della visita medica non comportava alcun effetto negativo sulla sua prestanza fisica e psichica, e non era affatto preclusiva allo svolgimento dei compiti di servizio riconnessi alle mansioni di Agente del corpo forestale e di vigilanza ambientale della Regione Autonoma della Sardegna. Condividendo l'interpretazione del quadro normativo vigente in termini funzionali, ossia nel senso che solo laddove sussista una possibile incidenza negativa sul servizio da svolgere o sulla salute dell'interessato le patologie menzionate nel precitato DM 298/2003 possano assumere un automatico rilievo escludente nelle procedure concorsuali cui si riferiscono, non essendo a tal fine sufficiente una mera alterazione della funzione delle ghiandole endocrine, il Tribunale, dapprima con decreto presidenziale n. 33 del 6 marzo 2023, confermato con ordinanza collegiale n. 63 del 30 marzo 2023 ha ammesso con riserva il ricorrente al corso di formazione di cui all'art. 13 del bando di concorso, nonché agli esami tecnico-pratici da sostenere al termine del corso di formazione; poi, con ordinanza n. 240 del 28 marzo 2024, ha disposto verificazione finalizzata ad accertare "se la riscontrata condizione clinica del ricorrente (Ipertiroidismo in Morbo di Basedow), riconducibile alle "Sindromi dipendenti da alterata funzione delle ghiandole endocrine. Ministero dell'interno DM 30/06/2003 n. 198. Capo II Tabella 1 punto 12" possa comportare limitazioni allo svolgimento delle ordinarie attività di servizio afferenti al profilo di Agente Corpo Forestale oppure rischi per la salute del candidato". L'esito dell'accertamento, svolto da una Commissione medica comprendente, in qualità di medico specialista, il Direttore della SC Endocrinologia e malattie della nutrizione e del ricambio dell'Azienda Ospedaliero Universitaria di Sa., è stato il seguente: "la diagnosi ipertiroidismo da morbo di Basedow, motivo della NON idoneità oggetto del ricorso in verificazione, è attualmente modificata nella diagnosi di "Morbo di Basedow in remissione clinica con evoluzione in ipotiroidismo ben compensato dalla terapia ormonale sostitutiva. Pertanto si può affermare che le attuali condizioni della ghiandola tiroide del sig. -OMISSIS- -OMISSIS- NON comportano, allo stato attuale, limitazioni allo svolgimento delle ordinarie attività di servizio afferenti al profilo di Agente del Corpo Forestale oppure rischi per la salute del candidato, stante la necessaria assunzione continuativa della terapia ormonale sostitutiva prescritta". La Commissione medica, dunque, nel rispondere al quesito del Tribunale, con riferimento alla Tabella 1, punto 12 del DM 30/06/2003 n. 198, affermava che "La riscontrata funzionalità tiroidea NON comporta, allo stato attuale, limitazioni allo svolgimento delle ordinarie attività di servizio afferenti al profilo di Agente del Corpo Forestale oppure rischi per la salute del candidato, stante la necessaria assunzione continuativa della terapia ormonale sostitutiva prescritta". Resta dunque superato il motivo che aveva condotto al giudizio di inidoneità della Commissione Medica concorsuale. Pertanto, per quanto emerso in sede di verificazione, il giudizio della Commissione originariamente preposta all'accertamento dei requisiti di idoneità deve ritenersi viziato per erroneità . Il Tribunale, invero, ben conosce - e condivide - il consolidato indirizzo giurisprudenziale circa la tendenziale irripetibilità dei giudizi medico - legali espressi dalle commissioni mediche concorsuali, sia in omaggio al principio della par condicio dei concorrenti e sia in considerazione del fatto notorio che il tempo trascorso tra l'esame medico in sede di concorso e la rivalutazione fatta in altra sede, ivi compresa quella giurisdizionale, può comportare una modifica della situazione oggetto di valutazione. Ciò non toglie tuttavia che, fermo restando il principio della discrezionalità tecnica che caratterizza le valutazioni medico - legali, il che le sottrae al sindacato di legittimità, salve le ipotesi di manifesta arbitrarietà e illogicità, non possono esistere atti o valutazioni dell'amministrazione che, come tali, siano sottratte al controllo giurisdizionale, pena la violazione del principio fondamentale posto dall'art. 113 Cost. Deve pertanto ammettersi che anche nel caso delle valutazioni medico - legali svolte dalle commissioni mediche dell'amministrazione possano esistere ambiti di sindacabilità soprattutto in alcuni - sia pur limitati - casi in cui ciò che viene contestato è la stessa sussistenza o il carattere più o meno rilevante, in relazione alle prescrizioni della procedura concorsuale, della patologia riscontrata dalla competente commissione: in questi casi non dare ingresso al mezzo istruttorio della verificazione significherebbe escludere in radice la sindacabilità dell'atto o della valutazione, il che, come si è detto, non è ammissibile. Nel caso di specie il Tribunale ha deciso di dover ricorrere alla verificazione non già per una mera rivalutazione del giudizio medico formulato dalla commissione, quanto piuttosto per accertare l'effettiva rilevanza della patologia riscontrata sulla prestazione del servizio cui il concorso era finalizzata, questa essendo in definitiva la contestazione fatta dal ricorrente, contestazione affidata ad una non irrilevante documentazione medica. Infatti la Tabella 1, punto 12, D.m. 30 giugno 2003, come inteso nell'interpretazione del Tribunale, richiede ai fini dell'esclusione dalla procedura concorsuale che la sindrome dipendente da alterata funzione delle ghiandole endocrine abbia conseguenze sul piano della funzionalità, e l'accertamento disposto con la verificazione era teso proprio ad accertare se sussistesse la limitazione funzionale, aspetto che non era stato valutato dalla commissione medica concorsuale. Ne deriva che, come accertato in sede di verificazione, l'atto di esclusione gravato risulta inficiato da difetto dei presupposti e, dunque, dev'essere annullato. In definitiva non resta al Collegio che accogliere il ricorso principale disponendo per l'effetto l'annullamento degli atti impugnati, per quanto di interesse del ricorrente, con conseguente definitiva ammissione del medesimo alle ulteriori fasi della procedura. Le spese di giudizio possono essere compensate sussistendo giusti motivi. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, annulla per quanto di interesse gli atti di esclusione impugnati e il presupposto giudizio di inidoneità . Compensa le spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all'articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all'articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate. Così deciso in Cagliari nella camera di consiglio del giorno 29 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Tito Aru - Presidente, Estensore Antonio Plaisant - Consigliere Jessica Bonetto - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 401 del 2020, proposto da Ab. Vi. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Lu. Ma. e Gi. St., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Po. Fl. in Roma, via (...); contro Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Al. Pa. e An. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Ministero per i beni e le attività culturali, Ministero dell'istruzione, dell'Università e della Ricerca, Università degli Studi Roma La Sapienza, Regione Autonoma della Sardegna, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna Sezione Seconda n. 00423/2019, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis), della Regione Sardegna, del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, dell'Università degli Studi Roma La Sapienza; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria del giorno 6 marzo 2024 il Cons. Giorgio Manca e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in trattazione, la società Ab. Vi. S.r.l. chiede la riforma della sentenza del T.a.r. per la Sardegna 21 maggio 2019, n. 423, che ha respinto il ricorso proposto dall'odierna appellante per l'annullamento del provvedimento dirigenziale del 3 marzo 2017, del Comune di (omissis), nella parte in cui - pur autorizzando l'intervento di variante alle opere di urbanizzazione del campeggio Ab. Vi. - ha disposto che "(p)rima del rilascio dell'agibilità dovranno essere assolti, da parte della Società titolare del presente titolo, gli obblighi di cui all'atto unilaterale d'obbligo di cessione del 27/ 12/1988", di cui alla deliberazione di Giunta comunale n. 288/88; ossia, il trasferimento delle aree di cessione di cui all'atto di impegno unilaterale del 1988, con il quale il proprietario dell'area e del campeggio si impegnò a "cedere al Comune di (omissis), quando la struttura pararicettiva in oggetto sarà inserita nello studio di disciplina della zone turistiche, il terreno, della complessiva superficie di mq. 17.600, da stralciarsi dal mapp. 24 con apposito tipo di frazionamento, contrassegnato col numero 24/b e contornato in rosso nella allegata planimetria". 2. Con la sentenza, il giudice di prime cure ha ritenuto infondate le censure dedotte dalla ricorrente sull'assunto che la società non avesse provveduto all'adempimento degli obblighi convenzionali e che il diritto dell'amministrazione non fosse soggetto a prescrizione. 3. La società, rimasta soccombente, ha proposto appello chiedendo la riforma della sentenza sulla scorta dei seguenti motivi: I) erroneità della sentenza per avere respinto la censura basata sulla intervenuta prescrizione del diritto del Comune di (omissis) alla cessione dell'area; II) ingiustizia della sentenza per non aver rilevato che l'atto di impegno del 1988 era correlato all'approvazione del Piano di Disciplina delle zone F e del relativo piano di lottizzazione, che non è mai stato approvato; in tale situazione avrebbe operato, a favore della società, l'eccezione di inadempimento. In ogni caso, il presupposto per la cessione delle aree non si sarebbe verificato e, quindi, l'obbligo di provvedere alla cessione non sarebbe mai sorto. L'appellante, altresì, critica la sentenza per aver richiamato la normativa sulle cessioni nei piani di lottizzazione, inapplicabile nel caso di specie, poiché l'atto di impegno non era correlato a nessuna lottizzazione esistente, ma era stato formato "in vista" di una futura pianificazione, mai venuta ad esistenza. Attualmente la sopravvenuta normativa urbanistica regionale e comunale (il nuovo piano urbanistico comunale di (omissis)) avrebbe definitivamente impedito ogni possibilità di realizzare la lottizzazione dell'area; III) ripropone, infine, il motivo del ricorso di primo grado non esaminato dal primo giudice, con il quale ha dedotto la violazione del principio di proporzionalità in quanto si dovrebbe comunque ritenere che le aree di cessione da trasferire debbano essere proporzionali alle volumetrie effettivamente realizzate in forza della concessione in deroga rilasciata nel 1989, pari a circa 2000 mc; pertanto, la pretesa cessione di 17.600 mq (funzionale alla possibilità di realizzare 10.000 mc, ammessi dal programma di fabbricazione all'epoca vigente) dovrebbe ritenersi in violazione del principio di proporzionalità, oltre che illegittima per eccesso di potere sotto diversi profili (travisamento di fatti e carenza dei presupposti; ingiustizia grave e manifesta; difetto di istruttoria). 4. Si è costituito il Comune di (omissis), ribadendo anzitutto che la cessione non è soggetta a termine prescrizionale; in secondo luogo, l'amministrazione sottolinea di avere adempiuto agli obblighi assunti, approvando l'adeguamento del P.U.C. alle previsioni dei Piani Territoriali Paesistici nell'anno 2004 e poi nel 2015 (adeguamento al piano paesaggistico regionale), che ricomprende l'area oggetto di concessione in deroga all'interno del QN4 (quadro normativo) comparto A; e quindi riconosce pienamente la struttura esistente del campeggio Ab. (oggetto a suo tempo, nel 1989, di concessione in deroga, ossia senza previa lottizzazione). 5. Resistono in giudizio anche la Regione Sardegna, il Ministero per i beni e le attività culturali, il Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, e l'Università degli Studi di Roma La Sapienza. 6. All'udienza straordinaria del 6 marzo 2024, la causa è stata trattenuta in decisione. 7. I motivi sopra esposti si prestano a una trattazione congiunta data la stretta connessione degli argomenti dedotti dall'appellante. 7.1. Quanto alla censura con la quale l'appellante deduce l'intervenuta prescrizione del diritto dell'amministrazione comunale alla cessione delle aree di cui alla convenzione sopra richiamata, va rammentato, anzitutto, che il primo giudice ha ritenuto che la cessione di un'area al Comune in forza della convenzione stipulata inter partes (per destinarla a viabilità e a servizi pubblici), si concreta, sostanzialmente, in una condizione della concessione edilizia richiesta dall'interessato, ormai inoppugnabile e pacificamente attuata, per cui deve conseguentemente ritenersi che, a fronte dell'intrinseca connessione della cessione dell'area con la richiesta e rilasciata concessione edilizia, la correlativa obbligazione, di natura pubblicistica, sia insuscettibile di estinzione per prescrizione. 7.2. Tuttavia, anche se di dovesse seguire la prospettiva integralmente civilistica fatta propria dalla società appellante, e quindi ritenere applicabile agli atti unilaterali accessivi alle concessioni (in questo caso si trattava di una concessione in deroga) il regime civilistico della prescrizione (come afferma un orientamento giurisprudenziale richiamato e condiviso recentemente da Consiglio di Stato, sez. II, 1° dicembre 2021, n. 8006), va considerato che la prescrizione decennale inizia a decorrere dal momento in cui il Comune ha potuto far valere il diritto alla cessione dell'area, secondo la regola posta dall'art. 2935 del codice civile ("La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere"). Nel caso di specie, dal momento in cui l'amministrazione comunale ha adempiuto agli impegni assunti nell'atto accessivo alla concessione in deroga, vale a dire dalla approvazione definitiva del piano urbanistico comunale, il quale ha inserito nella pianificazione l'area oggetto della concessione in deroga (il che corrisponde all'inserimento del terreno in questione nello studio di disciplina delle zone turistiche F). Come risulta dalla documentazione in atti, ciò è avvenuto con la deliberazione del Consiglio comunale n. 4 del 15 gennaio 2015, data a partire dal quale il Comune poteva far valere il diritto a ottenere la cessione delle aree. Poiché il provvedimento impugnato in primo grado è stato adottato il 3 marzo 2017, ne deriva come conseguenza che la pretesa del Comune (fatta valere attraverso detto provvedimento) risulta tempestiva, in quanto esercitata nell'ordinario termine decennale. 7.3. Da quanto rilevato, emerge altresì che il Comune ha adempiuto agli obblighi posti a suo carico. 7.4. I primi due motivi di appello sono, pertanto, infondati. 8. Stessa sorte va riservata al motivo riproposto, considerato che la pretesa dell'amministrazione si fonda sugli impegni assunti reciprocamente dalle parti con la sottoscrizione della convenzione accessiva alla concessione in deroga rilasciata nel 1989. 8.1. Previsione peraltro conforme alla normativa regionale applicabile ratione temporis, come sottolineato dal primo giudice (a cui pertanto non può essere rimproverato di non avere esaminato la censura), nella parte in cui ha rilevato che, ai sensi dell'art. 7 del decreto del Presidente della Giunta regionale della Sardegna, 1 agosto 1977, n. 9743 - 271 (cd. decreto Soddu), per le zone F turistiche "(i)l 50 per cento della superficie territoriale deve essere destinata a spazi per attrezzature di interesse comune, per verde attrezzato a parco, gioco e sport, per parcheggi. Almeno il 60 per cento di tale aree devono essere pubbliche". 8.2. La convenzione va interpretata in conformità a detta normativa, con conseguente obbligo della società ricorrente di procedere alla cessione in favore del Comune del 30% delle aree in questione. Nell'atto di impegno del 27 dicembre 1988 è riconosciuto, inoltre, che "L'intervento riguarda, complessivamente, una superficie di mq. 58.700, censita in catasto al Foglio (omissis) Mappali (omissis)"; per cui non si può che condividere la conclusione del giudice di prime cure sulla correttezza del conteggio delle aree oggetto della cessione, pari a circa mq 17.600, come del resto precisato nel citato atto di impegno. 9. In conclusione, l'appello va integralmente respinto. 10. La disciplina delle spese giudiziali segue la regola della soccombenza nei rapporti tra l'appellante e il Comune di (omissis), nei termini di cui al dispositivo. Vanno compensate, sussistendo giuste ragioni, tra l'appellante e le altre amministrazioni appellate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna la società appellante al pagamento delle spese giudiziali del grado di appello, in favore del Comune di (omissis), che liquida in euro 3.000,00 (tremila/00), oltre accessori di legge. Compensa le spese tra la società appellante e le altre amministrazioni appellate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 6 marzo 2024, tenuta da remoto, con l'intervento dei magistrati: Oreste Mario Caputo - Presidente FF Giovanni Tulumello - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere, Estensore Ugo De Carlo - Consigliere Roberta Ravasio - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 1013 del 2020, proposto da As. S.p.A. in proprio e nella qualità di mandataria del raggruppamento temporaneo di imprese con la Di Vi. S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fe. Ca. e Gr. Cr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Fe. Ca. in Roma, via (...); contro Consorzio Industriale Provinciale di Sassari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Mi. St. e Ma. Bi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Sa. De. in Roma, p.zza (...); per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna Sezione Prima, 24 ottobre 2019, n. 795, n. 795, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Cip Sassari Consorzio Industriale Provinciale di Sassari; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria del giorno 6 marzo 2024 il Cons. Giorgio Manca e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in trattazione, la società As. S.p.a. chiede la riforma della sentenza del T.a.r. per la Sardegna 24 ottobre 2019, n. 795, che ha respinto il suo ricorso per l'accertamento dell'inadempimento, da parte del Consorzio Industriale Provinciale di Sassari, di un contratto relativo all'esecuzione di lavori, con la conseguente risoluzione dello stesso e la condanna del Consorzio al risarcimento del danno da inadempimento o, in via subordinata, a titolo di responsabilità precontrattuale. 1.1. Come si evince dalla motivazione della sentenza impugnata, il Consorzio (già Consorzio per l'Area di Sviluppo Industriale di Sassari - Porto Torres - Alghero) aveva indetto un appalto concorso per la progettazione e costruzione delle infrastrutture relative alla zona di (omissis). Nella lettera di invito si prevedeva che l'importo dei lavori a "forfait globale chiuso" non potesse superare £ 150.000.000.000 (IVA esclusa) e si specificava che "Le opere in oggetto sono prive di finanziamento che verrà richiesto con la presentazione del progetto prescelto nel presente appalto concorso", per cui "soltanto dopo la concessione del finanziamento e il rilascio della concessione edilizia il progetto sarà impegnativo per il Consorzio". 1.2. Con delibera n. 3398 del 22 giugno 1989 era stata adottata l'aggiudicazione provvisoria in favore del raggruppamento temporaneo di imprese con mandataria Di. S.p.a. (odierna As. S.p.a.), specificando espressamente che l'aggiudicazione sarebbe diventata definitiva "solo dopo l'avvenuto finanziamento delle opere", le quali sarebbero state divise in stralci da affidare con successivi contratti, in base ai finanziamenti progressivamente ricevuti. Il che si verificò regolarmente almeno fino alla nota del 2 maggio 2006, prot. n. 1550/5/06, con la quale il Consorzio comunicava al raggruppamento As. la propria volontà di ritirarsi dall'appalto concorso "per contrasto con norme imperative inderogabili e, comunque, per non inidoneità a garantire il corretto perseguimento dell'interesse pubblico attuale". 1.3. Avverso la determinazione del Consorzio, il raggruppamento dapprima si rivolse al giudice ordinario e, successivamente (a seguito della sentenza della Corte di Appello di Cagliari, sezione staccata di Sassari, 26 ottobre 2012, n. 319, che - in riforma della sentenza del tribunale ordinario di Sassari - declino la giurisdizione in favore del giudice amministrativo; e a seguito, anche, della pronuncia della Corte di cassazione, SS.UU. civili, 4 luglio 2017, n. 21199, che ha dichiarato inammissibile il regolamento preventivo di giurisdizione proposto da As.) ha radicato il giudizio innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna, che ha rigettato integralmente le domande risarcitorie proposte dal R.T.I. As.. 1.4. Il primo giudice - trattenuta la giurisdizione in base alla considerazione che l'oggetto del contendere riguardasse il mancato affidamento al RTI As. dei lavori successivi al quarto stralcio, cioè un profilo relativo alla fase prodromica all'instaurazione del relativo rapporto contrattuale - ha ritenuto infondate tutte le domande della ricorrente sull'essenziale assunto che la lettera di invito, così come le corrispondenti clausole dei contratti relativi ai primi quattro stralci di lavori, e prima ancora la deliberazione del 22 giugno 1989, n. 338 (in cui si precisava che l'aggiudicazione definitiva sarebbe intervenuta solo con il perfezionarsi dei singoli finanziamenti), erano chiare nel considerare "non immediatamente impegnativo" per il Consorzio, rispetto ai singoli lavori in progetto, l'originario rapporto di appalto concorso; e pertanto - come già osservato - non si è mai perfezionato un rapporto contrattuale per la generalità dei progetti facenti parte dell'appalto concorso. Anche la domanda avente ad oggetto la responsabilità precontrattuale è stata rigettata, sia per la genericità della sua formulazione, sia perché - in ragione della loro qualificazione professionale - non sussisterebbe un affidamento incolpevole delle imprese ricorrenti. 2. La società As., rimasta soccombente, ha proposto appello sostanzialmente reiterando i motivi del ricorso di primo grado, in chiave critica della sentenza di cui chiede la riforma. 3. Nella resistenza del Consorzio Provinciale di Sassari, all'udienza straordinaria del 6 marzo 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 4. Con il primo motivo, l'appellante censura la sentenza in quanto il primo giudice avrebbe errato non solo a non rimettere la questione di giurisdizione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, sollevando conflitto negativo di giurisdizione ai sensi dell'art. 11 c.p.a., ma anche ad affermare che la controversia appartiene alla giurisdizione esclusiva amministrativa. Ribadisce che la vicenda non riguarda la fase prodromica all'instaurazione del relativo rapporto contrattuale, come erroneamente asserito nella sentenza, ma attiene alla fase di esecuzione del contratto posto che la procedura di appalto-concorso indetta dal Consorzio si è conclusa con l'aggiudicazione definitiva della intera progettazione ed esecuzione dei lavori, con la sola condizione che l'esecuzione fosse subordinata alla acquisizione dei finanziamenti. 4.1. Il motivo è infondato. 4.. Come meglio emergerà nel corso dell'esame delle domande risarcitorie, l'appalto concorso indetto con bando dell'8 aprile 1989 e contestuale lettera di invito, si è concluso con la sola aggiudicazione provvisoria, sulla scorta di quanto previsto dalla lex specialis la quale espressamente precisava che "Le opere in oggetto sono prive di finanziamento che verrà richiesto con la presentazione del progetto prescelto nel presente appalto concorso"; soltanto "dopo la concessione del finanziamento e il rilascio della concessine edilizia il progetto sarà impegnativo per il Consorzio". La deliberazione del Comitato direttivo del Consorzio, n. 383 del 22 giugno 1989 (che ha approvato la conclusione dei lavori della commissione esaminatrice nominata per la valutazione delle offerte), ha correttamente dato atto delle conseguenze derivanti dalle predette norme di gara, dichiarando l'associazione temporanea di imprese con mandataria la Di. (divenuta As. S.p.a.) "aggiudicataria provvisoria dell'appalto concorso", che "diventerà definitiva solo dopo l'avvenuto finanziamento delle opere comprese nel progetto prescelto". 4.3. Pertanto la controversia instaurata dalla As. ha per oggetto la fase dell'affidamento di un contratto di appalto di lavori (parte del più ampio progetto di lavori), che rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 133, comma 1, lettera e), n. 1, del codice del processo amministrativo. 5. Con il secondo motivo, l'appellante censura la sentenza anche nella parte in cui ha rigettato la domanda di accertamento dell'inadempimento e della conseguente responsabilità contrattuale del Consorzio industriale e risarcimento del danno, sostenendo la inesistenza di un vincolo contrattuale tra le parti. Reitera gli argomenti con i quali ha sostenuto che dall'aggiudicazione dell'appalto concorso discendeva l'affidamento di tutta l'opera oggetto della gara. In particolare, la procedura indetta ed aggiudicata dal Consorzio riguardava la progettazione e la realizzazione dell'intera opera, ferma restando la circostanza che la fase esecutiva sarebbe proseguita per stralci dopo il recepimento dei necessari finanziamenti. La stessa lettera di invito precisava inoltre che l'aggiudicataria "dovrà consentire al Consorzio di utilizzare come cosa propria il progetto per sottoporlo all'Ente finanziatore". Dunque, la lettera di invito non indicava solo che l'opera era priva di finanziamento e che si sarebbe proceduto per stralci, ma anche che oggetto dell'affidamento era costituito dalla progettazione e che il progetto presentato dal vincitore sarebbe stato utilizzato dal CONSORZIO "come cosa propria" per ottenere i finanziamenti necessari all'attività esecutiva. 5.1. In tale prospettiva chiede la corresponsione anche dello specifico compenso per il progetto divenuto di proprietà del Consorzio, che non sarebbe stato interamente pagato (pagamento che era previsto in occasione dell'affidamento dei diversi stralci). 5.2. Sotto altro profilo, l'appellante richiama anche l'art. 33 del Capitolato speciale di appalto (sul deferimento alla competenza arbitrale per le controversie che dovessero sorgere fra la Direzione dei Lavori e l'Appaltatore), osservando come il fatto che il Consorzio si sia sempre difeso, tra l'altro, richiamando la competenza arbitrale prevista dal richiamato art. 33 del capitolato speciale di appalto, presuppone il perfezionamento del vinculum iuris e quindi si controverta in materia di diritti soggettivi (art. 12 del Codice del processo amministrativo), posto che il collegio arbitrale non potrebbe essere chiamato a definire controversie che attengono a interessi legittimi. In tal modo il Consorzio avrebbe mostrato di essere consapevole della definitività dell'intero affidamento e, dunque, del vinculum iuris tra le parti. 5.3. Col terzo motivo, in via subordinata l'appellante impugna la sentenza anche nella parte in cui ha respinto la domanda di condanna del Consorzio alla stipula del contratto, ai sensi dell'art. 2932 del codice civile, che troverebbe la sua base giuridica nella clausola dei contratti stralcio (articolo 5) successivi alla iniziale aggiudicazione dell'appalto concorso, che contempla l'espresso impegno a completare la realizzazione dei restanti lotti, concretizzando l'obbligo a contrarre in capo alla stazione appaltante, condizionato al mero ottenimento dei finanziamenti regionali. Il Consorzio sarebbe venuto meno anche all'obbligo di esecuzione in buona fede (art. 1375 c.c.), omettendo di chiedere i finanziamenti necessari, il che giustifica la domanda di esecuzione in forma specifica, per ottenere una sentenza che tenga luogo del contratto non stipulato. L'appellante, peraltro, precisa che con la sentenza ex art. 2932 il giudice dovrebbe, per un verso, accertare l'esistenza del contratto e, per altro verso, successivamente, dichiararlo risolto per inadempimento imputabile al Consorzio, condannando quest'ultimo al risarcimento dei danni da inadempimento subiti dalla società appellante. In alternativa, il giudice potrebbe limitarsi a disporre direttamente il risarcimento per equivalente, per l'impossibilità della realizzazione dell'opera per fatto e colpa del Consorzio. 5.4. In via ulteriormente subordinata, l'appellante ritiene che il primo giudice abbia errato nel rigettare la domanda per l'accertamento della responsabilità precontrattuale del Consorzio, ai sensi dell'art. 1337 del codice civile, i cui principi di correttezza e di buona fede sarebbero stati palesemente violati dall'amministrazione appaltante. 6. Le diverse questioni sollevate con gli articolati motivi sopra esposti si prestano a una trattazione unitaria, considerato che le conseguenze tratte dall'appellante prendono le mosse dall'unico assunto secondo cui dal bando di gara e dalla lettera di invito, o - anche - dai tre contratti stralcio stipulati, sorgesse il vincolo contrattuale definitivo o quantomeno quel vincolo preliminare idoneo a costituire l'obbligo del Consorzio (coercibile ex art. 2932 c.c.) a concludere il contratto definitivo. 6.1. I motivi sono infondati. 6.2. Quanto alla inesistenza di un rapporto contrattuale discendente direttamente dal bando di gara e dalla lettera di invito all'appalto concorso, è sufficiente richiamare le condivisibili argomentazioni spese dal primo giudice, il quale ha correttamente rilevato come le norme di gara escludevano chiaramente ogni impegno contrattuale dell'amministrazione, se non a seguito della acquisizione dei finanziamenti per l'esecuzione dei lavori dei singoli lotti e della stipula dei relativi contratti di appalto (eventualità che si è puntualmente verificata per i tre stralci affidati al raggruppamento As.). 6.3. Conseguenza che era facilmente evincibile anche dalla piana lettura della deliberazione del Comitato direttivo del Consorzio, n. 383 del 22 giugno 1989 (che ha approvato la conclusione dei lavori della commissione esaminatrice nominata per la valutazione delle offerte), che ha dichiarato l'associazione temporanea di imprese con mandataria la Di. (divenuta As. S.p.a.) "aggiudicataria provvisoria dell'appalto concorso", precisando che detta aggiudicazione "diventerà definitiva solo dopo l'avvenuto finanziamento delle opere comprese nel progetto prescelto". 6.4. Oltre alle argomentazioni di cui in sentenza, milita a favore della inesistenza di un vincolo contrattuale anche la previsione contenuta nella lettera di invito (su cui si sofferma insistentemente l'appellante) secondo cui l'impresa risultata aggiudicataria avrebbe dovuto "consentire al Consorzio di utilizzare come cosa propria il progetto per sottoporlo all'Ente finanziatore". Al contrario di quanto sostenuto dall'appellante, appare evidente che una clausola del genere non sarebbe stata necessaria in caso di aggiudicazione definitiva, che implica - nel caso di gara di appalto integrato di progettazione ed esecuzione dei lavori - l'acquisizione (a titolo di proprietà ) della progettazione, oltre che delle opere realizzate in appalto. Anche nel testo del primo contratto stralcio (testo ripreso anche nei successivi contratti stralcio), stipulato sulla base della delibera del Consorzio n. 4485 del 20 marzo 1992 (ove si precisava che "la realizzazione dei lavori relativi all'intero progetto dovrà essere affidata all'aggiudicataria Associazione Temporanea sopra citata, previa aggiudicazione dei singoli futuri stralci quando verranno ammessi a finanziamento") si ribadisce che l'associazione di imprese è (solo) aggiudicataria provvisoria dell'appalto concorso, essendo l'aggiudicazione definitiva (e quindi il contratto) subordinata "all'avvenuto finanziamento delle opere comprese nel progetto". 6.5. Si osservi, inoltre, che ogni contratto stralcio stipulato è stato preceduto dalla deliberazione del Comitato direttivo del Consorzio che, preso atto del finanziamento acquisito, ha disposto l'aggiudicazione definitiva al raggruppamento As.. 6.5. Ne deriva, inoltre, che, per via della suddivisione in stralci successivi, anche gli oneri di progettazione venivano compensati nell'ambito del contratto esecutivo (ciò trova conferma anche nella clausola sopra citata in base alla quale il progetto scaturito dall'appalto concorso non diventa per ciò solo di proprietà del Consorzio ma questo può utilizzarlo - con l'espresso consenso dell'impresa - solo per le domande di finanziamento; pertanto non spetta il compenso per l'attività di progettazione preteso dall'appellante). 6.6. Ne deriva come conseguenza che è infondata la domanda di risarcimento dei danni per inadempimento imputabile al Consorzio. 7. Anche la domanda di esecuzione in forma specifica è infondata, per le medesime ragioni: ossia per l'assenza di una base giuridica dalla quale desumere un obbligo del Consorzio di addivenire alla stipula del contratto definitivo. Anche il riferimento alla violazione degli obblighi di buona fede nell'esecuzione del contratto appare genericamente dedotto, emergendo dalla documentazione in atti l'attività svolta dal Consorzio per reperire i vari finanziamenti regionali necessari. 8. In tale contesto, va esclusa anche la responsabilità del Consorzio a titolo precontrattuale, non riscontrandosi un affidamento incolpevole tutelabile in capo all'appellante, anche in considerazione della elevata qualificazione professionale delle imprese coinvolte, come già rilevato dal primo giudice. 9. In conclusione, l'appello va integralmente respinto. 10. La disciplina delle spese giudiziali segue la regola della soccombenza, nei termini di cui al dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna l'appellante al pagamento delle spese giudiziali del presente grado in favore del Consorzio Industriale Provinciale di Sassari, che liquida in euro 4.000,00 (quattromila/00), oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Oreste Mario Caputo - Presidente FF Giovanni Tulumello - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere, Estensore Ugo De Carlo - Consigliere Roberta Ravasio - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna sezione staccata di Parma Sezione Prima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 353 del 2023, proposto da El. Za., rappresentata e difesa dall'avvocato Al. Ar. Gi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Al. Me., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Regione Emilia-Romagna, Provincia di Reggio Emilia, non costituiti in giudizio; per l'annullamento - dell''atto, a firma della Responsabile del Servizio Uso e Assetto del Territorio del Comune di (omissis), 11.10.2023 prot. n. 13122 con oggetto "S.c.i.a. 2023/041/S - Prot. n. 8753 dell'8.7.2023 - Comunicazione di inefficacia ai sensi dell''art. 14 comma 6 LR 15/2013"; - della ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi 27.10.2023 n. 80. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 maggio 2024 la dott.ssa Paola Pozzani, nessuno presente per le parti come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con il ricorso introduttivo la ricorrente ha chiesto l'annullamento dell'atto, a firma della Responsabile del Servizio Uso e Assetto del Territorio del Comune di (omissis), 11.10.2023 prot. n. 13122 recante in oggetto "S.c.i.a. 2023/041/S - Prot. n. 8753 dell'8.7.2023 - Comunicazione di inefficacia ai sensi dell'art. 14 comma 6 LR 15/2013", e dell'ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi n. 80 del 27.10.2023. Il Comune di (omissis), costituitosi in giudizio il 28 dicembre 2023, ha speso le proprie difese con memoria del 18 gennaio 2024 ed ha depositato memoria ex art. 73 C.p.a. il 4 aprile 2024. La ricorrente ha precisato la propria posizione con memoria depositata in giudizio il 19 aprile 2024. Entrambe le parti hanno depositato copiosa documentazione. Alla pubblica udienza del 22 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO La ricorrente, proprietaria, in (omissis) (RE), via (omissis), di un edificio residenziale in zona agricola, rappresenta che presentava al Comune di (omissis), in data 8.7.2023, prot. n. 8753, una s.c.i.a. in sanatoria avente ad oggetto la realizzazione, in assenza di titolo edilizio, di una piscina, del relativo locale tecnico, della pavimentazione perimetrale, di un piccolo fabbricato in legno ad uso spogliatoio e di una tettoia; ricevuti i documenti ed i chiarimenti richiesti, il Comune di (omissis), con atto 11.10.2023 prot. n. 13122 della Responsabile del Servizio Uso e Assetto del Territorio, comunicava alla ricorrente l'inefficacia della s.c.i.a., "verificata l'assenza di titolo ad intervenire in zona agricola ai sensi dell'art. 4.1.1. e seguenti del R.U.E. in quanto trattasi di intervento in zona agricola effettuato da non IAP; verificata la non applicabilità dell'art. 4.1.3. comma 6 del R.U.E. vigente in quanto trattasi di edificio non di recente costruzione e di ampliamento superiore ai 30 mq. di SU". Faceva seguito l'ordinanza 27.10.2023 n. 80, con la quale l'Amministrazione comunale ha disposto la demolizione delle opere oggetto della s.c.i.a. in sanatoria ed anche di una recinzione, accertando, altresì, la sussistenza di una lottizzazione abusiva: "...Confermando quanto relazionato dalla comunicazione di inefficacia trasmessa dal Comune di (omissis) con Prot. n. 13122 del 11.10.2023 si precisa che dagli atti trasmessi risulta quanto segue: 1. Accertata difformità urbanistica ed edilizia sul mappale (omissis) (ex (omissis)) ad uso piscina e manufatti diversi (spogliatoio e wc, locale tecnico, tettoia); le dimensioni della difformità riguardano la piscina di mq. 132,92 di superficie, uno spogliatoio e wc di mq. 8,00, un locale tecnico di mq. 12,00 e una tettoia di mq. 35,02; 2. Accertata difformità urbanistica ed edilizia di muri perimetrali a recinzione del mappale (omissis) sui lati ovest, sud ed est a divisione del mappale (omissis); 3. Accertata difformità urbanistica ed edilizia della pavimentazione realizzata sul mappale (omissis); 4. I succitati lavori di esecuzione dei manufatti e della recinzione risultano terminati da tempo, a maggio 2019, come da dichiarazione allegata alla scia 2023/041/S; 5. Accertata difformità urbanistica per lottizzazione abusiva del mappale (omissis) e (omissis) in seguito al frazionamento del mappale ex (omissis) Pratica n. RE0065467 in atti dal 11.5.2023 Protocollo NSD n. ENTRATE.AGEV-STI.REGISTRO UFFICIALE.20433-58.11/05/2023 presentato il 11.5.2023 (n. 65467.1/2023)". Con il primo motivo di ricorso "Illegittimità dell'atto 11.10.2023 prot. n. 13122 per violazione dell'art. 37 del d.P.R. 6.6.2001 n. 380, dell'art. 19 della L. 7.8.1990 n. 241, dell'art. 14 della L. Reg. 30.7.2013 n. 15 e dell'art. 17 della L. Reg. 21.10.2004 n. 23. Illegittimità della ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi 27.10.2023 n. 80 per vizio derivato e per violazione e falsa applicazione dell'art. 31 del d.P.R. 6.6.2001 n. 380" la ricorrente evidenzia, con riguardo alle opere di cui alla s.c.i.a. in sanatoria presentata in data 8.7.2023, che l'art. 37, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001, nel prevedere l'accertamento di conformità, mediante s.c.i.a. in sanatoria, degli interventi edilizi di cui all'articolo 22, commi 1 e 2, in assenza della o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività, non detta alcuna disposizione volta a disciplinare il relativo procedimento e prospetta che in materia sussistano due orientamenti giurisprudenziali, l'uno rivolto a riconoscere l'applicabilità dell'istituto del silenzio assenso, l'altro a negarla. In particolare la difesa attorea si riferisce, quanto al primo, alle pronunce che affermano che "la s.c.i.a. in sanatoria, presentata ex art. 37 D.P.R. n. 380 del 2001, si presta a rendere operanti le correlate prescrizioni di cui all'art. 19 e ss., legge n. 241 del 1990, in materia di silenzio assenso, dovendo essere ragionevolmente riconosciuto a tale segnalazione carattere e natura confessoria, diretta a provare la verità dei fatti attestati e a produrre, con l'inutile decorso del tempo per l'emanazione di provvedimenti inibitori, effetti direttamente stabiliti dalla legge, indipendentemente da una diversa volontà delle parti, ossia l'avvenuta formazione del titolo abilitativo in sanatoria... Di talché, non essendo intervenuto alcun motivato provvedimento inibitorio allo spirare del trentesimo giorno dalla segnalazione, il titolo in sanatoria deve essere considerato esistente...". (facendo riferimento a T.A.R. Campania, Salerno, 24.3.2022 n. 809; T.A.R. Campania, Napoli, 9.12.2019 n. 5789; T.A.R. Lazio, Roma, 9.1.2018 n. 156; T.A.R. Calabria 29.5.2019 n. 1085; Cons. Stato, Sez. V, 31.3.2014 n. 1534). Nel caso di specie, tale silenzio significativo si sarebbe formato in quanto il Comune di (omissis), a seguito della presentazione della s.c.i.a. in sanatoria in data 8.7.2023, ha chiesto tempestivamente alla ricorrente, in data 7.8.2023, prima della scadenza del termine di 30 giorni, chiarimenti e determinata documentazione e, ottenute, in data 6.9.2023, le precisazioni richieste, l'Amministrazione comunale si è pronunciata con l'atto 11.10.2023 prot. n. 13122, successivamente alla scadenza del termine di 30 giorni dal ricevimento delle integrazioni e, pertanto, quando il titolo edilizio in sanatoria sarebbe ormai venuto ad esistenza. Parte attrice da atto che un diverso orientamento qualifica la fattispecie come silenzio rigetto (facendo riferimento a T.A.R. Lombardia, Milano, 21.3.2017 n. 676) o come silenzio inadempimento (in riferimento a Cons. Stato, Sez. II, 20.2.2023 n. 1708), ma ne contesta il fondamento poiché la prima declinazione ermeneutica replicherebbe la disciplina dell'art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, precisando che nelle relative sentenze si farebbe riferimento anche al termine di 60 giorni previsto dall'art. 36, comma 3, quando, invece, il legislatore avrebbe tenuto ben distinte le fattispecie, prevedendo: - la disciplina dell'art. 36 per i casi di "interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio di attività nelle sole ipotesi di cui all'art. 23, comma 01, o in difformità da essa"; - la disciplina di cui all'art. 37 per la diversa fattispecie riguardante "la realizzazione di interventi di cui all'art. 22, commi 1 e 2, in assenza della o in difformità dalla s.c.i.a.", senza operare alcun riferimento, neppure indirettamente, all'art. 36 né prevedere che il mancato, tempestivo, pronunciamento della Amministrazione sia da qualificarsi come silenzio rigetto. Quanto alla seconda declinazione interpretativa dell'orientamento in disamina, la difesa attorea sottolinea che sarebbe stato affermato (in riferimento a Cons. Stato, n. 1708/2023 cit.) che "il procedimento può ritenersi favorevolmente concluso per il privato solo allorquando vi sia un provvedimento espresso dell'amministrazione procedente, pena la sussistenza di un'ipotesi di silenzio inadempimento" in considerazione del fatto che "dalla lettura della norma emerge che la definizione della procedura di sanatoria non può prescindere dall'intervento del responsabile del procedimento competente a determinare, in caso di esito favorevole, il quantum della somma dovuta sulla base della valutazione dell'aumento di valore dell'immobile compiuta dall'Agenzia del Territorio": sul punto la ricorrente sottolinea che nella impossibilità, sulla base di detta impostazione, di far riferimento, per il pronunciamento dell'Amministrazione comunale, ad alcun termine determinato - non al termine dell'art. 19 della L. n. 241/1990, la cui inosservanza comporterebbe il silenzio assenso, non al termine di cui all'art. 36, la cui inosservanza è qualificata come silenzio rigetto, e neppure al termine previsto in via generale dall'art. 2, comma 2, della L. n. 241/1990, atteso che, sulla base della giurisprudenza citata, 30 giorni non sarebbero sufficienti per accertare la duplice conformità urbanistica di un'opera abusiva - verrebbe a determinarsi una situazione di assoluta incertezza, non essendo dato comprendere quando possa configurarsi l'inadempimento, così da consentire all'interessato di attivarsi giudizialmente per contrastare l'inerzia della Amministrazione. Né tale tesi sarebbe percorribile, ad avviso del patrocinio attoreo, sulla scorta del fatto che, in caso di esito favorevole, il quantum della somma da corrispondersi a titolo di oblazione debba essere determinato dal responsabile del procedimento medesimo, poiché non sussisterebbe alcuna preclusione a che la somma dovuta venga determinata in un momento successivo alla formazione, per decorso del termine di 30 giorni, del titolo edilizio in sanatoria: tale tesi sarebbe ancora meno spendibile con riferimento al caso di specie, avuto riguardo alla normativa regionale di riferimento. La ricorrente fa riferimento all'art. 17, comma 3, della L. Reg. 21.10.2004 n. 23 laddove prevede per le nuove costruzioni il pagamento di un importo a titolo di oblazione predeterminato dalla stessa norma, commisurato "al contributo di costruzione in misura doppia ovvero, in caso di esonero, in misura pari a quella prevista dalla normativa regionale e comunale, e comunque per un ammontare non inferiore a 2.000 euro": pertanto, assume la difesa attorea, l'intervento del responsabile del procedimento, nel caso considerato, non sarebbe a rigore necessario e il modulo relativo alla s.c.i.a. in sanatoria prevede che l'importo della oblazione sia indicato dal privato e preventivamente versato. L'esponente contesta l'impostazione della decisione del Consiglio di Stato n. 1708/2023 laddove si legge, altresì, che il silenzio inadempimento è soluzione che "appare più conforme alla ratio della sanatoria di opere abusive già realizzate, che necessita di una valutazione espressa dell'amministrazione sulla sussistenza della doppia conformità, rispetto al regime di opere ancora da realizzare alle quali si attaglia la disciplina ordinaria della S.C.I.A., come metodo di semplificazione del regime abilitativo edilizio", poiché la disciplina di cui all'art. 19 della L. n. 241/1990 non esclude una valutazione espressa della Amministrazione, prevedendo anzi, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti prescritti, l'adozione di "motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa". Inoltre, aggiunge parte attrice, la s.c.i.a. in sanatoria ha per oggetto opere di minore impatto e rilevanza, per le quali l'accertamento della doppia conformità rispetto alla disciplina urbanistico - edilizia può essere adeguatamente effettuato nel termine di 30 giorni previsto dalla legge, tenuto conto anche del fatto che il termine in questione è suscettibile di essere interrotto per chiarimenti e integrazioni, per poi, una volta ottenuto quanto richiesto, riprendere nuovamente il suo corso. In conclusione, la difesa attorea prospetta che la comunicazione di cui all'atto 11.10.2023 prot. n. 13122, in quanto pervenuta oltre il termine di 30 giorni dall'inoltro delle integrazioni richieste dall'Amministrazione comunale, sarebbe da ritenersi, sulla scorta dell'orientamento giurisprudenziale che ritiene preferibile, priva di efficacia, come previsto anche dall'art. 14 della L. Reg. 30.7.2013 n. 15 (in riferimento al comma 8-ter) che il Comune di (omissis), a dimostrazione della ritenuta applicabilità della norma in questione anche nel caso di specie, avrebbe richiamato espressamente in detta comunicazione: il titolo edilizio in sanatoria sarebbe, pertanto, venuto ad esistenza e l'inefficacia dell'atto 11.10.2023 prot. n. 13122 si riverberebbe sulla ordinanza 27.10.2023 n. 80, determinandone l'illegittimità per vizio derivato ed anche per violazione e falsa applicazione dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, difettando il presupposto per ordinare il ripristino dello stato dei luoghi, costituito dalla abusività delle opere considerate. Nella memoria finale la difesa attorea aggiunge che la tesi volta ad escludere la possibile formazione del silenzio assenso sulla s.c.i.a. in sanatoria confliggerebbe anche con quanto previsto dal D.Lgs. 25.11.2016 n. 222 ("Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell'articolo 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124") sottolineando che l'art. 2 del D.Lgs. citato sancisce, al comma 1, che "a ciascuna delle attività elencate nell'allegata tabella A, che forma parte integrante del presente decreto, si applica il regime amministrativo ivi indicato" e, al comma 3, che "per lo svolgimento delle attività per le quali la tabella A indica la Scia, si applica il regime di cui all'articolo 19 della legge n. 241 del 1990": la tabella A, "Sezione II - Edilizia", al n. 41 della "Ricognizione degli interventi edilizi e dei relativi regimi amministrativi" indica la "S.c.i.a. in sanatoria" prospettando, quindi, l'esponente che la s.c.i.a. in sanatoria è da considerarsi soggetta al regime del silenzio assenso, secondo il paradigma dell'art. 19 della L. n. 241/1990. Con il secondo motivo di ricorso "Illegittimità dell'atto 11.10.2023 prot. n. 13122 per violazione dell'art. 37 del d.P.R. 6.6.2001 n. 380. Violazione dell'art. 14 della L. Reg. 30.7.2013 n. 15 e dell'art. 17 della L. Reg. 21.10.2004 n. 23. Violazione degli artt. 4.1.1. e seguenti del R.U.E. del Comune di (omissis). Eccesso di potere per travisamento. Illegittimità della ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi 27.10.2023 n. 80 per vizio derivato e per violazione e falsa applicazione dell'art. 31 del d.P.R. 6.6.2001 n. 380" parte ricorrente ritiene che nel caso di specie sussista il presupposto della doppia conformità posto che, a differenza di quanto ritenuto dal Comune di (omissis), le opere oggetto della s.c.i.a. in sanatoria presentata in data 8.7.2023 sarebbero conformi alla disciplina urbanistico - edilizia vigente sia al momento della loro realizzazione, sia alla data di presentazione di detta segnalazione: precisa, infatti, che si tratterebbe della medesima disciplina, atteso che le opere di cui trattasi sono state realizzate nel maggio del 2019 e il vigente R.U.E. del Comune di (omissis) è stato approvato con delibera di C.C. 21.12.2011 n. 72. La determinazione del Comune sarebbe erronea nel ritenere non sanabili le opere ridette, adducendo "l'assenza di titolo ad intervenire in zona agricola ai sensi dell'art. 4.1.1. e seguenti del R.U.E. in quanto trattasi di intervento in zona agricola effettuato da non IAP" ed anche la "non applicabilità dell'art. 4.1.3., comma 6, del R.U.E. vigente in quanto trattasi di edificio non di recente costruzione e di ampliamento superiore ai 30 mq di SU" poiché la s.c.i.a. in sanatoria di cui si discute riguarda la realizzazione, in assenza di titolo edilizio, di una piscina e delle relative strutture accessorie costituite dal locale tecnico ove sono alloggiati gli impianti della piscina, da uno spogliatoio in legno, da una tettoia a bordo piscina per la sosta e il riparo delle persone e dalla pavimentazione perimetrale alla piscina: le opere descritte - prospetta l'esponente - sarebbero state realizzate in stretta contiguità spaziale rispetto all'attiguo edificio abitativo (la piscina è posta di fronte a detto edificio, alla distanza di una ventina di metri), per il quale, con autorizzazione edilizia 7.1.2000 n. 47/99/A, è stato assentito il mutamento di destinazione d'uso da fabbricato rurale a edificio residenziale. A sostegno della pertinenzialità la ricorrente adduce che la Regione Emilia-Romagna, con nota 24.6.2020 n. PG/2020/463171 del Servizio giuridico del territorio, disciplina dell'edilizia, sicurezza e legalità (in actis al documento n. 8), ha precisato che costituisce pertinenza dell'edificio residenziale la piscina posta a servizio dell'edificio medesimo, "con dimensioni non superiori al 20% del volume dell'edificio principale, che non ha una potenziale autonoma utilizzazione economica" e, come si evincerebbe dalla relazione tecnica del Geom. Al. Be. del 5.12.2003 (in actis al documento n. 9), la piscina di cui trattasi ha un volume di 152 mc. inferiore al 20% del volume del fabbricato principale, pari a 1462,27 mc. (1462,27mc x 20% = 292,45 mc.). Inoltre, aggiunge la ricorrente, la piscina non sarebbe suscettibile, neppure in via potenziale, di autonoma utilizzazione economica, considerato che la stessa, come risulterebbe dalla relazione succitata, ha le dimensioni di una piscina ad uso privato destinata a soddisfare le esigenze delle persone residenti nell'edificio abitativo, risultando, altresì, strettamente connessa all'edificio medesimo non solo per la sua ubicazione, ma anche per il fatto che la piscina è dotata di impianti derivanti dalla abitazione ridetta, sia per l'adduzione idrica, sia per l'energia elettrica: la pertinenzialità sarebbe implicitamente - ad avviso della difesa attorea - riconosciuta dallo stesso Comune di (omissis) che nulla avrebbe eccepito in ordine al fatto che, per la sua sanatoria, sia stata presentata una s.c.i.a. Inoltre, sottolinea la esponente, il riferimento operato dal Comune di (omissis), con l'atto impugnato, alla assenza di titolo per intervenire in zona agricola ai sensi dell'art. 4.1.1. e seguenti del R.U.E., non sarebbe corretto trattandosi di pertinenza di un edificio residenziale, e avrebbe, perciò, titolo per intervenire il proprietario dell'edificio medesimo, ancorché privo della qualifica di imprenditore agricolo. A sostegno della tesi, la ricorrente evidenzia che l'art. 4.1.3. del R.U.E. del Comune di (omissis) prevede la possibilità di ottenere il mutamento di destinazione d'uso degli edifici rurali in edifici residenziali, così che, una volta assentito detto mutamento, deve ritenersi consentita, per il proprietario, la realizzazione di opere pertinenziali dell'edificio principale: questa prospettazione sarebbe confermata dalla giurisprudenza, essendosi ritenuta legittima la realizzazione, in ragione del riconosciuto carattere pertinenziale, di una piscina di dimensioni contenute a corredo di un edificio a destinazione residenziale sito in zona agricola (facendo riferimento a Cons. Stato, Sez. V, 16.4.2014 n. 1951; idem, Sez. I, 21.7.2014 n. 1142; T.A.R. Puglia, Lecce, 1.6.2018 n. 931; idem, 14.1.2019 n. 40; T.A.R. Liguria 21.7.2014 n. 1142; T.A.R. Sicilia, Palermo, 13.2.2015 n. 441). Sarebbero, così, suscettibili di sanatoria anche il locale tecnico, lo spogliatoio in legno, la tettoia e la pavimentazione perimetrale, trattandosi di elementi accessori strettamente funzionali e strumentali rispetto alla piscina (citando con riferimento al locale tecnico, Cons. Stato, n. 1951/2014), insuscettibili, per le loro dimensioni contenute, di alterare in modo significativo l'assetto del territorio. Quanto al fatto che il Comune di (omissis), con l'atto 11.10.2023 prot. n. 13122, ha addotto altresì, che, nel caso di specie, non sarebbe applicabile l'art. 4.1.3., comma 6, del R.U.E. "in quanto trattasi di edificio non di recente costruzione e di ampliamento superiore ai 30 mq di SU" la difesa attorea ne contesta l'assunto in quanto la disposizione medesima disciplinerebbe l'ampliamento delle unità edilizie abitative e delle superfici accessorie esistenti, senza escludere la possibilità di realizzare nuove opere pertinenziali nel rispetto del limite del 20% del volume dell'edificio principale: nel caso in esame, detto limite, come sarebbe evidenziato nella relazione sopra del Geom. Be., sarebbe stato rispettato anche considerando i locali accessori (spogliatoio e locale tecnico), mentre la tettoia non sarebbe computabile a fini volumetrici, essendo aperta su tutti i lati. Aggiunge l'esponente che il locale spogliatoio e il locale tecnico hanno, rispettivamente, una volumetria di 17,78 mc. e di 27 mc. che sommata al volume della piscina (152 mc.) porta ad una volumetria complessiva di 196,78 mc., inferiore al 20% del volume del fabbricato principale (292,45 mc.) concludendo che le opere oggetto di sanatoria sarebbero da considerarsi conformi alla disciplina urbanistico-edilizia di riferimento e, così, suscettibili di sanatoria. Con il terzo motivo di ricorso "Illegittimità della ordinanza di rimessione in pristino dello stato dei luoghi 27.10.2023 n. 80 per violazione degli artt. 31 e 37 del d.P.R. 6.6.2001 n. 380, dell'art. 19 della L. 7.8.1990 n. 241, dell'art. 14 della L. Reg. 30.7.2013 n. 15 e dell'art. 17 della L. Reg. 21.10.2004 n. 23, nonchè per eccesso di potere per travisamento sotto altro profilo" la ricorrente lamenta che il Comune di (omissis), con la ordinanza 27.10.2023 n. 80, ha disposto la demolizione dei "muri perimetrali a recinzione del mappale (omissis) sui lati ovest, sud ed est a divisione del mappale (omissis)", ma la recinzione in questione figurerebbe fra le opere oggetto di altra s.c.i.a. in sanatoria presentata dalla ricorrente in data 11.5.2023, prot n. 5985, per alcune difformità riguardanti l'edificio principale e anche la recinzione anzidetta: su tale s.c.i.a. l'Amministrazione comunale non si sarebbe ancora pronunciata, avendo chiesto integrazioni, da ultimo, con nota 26.9.2023 prot. n. 12395, alla quale ha fatto seguito, in data 26.10.2023, la trasmissione delle integrazioni richieste; anche in tale caso si sarebbe formato il silenzio assenso, dovendosi, così, escludere la possibilità di ordinare la demolizione dell'opera medesima. Inoltre, l'ordinanza 27.10.2023 n. 80 oggetto di gravame sarebbe da considerarsi illegittima anche nell'ipotesi in cui il procedimento di sanatoria dovesse considerarsi ancora pendente poiché per giurisprudenza consolidata - prospetta la difesa attorea - è "illegittima l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive emessa in pendenza della già avvenuta presentazione di una domanda in sanatoria; questo in quanto nelle more della definizione di tali domande i procedimenti sanzionatori in materia edilizia sono sospesi" (citando Cons. Stato, Sez. VI, 9.11.2021 n. 7448). I Con il quarto motivo di ricorso "Illegittimità della ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi 27.10.2023 n. 80 per violazione e falsa applicazione dell'art. 30 del d.P.R. 6.6.2001 n. 380 e dell'art. 12 della L. Reg. 21.10.2004 n. 23. Violazione dell'art. 31 del d.P.R. 6.6.2001 n. 380. Eccesso di potere sotto i profili della illogicità e del travisamento sotto ulteriore profilo" evidenzia l'esponente che il Comune di (omissis), con la ordinanza 27.10.2023 n. 80, ha contestato anche una "difformità urbanistica per lottizzazione abusiva del mappale (omissis) e (omissis) in seguito al frazionamento del mappale ex (omissis)", la quale nel caso di specie non sussisterebbe. La difesa attorea sottolinea che la lottizzazione c.d. "cartolare", come espressamente sancito dall'art. 30 del d.P.R. n. 380/2001 e dall'art. 12 della L. Reg. n. 23/2004, è ravvisabile allorquando la trasformazione del suolo sia predisposta "mediante il frazionamento e la vendita, ovvero mediante atti negoziali equivalenti, del terreno frazionato in lotti", i quali, per le loro oggettive caratteristiche - con riguardo soprattutto alla dimensione correlata alla natura dei terreni ed alla destinazione degli appezzamenti considerata sulla base degli strumenti urbanistici, al numero, all'ubicazione o all'eventuale previsione di opere di urbanizzazione - rivelino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio degli atti adottati dalle parti (facendo riferimento a Cons. Stato, Sez. II, 20 maggio 2019, n. 3215, Sez. V, 3 agosto 2012, n. 4429, Sez. IV, 13 maggio 2011, n. 2937). Nel caso di specie, precisa il patrocinio della ricorrente, mancherebbe il presupposto fondamentale per la sussistenza di una lottizzazione "cartolare", atteso che al frazionamento dell'originario mappale n. (omissis) non ha fatto seguito alcuna vendita del terreno frazionato, vendita che non sarebbe configurabile, considerato che la piscina non sarebbe suscettibile, neppure in via potenziale, di autonomo sfruttamento economico: il frazionamento di cui trattasi è stato effettuato in data 16.5.2023, dandone comunicazione anche al Comune di (omissis) (con riferimento al documento n. 13 in actis), in funzione della presentazione della s.c.i.a. in sanatoria riguardante la piscina, al fine di distinguere catastalmente la piscina medesima dalla restante area di proprietà, in cui era presente un magazzino, anch'esso realizzato in assenza di titolo edilizio, per il quale è stata presentata dalla ricorrente, in data 7.7.2023, prot. n. 8752, una c.i.l.a. ai fini della sua demolizione. Pertanto, conclude sul punto l'esponente, ancorché l'Amministrazione comunale, con l'atto impugnato, pare essersi riferita esclusivamente alla lottizzazione c.d. "cartolare", sarebbe da escludersi che possano configurarsi anche la lottizzazione "materiale" e la lottizzazione c.d. mista, caratterizzata, quest'ultima, dalla compresenza delle attività negoziali e delle attività materiali volte alla edificazione del terreno dovendosi, in base alla giurisprudenza, considerare che la fattispecie lottizzatoria nella veste "materiale" implica la realizzazione di "opere finalizzate alla trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della disciplina a quest'ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti pianificatori; siffatti interventi devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all'amministrazione" (citando Cons. stato, Sez. VI, 4.11.2019 n. 7530): deve, pertanto, trattarsi di una radicale trasformazione del suolo a fini edificatori che non può riscontrarsi, a prescindere dalla dimostrata legittimità dell'intervento, nella realizzazione di una piscina a servizio di un edificio residenziale in zona agricola, non comportando tale opera, tra l'altro, alcun aggravio del carico urbanistico (rinviando a Cons. Stato, Sez. I, 21.7.2014 n. 1142). Il Comune resistente precisa in fatto che la ricorrente è proprietaria di un complesso immobiliare sito in via (omissis) a (omissis) (RE), che consta di un'abitazione principale (già fabbricato rurale, oggi edificio residenziale) e di un'ampia porzione di terreno agricolo, compendio su cui - nel corso degli anni - sono stati fatti diversi interventi di trasformazione edilizia in assenza di valido titolo. In particolare, in data 28.04.2023 la ricorrente depositava presso il Comune di (omissis) la comunicazione di avvenuto frazionamento dell'ex mappale (omissis) nei nuovi mappali (omissis) e (omissis), frazionamento che era stato presentato all'Agenzia delle Entrate - Ufficio Provinciale di Reggio Emilia - in data 18.04.2023; sul mappale (omissis), secondo la difesa dell'Ente, sono stati commessi svariati abusi edilizi, che - di fatto - lo caratterizzano in modo del tutto differente rispetto al mappale (omissis), sul quale pure sono stati commessi abusi edilizi che la ricorrente ha dichiarato di voler demolire con CILA presentata al Comune in data 08.07.2023, prot. n. 8752, ripristinando in tal modo l'originaria connotazione agricola del terreno (con riferimento ai documenti nn 3, 4, 5, 6, 7 e 8 in actis). Inoltre, prosegue l'Amministrazione, al fine di sanare le opere abusive non rimosse con la CILA di cui sopra, la ricorrente presentava al Comune due distinte pratiche di Segnalazione Certificata di Inizio Attività : la n. 2023/029/S, acquisita con prot. n. 5985 del 12.05.2023, relativa alla sanatoria di opere eseguite su edificio residenziale e sulla recinzione esterna dell'area cortiliva (immobile identificato catastalmente al foglio 20, mappale 205) e la n. 2023/041/S, acquisita con prot. n. 8753 del 08.07.2023, relativa alla sanatoria di una piscina - di oltre 112 mq. di superficie - e di manufatti annessi (su terreno agricolo, identificato catastalmente al foglio 20, mappale (omissis)). Quindi, sottolinea l'Amministrazione, emerge che le opere realizzate sul mappale (omissis) (piscina, tettoia, pavimentazione, locali tecnici, spogliatoio, recinzioni perimetrali alla piscina) sono dalla ricorrente medesima qualificate come "pertinenze" dell'edificio residenziale di cui al mappale 205, ma non sono state inserite nella stessa comunicazione di SCIA in sanatoria. Il Comune resistente aggiunge che dalla relazione fotografica e dagli elaborati grafici allegati alla SCIA prot. 8753, peraltro, si evince che gli interventi abusivamente realizzati sul mappale (omissis) hanno determinato la creazione di un autonomo lotto, con piscina e locali accessori, oltre ad una tettoia con funzioni di zona cucina-pranzo (di oltre 35 mq. di superficie coperta), lotto del tutto indipendente rispetto all'abitazione principale, al punto che da questa è separata da due cancelli e da uno stradello carrabile (rinviando ai documenti nn. 20 e 21 in actis): ciò comporterebbe che gli abusi edilizi e i frazionamenti dei mappali catastali hanno determinato la creazione di tre distinti lotti all'interno della proprietà della ricorrente, tutti serviti da uno stradello privato interno: uno con abitazione a area cortiliva di pertinenza, interamente recintato e chiuso da cancelli (mappale 205), uno con piscina, zona relax, tettoia con zona pranzo-cucina e locali accessori, interamente recintato e chiuso da cancelli (mappale (omissis)) ed uno che - a seguito della demolizione dei fabbricati abusivi che vi insistono - riacquisterà la sua originaria natura di terreno agricolo (mappale (omissis)). Inoltre, le due SCIA menzionate hanno avuto una sorte tra loro differente: - la n. 2023/029/S, prot. n. 5985, relativa alla sanatoria degli abusi eseguiti sul mappale 205, dopo alcune proroghe di termini e richiesta di documentazione integrativa, è stata accettata dal Comune con atto prot. n. 602/2024; - la n. 2023/041/S, prot. n. 8753, relativa alla sanatoria degli abusi eseguiti sul mappale (omissis), dopo alcune proroghe di termini e richiesta di documentazione integrativa, è stata dichiarata inefficace dal Comune con atto prot. n. 13122 del 11.10.2023. Quest'ultima, oggetto di impugnazione, è stata dal Comune motivata con l'accertata difformità dell'intervento rispetto agli strumenti urbanistici vigenti (rinviando all'estratto del PSC di cui al documento n. 25 ed all'estratto del RUE di cui al documento n. 26 in actis) per i seguenti motivi: - assenza di titolo ad intervenire in zona agricola, ai sensi dell'art. 4.1.1 e seguenti del RUE (in quanto intervento in zona agricola effettuato da non imprenditore agricolo - IAP); - per l'inapplicabilità dell'art. 4.1.3 comma 6 del RUE, in quanto l'intervento è stato eseguito su edificio non di recente costruzione e con ampliamento superiore ai 30 mq. di superficie (la sola tettoia sarebbe di 35,02 mq. con riferimento al documento n. 20 in actis). Con l'ordinanza impugnata il Comune ingiungeva di demolire le opere abusive, non sanabili perché in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti (PSC e RUE) realizzate in assenza di valido titolo edilizio sul mappale (omissis), e di ripristinare lo stato dei luoghi, con precisa identificazione delle opere da demolire: piscina, spogliatoio-wc, locale tecnico, tettoia, muri perimetrali, pavimentazione esterna e recinzioni sul lato ovest, sud ed est. Sul primo motivo l'Amministrazione precisa che le tesi della ricorrente non sono condivise dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha invece affermato essere necessario un espresso pronunciamento del Comune sulla SCIA in sanatoria: "... il procedimento (relativo alla sanatoria di abusi edilizi tramite SCIA, n. d.r.) può ritenersi favorevolmente concluso per il privato solo allorquando vi sia un provvedimento espresso dell'amministrazione procedente, pena la sussistenza di un'ipotesi di silenzio inadempimento. Innanzitutto, infatti, l'art. 37 non prevede esplicitamente un'ipotesi di silenzio significativo, a differenza dell'art. 36 del medesimo D.P.R. n. 380 del 2001, ma al contrario stabilisce che il procedimento si chiuda con un provvedimento espresso, con applicazione e relativa quantificazione della sanzione pecuniaria a cura del responsabile del procedimento... Al tempo stesso la soluzione appare più conforme alla ratio della sanatoria di opere abusive già realizzate, che necessita di una valutazione espressa dell'amministrazione sulla sussistenza della doppia conformità, rispetto al regime di opere ancora da realizzare alle quali si attaglia la disciplina ordinaria della S.C.I.A., come metodo di semplificazione del regime abilitativo edilizio" (citando Cons. Stato, sez. II, 20.02.2023, n. 1708 e per una puntuale ricostruzione dell'istituto della SCIA in sanatoria riferendosi a T.A.R. Lazio Roma, sez. II-quater, 07.12.2023, n. 18386): di conseguenza, sottolinea la resistente, il procedimento avviato dalla ricorrente con la SCIA prot. n. 8753/2023 è stato correttamente concluso dal Comune con la comunicazione di inefficacia della SCIA stessa (prot. n. 13122, del 11.10.2023), atto motivato con l'accertata difformità dell'intervento rispetto agli strumenti urbanistici vigenti. Sul secondo motivo, il Comune precisa che la nota della Regione citata dalla ricorrente si riferisce al quantum del contributo e non al concetto di pertinenzialità e che la declaratoria di inefficacia della SCIA impugnata è corretta in quanto non sussiste nel caso di specie la consistenza della misura inferiore ai 30 mq sostanziandosi l'intervento in un'opera che non sarebbe sanabile nemmeno da un imprenditore agricolo; la pertinenzialità sarebbe esclusa in quanto si tratta di un opera non contenuta ma di una piscina di 112 mq, e ai fini IMU (l'art. 1, comma 741, lett. b) della L. n. 160/2019 individua le pertinenze dell'abitazione principale nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7), e le piscine, che sono da ricomprendere ai sensi delle descrizioni contenute nella Circolare del Ministero delle Finanze n. 5 del 14.03.1992 "Revisione generale della qualificazione della classificazione e del classamento del N.C.E.U." nella categoria C/4 (Fabbricati e locali per esercizi sportivi), sono escluse dal concetto di pertinenza. Inoltre, sottolinea l'Amministrazione, la giurisprudenza citata dalla ricorrente, al fine di affermare la pertinenzialità della piscina rispetto all'edificio principale, ha comunque quale presupposto per l'applicazione del regime di SCIA la circostanza che la piscina stessa sia costituita da un elemento prefabbricato e non determini modifiche al territorio, circostanze che non ricorrono nel caso de quo. Di conseguenza, controdeduce sul punto l'Amministrazione, risulterebbe irrilevante la tesi sull'applicazione dell'art. 4.1.3., comma 6, del RUE, che a parere della ricorrente consentirebbe di realizzare nuove opere pertinenziali nel rispetto del limite del 20% del volume dell'edificio principale: non si tratterebbe di una questione di limite percentuale, ma è la natura stessa delle opere abusive che non ne consentirebbe la sanatoria tramite SCIA. Infine, conclude il Comune, l'argomento relativo all'implicito riconoscimento della piscina quale pertinenza dell'abitazione da parte del Comune stesso, che nulla avrebbe eccepito in ordine alla sanatoria dell'abuso tramite SCIA, non terrebbe conto del tenore della "comunicazione di inefficacia" della SCIA stessa, che - attraverso il richiamo all'impossibilità per la ricorrente di intervenire in zona agricola ai sensi dell'art. 4.1.1. e ss. del RUE - implicitamente affermerebbe che le opere eseguite in assenza di titolo, non essendo pertinenze dell'abitazione principale, avrebbero potuto essere realizzate solamente da un imprenditore agricolo e comunque senza possibilità di ricorrere a procedimenti semplificati (come la SCIA). Sul terzo motivo di ricorso il Comune di (omissis) precisa che i muri perimetrali di recinzione del mappale (omissis), oggetto dell'impugnata ordinanza di demolizione n. 80/2023 non sono i medesimi muri di recinzione oggetto della SCIA n. 2023/029/S, Prot. n. 5985 e ciò sarebbe agevolmente rilevabile dalla tavola di raffronto tra la porzione di recinzione sanata con la SCIA n. 2023/029/S, prot. n. 5985, segnata in viola, e la porzione di recinzione - non sanata - oggetto dell'ordinanza di demolizione n. 80/2023, segnata in giallo (con riferimento al documento n. 28 in actis): sarebbero secondo la resistente, pertanto, irrilevanti le argomentazioni del ricorso relative alla "pendenza" del procedimento SCIA n. 2023/029/S poiché la eventuale pendenza del medesimo non rileverebbe, avendo per oggetto manufatti non colpiti dall'ordinanza di demolizione. Sul quarto motivo di ricorso l'Amministrazione sottolinea che il frazionamento di più opere abusive censurate in via sostanziale integrerebbe una fattispecie di lottizzazione abusiva mista rinviando alla pronuncia del T.A.R. Sardegna, Sez. II, 20.03.2023, n. 194, che la descrive come categoria dogmatica "... caratterizzata dalla compresenza delle attività materiali e negoziali individuate dall'art. art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001, consistente nell'attività negoziale di frazionamento di un terreno in lotti e nella successiva edificazione dello stesso...": nel caso in esame, conclude sul punto l'Amministrazione, è stato accertato un disegno unitario, con un rilevante impatto negativo sul territorio rurale, con aggravio del relativo carico urbanistico e con pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita al Comune a garanzia del corretto uso del territorio deponendo per la correttezza della qualificazione della fattispecie come "lottizzazione abusiva". Illustrate brevemente le posizioni delle parti, il Collegio ritiene che le questioni poste dalla ricorrente sugli effetti del decorso del termine di 30 giorni dalla presentazione della s.c.i.a. in sanatoria non siano rilevanti nel caso de quo in quanto la fattispecie concreta non rientra in tale istituto di semplificazione in base ad un consolidato principio espresso dalla giurisprudenza in materia. Va premesso che l'art. 2 del D.Lgs. n. 222 del 2016, richiamato dal ricorrente, sancisce, al comma 1, che "a ciascuna delle attività elencate nell'allegata tabella A, che forma parte integrante del presente decreto, si applica il regime amministrativo ivi indicato" e, al comma 3, che "per lo svolgimento delle attività per le quali la tabella A indica la Scia, si applica il regime di cui all'articolo 19 della legge n. 241 del 1990", prevedendo la tabella A, "Sezione II - Edilizia", al n. 41 della "Ricognizione degli interventi edilizi e dei relativi regimi amministrativi" il richiamo alla "S.c.i.a. in sanatoria"; in ragione di ciò prospetta, quindi, l'esponente che la s.c.i.a. in sanatoria sarebbe da considerarsi soggetta al regime del "silenzio assenso", secondo il paradigma dell'art. 19 della L. n. 241/1990. Sul punto il Collegio rileva che il citato n. 41 della tabella A, Sez. II, si riferisce alla s.c.i.a. in sanatoria per interventi realizzati in assenza di s.c.i.a. o in difformità da essa, mentre nel caso concreto, si tratta, come sarà approfondito nel prosieguo della presente decisione, di attività esclusa dai procedimenti semplificati: la costruzione delle opere di cui è causa avrebbe necessitato il permesso di costruire e non la s.c.i.a e, perciò, nel caso di specie, è assente il presupposto stesso - previsto dalla norma - per l'applicazione della disposizione invocata con la conseguenza che alla declaratoria di inefficacia della s.c.i.a. impugnata non è applicabile il regime amministrativo previsto dall'art. 19 della Legge n. 241 del 1990. Il Collegio, sul punto richiama la sentenza del T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, n. 1055 del 10 aprile 2024 laddove precisa in via generale che dalla necessaria applicazione dell'istituto del permesso di costruire alla fattispecie concreta "deriva l'inapplicabilità dell'art. 19 della legge 241/1990: "L'errore sui requisiti soggettivi o oggettivi della d.i.a. (oggi SCIA) poiché frutto di una dichiarazione unilaterale, non può comportare in favore di chi la rende un affidamento vincolante per la parte pubblica che si limita a riceverla, per il solo fatto che quest'ultima non avrebbe esercitato i conseguenti poteri correttivi o inibitori, potendo tale omissione comportare un'eventuale responsabilità amministrativa, non già la sanatoria della d.i.a. mancante di un requisito essenziale; di conseguenza, il provvedimento con cui l'Amministrazione accerta che le opere edili non potevano essere realizzate mediante d.i.a., occorrendo il permesso di costruire, non è espressione di autotutela, ma ha valore meramente accertativo di un abuso doverosamente rilevabile e reprimibile senza, peraltro, il limite di dover agire entro un termine ragionevole, chiaramente inapplicabile all'attività di vigilanza edilizia, tanto più che il dichiarante non può, per le ragioni anzidette, vantare nessun affidamento" (cfr.: T.a.r. Puglia Bari, sez. II, 20.02.2017 n. 147)". In particolare, sulla s.c.i.a. in sanatoria, la sentenza del T.A.R. Campania, Salerno, Sez. II, n. 809 del 24 marzo 2022, ritiene che non è ricollegabile portata infirmante all'inosservanza del termine di 30 giorni ex art. 19, comma 3, della l. n. 241/1990 quando le opere abusive esulano dal perimetro del regime abilitativo della SCIA, essendo subordinate al previo rilascio del permesso di costruire: la pronuncia precisa che a tale premessa consegue "l'assenza di effetti legittimanti ricollegabili alla SCIA in sanatoria prot. n. 67995 del 21 novembre 2019, la quale, dacché formata al di fuori del corrispondente modello legale tipico (stante l'assoggettamento dell'opera eseguita ad un più rigoroso regime abilitativo), era da considerarsi 'tamquam non esset', così da giustificare l'impugnata determinazione reiettiva senza l'operatività della preclusione temporale ex art. 19, comma 3, della l. n. 241/1990". Quanto alla sussistenza nel caso concreto della necessità del permesso di costruire anziché dell'applicabilità degli istituti di semplificazione, vanno considerati sia gli aspetti definitori del concetto di pertinenzialità rilevante in materia sia l'orientamento ermeneutico sulla qualificazione della specifica opera abusiva, nonché la concreta consistenza dell'intervento edilizio di cui è causa. Sul concetto generale di pertinenzialità il Collegio rinvia a quanto precisato dal T.A.R. Lazio, Sez II Stralcio, n. 7463 del 16 aprile 2024, in adesione al pacifico orientamento giurisprudenziale che "assegna al concetto di "pertinenza", in campo urbanistico-edilizio, un significato più ristretto e meno ampio rispetto alla definizione civilistica di cui all'art. 817 c.c., essendo configurabili come tali "solo le opere prive di autonoma destinazione e che esauriscono la loro destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico, e dovendosi altresì tener conto, oltre che della necessità e oggettività del rapporto pertinenziale, anche della consistenza dell'opera, che non deve essere tale da alterare in modo significativo l'assetto del territorio, essendo il vincolo pertinenziale caratterizzato oltre che dal nesso funzionale, anche dalle dimensioni ridotte e modeste del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce, per cui soggiace a permesso di costruire la realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni, che modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis, indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa" (cfr. ex multis T.A.R. Lazio, Sez. II S, 17 novembre 2023, n. 17168; T.A.R Lazio, II quater, 21 novembre 2022, n. 15371; id., 12 luglio 2022, n. 9594; 26 aprile 2021, n. 4824)". In particolare, sulle piscine l'esegesi cui intende aderire il Collegio ritiene che l'opera interrata costituisca una nuova costruzione assoggettata al permesso di costruire e non sia qualificabile in termini di pertinenza dell'edificio principale in ragione della significativa trasformazione del territorio che comporta e della non necessaria complementarità all'uso delle abitazioni poiché non riveste un'obiettiva funzione di migliore utilizzazione della res principalis, tale che in sua assenza risulterebbero impedite o sacrificate talune delle materiali possibilità di sfruttamento o godimento di quest'ultima (cfr. T.A.R. Lombardia Brescia, sez. II, n. 993 del 24.10.2022; T.A.R. Campania Napoli, sez. III, 9.9.2020, n. 3730; T.A.R. Emilia-Romagna Bologna, sez. II, n. 800 del 30.09.2021). In coerenza con tale indirizzo interpretativo, si è di recente rilevato (cfr. Consiglio di Stato, sez. VII, 02/01/2024, n. 44) che la piscina è una struttura di tipo edilizio che incide con opere invasive sul sito in cui viene realizzata e perciò configura una nuova costruzione, non potendo essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, atteso che, sul piano funzionale, non è esclusivamente complementare all'uso delle abitazioni e non costituisce una mera attrezzatura per lo svago alla stessa stregua di un dondolo o di uno scivolo installati nei giardini o nei luoghi di divertimento; in effetti, la realizzazione della piscina comporta una "durevole trasformazione del territorio" e, sotto il profilo urbanistico, presenta una funzione autonoma rispetto a quella propria dell'edificio cui accede, sì che non può coincidere con la relativa nozione civilistica di pertinenza, nel presupposto che la nozione di pertinenza urbanistica è invocabile per opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, viceversa tali non sono i manufatti che per dimensioni e funzione possiedono una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale sì da avere una potenziale attitudine ad una diversa e specifica utilizzazione. Nel caso di specie, una piscina di oltre 112 mq. di superficie, assistita da opere ulteriori (locali accessori e tettoia con funzioni di zona cucina-pranzo di oltre 35 mq. di superficie coperta), non può essere definita come "di dimensioni contenute" incidendo, pertanto, significativamente sulla trasformazione del territorio e non riveste il carattere di intrinseca funzionalità rispetto alla res principalis sopra delineato; nel provvedimento impugnato di declaratoria di inefficacia della s.c.i.a., infatti, emerge, attraverso il riferimento all'istruttoria svolta in contraddittorio endoprocedimentale ed al richiamo all'impossibilità per la ricorrente di intervenire in zona agricola ai sensi dell'art. 4.1.1. e ss. del RUE, sia che le opere costituiscono un ampliamento superiore ai 30 mq di SU in edificio di non recente costruzione sia che le opere eseguite in assenza di titolo, non essendo pertinenze dell'abitazione principale, si sarebbero potute realizzare solamente da un imprenditore agricolo e comunque senza possibilità di ricorrere a procedimenti semplificati (come la SCIA). Di conseguenza, risulta inconferente la tesi attorea sull'applicazione dell'art. 4.1.3., comma 6, del RUE, che a parere della ricorrente consentirebbe di realizzare nuove opere pertinenziali nel rispetto del limite del 20% del volume dell'edificio principale, in quanto difetta nel caso concreto la natura stessa di opera pertinenziale. Infine, la nota della Regione Emilia-Romagna invocata a sostegno della pertinenzialità della piscina è chiaramente rivolta alla definizione della medesima esclusivamente ai fini del pagamento e alla qualificazione del contributo di costruzione e, pertanto, la relativa portata interpretativa è confinata in tale ambito: nella nota medesima, infatti, si chiarisce che la natura pertinenziale di una piscina di volume inferiore al 20% dell'abitazione principale rileva al fine di considerarla quale Superficie accessoria che non richiede il versamento della quota degli oneri di urbanizzazione (U1 e U2) ma è soggetta al solo versamento della quota relativa al costo di costruzione (QCC) da calcolarsi non sulla classificazione catastale, bensì, in relazione alla tipologia OMI, formulando un chiarimento di connotazione sostanzialmente tecnico-economica ai fini dell'imposizione della prestazione patrimoniale imposta, che risponde a presupposti diversi da quelli rilevanti nella presente sede. Quanto, poi, al locale tecnico, allo spogliatoio in legno, alla tettoia e alla pavimentazione perimetrale, che la stessa ricorrente qualifica come elementi accessori strettamente funzionali e strumentali rispetto alla piscina, vale il consolidato orientamento per cui la valutazione dell'abuso edilizio presuppone una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate, giacché il pregiudizio recato al regolare assetto del territorio deriva non dal singolo intervento, ma dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 11/03/2024, n. 2321). Pertanto, al regime edilizio della piscina, necessitante di un permesso di costruire, si associano evidentemente le altre opere alla stessa collegate. Sul terzo motivo di ricorso, relativo all'ordine di demolizione dei "muri perimetrali a recinzione del mappale (omissis) sui lati ovest, sud ed est a divisione del mappale (omissis)", proposto in base all'assunto attoreo secondo il quale la recinzione in questione figurerebbe fra le opere oggetto di altra s.c.i.a. in sanatoria presentata dalla ricorrente in data 11.5.2023, prot n. 5985, il Collegio ritiene che l'Amministrazione abbia ampiamente chiarito, con precisazioni sulle quali la difesa attorea non ha ulteriormente coltivato il motivo in disamina, che i muri perimetrali di recinzione del mappale (omissis), oggetto dell'impugnata ordinanza di demolizione n. 80/2023 non sono i medesimi muri di recinzione oggetto della SCIA n. 2023/029/S, prot. n. 5985: pertanto, la eventuale "pendenza" di quest'ultima è irrilevante nel presente giudizio avendo per oggetto manufatti non colpiti dall'ordinanza di demolizione. Il Collegio, infine, ritiene che l'esame dell'ultima doglianza possa dichiararsi assorbito in considerazione della dirimente questione esaminata, relativa all'inconfigurabilità della consistenza pertinenziale delle opere de quibus quale elemento fondante della declaratoria di inefficacia della s.c.i.a. presentata dalla ricorrente e di per sé idoneo a sorreggere il conseguente ordine di ripristino dello stato dei luoghi. Il Collegio ritiene che, in considerazione della peculiarità della materia, le spese di lite possano essere compensate. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna sezione staccata di Parma Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese di lite compensate. Così deciso in Parma nella camera di consiglio del giorno 22 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Italo Caso - Presidente Caterina Luperto - Referendario Paola Pozzani - Referendario, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2841 del 2023, proposto dalla società Na. In. Im. Ex. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Be. Be., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Bologna, via (...), contro la Regione Sardegna, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato So. Sa. e dall'avvocato Ma. Pa., con domicilio eletto presso lo studio dell'avv. So. Sa. in Roma, via (...), nei confronti di Ra. S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Gi. Lu. Gr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna Sezione Prima n. 101/2023, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Sardegna e di Ra. S.p.a.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 25 maggio 2023, il Cons. Antonio Massimo Marra e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La Centrale Acquisti della Regione Sardegna ha indetto una "Procedura aperta centralizzata per l'affidamento della fornitura di guanti destinati alle aziende sanitarie e ospedaliere della Regione Autonoma della Sardegna". 1.1. La gara era suddivisa in più lotti, e la ricorrente contesta l'aggiudicazione del lotto n. 10 - fornitura di "Guanti non chirurgici in lattice non sterili depolverati" - per un valore di Euro 3.558.000,00, da aggiudicare seguendo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. 1.3. Con riferimento al visto lotto n. 10, la gara è stata aggiudicata alla società Ra. S.p.a. con il punteggio di 80,113, mentre l'odierna appellante Na. In. S.r.l. (di seguito solo Na.) si è collocata al secondo posto in graduatoria, con un punteggio di 74,48. 2. La società Ne., classificatasi, come appena detto, seconda per il lotto n. 10, ha proposto ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna, chiedendo l'annullamento dei seguenti atti: - della determina n. 755 del 20 dicembre del 2022 con cui la stazione appaltante ha aggiudicato il lotto n. 10 alla società controinteressata; - dei verbali di gara di seduta pubblica e di seduta riservata relativi a detto lotto. 3. Il Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna, con sentenza n. 101 del 20 febbraio 2023 26 ottobre 2022, ha respinto il ricorso. 4. Avverso tale sentenza ha proposto appello Na., rilevando l'erroneità della sentenza sulla base di plurimi motivi, riproduttivi delle censure articolate in primo grado in chiave critica rispetto alle opposte statuizioni del primo giudice. 5. La Regione Autonoma della Sardegna - Presidenza - Direzione Generale della Centrale Regionale di Committenza, si è costituita in giudizio opponendosi all'accoglimento dell'appello. 6. Si è costituita, altresì, la società aggiudicataria associandosi alle medesime conclusioni. 7. Nell'udienza pubblica del 25 maggio 2023 la causa è stata trattenuta in decisione. 8. L'oggetto della controversia riguarda una procedura aperta centralizzata, indetta dalla Regione autonoma Sardegna per l'affidamento della fornitura di guanti destinati alle aziende sanitarie e ospedaliere della Regione. 8.1. Oggetto del contendere concerne, in particolare, la legittimità del punteggio attribuito al valore AQL "Acceptance quality level (Livello di qualità accettabile)" del prodotto offerto dalla società, controinteressata Ra. S.p.a. 9. L'appello è infondato. 10. Anzitutto il Collegio può prescindere dall'esame delle eccezioni preliminari di inammissibilità /irricevibilità del ricorso di primo grado, non esaminate neanche dal T.A.R. e riproposte dalla Regione Sardegna ai sensi dell'articolo 101, comma 2, c.p.a., essendo il ricorso infondato nel merito. 11. Con un unico articolato motivo di ricorso l'odierna appellante sostiene, con dovizia di argomentazioni, che il certificato rilasciato dal laboratorio Lab Analysis, per attestare la qualità del prodotto offerto dalla società aggiudicataria in relazione all'elemento "Valore AQL (EN 455 parte 1)", sarebbe stato inadatto a giustificare l'attribuzione di otto punti qualità a Ra., per la allegata inidoneità ad attestare il livello di AQL, da considerarsi essenziale e fondamentale per garantire, sotto ogni profilo, la qualità del prodotto. 11.1. Il Tribunale ha ritenuto infondato questo motivo, in quanto dall'esame della documentazione prodotta dalla ricorrente e dalla controinteressata è emerso che il test report di laboratorio (Lab Analysis) è stato eseguito sul prodotto di Ra., ai sensi della norma UNI EN 455-1:2020 con l'esito "assenti ($)" e l'ulteriore specifica "($) AQL 0,65". Non sarebbe, quindi, censurabile la scelta di ammettere un unico test report per dimostrare la conformità alle norme EN 455-1 e il valore AQL, della qualità del prodotto. 11.2. Lamenta la ricorrente che nella documentazione non si farebbe alcun riferimento alla norma UNI - ISO 2859, normativa di riferimento per la determinazione del valore AQL ed, in ogni caso, la certificazione utilizzata dalla società Ra., come sarebbe confermato dalla prodotta documentazione, risulta, a suo dire, del tutto inidonea a dimostrare le caratteristiche del prodotto, erroneamente ritenute sussistenti anche dal Tribunale. 12. La censura non è fondata. 12.1. La norma EN 455-1 prevede, all'art. 6, i criteri di campionamento per il valore AQL; di tal che, il mancato richiamo alla norma UNI -ISO 2859 non può, in realtà, costituire di per sé una violazione alle disposizioni in materia, né tale omesso richiamo potrebbe minare il rapporto di prova, che è stato invero effettuato nel rispetto della vista norma EN 455-1, come espressamente richiesto nell'allegato 11 del Disciplinare di gara. 12.2. Una volta attestato che le verifiche sono state eseguite, ai sensi della norma EN 455-1, il rapporto di prova deve ritenersi certamente attendibile, così come la prova effettuata che è stata - si ripete - eseguita secondo le modalità richieste dalla lex specialis. Infatti lo stesso documento denominato "All. 1 EN 455-1-2-3 4" evidenzia il risultato del test di tenuta per la rilevazione dei fori, eseguito ai sensi della norma UNI EN 455-1:2020, con l'esito "assenti ($)" e l'ulteriore specifica "($) AQL 0,65"; valutazione del resto già effettuata dalla Commissione di gara in occasione dell'esame della domanda di autotutela. 12.3. Questa sarebbe ad avviso del primo giudice l'unica lettura conforme alla lex specialis, là dove ha previsto che il valore AQL possa essere provato dai test di laboratorio; escludendo pertanto che dovessero essere effettuati due distinti test report: uno per dimostrare la conformità del prodotto alle norme EN 455-1 e, l'altro, per dimostrare il solo valore AQL del prodotto offerto. Ne consegue che il rapporto di prova, effettuato dalla Ra., mediante l'utilizzo della norma EN 455 - 1, non può ritenersi violativo del bando, sul mero presupposto che non sarebbe stata richiamata la norma UNI -ISO 2859, dovendosi infatti ritenere che il rapporto di prova eseguito dalla Ra. sia stato adeguato a garantire integralmente la qualità del prodotto. 12.4. L'appellante contesta fermamente questa interpretazione del Tribunale perché sostiene che l'art. 6 della norma EN 455-1 prevedeva con chiarezza che: "ogni lotto deve essere campionato in conformità alla ISO 2859-1, livello di ispezione generale 1, ma utilizzando una dimensione minima del campione e corrispondenti valori di accettazione/rifiuto equivalenti alla dimensione del campione con lettera codice L". Si sarebbe, dunque, trattato di un livello minimo e, non già fisso e predeterminato dalla norma, per cui la mancanza dei riferimenti richiesti dalla stessa norma EN 455-1 all'art. 7, non avrebbe potuto essere surrogata implicitamente, come adombrato dall'aggiudicataria. E del resto, sostiene ancora Na., la carenza di elementi essenziali quali i. il codice del lotto e di fabbricazione, ii. la dimensione del lotto e quella del campione, non avrebbe potuto affatto far ritenere soddisfatti i prescritti requisiti del bando, né attestare l'utilizzabilità dei risultati riportati nel certificato rilasciato da La. An.. 13. Il motivo deve essere respinto. 13.1. Infatti, da una piana lettura della documentazione in atti e, in particolare, della lex specialis della gara per cui è causa, emerge la piena condivisibilità delle conclusioni del primo giudice. 13.2. Osserva, anzitutto, il Collegio che la ridetta lex specialis - non impugnata sul punto - pur prevedendo che il valore AQL dovesse essere provato dai test di laboratorio, non imponeva tuttavia che fossero effettuati due distinti test report, per dimostrare, come già accennato, oltre alla conformità del prodotto alle norme EN 455-1 anche il solo valore AQL del prodotto offerto. D'altro canto, il mancato richiamo alla norma UNI-ISO 2859, non può ragionevolmente costituire di per sé una violazione alle disposizioni in materia, né invalida il rapporto di prova, che è stato effettuato, come ha ben chiarito il primo giudice, nel rispetto della norma EN 455-1, in conformità al su visto allegato 11 del Disciplinare di gara. 13.3. A fronte di ciò, le ulteriori argomentazioni sviluppate nell'appello, in ordine all'asserita inidoneità del campione sul quale la società Ra. aveva sviluppato il test, oltre a essere inammissibili per violazione del divieto di nova, di cui all'articolo 104, comma 2, c.p.a. (nella misura in cui sviluppano un diverso motivo di censura, sul presupposto di una sorta di "eterointegrazione" della disciplina di gara da parte della legislazione europea e nazionale), sono a loro volta infondate, in quanto pretendono di porre a carico dei concorrenti oneri, comunque, non espressamente richiesti dalla legge di gara. 13.4. Quanto si è sin qui rilevato risponde perfettamente del resto alla funzione della campionatura che, secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, non è un elemento costitutivo, ma semplicemente dimostrativo dell'offerta tecnica documentale, essendo destinata a "comprovare, con la produzione di capi o prodotti dimostrativi detti appunto campioni, la capacità tecnica dei concorrenti e la loro effettiva idoneità a soddisfare le esigenze, spesso complesse, delle stazioni appaltanti" (Cons. St., sez. III, 5 maggio 2017, n. 2076). Di qui complessivamente l'infondatezza del motivo in esame. 14. In conclusione l'appello deve essere respinto. 14.1. Le spese del presente grado del giudizio, attesa la novità della questione analizzata, possono essere interamente compensate tra le parti. 14.2. Rimane definitivamente a carico di Na., per la soccombenza, il contributo unificato richiesto per la proposizione dell'appello. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, proposto dalla società Na. In. Im. Ex. S.r.l., lo respinge e per l'effetto conferma la sentenza impugnata. Compensa interamente tra le parti le spese del presente grado del giudizio. Pone definitivamente a carico Na. il contributo unificato richiesto per la proposizione dell'appello. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 maggio 2023 con l'intervento dei magistrati: Raffaele Greco - Presidente Pierfrancesco Ungari - Consigliere Paolo Carpentieri - Consigliere Ezio Fedullo - Consigliere Antonio Massimo Marra - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7906 del 2020, proposto dalla società Si. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Co. Ra., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; contro il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato St. Fo., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; nei confronti della società Le Ca. Be. s.r.l.s, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Eg. Ca., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna Sezione Prima n. 104 del 2020. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e della società Le Ca. Be. s.r.l.s; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 giugno 2023 il consigliere Giuseppe Rotondo; viste le conclusioni delle parti come da verbale. FATTO e DIRITTO 1. Il presente giudizio ha ad oggetto la domanda di annullamento del provvedimento unico n. 123 del 16 giugno 2016, rilasciato dal dirigente SUAP del Comune di (omissis) a favore della Ni. Be. s.r.l.s., con il quale l'ente ha autorizzato la controinteressata alla installazione di un chiosco-bar su area di sedime che la società SI. srl assume essere di sua proprietà, rilasciato in violazione della convenzione urbanistica del 1988 e del divieto di edificabilità nella zona di 300 metri dalla fascia costiera. 2. Con ricorso recante nrg 841 del 2016, la società SI. ha impugnato il provvedimento unico innanzi al T.a.r. per la Sardegna deducendo due motivi di gravame così compendiati: I) violazione art. 11 dpr 380/2001 - art. 832 cod. civ. - eccesso di potere per falsità dei presupposti di fatto e difetto d'istruttoria; II) violazione dell'art. 10-bis, l.r. Sardegna n. 45 del 1989 e delle diret¬ tive in materia di p.u.l. adottate dalla Regio¬ ne Sardegna; violazione della deliberazione del con¬ siglio comunale di Arzachena di adozione preliminare del piano di utilizzo dei litorali. 2.1. La società appellante lamenta l'illegittimità del titolo abilitativo, in quanto rilasciato su area di sedime in sua proprietà e sull'erroneo presupposto che la Ni. Be. fosse titolare di una concessione rilasciata dal Comune di (omissis) per il posizionamento di un "camion bar". Tale titolo, unito alla presunta proprietà pubblica del terreno, avrebbe legittimato la presentazione della DUAAP per la costruzione del chiosco. 2.2. Sennonché : i) l'area sarebbe privata; ii) risulterebbe nella piena ed esclusiva proprietà della Si. s.r.l., in forza del contratto di vendita rep. 68492 del 22 aprile 2005; iii) l'unico elemento che "collega" l'area interessata al Comune di (omissis) sarebbe costituito da una condizione apposta al provvedimento regionale (del 1985), con cui era stata autorizzata la lottizzazione (omissis), poiché l'Amministrazione Regionale aveva prescritto che quel tratto di costa, benché esterno al perimetro del piano, dovesse essere destinato a finalità pubbliche; iv) il manufatto ricadrebbe a una distanza dalla fascia costiera inferiore ai 300 metri,. 2.3. Si è costituito il Comune di (omissis) che, oltre a chiedere il rigetto del gravame, ne ha eccepito l'inammissibilità, per difetto di giurisdizione, nonché la sua irricevibilità . 2.4. Il Ta.r., con sentenza non definitiva n. 267 del 26 marzo 2019, ha affermato la propria giurisdizione sulla controversia in esame e ritenuto necessario, ai fini del decidere, acquisire la cartografia allegata alla convenzione di lottizzazione del 1988 (come modificata dall'atto aggiuntivo del 1992) con evidenziate le aree standard oggetto di cessione in favore del Comune di (omissis) e la precisa indicazione, se del caso con sovrapposizione rispetto alla cartografia di cui sopra, della localizzazione dell'area oggetto del provvedimento concessorio per cui è causa. 2.5. Con ordinanza collegiale n. 689 del 2 agosto 2019, ritenendo non esaustive le produzioni documentali versate agli atti, il T.a.r. ha reiterato l'ordine istruttorio, che il Comune di (omissis) ha integrato in data 28 ottobre 2019. 2.6. Con sentenza definitiva n. 102 del 24 febbraio 2020, il T.a.r.: a) ha respinto il ricorso nel merito; b) ha superato, stante l'infondatezza del ricorso, l'eccezione di irricevibilità ; c) ha compensato le spese. 3. Ha appellato la società SI. srl che censura la sentenza impugnata per: a) error in iudicando, violazione art. 112 c.p.c. in relazione agli artt. 39 e 73, comma 3, c.p.a., travisamento dei fatti e dei principi di diritto, divieto di integrazione postuma della motivazione; b) error in iudicando, violazione del principio del contraddittorio, errata valutazione di profili di fatto e diritto dirimenti ai fini della decisione. 3.1. La società ripropone, altresì, i motivi dedotti con il ricorso introduttivo che il T.a.r. avrebbe omesso di valutare compiutamente. 3.2. Si sono costituiti, per resistere, il Comune di (omissis) e la società "Le Ca. Be. srl" (già Ni. Be. s.r.l.s.). Il Comune di (omissis) ripropone le eccezioni formulate in primo grado. 3.3. In data 2 maggio 2023, il Comune di (omissis) ha depositato memoria conclusiva. 4. All'udienza dell'8 giugno 2023, la causa è stata trattenuta per la decisione. 5. Preliminarmente, il Collegio dà atto che, a seguito della proposizione dell'appello, è riemerso l'intero thema decidendum del giudizio di primo grado - che perimetra necessariamente il processo di appello ex art. 104 c.p.a. - sicché, per ragioni di economia dei mezzi processuali e semplicità espositiva, secondo la logica affermata dalla decisione della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 5 del 2015, verranno presi direttamente in esame gli originari motivi posti a sostegno del ricorso introduttivo (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, n. 1137 del 2020). 6. Sempre in via preliminare, il Collegio respinge le eccezioni di inammissibilità e irricevibilità del ricorso di primo grado, sollevate in relazione al difetto di giurisdizione e alla tardività, che il Comune di (omissis) ha riproposto con la memoria di costituzione nel presente giudizio di appello. 6.1. Con riguardo al prospettato difetto di giurisdizione, giova richiamare l'art. 8 del c.p.a. che così recita: "Il giudice amministrativo nelle materie in cui non ha giurisdizione esclusiva conosce, senza efficacia di giudicato, di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale". La regola rappresenta la trasposizione in campo amministrativistico del principio codificato all'art. 34 c.p.c. L'art. 8 fonda un rapporto di pregiudizialità che sussiste quando l'accoglimento o il rigetto della domanda giudiziale da parte del giudice amministrativo dipende logicamente dalla decisione di altra questione relativa ad un diritto soggettivo. Tale questione, se autonomamente proposta, rientrerebbe nella giurisdizione del giudice ordinario ma, rappresentando essa l'antecedente logico-giuridico della questione sottoposta al vaglio del g.a., è "attratta" (per evidenti esigenze di concentrazione delle tutele e della celerità del processo amministrativo) dalla giurisdizione di quest'ultimo. 6.1.1. Nel caso di specie, il Collegio ritiene che la questione controversia appartenga alla giurisdizione amministrativa., avendo ad oggetto l'esercizio di un potere autoritativo amministrativo (id est, concessione di un bene), rispetto al quale la titolarità, in capo alla appellante, dell'area di sedime su cui insiste il manufatto assume - quale presupposto per l'esercizio del potere medesimo - valenza di questione pregiudiziale, da accertarsi in via incidentale dal g.a. ex art. 8 del c.p.a. 6.2. Con riguardo, invece, alla (presunta) irricevibilità del ricorso di primo grado, il Collegio osserva che è principio risalente e consolidato (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 2 febbraio 2011, n. 747) che, ai fini della verifica della fondatezza dell'eccezione di irricevibilità del ricorso per tardività, la parte che la eccepisce deve fornire rigorosi riscontri in ordine alla conoscenza dell'atto gravato in tempi antecedenti al termine decadenziale di impugnazione e, in particolare, dare prova della tardività dell'impugnazione sub specie di una piena conoscenza dell'atto gravato. 6.2.1. Nel caso di specie, la parte appellata non ha fornito in tal senso alcuna prova, né invero asserito alcunché al riguardo della pregressa conoscenza dell'atto, limitandosi a supporla sulla base di elementi generici e allusivi, non meglio comprovati e neppure coerenti con le allegazioni fattuali dichiarate dalla società ricorrente nell'atto introduttivo dell'originario giudizio, sicché il ricorso originario deve ritenersi tempestivo. 6.2.2. Segnatamente, non ha fornito elementi chiari, univoci e concordanti: i) a confutazione della dichiarata conoscenza del provvedimento in data successiva al 23 giugno 2016, data che il Comune assume, invece, quale dies a quo per la decorrenza del termine decadenziale; ii) a dimostrazione della risalenza della data di posizionamento del cartello di cantiere nel quale sarebbero stati annotati gli estremi del provvedimento amministrativo che consentiva l'intervento. 7. Nel merito, l'appello proposto dalla società Si. s.r.l. è fondato. 8. Hanno fondamento i motivi di gravame con i quali la società SI. contesta il deficit istruttorio e motivazionale del provvedimento impugnato in primo grado. 9. Tale provvedimento è stato censurato, in punto di legittimità, per violazione dell'art. 11, d.p.r. n. 380/2001, in relazione all'insussistenza di un titolo idoneo, nonché per carenza dei presupposti. 9.1. Sul punto, occorre rilevare che il Comune di (omissis), nei suoi scritti difensivi, ha riconosciuto la proprietà privata dell'area di sedime del chiosco-bar. 9.2. Tuttavia, esso difende la legittimità del provvedimento articolando una difesa che rappresenta, in realtà, una chiara ed evidente integrazione postuma della motivazione sottesa all'atto impugnato riempiendo spazi di discrezionalità il cui esercizio è stato omesso, in sede procedimentale, da parte dell'amministrazione procedente. 10. La determinazione dirigenziale prot. 23431/2016 muove dal presupposto fattuale e giuridico - tuttavia non riscontrato e addirittura documentalmente confutato - della natura pubblica dell'area sulla quale insiste il chiosco. 10.1. Soltanto in giudizio l'amministrazione ha preso posizione sulla natura giuridica dell'area in questione, ammettendone la proprietà privata e affermando, per la prima volta, l'esistenza di una servitù perpetua di uso pubblico sulla stessa. 11. Il provvedimento in esame in nessuna delle sue parti dà conto delle ragioni sostanziali sottese al rilascio della concessione, solo successivamente esplicitate dall'amministrazione in esito al supplemento istruttorio sollecitato dal Tar. 12. Segnatamente, l'amministrazione comunale non si è rappresentata né la natura giuridica dell'area sulla quale è stata autorizzata l'installazione del chiosco-bar (che la SI. assume di sua proprietà ) né la presenza del manufatto all'interno della fascia dei 300 metri dalla linea di battigia. 13. Circostanze che andavano tutte acquisite e valutate in sede procedimentale, luogo deputato alla ponderazione degli interessi pubblici, se del caso nel contraddittorio procedimentale con la società SI. dichiaratasi proprietaria dell'area, tenuto conto della destinazione urbanistica dell'area di sedime, della sua collocazione nell'ambito del piano di utilizzo del litorale nonché della convenzione urbanistica. 14. Tali aspetti procedimentali sono stati, invero, affrontati soltanto in sede giudiziaria, ciò che tuttavia non è consentito fare a fronte di procedimenti connotati da esigenze istruttorie particolarmente complesse il cui componimento deve trovare soluzione nella sede a ciò deputata. 15. Soltanto la successiva produzione documentale, sollecitata dal Tar, ha consentito di colmare talune evidenti lacune procedimentali; sennonché, così operando il primo giudice, anziché ritrarre conferma dell'evidente vulnus, ha finito per sostituirsi alla pubblica amministrazione nell'esercizio di una funzione di amministrazione attiva. 16. In particolare, era in obbligo procedimentale del Comune: - appurare il regime dell'area in questione rispetto alla convenzione urbanistica del 1988; - chiarita la natura giuridica dell'area, individuarne il proprietario e acquisire il suo punto di vista; - esaminare l'istanza del privato alla luce della convenzione urbanistica, al fine di accertare se l'area di sedime del chiosco facesse parte o meno delle aree a standard cedute o da cedere, non essendo la sola previsione urbanistica (id est, destinazione S/1) titolo idoneo a costituire la servitù d'uso pubblico; - appurare l'esatta collocazione dell'area di sedime, se all'interno o all'esterno del perimetro del piano di utilizzo dei litorali; - valutare la rilevanza e l'incidenza del provvedimento regionale del 1985; - rappresentarsi compiutamente la convenzione urbanistica del 14 dicembre 1988, stipulata tra il Comune di (omissis) e la società (omissis) s.p.a. nonché i signori Spano e la signora Pirico, al fine di verificarne la capacità (quanto alle aree ivi oggetto di servitù perpetua) ad interferire sul diritto reale dell'area in questione, tenuto conto del vincolo particolarmente incisivo (id est, inedificabilità ) che, di fatto, il Comune ha ritenuto sulla stessa insistente; - rappresentarsi la circostanza che il P.P.R. pone un vincolo di inedificabilità assoluta sulla fascia costiera di 300 metri verso l'interno, al fine di valutare, se del caso coinvolgendo le competenti autorità, la compatibilità o meno del chiosco con tale vincolo. Per le ragioni che precedono, il provvedimento impugnato in primo grado dalla società SI. è illegittimo e deve essere, pertanto, annullato. 17. In conclusione, l'appello è fondato per le superiori, dirimenti argomentazioni; per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, va annullato il provvedimento unico n. 123 del 16 giugno 2016, rilasciato dal dirigente SUAP del Comune di (omissis) a favore dellla società Le Ca. Be. s.r.l.s. (già Ni. Be. s.r.l.s.), recante l'autorizzazione alla installazione di un chiosco-bar. 18. Restano salve le future determinazioni dell'amministrazione comunale in sede di riesercizio del potere amministrativo emendato dei vizi riscontrati in questa sede. 19. La spese relative al doppio grado di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie, nei sensi in motivazione. Condanna il Comune di (omissis) e la società Le Ca. Be. s.r.l.s. al pagamento delle spese processuali relative al doppio grado di giudizio che si liquidano, in favore della società Si. s.r.l., in complessivi euro 6.000,00 (seimila/00), oltre accessori di legge e spese generali, di cui euro 3.000,00 (tremila/00) posti a carico del comune di (omissis) ed euro 3.000,00 (tremila/00) posti a carico della società Le Ca. Be. s.r.l.s. (già Ni. Be. s.r.l.s.). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 giugno 2023 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Lopilato - Presidente FF Luca Lamberti - Consigliere Francesco Gambato Spisani - Consigliere Silvia Martino - Consigliere Giuseppe Rotondo - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10265 del 2018, proposto da Ma. Ch. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Sa. St. Da., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Direzione Generale Architettura Belle Arti e Paesaggio- Soprintendenza Città di Cagliari e Province, Comune di (omissis), non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna Sezione Seconda n. 443/2018 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 14 aprile 2023 il Cons. Sergio Zeuli e udito l'avvocato Gi. Pe. su delega in atti dell'avvocato Sa. St. Da.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso con cui la parte appellante aveva richiesto l'annullamento del parere contrario sulla domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica, reso ai sensi dell'art. 167, co. 4° e 5° del d.lgs. 42/2004 dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano, Medio Campidano, Carbonia-Iglesias e Ogliastra, con nota prot. 11871 del1'8 agosto 2016. Avverso la decisione sono sollevati i seguenti motivi di appello: 1.Violazione dell'art. 10 bis della L.241 del 1990; 2. violazione dell'art. 167 comma 4 d.lgs. n. 42/04; 3. Violazione dell'art. 167 comma 4 d.lgs. 42/04 per travisamento dei presupposti; 4. Violazione dell'art. 34 T.U. edilizia e art. 7 -bis L.R. n. 23/1985; 5. Violazione del principio generale del "tempus regit actus" con riferimento al P.P.R. approvato nel 2006; 6. Violazione, sotto altro profilo dell'art. 167 comma 4 d.lgs. n. 42 /04 con riferimento all'inclusione, fra le opere abusive, di un bene mobile quale il gruppo elettrogeno; 7. Violazione dell'art. 149 d.lgs. 42/04 per non aver valutato che non tutti gli interventi contestati erano visibili e dunque non soggetti all'accertamento di compatibilità ; 8. eccesso di potere per sproporzione e travisamento dei presupposti della misura ripristinatoria ordinata; 9. Violazione del D.p.R. n. 31/2017, artt.2 e 3, e della legge regionale n. 9/2017, art. 2; eccesso di potere per erroneità e travisamento dei presupposti; violazione del comma 5, art. 16 d.lgs. n. 42/04. 3. In diritto, va preliminarmente disattesa la richiesta di rinvio formulata dalla parte appellante, in considerazione e della genericità della motivazione addotta, e della risalenza del presente processo d'appello. 4. Nel merito va osservato che la società Ma. Ch. S.p.A., industria di prodotti chimici attiva sull'area del comune di (omissis), alla via (omissis) ha abusivamente realizzato, sul sito individuato al foglio (omissis) (omissis), mappale (omissis), e nel foglio (omissis) (omissis), mappali (omissis), le seguenti opere, oggetto del parere negativo impugnato: 1. tettoia finalizzata al riparo dell'impianto antincendio; 2. aumento della superficie della tettoia deposito detergenti; 3. tettoia riparo prodotti chimici; 4. nuova centrale termica; 5. gruppo elettrogeno; 6. tettoia di protezione ricarica muletti; 7. lieve ampliamento dei magazzini sud; 8. box prefabbricato ubicato su basamento in cemento; 9. nuove tettoie rampe di carico 1 e 2 con incremento volumetrico e di superficie utile; 10, tettoia per il riparo di un impianto antincendio (m4x4), struttura in scatolato d'acciaio zincata su basamento di calcestruzzo d'altezza 20 cm; copertura in lastre di alluminio ondulate; 11. tettoia riparo di fusti prodotti chimici (m 10,90 x m 5) struttura in scatolato d'acciaio anch'essa fissata su basamento in calcestruzzo; 12. copertura in lastre di alluminio ondulate; 13. nuova centrale termica, struttura in muratura m 6 x m 4,30, altezza 3,30 con copertura in latero cemento; 14. gruppo elettrogeno; 15. tettoia protezione ricarica muletti (m 13,40 x m 4,50), struttura in scatolato d'acciaio anch'essa fissata su basamento di calcestruzzo di altezza 20 cm; copertura in lastre di alluminio ondulate; 16. scala esterna in acciaio per l'accesso all'archivio; 17. ampliamento del colletto di raccordo magazzini, lunghezza m. 24,80, larghezza m. 5,80, copertura in lastre di policarbonato; 18. box prefabbricato pressi magazzini sud (m. 3,90 x m 2,50, altezza m. 2,20); 19. ampliamento magazzini sud; 20. box prefabbricato su basamento di cemento presso magazzini nord (m 2,70 x m 2, altezza m 2,20); 21. n. 2 tettoie per la rampa di carico magazzini nord (ognuna m. 2 x m 2); 22. box in cemento gas infiammabile presso deposito magazzini materiale infiammabile (m 2,65 x m 1,70); 23. vasca interrata di accumulo per impianto antincendio (m 18,60 x m 5,60, altezza 2,40); 24. nuovo piano deposito soppalcato nei magazzini nord, pari a 85,10 mq, accessibile con nuova scala esterna in acciaio; 25. locale di sgombero; - pesa a bilico. 4. Tanto premesso, conviene passare in rassegna i motivi di appello, il primo dei quali contesta alla sentenza impugnata di non aver rilevato l'omesso invio del preavviso di diniego ex 10 bis l.241/90 da parte della Soprintendenza, anche considerando che l'atto di cui si discute non aveva natura vincolata, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure e che dunque un'interlocuzione procedimentale anticipata, prima del definitivo diniego, si imponeva all'autorità procedente. 4.1. Il motivo è infondato. Correttamente la sentenza impugnata ha ritenuto irrilevante la doglianza sollevata, ritenendo che il parere richiesto alla Soprintendenza avesse carattere vincolato, alla luce di quanto previsto dalla lett. a) del comma 4 dell'art. 167 del d.lgs. n. 42/04. Dalla descrizione degli interventi da sanare emerge incontestabilmente che sono stati creati nuovi volumi, dunque non vi erano margini di discrezionalità esercitabili dall'autorità preposta alla tutela del vincolo. Di tal che - ammesso che il preavviso ex art. 10 bis citato fosse dovuto - il concreto contenuto reiettivo del parere non avrebbe potuto essere diverso. 5. Il secondo motivo di appello, riagganciandosi al primo, contesta il difetto di istruttoria del parere, perché privo di adeguata motivazione: il sol fatto di avere l'intervento da sanare creato nuovi volumi, non consentiva di emettere, secondo la parte appellante, un diniego di sanatoria non accompagnato da valide argomentazioni. 5.1. Il terzo motivo - rimanendo nell'arco della stessa doglianza, contesta al parere negativo, e con esso, alla sentenza impugnata - di non aver considerato che i volumi da sanare avevano natura di volumi tecnici e come tali, anche seguendo una parte della giurisprudenza amministrativa, avrebbero dovuto essere sottratti all'applicazione della lett. a) comma 4 art. 167 del codice beni culturali, o, almeno, sostiene, detta circostanza avrebbe dovuto imporre all'autorità di tutela, maggiore accuratezza nel motivare il diniego. 5.2. Entrambi i motivi sono infondati. Le opere di cui si discute hanno creato un notevole incremento volumetrico, in un'area - zona costiera - soggetta a vincolo di inedificabilità assoluta. In considerazione del significativo impatto avuto dagli interventi, l'applicazione della previsione ostativa alla sanatoria postuma si prospettava come unica scelta possibile, in diritto, per la Soprintendenza. 5.3. Quanto alla deduzione secondo la quale, trattandosi volumi tecnici, indispensabili alla produzione aziendale avrebbero dovuto essere sottratti alla previsione ostativa della citata lett.a), vale innanzitutto osservare che la maggioritaria giurisprudenza amministrativa (tra le altre, Sez. VI, 20 giugno 2012, n. 3578, Sez. VI 26 marzo 2013 n. 1671) ritiene che l'art. 167, comma 4, del Codice n. 42 del 2004 non consenta di sanare le opere edilizie che abbiano comportato l'aumento di volumi, ivi compresi quelli tecnici. Anche a voler considerare che il volume tecnico andrebbe sottratto alla suddetta preclusione normativa, devesi evidenziare che quella di cui la parte appellante chiede l'applicazione rappresenta una fattispecie derogatoria eccezionale, creata dalla giurisprudenza per consentire all'autorità preposta al vincolo, in caso di volumi non esorbitanti, di procedere ad una valutazione più accurata in ordine alla loro eventuale sanabilità, qualora se ne ravvisi l'indispensabile ed inequivoca natura tecnica. Non è questo il caso. Infatti, al più, ai soli abusi di cui ai nn. 4, 5, 13 e 23 potrebbe attribuirsi natura di intervento tecnico, e solo per quanto riguarda le funzioni di protezione che essi svolgono, dunque, non per le caratteristiche strutturali che presentano - ossia la completa dipendenza pertinenziale rispetto ad una struttura assentita destinata alla produzione - che sole ne giustificherebbero la relativa classificazione. Gli altri interventi rappresentano invece volumi nuovi, strutturalmente del tutto autonomi, che solo occasionalmente si trovano oggi in una connessione funzionale con gli immobili destinati allo stabilimento industriale. Ciò significa, evidentemente, che, nell'ipotesi che, in futuro, al complesso venga impressa una diversa destinazione, essi perderebbero immediatamente la loro vocazione pertinenziale, prestandosi le relative strutture a qualsivoglia finalità, quale ad esempio quella abitativa, commerciale e persino turistica. In realtà la deduzione in analisi sovrappone indebitamente la nozione di volume tecnico a quella di volumi tecnici, laddove la prima individua un immobile pertinenziale, posto a servizio funzionale ed indissolubile di un altro, mentre la seconda - che è quella invocata dal motivo in esame - è riferibile a più volumi, tutti indipendenti ed autonomi strutturalmente e funzionalmente, che tuttavia sono posti, nel loro complesso, ed unitariamente considerati, a servizio dell'azienda gestita dalla parte appellante. La fallacia della prospettiva è evidente perché, a volerla condividere, innesti abusivi in un ambito aziendale diverrebbero sempre assentibili per il solo fatto di essere presentati come volumi tecnici, così permettendo a (ai titolari di) un complesso aziendale di aggirare agevolmente la normativa di tutela. L'obiezione è vieppiù infondata in considerazione della significativa entità dell'intervento che, anche ammessane la natura tecnica (che pure è da escludersi) impedirebbe di ritenerlo assentibile con lo strumento dell'autorizzazione paesaggistica postuma. 6. Il quarto motivo di appello contesta che, per la loro modesta entità, inferiore al 2% dell'intera superficie assentita per l'attività industriale, gli interventi in contestazione avrebbero dovuto essere ricompresi nella nozione di "tolleranze edilizie", e, qualificati quali lievi difformità dal titolo abitativo, avrebbero al più dovuto essere sanzionati con la misura pecuniaria. Con la stessa doglianza, la parte segnala che le tettoie, pure contestate, non potevano rientrare nella nozione di "nuovi volumi", non essendo necessario, per la loro realizzazione, il permesso di costruire. 6.1. L'ottavo motivo di appello, parzialmente sovrapponendosi al quarto, lamenta la sproporzione della misura applicata, ossia quella ripristinatoria, sia considerando il tempo trascorso dall'edificazione, che avrebbe indotto nella parte appellante un legittimo affidamento, sia lamentando che comunque l'atto impugnato non ha considerato le esigenze della produzione industriale, che hanno indotto a quell'edificazione per motivi tecnici, di sicurezza e salubrità ambientale. In sostanza il motivo contesta all'autorità procedente di non avere correttamente contemperato i numerosi interessi che la determinazione coinvolgeva. 6.1. Entrambi i motivi sono infondati. Quanto al primo si osserva che la nozione di tolleranza edilizia era ignota al dato positivo vigente al momento in cui è stato emesso il parere. Essa, insieme al limite del 2% abusivo rispetto all'edificato assentito, è stata successivamente introdotta dal D.P.R. 31 del 2017, testo non applicabile alla fattispecie ratione temporis. Al momento in cui la Soprintendenza ha emesso l'atto impugnato, la categoria vagamente assimilabile a quella di cui al motivo, era quella degli interventi in difformità, per sanzionare i quali, l'art. 34 T.U. edilizia prevede la possibilità di applicare la sanzione pecuniaria alternativa, in sostituzione di quella demolitoria. Al contrario, per gli interventi eseguiti in difformità dalle norme di tutela paesaggistica che producono nuovi volumi, l'art. 167 prevede quale unica misura applicabile quella demolitoria. Ciò non di meno, anche a voler ritenere applicabile la fattispecie di cui all'art. 34 citato, va ricordato che il ricorso a detta misura rappresenta una scelta eccezionale che l'amministrazione, nella sua discrezionalità tecnica, può adottare, a condizione, peraltro che ricorra il presupposto del pregiudizio che deriverebbe alle altre parti dell'immobile, regolarmente realizzate, in caso di demolizione. Nel caso di specie, il detto presupposto non potrebbe comunque sussistere considerando che i singoli interventi, come già osservato, hanno piena autonomia funzionale. Senza considerare che il relativo potere non spetterebbe mai alla Soprintendenza, ma all'autorità competente al rilascio del permesso di costruire, di tal che la doglianza è vieppiù inammissibile. Si osserva ancora che l'invocata misura è applicabile al caso di errori tecnici commessi nella fase realizzativa di un fabbricato regolarmente assentito, nel nostro caso, invece, viene invocata per sanzionare interventi successivi all'originario edificato, e neppure connessi a questi ultimi, quindi mancherebbero i presupposti fondamentali per l'operatività della norma. Infine - anche a voler ritenere retroattivamente applicabili le previsioni di cui al citato D.P.R. n. 31 del 2017 - concedere la cd. tolleranza agli interventi in contestazione sarebbe quanto meno discutibile, considerati, da un lato, i volumi e le superfici degli innesti in contestazione, e dall'altro la circostanza - ricordata dalla resistente in primo grado e non contestata ex adverso - che, nel calcolare che la superficie abusivamente realizzata si è mantenuta nel 2% dell'intero edificato, la parte appellante non ha considerato ulteriori 10 manufatti abusivamente realizzati, cioè in pratica ha alterato i parametri presupposti dalla sua richiesta. Oltre a non essere pertinenziali ad immobili, quegli interventi presentano una loro autonomia funzionale, hanno una cospicua consistenza materiale (volumi 617,47 mc; superfici utili mq 282,6 mq) e infine hanno prodotto un consistente aumento di carico edilizio e forte impatto visivo con conseguente certo pregiudizio del bene tutelato, dunque davvero non si comprende come potere ad essi applicare la suddetta qualificazione. 6.2. Anche la deduzione secondo la quale le tettoie non costituirebbero volume assentibile è infondata alla luce dell'unanime giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (per tutte sez. VI, 26/09/2022, n. 8238 "La costruzione di tettoie di consistenti dimensioni, comportanti una perdurante alterazione dello stato dei luoghi e incidenti per sagoma, prospetto, volumetria e materiali impiegati in modo stabile e duraturo sull'assetto urbanistico-edilizio del territorio, necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire.") 6.3. Quanto alla critica che la Soprintendenza avrebbe dovuto esperire un'approfondita valutazione comparativa, prima di emettere il parere negativo impugnato, la doglianza omette di considerare che la più volte ricordata lett. a) del comma 4 dell'art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 non consente alcuna comparazione di interessi, escludendo la possibilità dell'esercizio del potere valutativo - e quindi, in sostanza, escludendo che nell'occorso l'autorità preposta alla tutela sia titolare di un potere discrezionale - allorquando la sanatoria postuma abbia quale oggetto interventi che hanno creato, in zona vincolata, nuovi volumi. In questa prospettiva, la pretesa che la parte appellata si dovesse far carico delle esigenze della produzione e, persino dell'affidamento ingeneratosi nella parte appellante, così come degli altri interessi legittimi eventualmente implicati dalla valutazione, non ha, evidentemente, fondamento giuridico. 7. Il quinto motivo di appello rappresenta che la nuova centrale termica è stata realizzata a febbraio del 2006, mentre il Piano Paesistico regionale avrebbe imposto il vincolo paesaggistico a settembre del 2006, ossia in epoca successiva. Di conseguenza, secondo la doglianza, almeno a questo specifico intervento avrebbe dovuto essere applicata la disciplina di cui all'art. 146 del d.lgs. 42 del 2004, invece che quella, ostativa, di cui all'art. 167 dello stesso decreto. La parte richiama, a conferma di quanto dedotto, anche un parere dell'Ufficio Legislativo del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del mare che, a suo dire, confermerebbe l'assunto. 7.1. Il motivo è infondato innanzitutto in fatto perché che la costruzione della centrale elettrica risalirebbe al 2006 in epoca antecedente all'approvazione del PPR è circostanza solo dedotta, ma non provata. In secondo luogo la doglianza omette di considerare che gli interventi sono stati realizzati in area comunque ricadente in "zona costiera", già protetta da vincoli di inedificabilità ai sensi dell'allora già vigente art. 142 d.lgs. n. 42 del 2004. Infine il motivo non è accoglibile perché, per le valutazioni di compatibilità, deve rilevare il regime paesaggistico dell'area che esiste al momento della richiesta di sanatoria, come del resto conferma lo stesso parere del MATTM citato dal motivo in esame. E poiché è incontestato che, al momento della richiesta di cui si discute, il PPR era in vigore, erano evidentemente le misure di salvaguardia previste da quest'ultimo che la Soprintendenza, come fece, avrebbe dovuto ritenere applicabili. 7.2. Il sub-motivo del quinto motivo di appello, ritenendo superata la non assentibilità ai sensi della lett. a) comma 4 dell'art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, sostiene che non vi sarebbe incompatibilità paesaggistica perché la procedura di adeguamento del PUC al PPR non era ancora conclusa al momento della richiesta di parere. Di conseguenza, in attesa del perfezionamento della stessa, per la zona D, non era esclusa la possibilità di nuove edificazioni, anche nella zona costiera. 7.3. Anche questo sub- motivo è infondato innanzitutto perché, come si è visto, in questo caso la natura ostativa della previsione di cui alla ricordata lett. a) del comma 4 citato impediva il rilascio dell'autorizzazione postuma, e dunque alcuno spazio vi era per le norme del PUC, anche ammessane la ricostruzione della parte appellante. Quest'ultima è comunque erronea perché le misure di salvaguardia poste, a livello di PPR, a presidio dell'interesse paesaggistico connesso alla fascia costiera escludevano che le opere di cui la parte appellante chiedeva la sanatoria, potessero essere realizzate prima che il PUC di (omissis) fosse stato adeguato al Piano Paesaggistico regionale. Ai sensi dell'articolo 20, comma 2 n. 2) lett. c) gli interventi di completamento degli insediamenti esistenti - ammesso, anche in tal caso, solo per ipotesi, che tali possano qualificarsi le opere di cui alla presente controversia - si attuano, o a) attraverso la predisposizione dei nuovi PUC in adeguamento alle disposizioni del P.P.R., secondo la disciplina vigente; o b) tramite intesa - da attuare ex art. 11 comma 1, lett. c) nelle more della predisposizione del PUC, e comunque non oltre i dodici mesi, o successivamente alla sua approvazione qualora non sia stato previsto in sede di adeguamento. Presupposti che, nel caso di specie, mancavano, perché l'eccezione omette di considerare che l'area sulla quale le opere risultano realizzate ricade in zona D, sottozona D2 del Piano Urbanistico Comunale di (omissis), zona industriale ed artigianale. Per detta area, le norme di attuazione P.U.C. non consentivano attività edilizia, diversamente da quanto previsto per le zone A, B e C, per la parte contigua all'abitato. 8. Il sesto motivo di appello contesta alla Soprintendenza di aver ricompreso, fra le opere che non sarebbero sanabili, il gruppo elettrogeno, che, essendo bene mobile, non potrebbe essere considerato volume abusivo e quindi andrebbe stralciato dalle opere non assentite. 8.1. Il motivo è infondato perché, con tutta evidenza, in quella dizione è ricompreso il manufatto, evidentemente conformato in modo da proteggere l'apparecchiatura, al cui interno il motore è custodito. 9. Il settimo motivo di appello contesta che, per gli interventi non visibili all'esterno, il parere negativo sarebbe illegittimo e comunque immotivato, anche perché i volumi non percettibili all'esterno, rappresenterebbero edilizia libera, non soggetta a permesso di costruire. La circostanza troverebbe conferma anche nella relazione paesaggistica redatta dal comune di (omissis) di accompagnamento alla richiesta di parere paesaggistico, rispetto alla quale il parere si presenterebbe in termini irrimediabilmente contraddittori. 9.1. Il motivo è infondato innanzitutto perché, anche a stare alla sola descrizione sintetica degli stessi, non vi è alcun intervento che possa definirsi non visibile all'esterno, a tacer del fatto che la lett. a) del comma 4 dell'art. 167 d.lgs. n. 42 del 2004, ma tanto meno lo fa il testo unico edilizia, all'art. 3, non distingue mai tra volumi visibili e non, nel momento in cui li ritiene non assentibili in via postuma. Quanto al contenuto della relazione paesaggistica del comune di (omissis), in disparte l'incompetenza in materia dell'ente, che renderebbe irrilevante una sua contraria opinione in merito, va osservato che l'atto attribuisce ai volumi da sanare un modesto impatto ambientale, che è cosa diversa dalla nozione di visibilità posta a supporto del motivo in analisi. Tanto contribuisce ad escludere la fondatezza in fatto della doglianza. 10. L'ultimo motivo di appello reclama l'applicabilità alla fattispecie delle previsioni introdotte dal decreto del Presidente della Repubblica 31/2017, recepito nella regione Sardegna con la legge regionale 9/2017, entrata in vigore il 6 maggio del 2017. Secondo la parte appellante questa disciplina, in particolare gli artt. 2 e 3, D.P.R. 31/2017, e art. 5-bis della L.R. Sardegna 28/1998 come sostituito dall'art. 2 della L.R. 9/2017, sarebbe applicabile al caso di specie ed escluderebbe dall'obbligo dell'autorizzazione paesaggistica tutti gli interventi di cui alla controversia, o, nell'ipotesi meno benevola, li assoggetterebbe alla procedura di autorizzazione semplificata. Questo comporterebbe l'illegittimità del parere per contrasto con la normativa subentrata. D'altro canto, sostiene la parte appellante, poiché la Soprintendenza è stata appositamente interpellata sull'operatività della disciplina, che liberalizza gli interventi, e, ciò nonostante è rimasta inerte, andrebbe anche valutata la possibile formazione del silenzio-assenso perfezionatosi per il decorso del termine di 30 giorni di cui all'art. 20 della L. 241 del 1990. 10. 1. Il motivo è infondato perché il DPR 31/2017 è entrato in vigore otto mesi dopo la conclusione del procedimento e, pertanto non poteva trovare applicazione alla fattispecie, in virtù del principio del "tempus regit actus". Di conseguenza, alcun silenzio-assenso potrebbe ritenersi essersi formato. Per completezza converrà comunque osservare che il comma 1 dell'art. 17 del DPR n. 31/2017 non deroga al comma 4 dell'art. 167 del codice dei beni culturali ed anzi, in un certo senso, lo richiama. La disposizione infatti consente di evitare la demolizione delle opere abusive solo qualora ne sia accertabile la compatibilità paesaggistica, che, nel caso di specie, in considerazione dell'area di sedime, non è, almeno allo stato, configurabile. Quanto alla ricomprensibilità della c.d. "Centrale termica" del gruppo elettrogeno, nella classificazione A.31 dell'allegato A del DPR 31/2017, si osserva ancora che gli stessi sono contenuti all'interno di un manufatto in muratura di dimensioni di m. 6 x m. 4,30 x h 3,30 m., il quale, come già ricordato, fa parte di un complessivo intervento di ristrutturazione edilizia con il quale gli organismi edilizi preesistenti sono stati trasformati, intervento che ha prodotto un organismo edilizio nuovo e diverso dal precedente. Questo rende impossibile - almeno allo stato e salvo una diversa valutazione che, in ragione delle sopravvenienze legislative, spetterebbe solo alle competenti autorità - atomizzare i singoli interventi, al fine di consentire una parziale sanatoria degli stessi. Ciò che non sarebbe assolutamente possibile per i limiti cognitivi di questa sede processuale che ha oggetto, l'unitario parere negativo emesso dalla Soprintendenza. Dunque, stante la ricomprensione dei detti interventi nel più ampio complesso edilizio realizzato, gli stessi necessiterebbero tuttora del permesso di costruire, e di conseguenza, continuano a ricadere nella previsione di cui alla lett. a) del comma 4 dell'art. 167 d.lgs. n. 42 del 2004, con conseguente riaffermazione della legittimità del parere impugnato. Quanto alla possibilità di adottare una procedura semplificata avuto riguardo agli stessi, si osserva che è vero che il citato D.P.R. 31/2017 la prevede, ma esclusivamente nel caso di procedimento ordinario, viceversa nel caso di specie si verte nel diverso procedimento di autorizzazione postuma a sanatoria, per il quale non è previsto il suddetto procedimento abbreviato, che dunque giammai troverebbe operatività nel caso di specie. 11. Conclusivamente questi motivi inducono al rigetto del gravame. Non vi è provvedimento sulle spese, stante la mancata costituzione della parte appellata. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Nulla spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 aprile 2023 con l'intervento dei magistrati: Marco Lipari - Presidente Fabio Franconiero - Consigliere Raffaello Sestini - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere, Estensore Giovanni Tulumello - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. D'ASCOLA Pasquale - Primo Presidente f.f. Dott. STALLA Giacomo M. - Consigliere Dott. FERRO Massimo - Consigliere Dott. SCODITTI Enrico - Consigliere Dott. GIUSTI Alberto - Consigliere Dott. COSENTINO Antonello - Consigliere Dott. RUBINO Lina - Consigliere Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa - Consigliere Dott. FALASCHI Milena - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso 31123-2018 proposto da: (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato (OMISSIS); - ricorrente - contro COMUNE DI (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) ed (OMISSIS); - controricorrente - avverso la sentenza n. 3291/2017 del TRIBUNALE di (OMISSIS), depositata il 26/03/2018. Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/11/2022 dal Consigliere MILENA FALASCHI; lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale FULVIO TRONCONE, il quale conclude affinche' le Sezioni Unite della Corte, in relazione ai due dubbi interpretativi posti dall'ordinanza interlocutoria n. 6781 del 1 marzo 2022, accolgano il ricorso. RITENUTO IN FATTO In data 17.05.2016 il Comune di (OMISSIS) contestava ad (OMISSIS), nella qualita' di titolare di autorizzazione per l'esercizio del servizio di autonoleggio con conducente, la violazione dell'articolo 85, comma 4, del C.d.S. in quanto "acquisiva un servizio di trasporto senza effettuare il preventivo contratto con il cliente e trasporto effettuato senza partire dalla rimessa per detto servizio - rimessa sita nel Comune di (OMISSIS) - Importo tramite (OMISSIS)". Il (OMISSIS) proponeva opposizione avverso l'ordinanza-ingiunzione, con ricorso proposto dinanzi al Giudice di pace di (OMISSIS), chiedendo l'annullamento del verbale e delle sanzioni comminategli. Deduceva la genericita' della contestazione formulata. Sosteneva, inoltre, che il trasporto era stato regolarmente richiesto e concordato mediante l'applicazione Uber Black, di modo che l'incontro delle volonta' era avvenuto tramite la piattaforma web; che non vi era mai stato uno stazionamento dell'auto nelle piazzole riservate ai taxi; che l'efficacia delle disposizioni di cui al Decreto Legge n. 207/2008, modificative della L. n. 21/1992 (relative all'obbligo di partenza e rientro delle corse necessariamente presso la rimessa), ritenute da piu' autorita' illogiche, era stata sospesa da piu' decreti legge succedutisi nel tempo (articoli 3, 11 e 13 L. n. 21 del 1992). Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del Comune di (OMISSIS), che chiedeva il rigetto dell'opposizione del (OMISSIS), il giudice adito, con sentenza n. 12279 del 2016, accoglieva il ricorso annullando il verbale impugnato, sul presupposto che, con l'emanazione del Decreto Legge n. 5 del 2009 (articolo 7 bis), l'efficacia degli articoli 3 e 11 L. n. 21 del 1992, nella nuova formulazione, era stata sospesa. In virtu' di impugnazione interposta dal Comune di (OMISSIS), il Tribunale di (OMISSIS), nella resistenza del (OMISSIS), con sentenza n. 3291 del 2018, accoglieva il gravame e, in riforma della sentenza di prime cure, rigettava il ricorso originariamente presentato dal (OMISSIS), condannandolo al pagamento delle spese del giudizio. A sostegno della decisione il Tribunale esponeva che gli articoli 3 e 11 della L. n. 21 del 1992, come modificati dall'articolo 29, comma 1 quater, del Decreto Legge n. 207/2008, convertito con la L. n. 14/2009, erano applicabili nella fattispecie, in quanto la sospensione dell'efficacia delle suddette norme - disposta dall'articolo 7 bis del Decreto Legge 10 febbraio 2009, n. 5, inserito dalla legge di conversione 9 aprile 2009, n. 33 - era stata prorogata solo fino al 31.03.2010; di converso, sulla durata di tale sospensione non spiegava alcun effetto il termine, e le relative proroghe, fissato per l'adozione di disposizioni attuative del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti dall'articolo 2, comma 3, del Decreto Legge n. 40/2010, convertito con modificazioni dalla L. n. 73/2010. Avverso la sentenza del Tribunale di (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione (OMISSIS), sulla base di tre motivi, cui ha resistito con controricorso il Comune di (OMISSIS). Fissata la trattazione della causa all'adunanza camerale del 04.03.2021, venivano acquisite le conclusioni della Procura Generale, motivate nel senso dell'accoglimento del ricorso, ritualmente comunicate alle parti, e veniva depositata memoria ex articolo 380-bis.1 c.p.c. dal solo ricorrente. All'esito della camera di consiglio, la Seconda Sezione rimetteva la causa alla pubblica udienza per la rilevanza nomofilattica della questione. Per la decisione sul ricorso, fissata la trattazione in udienza pubblica per il giorno 25.11.2021, e' stato applicato lo speciale rito "cartolare" previsto dall'articolo 23, comma 8 bis, del Decreto Legge 137 del 28-10-2020, convertito con modificazioni dalla L. 1812-2020 n. 176 e prorogato a tutto il 2022 dal Decreto Legge 30-12-2021 n. 228, convertito dalla L. 25 febbraio 2022, n. 15, non avendo alcuna delle parti depositato istanza per la trattazione orale della causa. Sono state acquisite nuove conclusioni della Procura Generale, motivate nel senso della declaratoria di inammissibilita', in subordine, per il rigetto del ricorso. In prossimita' della pubblica udienza entrambe le parti curavano il deposito di memorie ex articolo 378 c.p.c. All'esito della camera di consiglio, la Seconda Sezione, con ordinanza interlocutoria n. 6781 del 2022, rimetteva gli atti al Primo Presidente, per la risoluzione di una questione di massima di particolare importanza, sia per la mancanza di precedenti univoci o pienamente convincenti, sia per la sentita esigenza nomofilattica caratterizzante l'interpretazione di norme disciplinanti la questione di diritto circa la vigenza o la sospensione alla data di maggio 2016 - epoca dei fatti contestati al ricorrente - delle modifiche recate al testo della L. n. 21 del 1992 (e, per quanto specificamente interessa la vicenda in esame, agli articoli 3 e 11 di tale legge) dall'articolo 29, comma 1 quater, del Decreto Legge n. 207 del 2008 (inserito dalla legge di conversione n. 14 del 2009), la cui soluzione reputava rilevante per la decisione del ricorso. Il Primo Presidente assegnava il ricorso alle Sezioni Unite e seguiva la fissazione dell'odierna udienza, in vista della quale venivano depositate conclusioni scritte del pubblico ministero nel senso dell'accoglimento del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell'articolo 85, comma 4, C.d.S., dell'articolo 3 Cost. per manifesta illogicita' e travisamento, nonche' del principio di legalita' di cui all'articolo 1 L. n. 689 del 1981, ritenendo la sostanziale irriferibilita' della normativa di cui alla L. n. 21 del 1992 alle nuove e non disciplinate modalita' offerte dalle applicazioni informatiche. Ad avviso del ricorrente la normativa di cui alla L. n. 21 del 1992 - legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea - emanata in un'epoca in cui vi era il telefono cellulare ma con caratteristiche ben diverse rispetto agli attuali smartphone, sarebbe divenuta oggettivamente inapplicabile, facendo riferimento ad una realta' del tutto superata, come emergerebbe anche da recente segnalazione, AS1354 del 10.03.2017, al Parlamento e al Governo da parte dell'Autorita' Garante della Concorrenza e del Mercato, che ha riconosciuto la stessa oggettiva diversita' dei servizi resi tramite piattaforma web e la conseguente irriferibilita' delle previsioni normative di cui alla legge quadro. Al riguardo richiama anche il parere n. 3586 del 23.12.2015 reso dal Consiglio di Stato, Sez. Prima, su richiesta del Ministero dell'interno, proprio in siffatta materia, cui ha fatto seguito la successiva nota del Ministero dell'interno dell'11.03.2016, relativamente all'inapplicabilita' dell'articolo 85 C.d.S. ai nuovi servizi telematici di trasporto. Di converso la Polizia Municipale di (OMISSIS) ha inopinatamente ritenuto di emettere la nota del 04.05.2016, che ha espressamente ad oggetto "Disposizioni attuative degli articoli 85 e 86 del Codice della Strada e della L. 21/1992". Il ricorrente ricorda, inoltre, l'analogia che si era realizzata qualche decennio fa con il servizio di radiotaxi, preso in esame dalla sentenza gravata: sebbene non preso in considerazione dal legislatore, nessuna sanzione viene comminata ai sensi dell'articolo 86 C.d.S. a chi recluta la clientela tramite le centrali di radiotaxi anziche' stazionando sulle aree a cio' specificamente riservate. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dei principi generali di cui agli articoli 3 e 41 Cost. per avere i provvedimenti ed i comportamenti adottati dal Comune di (OMISSIS) nella presente vicenda determinato una limitazione della libera attivita' economica privata non giustificata da alcun motivo di "utilita' sociale", conformemente alla pronuncia della Corte costituzionale n. 174 del 2014. Nel senso della dubbia costituzionalita' delle norme contenute nella L. n. 21 del 1992 si e' gia' espresso il TAR Lombardia con il decreto n. 1105 del 2013. Con il terzo motivo viene dedotta la violazione degli articoli 3 e 11 L. n. 21 del 1992 per intervenuta sospensione legislativa dell'efficacia del disposto di cui all'articolo 29, comma 1 quater Decreto Legge n. 207 del 2008. Ad avviso del ricorrente, le disposizioni invocate dal Comune di (OMISSIS) non riguarderebbero la presente vicenda, altrimenti si incorrerebbe nella violazione dei principi costituzionali di legalita', uguaglianza, ragionevolezza e liberta' economica. Lo stesso legislatore ha immediatamente sospeso l'efficacia della novella in oggetto, in particolare l'articolo 7 bis L. n. 33 del 2009, specificamente reiterato dai dd.ll. nn. 78 e 194 del 2009, in quanto l'articolo 1, comma 1136, L. n. 205 del 2017 espressamente afferma che "conseguentemente, la sospensione dell'efficacia disposta dall'articolo 7 bis, comma 1, del Decreto Legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 aprile 2009 n. 33, si intende prorogata fino al 31 dicembre 2018", dissipando ogni residuo dubbio circa la perdurante sospensione - ab origine e senza soluzione di continuita' - dell'efficacia delle disposizioni introdotte con il Decreto Legge n. 207 del 2008. Nei medesimi termini si era in precedenza gia' espresso anche il Decreto Legge n. 244 del 2016 c.d. Milleproroghe. Ritiene il ricorrente che volga nello stesso senso la nota prot. n. 6446 del 31.03.2016 che ha ribadito come "in relazione alla questione se sia da ritenersi sospesa l'efficacia dell'articolo 29 comma 1 quater (...) milita a favore di tale interpretazione il dato testuale del Decreto Legge n. 40/2003 (articolo 2, comma 3), in ragione del quale il Legislatore ha inteso subordinare l'attuazione della novella legislativa al decreto interministeriale de quo. Se ne desume che, almeno finche' legittimamente (e cioe' fino allo scadere del 31.12.2016) il Decreto non sara' emanato, dovrebbe essere inibita l'efficacia dell'articolo 29, comma 1 quater...". Rileva preliminarmente il Collegio che le tre censure vanno esaminate e trattate unitariamente, in quanto tutte volte alla pregiudiziale affermazione dell'applicabilita' (o meno) alla fattispecie del noleggio di autovetture con conducente, di cui all'articolo 7-bis, comma 1, del Decreto Legge n. 5 del 2009, conv in L. n. 33 del 2009, della sospensione dell'efficacia delle modifiche previste agli articoli 3 e 11 della L. n. 21 del 1992, introdotte dall'articolo 29, comma 1 quater del Decreto Legge n. 207 del 2008 e dell'articolo 9, comma 3 Decreto Legge n. 244 del 2016, conv. in L. n. 19 del 2017. Esse sono meritevoli di accoglimento nell'ambito dei confini che di seguito verranno illustrati. L'ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione, 1 marzo 2022 n. 6781, individua la questione di diritto alla stessa sottoposta nei seguenti termini: se, all'epoca dei fatti contestati al ricorrente (maggio 2016), le modifiche recate al testo della L. n. 21 del 1992 (e, per quanto specificamente interessa la vicenda in esame, agli articoli 3 e 11 di tale legge) dall'articolo 29, comma 1 quater, del Decreto Legge n. 207 del 2008 (inserito dalla legge di conversione n. 14 del 2009) dovessero ritenersi vigenti o sospese. In particolare, osserva il Collegio remittente che, secondo il ricorrente, l'articolo 9, comma 3, del Decreto Legge 30 dicembre 2016, n. 244, convertito in L. 27 febbraio 2017, n. 19, la' dove prevede (nel secondo periodo) che "la sospensione dell'efficacia disposta dall'articolo 7-bis, comma 1, del Decreto Legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 aprile 2009, n. 33, si intende prorogata fino al 31 dicembre 2017", estenderebbe retroattivamente la sospensione di efficacia dell'articolo 29, comma 1 quater del Decreto Legge 30 dicembre 2007 n. 207 dalla data del 31 marzo 2010, fino alla quale essa era gia' stata prorogata, alla data del 31 dicembre 2017, cosi' creando un continuum di sospensione di efficacia dal 2009 al 2017. Cosi' individuata la questione oggetto di scrutinio, l'ordinanza interlocutoria ritiene sia meritevole di un supplemento di riflessione l'approdo ermeneutico al quale e' giunta la Corte con le sentenze n. 12679 del 2017 e n. 28077 del 2021. Con tali pronunce si e' affermato che la sospensione dell'efficacia delle modifiche alla disciplina di cui agli articoli 3 e 11 della L. n. 21 del 1992, introdotta dall'articolo 29 del Decreto Legge n. 207 del 2008, era cessata al 31 marzo 2010, secondo quanto previsto dall'articolo 5, comma 3, del Decreto Legge n. 194 del 2009, conv. in l. n. 25 del 2010, ponendosi tale norma come l'ultima (la precedente era l'articolo 23, comma 2 Decreto Legge n. 78 del 2009, conv. in L. n. 102 del 2009) che aveva prorogato l'iniziale sospensione prevista dall'articolo 7-bis del Decreto Legge n. 5 del 2009 introdotto dalla legge di conversione n. 33 del 2009. Secondo detto indirizzo, rispetto a tale cessazione, a nulla valeva l'individuazione del termine del 31 dicembre 2016 contenuto nell'articolo 2, comma 3 del Decreto Legge n. 40 del 2010, in quanto riferito all'adozione di un decreto ministeriale volto a impedire pratiche di esercizio abusivo del servizio di taxi e del servizio di noleggio con conducente o, comunque, pratiche non rispondenti ai principi ordinamentali che regolano la materia, senza alcuna rinnovata sospensione della efficacia delle disposizioni di cui al Decreto Legge n. 207 del 2008. Non poteva, infatti, ritenersi che il mero rinvio ad un decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, ancorche' previa intesa con la Conferenza unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, contenuto nell'articolo 2 cit. potesse avere l'effetto di impedire l'efficacia di una disciplina inserita nella legge-quadro per il trasporto dotata, peraltro, di indubbia idoneita' prescrittiva. La successiva pronuncia del 2021, riportando l'iter argomentativo della precedente del 2017, ha affermato che l'articolo 9, comma 3, del Decreto Legge n. 244 del 2016, nel testo risultante dalla legge di conversione n. 19 del 2017, nella parte in cui prevede che "Conseguentemente, la sospensione dell'efficacia disposta dall'articolo 7-bis, comma 1, del Decreto Legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 aprile 2009, n. 33, si intende prorogata fino al 31 dicembre 2017", ha inteso disporre una nuova sospensione delle disposizioni introdotte dall'articolo 29, comma 1- quater, a far tempo dal 1 marzo 2017, data di entrata in vigore delle modifiche apportate con la legge di conversione, sino al 31 dicembre 2017, senza che a tale ius superveniens potesse attribuirsi il contenuto e la valenza di una legge retroattiva o di interpretazione autentica. L'ordinanza di rimessione pone in luce come l'interpretazione della seconda parte del comma 3 dell'articolo 9 del Decreto Legge n. 244 del 2016 si presti ai seguenti dubbi. In primo luogo essa non appare perfettamente coerente con il dato letterale della disposizione, la' dove essa recita "la sospensione... si intende prorogata". Il senso letterale della parola "prorogata", infatti, sembra alludere alla "protrazione" di una sospensione ancora in essere, non alla "riattivazione" di una sospensione cessata anni prima. In secondo luogo, l'ordinanza riporta un passaggio della motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 56 del 2020 la quale, pur senza affrontare il tema oggetto del presente scrutinio (essendo stata sottoposta al suo esame la questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 10-bis del Decreto Legge n. 135 del 2018), sembra, tuttavia, offrire una ricostruzione della disciplina in esame non del tutto coincidente con quella di cui ai citati precedenti di questa Corte. In particolare, l'iter argomentativo seguito dalla Consulta sulla questione alla stessa sottoposta si conclude al paragrafo 3.1 del Considerato in diritto con l'affermazione che "Per meglio comprendere l'assetto normativo vigente, va precisato che l'articolo 10-bis ha a sua volta abrogato, a decorrere dal 10 gennaio 2019, sia il comma 3 dell'articolo 2 del Decreto Legge n. 40 del 2010 (al comma 5), che l'articolo 7-bis del Decreto Legge n. 5 del 2009 (al comma 7), che avevano sospeso l'efficacia della piu' stringente disciplina dettata dall'articolo 29, comma 1-quater, del Decreto Legge n. 207 del 2008. Di conseguenza, dalla indicata data del 10 gennaio 2019 hanno acquistato efficacia le disposizioni modificative della L. n. 21 del 1992 introdotte dall'articolo 29, comma 1-quater, del Decreto Legge n. 207 del 2008, come ulteriormente modificate dall'articolo 10-bis del Decreto Legge n. 135 del 2018, mentre e' venuta meno la previsione di "urgenti disposizioni attuative" dirette a contrastare il fenomeno dell'abusivismo, da adottare con decreto ministeriale". Tale dictum, a parere del Collegio che ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, lascia "il dubbio che, nella ricostruzione normativa operata dalla Corte costituzionale, le disposizioni modificative della L. n. 21 del 1992 introdotte dall'articolo 29, comma 1-quater, del Decreto Legge n. 207 del 2008 non siano mai entrate in vigore prima del 10 gennaio 2019, quando esse entrarono in vigore con le modifiche recate dall'articolo 10-bis del Decreto Legge n. 135 del 2018". La Sezione remittente ricorda che anche la giurisprudenza di merito, proprio alla luce delle considerazioni fin qui esposte e delle incertezze presenti (per l'interpretazione patrocinata dal ricorrente si veda Trib. Roma 26.05.2017), propende a favore della tesi che per l'intero periodo dal 1 marzo 2010 al 31 dicembre 2017 la materia disciplinata, prima, dal testo originario della L. n. 21/1992 e, poi, dal testo di tale legge come modificato dal Decreto Legge n. 207/2008 deve intendersi come totalmente deregolata. Il giudice di merito ha, in primo luogo, rilevato come l'articolo 29, comma 1-quater Decreto Legge n. 207 del 2008, prevedendo la sostituzione integrale di commi e articoli di legge preesistenti, implichi il duplice effetto dell'abrogazione di tali disposizioni e, al tempo stesso, dell'introduzione nell'ordinamento giuridico di nuove disposizioni, inserite in luogo di quelle soppresse e nella medesima sede originariamente destinata a queste ultime; in secondo luogo, si e' poi sottolineato come la sostituzione comporti l'eliminazione della sequenza testuale da un testo normativo e l'inserimento di una nuova sequenza al posto di quella, con conseguente unificazione dei momenti dell'abrogazione e dell'inserimento. Sulla scorta dei tali premesse, il Tribunale capitolino ha quindi richiamato Corte Cost. n. 13/2012 ("il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate non opera in via generale e automatica e puo' essere ammesso soltanto in ipotesi tipiche e molto limitate") e Cass., Sez. Un., n. 25551/2007 ("a questo proposito va in generale affermato che, nel regime di successione delle leggi, mentre l'abrogazione della disposizione che modifica o sostituisce quella precedente non comporta la sua reviviscenza, tale effetto puo' invece predicarsi in caso di abrogazione di una disposizione che abbia come contenuto quello di abrogare una disposizione precedente sicche' cio' che viene meno e' proprio l'effetto abrogativo"); per concludere che, nel periodo di sospensione dell'efficacia delle disposizioni recate dal Decreto Legge n. 207/2008, non ricorreva alcuna reviviscenza delle disposizioni contenute nel testo previgente della L. n. 21 del 1992. Questo e', dunque, il perimetro oggettivo della remissione. Per una riconsiderazione complessiva del tema da parte di queste Sezioni Unite e per una piu' chiara comprensione della questione rimessa e' necessario premettere un sintetico quadro delle disposizioni di legge rilevanti. L'intervento del legislatore nazionale sulla disciplina amministrativa del noleggio con conducente trova la propria fonte nella L. n. 21 del 1992 (Legge quadro per il trasposto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea). In particolare, per quanto specificatamente interessa la vicenda in esame, l'articolo 3 (Servizio di noleggio con conducente) nella sua originaria formulazione prevedeva che "1. Il servizio di noleggio con conducente si rivolge all'utenza specifica che avanza, presso la sede del vettore, apposita richiesta per una determinata prestazione a tempo e/o viaggio. Lo stazionamento dei mezzi avviene all'interno delle rimesse o presso i pontili di attracco", mentre il successivo articolo 11 (Obblighi dei titolari di licenza per l'esercizio del servizio di taxi e di autorizzazione per l'esercizio del servizio di noleggio con conducente) disponeva che "1. I veicoli o natanti adibiti al servizio di taxi possono circolare e sostare liberamente secondo quanto stabilito dai regolamenti comunali. 2. Il prelevamento dell'utente ovvero l'inizio del servizio sono effettuati con partenza dal territorio del comune che ha rilasciato la licenza per qualunque destinazione, previo assenso del conducente per le destinazioni oltre il limite comunale o comprensoriale, fatto salvo quanto disposto dal comma 5 dell'articolo 4. 3. Nel servizio di noleggio con conducente, eserci'to a mezzo di autovetture, e' vietata la sosta in posteggio di stazionamento su suolo pubblico nei comuni ove sia eserci'to il servizio di taxi. E' tuttavia consentito l'uso delle corsie preferenziali e delle altre facilitazioni alla circolazione previste per i taxi e altri servizi pubblici. 4. Le prenotazioni di trasporto per il servizio di noleggio con conducente sono effettuate presso le rispettive rimesse. 5. I comuni in cui non e' eserci'to il servizio di taxi possono autorizzare i veicoli immatricolati per il servizio di noleggio con conducente allo stazionamento su aree pubbliche destinate al servizio di taxi. 6. I comuni, ferme restando le attribuzioni delle autorita' competenti in materia di circolazione negli ambiti portuali, aeroportuali e ferroviari, ed in accordo con le organizzazioni sindacali di categoria dei comparti del trasporto di persone, possono, nei suddetti ambiti, derogare a quanto previsto dal comma 3, purche' la sosta avvenga in aree diverse da quelle destinate al servizio di taxi e comunque da esse chiaramente distinte, delimitate e individuate come rimessa. 7. Il servizio di taxi, ove eserci'to, ha comunque la precedenza nei varchi prospicienti il transito dei passeggeri". Per effetto dell'articolo 29, comma 1-quater, del Decreto Legge n. 207 del 2008 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni finanziarie urgenti), convertito, con modificazioni, nella L. n. 14 del 2009) l'articolo 3 cit. e' stato modificato nel seguente testo "1. Il servizio di noleggio con conducente si rivolge all'utenza specifica che avanza, presso la rimessa, apposita richiesta per una determinata prestazione a tempo e/o viaggio. 2. Lo stazionamento dei mezzi deve avvenire all'interno delle rimesse o presso i pontili di attraccomma 3. La sede del vettore e la rimessa devono essere situate, esclusivamente, nel territorio del comune che ha rilasciato l'autorizzazione" e l'articolo 11 cit. nel seguente testo "1. I veicoli o natanti adibiti al servizio di taxi possono circolare e sostare liberamente secondo quanto stabilito dai regolamenti comunali. 2. Il prelevamento dell'utente ovvero l'inizio del servizio sono effettuati con partenza dal territorio del comune che ha rilasciato la licenza per qualunque destinazione, previo assenso del conducente per le destinazioni oltre il limite comunale o comprensoriale, fatto salvo quanto disposto dal comma 5 dell'articolo 4. 3. Nel servizio di noleggio con conducente, eserci'to a mezzo di autovetture, e' vietata la sosta in posteggio di stazionamento su suolo pubblico nei comuni ove sia eserci'to il servizio di taxi. In detti comuni i veicoli adibiti a servizio di noleggio con conducente possono sostare, a disposizione dell'utenza, esclusivamente all'interno della rimessa. I comuni in cui non e' eserci'to il servizio taxi possono autorizzare i veicoli immatricolati per il servizio di noleggio con conducente allo stazionamento su aree pubbliche destinate al servizio di taxi. Ai veicoli adibiti a servizio di noleggio con conducente e' consentito l'uso delle corsie preferenziali e delle altre facilitazioni alla circolazione previste per i taxi e gli altri servizi pubblici. 4. Le prenotazioni di trasporto per il servizio di noleggio con conducente sono effettuate presso la rimessa. L'inizio ed il termine di ogni singolo servizio di noleggio con conducente devono avvenire alla rimessa, situata nel comune che ha rilasciato l'autorizzazione, con ritorno alla stessa, mentre il prelevamento e l'arrivo a destinazione dell'utente possono avvenire anche nel territorio di altri comuni. Nel servizio di noleggio con conducente e' previsto l'obbligo di compilazione e tenuta da parte del conducente di un "foglio di servizio" completo dei seguenti dati: a) fogli vidimati e con progressione numerica; b) timbro dell'azienda e/o societa' titolare della licenza. La compilazione dovra' essere singola per ogni prestazione e prevedere l'indicazione di: 1) targa veicolo; 2) nome del conducente; 3) data, luogo e km. di partenza e arrivo; 4) orario di inizio servizio, destinazione e orario di fine servizio; 5) dati del committente. Tale documentazione dovra' essere tenuta a bordo del veicolo per un periodo di due settimane. 5. I comuni in cui non e' eserci'to il servizio di taxi possono autorizzare i veicoli immatricolati per il servizio di noleggio con conducente allo stazionamento su aree pubbliche destinate al servizio di taxi. 6. I comuni, ferme restando le attribuzioni delle autorita' competenti in materia di circolazione negli ambiti portuali, aeroportuali e ferroviari, ed in accordo con le organizzazioni sindacali di categoria dei comparti del trasporto di persone, possono, nei suddetti ambiti, derogare a quanto previsto dal comma 3, purche' la sosta avvenga in aree diverse da quelle destinate al servizio di taxi e comunque da esse chiaramente distinte, delimitate e individuate come rimessa. 7. Il servizio di taxi, ove eserci'to, ha comunque la precedenza nei varchi prospicienti il transito dei passeggeri". La normativa introdotta dall'articolo 29, comma 1-quater Decreto Legge n. 207 del 2008 (comma aggiunto dalla legge di conversione del 27 febbraio 2019 n. 14) ha ridisegnato la disciplina del servizio di noleggio con conducente (NCC) prevista dalla L. n. 21 del 1992 rendendo piu' stringenti i vincoli territoriali, aumentando anche i controlli sul loro rispetto e le sanzioni in caso di violazione. In particolare, sono stati introdotti a carico dei prestatori dei servizi di NCC: l'obbligo di avere la sede e la rimessa esclusivamente nel territorio del comune che ha rilasciato l'autorizzazione; l'obbligo di iniziare ogni singolo servizio dalla rimessa e di ritornarvi al termine del servizio; l'obbligo di compilare e tenere il "foglio di servizio"; l'obbligo di sostare, a disposizione dell'utenza, esclusivamente all'interno della rimessa. E' stato inoltre confermato l'obbligo, gia' previsto dalla L. n. 21 del 1992, di effettuazione presso le rimesse le prenotazioni di trasporto. Le modifiche apportate dall'articolo 29 cit. hanno avuto applicazione per un brevissimo lasso di tempo (dal 1 marzo 2009, data di entrata in vigore della L. n. 14 del 2009, al 14 aprile 2009, data di entrata in vigore dell'articolo 7-bis Decreto Legge 10 febbraio 2009 n. 5, inserito dalla legge di conversione del 9 aprile 2009 n. 33). In particolare, il legislatore ha inizialmente previsto una prima sospensione fino al 30 giugno 2009 (articolo 7-bis cit., nel testo originario). Detto termine e' stato successivamente prorogato al 31 dicembre 2009 dall'articolo 23, comma 2, Decreto Legge 1 luglio 2009 n. 78, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 102 del 2009 e, successivamente, al 31 marzo 2010, dall'articolo 5, comma 3, Decreto Legge 30 dicembre 2009 n. 194, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 25 del 2010. E', poi, intervenuto l'articolo 2, comma 3, Decreto Legge 25 marzo 2010 n. 40 il quale, sempre nel testo applicabile ratione temporis, prevedeva che "3. Ai fini della rideterminazione dei principi fondamentali della disciplina di cui alla L. 15 gennaio 1992, n. 21, secondo quanto previsto dall'articolo 7-bis, comma 1, del Decreto Legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 aprile 2009, n. 33, ed allo scopo di assicurare omogeneita' di applicazione di tale disciplina in ambito nazionale, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, previa intesa con la Conferenza Unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono adottate, entro e non oltre il 31 dicembre 2016, urgenti disposizioni attuative, tese ad impedire pratiche di esercizio abusivo del servizio di taxi e del servizio di noleggio con conducente o, comunque, non rispondenti ai principi ordinamentali che regolano la materia. Con il suddetto decreto sono, altresi', definiti gli indirizzi generali per l'attivita' di programmazione e di pianificazione delle regioni, ai fini del rilascio, da parte dei Comuni, dei titoli autorizzativi." L'articolo 2, comma 3 cit. e' stato, poi, fatto oggetto di successivo intervento da parte del legislatore ad opera dell'articolo 9, comma 3 Decreto Legge n. 244 del 2016, come modificato dalla legge di conversione n. 19 del 2017, con il quale si e' disposto che "All'articolo 2, comma 3 del Decreto Legge 25 marzo 2010, n. 40, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 maggio 2010, n. 73, le parole: "31 dicembre 2016" sono sostituite dalle seguenti: "31 dicembre 2017". La seconda parte del disposto dell'articolo 9, comma 3 cit. continua con la precisazione che "Conseguentemente, la sospensione dell'efficacia disposta dall'articolo 7-bis, comma 1 del Decreto Legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 aprile 2009 n. 33, si intende prorogata fino al 31 dicembre 2017." Infine, sulla materia e' intervenuto l'articolo 10-bis Decreto Legge n. 135 del 2018, che in sede di conversione, di cui alla L. n. 12 del 2019, ha riprodotto le disposizioni gia' contenute nel Decreto Legge n. 143 del 2018 (di due soli articoli su "Misure urgenti in materia di autoservizi pubblici non di linea"), contestualmente abrogandole e che, per quanto qui di interesse, cosi' dispone "1. Alla L. 15 gennaio 1992, n. 21, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all'articolo 3, comma 1, le parole: "presso la rimessa" sono sostituite dalle seguenti: "presso la sede o la rimessa" e sono aggiunte, infine, le seguenti parole: "anche mediante l'utilizzo di strumenti tecnologici"; b) all'articolo 3, il comma 3 e' sostituito dal seguente: "3. La sede operativa del vettore e almeno una rimessa devono essere situate nel territorio del comune che ha rilasciato l'autorizzazione. E' possibile per il vettore disporre di ulteriori rimesse nel territorio di altri comuni della medesima provincia o area metropolitana in cui ricade il territorio del comune che ha rilasciato l'autorizzazione, previa comunicazione ai comuni predetti, salvo diversa intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata entro il 28 febbraio 2019. In deroga a quanto previsto dal presente comma, in ragione delle specificita' territoriali e delle carenze infrastrutturali, per le sole regioni Sicilia e Sardegna l'autorizzazione rilasciata in un comune della regione e' valida sull'intero territorio regionale, entro il quale devono essere situate la sede operativa e almeno una rimessa"; all'articolo 11, il comma 4 e' sostituito dal seguente: "4. Le prenotazioni di trasporto per il servizio di noleggio con conducente sono effettuate presso la rimessa o la sede, anche mediante l'utilizzo di strumenti tecnologici. L'inizio ed il termine di ogni singolo servizio di noleggio con conducente devono avvenire presso le rimesse di cui all'articolo 3, comma 3, con ritorno alle stesse. Il prelevamento e l'arrivo a destinazione dell'utente possono avvenire anche al di fuori della provincia o dell'area metropolitana in cui ricade il territorio del comune che ha rilasciato l'autorizzazione. Nel servizio di noleggio con conducente e' previsto l'obbligo di compilazione e tenuta da parte del conducente di un foglio di servizio in formato elettronico, le cui specifiche sono stabilite dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti con proprio decreto, adottato di concerto con il Ministero dell'interno. Il foglio di servizio in formato elettronico deve riportare: a) targa del veicolo; b) nome del conducente; c) data, luogo e chilometri di partenza e arrivo; d) orario di inizio servizio, destinazione e orario di fine servizio; e) dati del fruitore del servizio. Fino all'adozione del decreto di cui al presente comma, il foglio di servizio elettronico e' sostituito da una versione cartacea dello stesso, caratterizzata da numerazione progressiva delle singole pagine da compilare, avente i medesimi contenuti previsti per quello in formato elettronico, e da tenere in originale a bordo del veicolo per un periodo non inferiore a quindici giorni, per essere esibito agli organi di controllo, con copia conforme depositata in rimessa"; f) all'articolo 11, dopo il comma 4 sono inseriti i seguenti: "4-bis. In deroga a quanto previsto dal comma 4, l'inizio di un nuovo servizio puo' avvenire senza il rientro in rimessa, quando sul foglio di servizio sono registrate, sin dalla partenza dalla rimessa o dal pontile d'attracco, piu' prenotazioni di servizio oltre la prima, con partenza o destinazione all'interno della provincia o dell'area metropolitana in cui ricade il territorio del comune che ha rilasciato l'autorizzazione. Per quanto riguarda le regioni Sicilia e Sardegna, partenze e destinazioni possono ricadere entro l'intero territorio regionale. 4-ter. Fermo restando quanto previsto dal comma 3, e' in ogni caso consentita la fermata su suolo pubblico durante l'attesa del cliente che ha effettuato la prenotazione del servizio e nel corso dell'effettiva prestazione del servizio stesso". Essendo la questione all'attenzione di queste Sezioni Unite costituita dalla definizione del limite temporale della sospensione dell'efficacia della riforma di settore (giova ribadirlo, se nel senso della sua permanenza nel periodo 1 aprile 2010 - 31 dicembre 2017 ovvero della sua negazione, con tutto cio' che ne consegue in termini di disciplina applicabile al caso di specie), onde poter assolvere al compito di interpretazione di siffatte norme, occorre prendere le mosse dai servizi disciplinati dalla legge quadro n. 21 del 1992, la quale - come sopra esposto - nel prevedere due tipologie di servizio, taxi e noleggio con conducente, con il Decreto Legge 30 dicembre 2008 n. 207, in particolare con l'articolo 29, comma 1-quater, ha provveduto a ridisegnare in larga parte la disciplina dello svolgimento dei servizi NCC prevedendo l'introduzione di una serie di vincoli a tale attivita'; tuttavia l'efficacia di tale disciplina e' stata pacificamente ed in termini espliciti sospesa fino al marzo 2010 e, successivamente, dal 1 gennaio 2017 fino al 31 dicembre 2018, per cui permangono dubbi sul periodo compreso tra il 1 aprile 2010 ed il 31 dicembre 2016, non espressamente e dettagliatamente disciplinato. L'esigenza di adeguare le disposizioni della L. n. 21 del 1992 - in considerazione sia di problematiche relative al rapporto tra i servizi di taxi e di noleggio con conducente (va ricordato che in origine gli obblighi di servizio pubblico discendevano solo per il servizio di taxi, i quali risultano disciplinati dalle leggi regionali, ai cui criteri devono attenersi i comuni nel regolamentarne l'esercizio, enti ai quali sono delegate le funzioni amministrative), sia per l'esigenza di rispondere alle nuove realta' economiche che offrivano servizi non immediatamente riconducibili a quelli previsti dalla regolamentazione nazionale, anche al fine di superare i dubbi riguardanti la loro legittimita' - ha caratterizzato le ultime legislature, a cio' stimolate anche dagli interventi delle Autorita' indipendenti di settore, quali l'Autorita' di Regolazione dei Trasporti (che ha inviato al Governo ed al Parlamento il 21 maggio 2015 un atto di segnalazione sulla rilevanza economico-regolatoria dell'autotrasporto di persone non di linea) e l'Autorita' Garante per la Concorrenza ed il Mercato (AGCM), intervenuta piu' volte proprio sul tema della riforma della disciplina del settore Taxi e NCC (da ultimo, il 10 marzo 2017, ha inviato una segnalazione al Parlamento ed al Governo in cui si sottolinea che il settore dalla mobilita' non di linea - taxi e NCC - richiede una riforma complessiva, in quanto e' ancora regolato dalla L. n. 21 del 15 gennaio 1992, oramai non piu' al passo con l'evoluzione del mercato). Il profilo dell'autonomia privata di regolare a propria discrezione i fenomeni economici (associativi o di scambio) e' stato certamente incentivato dalla globalizzazione e da internet. Basti pensare alla creazione della starticolo up Uber, nota per avere creato nel 2010 l'omonima applicazione per mettere in contatto diretto gli automobilisti ed i passeggeri, offrendo cosi' un servizio di trasporto automobilistico distinto dai tradizionali autoservizi pubblici di linea. L'irrompere sul mercato di questa nuova applicazione ha generato non poche frizioni tra le parti sociali che sono spesso sfociate in contenziosi giurisdizionali. Di qui - alla luce di quanto previsto nel decreto "milleproroghe" 2017 - la scelta del legislatore di posticipare almeno fino al gennaio 2018 l'entrata in vigore dell'articolo 29, comma 1-quater L. 30.12.2008 n. 207. Conseguentemente alla nuova disciplina per il NCC che viene delineata dal Decreto Legge n. 143 del 2018, il comma 5 dell'articolo 1 dispone l'abrogazione del comma 3 dell'articolo 2 del Decreto Legge n. 40 del 2010 che prevedeva l'adozione, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, previa intesa con la Conferenza Unificata, di disposizioni per impedire pratiche di esercizio abusivo del servizio di taxi e del servizio di noleggio con conducente o, comunque, non rispondenti ai principi ordinamentali che regolano la materia e per definire gli indirizzi generali per l'attivita' di programmazione e di pianificazione delle regioni, ai fini del rilascio, da parte dei Comuni, dei titoli autorizzativi. Il termine per l'emanazione di tale decreto interministeriale e' stato differito 12 volte, da ultimo al 31 dicembre 2018 dall'articolo articolo 1, comma 1136, lettera b), della L. n. 205 del 2017, che - per quanto gia' esposto - ha anche confermato la sospensione dell'efficacia, per l'anno 2018, delle disposizioni del Decreto Legge n. 207/2008. Analogamente, il comma 7 dispone, a decorrere dal 1 gennaio 2019, l'abrogazione dell'articolo 7-bis Decreto Legge n. 5 del 2009, cioe' della norma che aveva disposto la sospensione fino al 31 marzo 2010 dell'operativita' dell'articolo 29, comma 1-quater, del Decreto Legge 30 dicembre 2008 n. 207. Va, infine, ricordato come l'articolo 10-bis Decreto Legge n. 135 del 2018 abbia abrogato, a decorrere dal 10 gennaio 2019, sia il comma 3 dell'articolo 2 Decreto Legge n. 40 del 2010, che l'articolo 7-bis Decreto Legge n. 5 del 2009, che avevano sospeso l'efficacia della disciplina dettata dall'articolo 29, comma 1-quater, del Decreto Legge n. 207 del 2018. Di conseguenza, dal 1 gennaio 2019 hanno acquistato efficacia le disposizioni modificative della L. n. 21 del 1992 introdotte dall'articolo 29, comma 1-quater del Decreto Legge n. 207 del 2008, come ulteriormente modificate dall'articolo 10-bis del Decreto Legge n. 135 del 2018, mentre e' venuta meno la previsione di "urgenti disposizioni attuative" dirette a contrastare il fenomeno dell'abusivismo, da adottare con decreto ministeriale (cfr. testualmente, Corte Cost. 56/2020, par. 3.1.). Solo per completezza si osserva che la legge annuale per la concorrenza (L. n. 124 del 2017, articolo 1, commi 179-182) conteneva la delega per l'emanazione di un decreto legislativo di riordino del settore taxi e NCC, da esercitare entro il 29 agosto 2018, ma tale delega non e' stata mai esercitata. Cosi' ricostruito l'excursus storico della disciplina normativa, giova poi chiarire - sempre nell'ottica di una migliore interpretazione del testo normativo - che l'articolo 9, comma 3, Decreto Legge n. 244 del 2016, come modificato dalla legge di conversione n. 19 del 2017 che modifica parzialmente l'articolo 2, comma 3 Decreto Legge n. 40 del 2010, convertito dalla L. n. 73 del 2010, sostituendo le parole "31 dicembre 2016" con "31 dicembre 2017", e' stato approvato nella Prima Commissione permanente (Affari Costituzionali) in sede referente del Senato della Repubblica a seguito del recepimento dell'emendamento 9.20, ritirati gli emendamenti 9.16, 9.17, 9.18, 9.22, 9.23 e 9.25, respinti quelli recanti i numeri 9.15, 9.19, 9.21 e 9.24, che meglio rispondevano al quesito esegetico posto dall'ordinanza interlocutoria nel senso che la disposta sospensione opera per tutto il periodo 1 aprile 2010 - 31 dicembre 2017. Siffatta impostazione tuttavia consente di collegare la disposizione citata all'articolo 2, comma 3 Decreto Legge n. 40 del 2010 (il quale stabiliva che: "3. Ai fini della rideterminazione dei principi fondamentali della disciplina di cui alla L. 15 gennaio 1992, n. 21, secondo quanto previsto dall'articolo 7-bis, comma 1, del Decreto Legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 aprile 2009, n. 33, ed allo scopo di assicurare omogeneita' di applicazione di tale disciplina in ambito nazionale, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, previa intesa con la Conferenza Unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono adottate, entro e non oltre il termine di sessanta giorni decorrenti dalla data di entrata in vigore del presente decreto, urgenti disposizioni attuative, tese ad impedire pratiche di esercizio abusivo del servizio di taxi e del servizio di noleggio con conducente o, comunque, non rispondenti ai principi ordinamentali che regolano la materia. Con il suddetto decreto sono, altresi', definiti gli indirizzi generali per l'attivita' di programmazione e di pianificazione delle regioni, ai fini del rilascio, da parte dei Comuni, dei titoli autorizzativi.") all'articolo 29, comma 1-quater del Decreto Legge n. 207 del 2008, facendone conseguire la sospensione anche dell'efficacia della riforma che ridisegna i principi fondamentali del servizio del noleggio con conducente di cui alla L. n. 21 del 1992, in quanto il nuovo e piu' rigoroso regime postula la necessita' dell'adozione di una disciplina complessiva (statale, regionale e comunale) con l'adozione di decreti ministeriali concertati tra i Ministeri interessati e previa intesa con la Conferenza Unificata di Stato, regioni e di comuni. In altri termini, la maieutica dell'articolo 9, comma 3 Decreto Legge n. 244 del 2016, come modificato dalla legge di conversione n. 19 del 2017, non consente di dare attuazione alla nuova disciplina nella sua globalita' senza la messa a regime dell'intero settore. Ne' a siffatta interpretazione e' di ostacolo il principio secondo cui la norma di interpretazione autentica puo' essere adottata solo per ovviare ad una situazione di grave incertezza normativa o a forti contrasti giurisprudenziali, con la conseguenza che il legislatore sarebbe abilitato ad intervenire solamente al ricorrere di siffatti eventi, tali da giustificare, di conseguenza, l'esegesi legislativa. Infatti, si rischierebbe di affrontare la tematica dell'interpretazione autentica sulla base di un criterio approssimativo, ossia non considerando la giurisprudenza costituzionale in materia di leggi interpretative, attraverso la quale, seppur con esiti variabili, i giudici delle leggi sono giunti a riconoscere la legittimita' dell'intervento (autenticamente) interpretativo, e quindi, retroattivo del legislatore, non solo in casi di incertezza normativa (v. Corte Cost. n. 15 del 2012 che richiama le sent. nn. 271 e 257 del 2011, n. 209 del 2010, nn. 311 e 24 del 2009, nn. 162 e 74 del 2008; in tal senso vedi anche Corte Cost. nn. 156 del 2014, n. 170 del 2013, n. 264 del 2012, n. 78 del 2012) o di anfibologie giurisprudenziali, ovvero nei casi in cui il legislatore si limiti a selezionare uno dei possibili significati che possono ricavarsi dalla disposizione interpretata (rimanendo entro i possibili confini interpretativi: v. Corte Cost. sentenze n. 227 del 2014, n. 170 del 2008 e n. 234 del 2007), ma anche nell'ipotesi in cui il legislatore intervenga per contrastare un orientamento giurisprudenziale (c.d. diritto vivente) sfavorevole, sempre che l'opzione ermeneutica prescelta rinvenga il proprio fondamento nella cornice della norma interpretata (v. Corte Cost. n. 271/2011 cit.). Cosi' intesa, l'incertezza normativa cui il legislatore cercherebbe di far fronte mediante l'intervento esegetico potrebbe articolarsi nella diversa accezione oggettiva (oggettivo contrasto giurisprudenziale) ovvero soggettiva (indesiderato indirizzo giurisprudenziale). La Corte costituzionale rinviene il fondamento dell'adozione dello strumento legislativo interpretativo nella sussistenza di contrasti giurisprudenziali che diano luogo ad incertezza applicativa della norma ad oggetto ovvero nel consolidamento di uno specifico orientamento giurisprudenziale, la cui caratteristica sarebbe da rintracciarsi nella contrarieta' a quanto disposto dal legislatore, costretto, al fine di imporre la propria interpretazione, ad un intervento correttivo. Si e' assistito ad un iniziale orientamento in cui si era tentato di tracciare - seppure a grandi linee - i contorni della norma di interpretazione autentica, ricercandone gli elementi costituzionalmente necessari affinche' la norma potesse considerarsi legittima, per poi passare ad una seconda fase, nella quale il giudice delle leggi si e' allontanato dalla questione della specifica natura da riconoscere alle leggi interpretative, quali norme effettivamente interpretative ovvero innovative criptoretroattive (in tal senso v., tra le altre, Corte Cost. n. 234 del 2007), concentrandosi piuttosto sulla ricerca del loro presupposto giustificativo. In linea di principio, dunque, la Corte costituzionale evidenzia la potenzialita' retroattiva delle leggi di interpretazione autentica - la cui legittimita' e' ammessa nell'ordinamento costituzionale nazionale, con l'unico limite dell'articolo 25, comma 2 Cost. in materia penale - nella prospettiva, pero', di preservazione dei principi di certezza del diritto e di legittimo affidamento dei cittadini (v. Corte Cost. n. 166 del 2012), da considerarsi come principi di "civilta' giuridica". Pertanto, l'intervento legislativo interpretativo sembra essere ammissibile allorche' - sebbene destinato ad incidere sulle posizioni giuridiche soggettive dei singoli - sia tale da garantire una compensazione ragionevole allo svantaggio arrecato. Ed e' proprio sulla ragionevolezza della norma interpretativa che sembra fondarsi il nucleo del sindacato di legittimita' costituzionale cui aspira il giudice delle leggi. Al fine di risultare costituzionalmente legittima, l'esegesi normativa, infatti, dovrebbe essere ragionevolmente giustificata da motivi imperativi di interesse generale (v. Corte Cost. n. 191 del 2014 e n. 170 del 2013), di modo da bilanciare gli effetti retroattivi anche a danno dei diritti acquisiti dai soggetti interessati. Il giudice e', dunque, chiamato a valutare l'astratta idoneita' interpretativa della norma che si pone come tale, attraverso la disamina degli elementi esteriori (rubrica, titolo, autoqualificazione...) ovvero rintracciandone il fine giustificativo (ratio legis...), fino a spingersi ad analizzare il contesto storico in cui la disposizione e' stata approvata (volonta' storica del legislatore) ovvero giovandosi di altre norme di analogo tenore (interpretazione analogica) o, ancora, rileggere la disposizione alla luce dell'evoluzione del quadro giuridico complessivo (interpretazione evolutiva), di modo che l'intervento interpretativo risulti capace di ricondurre a razionalita' e a logicita' le norme. Ed e' quanto occorso nella specie, in quanto proprio facendo applicazione di siffatti principi, in particolare quello dell'interpretazione evolutiva, va ravvisata la volonta' del legislatore nel senso di estendere la sospensione dell'efficacia della disciplina di riforma - dopo averla disposta espressamente quasi nell'immediatezza dell'entrata in vigore della medesima e fino al 31 marzo 2010 - con la previsione contenuta nel comma 3 dell'articolo 9 del Decreto Legge n. 244 del 2016, per cui il termine del suo vigore e' stato posticipato al 31 dicembre 2016 (divenuto successivamente 31 dicembre 2017) anche quanto alle disposizioni di cui all'articolo 29, comma 1-quater, proprio per ricondurre a coerenza il complessivo quadro delle proroghe finalizzato all'adozione e alla creazione di un sistema unitario e complessivo. Sotto siffatto profilo il ricorso va, pertanto, accolto per avere il Tribunale di (OMISSIS) fatto applicazione di una norma i cui effetti al momento della commissione dell'illecito amministrativo erano sospesi e quindi inefficaci anche le norme regionali derivate dalla disciplina statale. Permane, allora, la questione posta dall'ordinanza interlocutoria con il secondo dubbio interpretativo: "Se, durante il periodo di sospensione dell'efficacia delle disposizioni recate dall'articolo 29, comma 1-quater, del Decreto Legge n. 207 del 2008 debbano ritenersi reviviscenti le disposizioni dettate dalla L. n. 21/1992 (articoli 3 e 11) nel testo precedente alle modifiche recate dal menzionato articolo 29 del Decreto Legge n. 207/2008 o se, al contrario, tali disposizioni non possano ritenersi tornate in vigore durante la sospensione dell'efficacia dell'articolo 29, comma 1-quater, Decreto Legge n. 207/2008, in quanto abrogate e non reviviscenti, con conseguente deregolazione della materia dalle stesse disciplinata". Come e' noto, il fenomeno della reviviscenza indica la condizione di ripresa di vigore della situazione giuridica - ovvero del rapporto - oggetto della vicenda di temporanea e/o permanente stasi, condizione che si verifica per il sopraggiungere di una nuova situazione normativa per la quale le norme abrogatrici vengono a mancare. Per quanto qui di interesse - anche se si e' in presenza della diversa fattispecie di sospensione della efficacia della riforma, che comunque da taluni e' ritenuta abrogativa della originaria disciplina, cui va assimilata per eadem ratio - si sarebbe in presenza di ipotesi di abrogazione legislativa (nella specie, peraltro, solo temporanea), che si suole ricondurre al brocardo latino lex posterior derogat priori. L'abrogazione costituisce effetto dell'entrata in vigore di una norma contrastante con un'altra di pari grado, effetto che spetta al giudice interpretare, prendendo in considerazione ai fini della valutazione la norma da applicare alla fattispecie concreta. La questione controversa e' quella degli effetti, nel senso se si tratti di un fenomeno istantaneo e irreversibile ovvero se esso sia comunque ravvisabile in ipotesi di contrasto tra due discipline che pur si susseguono nel tempo. Al riguardo si osserva che alcune relativamente recenti pronunce della Corte costituzionale rese in sede di giudizio di legittimita' della legge hanno investito disposizioni abrogatrici e i loro effetti sono stati pacificamente intesi dalla stessa Corte costituzionale e dalla giurisprudenza ordinaria successiva come comportanti il ripristino delle norme illegittimamente abrogate (v. Corte Cost. sent. n. 162 del 2012, sent. nn. 5, 32 e 94 del 2014). In passato un esito di questo tipo era stato considerato in termini altamente critici sia in dottrina sia in giurisprudenza, mentre oggi si tende a riconoscere che il sistema di garanzia di conformita' delle leggi alla Costituzione non sarebbe completo se non prevedesse la possibilita' di estendere il sindacato della Corte anche sulle norme abrogatrici e non potesse implicare l'annullamento dell'abrogazione, qualora essa fosse ritenuta illegittima. Ci si deve chiedere se la reviviscenza a seguito di abrogazione della norma abrogatrice sia, al pari dell'abrogazione stessa, un istituto autonomo o se, al contrario, essa costituisca un esito interpretativo che si impone per logiche che sono intrinseche allo stesso istituto dell'abrogazione. Il problema non sembra essere stato finora analizzato in questi termini in modo diffuso. La piu' attenta dottrina ha sempre affermato che la questione della reviviscenza consiste, in ultima analisi, in un problema di interpretazione di diritto positivo, dimostrando in tal modo di propendere per la ricostruzione del fenomeno in chiave di esito interpretativo e non quale istituto giuridico dotato di propria autonomia. Il verificarsi della reviviscenza nei casi concreti si ritiene che debba essere sempre frutto di un'attivita' interpretativa, poiche' uno dei pochi caratteri comuni a tutte le ipotesi di reviviscenza consiste proprio nell'assenza, da parte del legislatore o eventualmente dell'organo che procede al controllo di validita' dell'atto normativo, di una dichiarazione di ripristino in forma espressa e vincolante erga omnes. Si tratta di una condizione inevitabile proprio in ragione della circostanza che il legislatore italiano si e' sempre disinteressato di porre una disciplina di qualunque tipo sul fenomeno. Nell'affrontare la questione della reviviscenza, pertanto, si prenderanno le mosse dalla ricostruzione delle questioni comuni a tutte le ipotesi, che riguardano principalmente la definizione dell'abrogazione e la questione delle lacune eventualmente colmabili mediante ripristino di norme abrogate. La chiave di lettura che viene scelta per affrontare il problema e' quella di valutare l'impatto della reviviscenza in relazione alla certezza del diritto e alla sua crisi. La reviviscenza, infatti, tende in concreto ad evitare che nell'ordinamento si formino lacune, privando di una disciplina positiva una materia gia' oggetto di regolamentazione legislativa. Come gia' affermato da questa Suprema Corte, soprattutto in materia di espropri, nel riconoscere la reviviscenza della precedente disciplina, il giudice deve compiere un'attivita' interpretativa che parte dalla necessaria premessa "a meno che il legislatore non abbia stabilito una nuova disciplina" (v. Cass. n. 5550 del 2009; Cass. n. 28431 del 2008; Cass., Sez. Un., n. 26275 del 2007), che mostra l'attenzione del giudice nell'applicare le norme dell'ordinamento, verificandone la operativita'. Tali decisioni confermano l'indirizzo secondo cui la reviviscenza di norme abrogate opera in via di eccezione e non automaticamente, descrivendo una ordinaria attivita' interpretativa del giudice che individuato un vuoto, mira a colmarlo, e cio' indipendentemente dalle ragioni che hanno causato la lacuna normativa. La Corte di legittimita' con siffatte pronunce non solo ha riconosciuto la teoria della reviviscenza, l'ha anche applicata nel caso concreto, facendo l'analisi della stratificazione normativa e individuando quella vigente ed applicabile al caso in esame. Chiaramente la giurisprudenza richiamata non costituisce una teorizzazione generale della reviviscenza di norme abrogate, tuttavia apre le porte al fenomeno per consentire a siffatto meccanismo di colmare una totale carenza di disciplina normativa venutasi a creare a seguito di vicende diverse che possono colpire l'effetto abrogativo. E poiche' nel nostro ordinamento non ci sono disposizioni di rango costituzionale o legislativo che prevedano espressamente quali siano le conseguenze sul piano normativo nelle ipotesi di abrogazione di una norma, le norme sull'ammissibilita' e sulle condizioni di reviviscenza devono essere necessariamente desunte per via interpretativa. Al riguardo soccorrono l'interprete le Disposizioni sulla legge in generale (le c.d. "preleggi"), che all'articolo 11 stabiliscono che la legge dispone soltanto "per l'avvenire", vietando gli effetti retroattivi; salvo l'ambito penale, in cui sussiste un divieto costituzionale di retroattivita' in peius della legge successiva (articolo 25, comma 2, Cost.), in ogni altro settore dell'ordinamento tale disposizione legislativa e' derogabile, ma soltanto tramite una previsione espressa di norma legislativa. Si tratta di una tutela minima che la legge non sia retroattiva, salvo espressa previsione. Naturalmente si pongono problemi di diritto intertemporale che possono essere risolti proprio con la reviviscenza. L'altra disposizione che ci viene in soccorso e' l'articolo 15, che indica i casi in cui le leggi devono considerarsi abrogate, si' da realizzare lo scopo che il mutamento del diritto si realizzi unicamente con un atto di volonta' novativa da parte del legislatore, sul presupposto della configurazione in modo logico dell'abrogazione quale fenomeno obiettivo e automatico. La prassi, tuttavia, pare disegnare una distanza da questa impostazione, dovuta soprattutto alla difficolta' di separare con nettezza il riconoscimento dell'abrogazione dall'attivita' interpretativa. Venendo al nostro caso, peraltro frequente nella prassi, e sempre che si voglia fare rientrare nel concetto di abrogazione in senso ampio, ci troviamo di fronte ad una abrogazione per novellazione della disciplina (come definita da avveduta recente dottrina), tramite sostituzione o modifica del testo di una disposizione previgente. In queste ipotesi il legislatore puo' preferire adeguare un preesistente corpus di norme intervenendo su singole parti, senza predisporre un nuovo atto normativo integralmente sostitutivo dei precedenti, riformando - anche solo in parte - un singolo istituto o piu' istituti previsti senza emanare un nuovo testo iuris. L'entrata in vigore della disposizione modificatrice ha una duplice conseguenza: da un lato introduce una nuova disciplina, dall'altro nello stesso tempo puo' abrogare quella precedente. Una disposizione che innova l'ordinamento mediante la modifica di testi normativi previgenti pone questioni peculiari in relazione alle ipotesi di reviviscenza: il venir meno di una simile disposizione, infatti, potrebbe essere inteso come il venire meno della modifica da essa disposta, ripristinando la disposizione modificata nella sua formulazione anteriore. E del resto l'articolo 15 delle preleggi afferma che una delle modalita' di abrogazione consiste nella "incompatibilita' tra le nuove disposizioni e le precedenti". Nell'abrogazione c.d. tacita il compito di individuare la disciplina abrogata grava di fatto e di diritto sull'interprete: se piu' disposizioni, poste dal legislatore in tempi diversi, regolano la stessa materia senza che quelle posteriori abbiano espressamente previsto l'abrogazione di quelle anteriori, l'eventuale contrasto fra le stesse dovra' essere risolto riconoscendo l'abrogazione delle norme espresse dalle disposizioni piu' antiche da parte di quelle desunte dalle piu' recenti, per cui l'attivita' interpretativa deve avere ad oggetto entrambe le discipline. Si deve tenere presente, pero', che la vigenza di una norma puo' cessare anche senza che ne intervenga l'abrogazione da parte di una successiva. E' il caso di leggi che dispongano autonomamente il tempo per cui resteranno vigenti e che pertanto possiamo definire come leggi temporanee. Un'altra ipotesi e' quella in cui sia sopravvenuta, per cause materiali o per volonta' anche solo temporanea del legislatore, l'impossibilita' di dare esecuzione a una norma o a una serie di norme. Quest'ultima ipotesi appare integrare la fattispecie in esame in ordine alla quale il legislatore del 2008/2009 aveva espresso la volonta' di un regime piu' rigoroso per differenziare il servizio taxi da quello di NCC, ponendo a carico di quest'ultimo maggiori limitazioni sanzionate come illeciti amministrativi piu' dettagliati, senza pero' far venire meno la disciplina di settore. Trovandoci di fronte a siffatta tecnica di normazione, poiche' il legislatore non ha nel tempo completato l'intento dichiarato con il Decreto Legge n. 207/2008 di predisporre una riforma unitaria per assicurare omogeneita' di applicazione della disciplina dei trasporti non di linea in ambito nazionale, differendo per ben dodici volte il termine per l'emanazione del decreto interministeriale (decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, previa intesa con la Conferenza Unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281), previsto dall'articolo 7-bis, comma 1, del Decreto Legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 aprile 2009, n. 33, cio' costituisce prova che con il rinvio e la relativa sospensione - onde evitare di incorrere in un vuoto normativo in un settore particolarmente sensibile quale quello del trasporto su territorio nazionale, che proprio con la riforma vuole garantire la composizione di interessi di utilita' sociale con quelli della libera attivita' economica privata, contrastando il fenomeno dell'abusivismo - non abbia voluto abrogare la disciplina previgente, che peraltro non appare abrogata ma al piu' rafforzata dalla previsione di nuovi illeciti amministrativi che si aggiungono a quelli di cui alla L. n. 21 del 15 gennaio 1992 nella originaria formulazione, oramai considerata non piu' al passo con l'evoluzione del mercato. Su questo approccio di ricostruzione del fenomeno si fonda l'effetto ripristinatorio o meglio di permanenza della precedente disciplina, che si basa sull'analisi oggettiva delle vicende della norma abrogatrice in relazione alla norma previgente. In conclusione, vanno affermati i seguenti principi di diritto: "Il legislatore, con la disposizione di interpretazione autentica, di cui al comma 3 dell'articolo 9 del Decreto Legge n. 244 del 2016, ha sospeso l'efficacia delle fattispecie introdotte con l'articolo 29, comma 1-quater Decreto Legge n. 2007/2008, inserito dalla legge di conversione n. 14/2009, posticipandola al 31 dicembre 2016 (divenuto successivamente 31 dicembre 2017). Le fattispecie introdotte con il predetto articolo 29, comma 1-quater cit. non abrogano le previgenti ipotesi di cui agli articoli 3 e 11 legge quadro n. 21 del 1992 (articolo 3. Servizio di noleggio con conducente 1. Il servizio di noleggio con conducente si rivolge all'utenza specifica che avanza, presso la sede del vettore, apposita richiesta per una determinata prestazione a tempo e/o viaggio. Lo stazionamento dei mezzi avviene all'interno delle rimesse o presso i pontili di attracco. Art. 11. Obblighi dei titolari di licenza per l'esercizio del servizio di taxi e di autorizzazione per l'esercizio del servizio di noleggio con conducente 1. I veicoli o natanti adibiti al servizio di taxi possono circolare e sostare liberamente secondo quanto stabilito dai regolamenti comunali. 2. Il prelevamento dell'utente ovvero l'inizio del servizio sono effettuati con partenza dal territorio del comune che ha rilasciato la licenza per qualunque destinazione, previo assenso del conducente per le destinazioni oltre il limite comunale o comprensoriale, fatto salvo quanto disposto dal comma 5 dell'articolo 4. 3. Nel servizio di noleggio con conducente, eserci'to a mezzo di autovetture, e' vietata la sosta in posteggio di stazionamento su suolo pubblico nei comuni ove sia esercito il servizio di taxi. E' tuttavia consentito l'uso delle corsie preferenziali e delle altre facilitazioni alla circolazione previste per i taxi e altri servizi pubblici. 4. Le prenotazioni di trasporto per il servizio di noleggio con conducente sono effettuate presso le rispettive rimesse. 5. I comuni in cui non e' eserci'to il servizio di taxi possono autorizzare i veicoli immatricolati per il servizio di noleggio con conducente allo stazionamento su aree pubbliche destinate al servizio di taxi. 6. I comuni, ferme restando le attribuzioni delle autorita' competenti in materia di circolazione negli ambiti portuali, aeroportuali e ferroviari, ed in accordo con le organizzazioni sindacali di categoria dei comparti del trasporto di persone, possono, nei suddetti ambiti, derogare a quanto previsto dal comma 3, purche' la sosta avvenga in aree diverse da quelle destinate al servizio di taxi e comunque da esse chiaramente distinte, delimitate e individuate come rimessa. 7. Il servizio di taxi, ove esercito, ha comunque la precedenza nei varchi prospicienti il transito dei passeggeri), che vengono pertanto solo integrate dalla successiva previsione e comunque sono da ritenere vigenti al momento della commissione della violazione contestata". Alla luce di quanto sopra affermato, la decisione di accoglimento dell'appello si pone, dunque, in contrasto con tali principi, sicche' il ricorso va accolto; ne discende l'annullamento della sentenza impugnata, con rinvio del procedimento al Tribunale di (OMISSIS), in persona di diverso magistrato, affinche' riesamini la vicenda alla luce dei principi sopra affermati e accerti se la condotta contestata integri o meno l'illecito amministrativo ai sensi e per gli effetti degli articoli 3 e 11 previsti dalla L. n. 21 del 1992 nella versione antecedente alla riforma di cui al Decreto Legge n. 207 del 2008. Al giudice del rinvio e' rimessa anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimita', ai sensi dell'articolo 385 c.p.c. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso; cassa la decisione impugnata e rinvia al Tribunale di (OMISSIS), in persona di diverso magistrato, anche per le spese del giudizio di legittimita'.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3162 del 2021, proposto da E-D. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ce. Ca., Gi. De Ve., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Gi. De Ve. in Roma, via (...); contro Autorità di Sistema Portuale del Mare di Sardegna - Cagliari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna Sezione Prima n. 507/2020, resa tra le parti Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Autorità di Sistema Portuale del Mare di Sardegna - Cagliari; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 aprile 2023 il Cons. Maurizio Antonio Pasquale Francola e udito per l'appellante l'avvocato Ma. Pe. per delega dell'avvocato Ce. Ca.; Viste le conclusioni della parte appellata come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO La vicenda scaturisce da un contenzioso pluriennale tra l'appellante e l'Autorità Portuale di Cagliari (poi confluita nell'Autorità di Sistema Portuale del Mare di Sardegna ai sensi dell'art. 6 L. n. 84/1994) in ordine all'esatta individuazione del canone demaniale dalla prima dovuto nella qualità di concessionaria di beni demaniali marittimi e proprietaria di una serie di impianti elettrici posti nell'area del Porto di Ca.. Tra il 2008 ed il 2011, infatti, En. Di. S.p.A. (oggi E-D. S.p.A.) aveva adito il T.A.R. per la Sardegna per sentire annullare le delibere con le quali la predetta Autorità aveva quantificato il canone demaniale dovuto per le molteplici concessioni rilasciate omettendo di applicare la riduzione prevista dall'art. 39 co.2 R.D. 30 marzo 1942 n. 327 (Codice della Navigazione) e dall'art. 37 co.2 D.P.R. 15 febbraio 1952 n. 328 (Regolamento per l'esecuzione del Codice della Navigazione) che avrebbe comportato una riduzione del 90per cento ed il conseguente dovere di corresponsione del canone demaniale ordinario nella misura residua del 10per cento. Il T.A.R., con le sentenze n. 849-857 e 862 del 2012, accoglieva i ricorsi, ritenendo sussistenti i presupposti previsti per la riduzione del canone demaniale nella misura del 90per cento, in virtù delle richiamate disposizioni. Sennonché, l'Autorità Portuale di Cagliari con successivi provvedimenti chiedeva, per le tredici concessioni rilasciate all'appellante, il pagamento del "canone minimo" determinato con la propria delibera n. 243/2004, ma non applicando la predetta riduzione. La misura di tale "canone minimo" risultava infatti sensibilmente più alta di quella che sarebbe scaturita all'esito dell'invocata riduzione del 90 per cento. En. Di. S.p.A., allora, domandava la rideterminazione del canone demaniale in applicazione della richiamata normativa di favore. Ma l'Autorità Portuale di Cagliari respingeva l'istanza, poiché, pur riconoscendo il fondamento della pretesa alla riduzione del canone nella misura del 90 per cento ai sensi dell'art. 39 co. 2 cod. nav., rientrerebbe tra le sue prerogative, secondo quanto previsto dall'art. 10 del D.M. 19 luglio 1989 e dall'art. 7 co.1 L. n. 494/1993 di conversione del D.L. n. 400/1993, la facoltà di adottare, per le concessioni demaniali marittime rientranti nel proprio ambito territoriale, criteri diversi da quelli indicati dalla normativa statale, purché non implicanti canoni inferiori rispetto a quelli che deriverebbero dall'applicazione della normativa stessa. Donde, la legittima quantificazione dei canoni dovuti nella misura minima di euro 500,00 fissata per l'anno 2004 secondo i criteri stabiliti nella delibera n. 243/2004 del 10 dicembre 2004 e nella successiva ordinanza n. 97 del 22 dicembre 2004 della medesima Autorità, da aggiornare annualmente secondo quanto stabilito con decreto del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti. L'Autorità Portuale di Cagliari concludeva, quindi, precisando che il canone demaniale doveva intendersi determinato nella misura del canone base con riduzione al 10 per cento dell'art. 39 co.2 cod. nav. ma con valore minimo fissato dalla suddetta delibera. In tal modo, pur non disconoscendo l'applicabilità dell'art. 39 co.2 cod. nav., l'Autorità riteneva prevalente la disciplina introdotta con la propria delibera n. 234/2004 con cui fissava il canone annuo minimo in euro 500,00. En. Di. S.p.A., allora, ricorreva nuovamente al T.A.R. per la Sardegna, stavolta, però, senza successo. L'adito T.A.R., infatti, riconsiderava il proprio orientamento precedentemente espresso nelle decisioni del 2012, escludendo l'applicabilità dell'art. 39 co.2 cod. nav. e ritenendo legittima la determinazione del canone demaniale dovuto nella misura minima di cui alla delibera n. 234/2004, anziché in quella minore "di mero riconoscimento" pretesa dalla società concessionaria, in ragione di un nuovo indirizzo giurisprudenziale recentemente affermatosi. Con appello notificato il 19 marzo 2021 e depositato il 2 aprile 2021 E-D. S.p.A., già En. Di. S.p.A., impugnava la predetta decisione, domandandone la riforma per i seguenti motivi: 1) error in iudicando per violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 39 co.2 cod. nav. e dell'art. 37 reg. esec. cod. nav. e per motivazione contraddittoria e travisamento dei fatti - poiché, contrariamente a quanto erroneamente affermato nella sentenza impugnata, sussisterebbero tutte le condizioni per l'applicazione del canone nella pretesa misura ridotta del 10 per cento, non ottenendo la società appellante dall'utilizzo del bene demaniale concesso in uso un diretto vantaggio economico, né sussistendo l'assunto mutamento di indirizzo giurisprudenziale che, secondo il giudice di prime cure, giustificherebbe il rigetto del ricorso, non essendo conferenti o influenti i precedenti richiamati a riprova del nuovo orientamento ermeneutico sulla corretta applicazione dell'art. 39 co.2 cod. nav. e dell'art. 37 reg. esec. cod. nav.. 2) error in iudicando per violazione e falsa applicazione dell'art. 7 co. 1 e 3 D.L. n. 400/1993, violazione e falsa applicazione del D.M. 19 luglio 1989, dell'art. 3 co. 1 lett. d) D.L. n. 400/1993, dell'art. 2 D.M. n. 342/1998, erroneità ed insufficienza della motivazione - poiché il giudice avrebbe erroneamente non accolto la censura con la quale si lamentava l'illegittimità del provvedimento impugnato per carenza di potere dell'Autorità Portuale in ordine alla determinazione del canone demaniale dovuto per le concessioni di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav. in misura minima superiore al canone ordinario ridotto del 90per cento. Si costituiva l'Autorità di Sistema Portuale del Mare di Sardegna, opponendosi all'accoglimento dell'appello in quanto infondato in fatto e in diritto. L'appellante, allora, depositava una memoria difensiva. All'udienza pubblica del 18 aprile 2023, il Consiglio di Stato, dopo avere udito i procuratori delle parti costituite presenti come da verbale, tratteneva l'appello in decisione. DIRITTO I. - Il primo motivo di appello. Con il primo motivo di appello si lamenta l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui nega la sussistenza dei presupposti per l'invocata applicazione dell'art. 39 co. 2 cod. nav., poiché : a) l'appellante utilizzerebbe l'area demaniale concessa in uso per l'erogazione di un servizio pubblico essenziale, qual deve ritenersi l'erogazione dell'energia elettrica in favore della collettività e delle Autorità pubbliche; b) secondo la società appellante non vi sarebbe alcun rapporto di derivazione diretta tra i proventi dell'attività svolta dal concessionario e l'utilizzo del bene demaniale occupato in regime di concessione, posto che i ricavi della E-D. S.p.A. deriverebbero non dallo sfruttamento delle aree del demanio ma dal servizio di distribuzione dell'energia elettrica complessivamente considerato; c) l'utile ritraibile dall'erogazione del servizio pubblico di fornitura di energia elettrica, infatti, dipenderebbe dalla tariffa unica nazionale obbligatoria stabilita ed aggiornata periodicamente dall'ARERA e sarebbe identica anche qualora il servizio fosse erogato senza l'utilizzo dei beni demaniali in questione. Donde, la conclusione secondo cui il provento ricavato dall'esercente l'attività di erogazione di energia elettrica scaturirebbe dal corrispettivo versato dagli utenti e non dall'utilizzazione del bene demaniale. I.1. - La questione interpretativa del combinato disposto degli artt. 39 co. 2 cod. nav. e 37 co. 2 reg. esec. cod. nav.. Il motivo attiene alla corretta interpretazione ed applicazione della disciplina contemplata dall'art. 39 co. 2 cod. nav. e dall'art. 37 co. 2 reg. esec. cod. nav.. L'art. 39 cod. nav., dopo avere precisato al co. 1 che la misura del canone demaniale è determinata dall'atto di concessione, statuisce al co. 2 che "Nelle concessioni a enti pubblici o privati, per fini di beneficenza o per altri fini di pubblico interesse, sono fissati canoni di mero riconoscimento del carattere demaniale dei beni". A sua volta l'art. 37 co. 2 reg. esec. cod. nav. chiarisce che "Agli effetti dell'applicazione del canone, previsto dal secondo comma dell'articolo 39 del codice, si intendono per concessioni che perseguono fini di pubblico interesse diversi dalla beneficenza quelle nelle quali il concessionario non ritrae dai beni demaniali alcun lucro o provento". Quest'ultima disposizione, pertanto, esclude, per l'applicazione del canone di mero riconoscimento della natura demaniale del bene di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav., la possibilità che il concessionario esercente sui beni demaniali attività di pubblico interesse diverse dalla beneficenza ritragga un lucro o un provento. Nella fattispecie, l'appellante utilizza i beni demaniali in concessione per l'allocazione degli impianti occorrenti per l'erogazione dell'energia elettrica, svolgendo un'attività di pubblico interesse senz'altro riconducibile nell'ambito dei servizi pubblici. Donde, il dubbio in ordine all'esistenza o meno di una connessione tra l'utilizzo del bene demaniale in concessione ed il lucro conseguente dall'esercizio della predetta attività che possa, rispettivamente, precludere o ammettere il beneficio previsto dall'art. 39 co. 2 cod. nav. legittimante il pagamento di un canone irrisorio o, comunque, particolarmente contenuto. La soluzione dipende da un'interpretazione teleologica del combinato disposto delle richiamate norme. I.2. - La rilevanza e la funzione del canone nelle concessioni demaniali marittime. Ed invero, muovendo, anzitutto, dalla fonte primaria, l'art. 39 cod. nav. esordisce al co. 1 implicitamente affermando la regola dell'onerosità delle concessioni demaniali marittime. Statuendo, infatti, che la misura del canone è determinata nell'atto di concessione, la disposizione in esame, da un lato, consente all'Amministrazione concedente di determinare l'entità del canone dovuto e, dall'altro, presuppone la necessaria previsione di un canone a carico del concessionario, escludendo la possibilità di concessioni demaniali marittime gratuite, anche laddove il concessionario persegua soltanto ed esclusivamente finalità di interesse generale. L'art. 39 co. 2 cod. nav., infatti, impone il pagamento di un canone anche nell'ipotesi in cui il bene demaniale sia concesso ad enti pubblici o privati per finalità di beneficenza o per altri fini di pubblico interesse, poiché considera l'onerosità un elemento qualificante imprescindibile del rapporto concessorio in ragione della sua funzione, ad un tempo, retributivo-compensativa giustificante la sottrazione del bene demaniale marittimo al possibile uso generale da parte della collettività del quale il medesimo è capace. I beni del demanio marittimo elencati dall'art. 822 co.1 c.c., ed ossia il lido del mare, le spiagge, le rade e i porti, al pari di quelli indicati dall'art. 28 cod. nav., ed ossia le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini di acqua salsa o salmastra che almeno durante una parte dell'anno comunicano liberamente col mare ed i canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo, sono, infatti, beni pubblici puri, in quanto non rivali, né escludibili, essendo accessibili a tutti e suscettibili di godimento congiunto simultaneo da parte di più soggetti, tale che l'uso ad opera di taluno non esclude il pari utilizzo contemporaneo ad opera di altri. E poiché la concessione in uso di siffatti beni esclude o limita l'uso generale della collettività al quale i medesimi sono naturalmente soggetti e destinati, è necessario che il concessionario corrisponda un canone in funzione tanto corrispettiva del vantaggio personale derivante dall'acquisizione di un diritto di utilizzo esclusivo del bene demaniale richiesto, quanto compensativa del pregiudizio sofferto dalla generalità dei consociati a causa della perdita o della limitazione del libero uso del bene dipendente dall'attitudine del diritto di uso esclusivo concesso di limitare o pregiudicare in tutto o in parte il diritto pubblico di uso collettivo originariamente esercitato o esercitabile e giustificatamente sacrificato in ragione delle finalità pubblicistiche, in concreto, perseguite dall'Autorità concedente con il rilascio della concessione. La concessione di beni pubblici costituisce, infatti, un contratto attivo per l'Amministrazione, in cui il vantaggio conseguito dall'Ente concedente si coglie tanto sul piano dell'utilità pubblica soddisfatta dal peculiare utilizzo per il quale il bene è concesso in uso ad altri, quanto nell'incasso di somme di denaro a titolo di canone in funzione sia retributiva che compensativa per la sottrazione del bene al possibile uso collettivo al quale sia naturalmente destinato o potenzialmente propedeutico. Donde, quindi, la duplice rilevanza del canone nelle concessioni di beni pubblici non soltanto quale mera controprestazione dovuta dal concessionario in ragione del vantaggio dal medesimo conseguito dall'uso del bene a lui concesso in godimento vincolato per il soddisfacimento di un certo fine di pubblico rilievo, ma anche quale rimedio compensativo del pregiudizio patito dalla collettività per la sottrazione del bene all'uso libero da parte di chiunque o al beneficio potenzialmente scaturente dalle ulteriori utilità ritraibili in ragione di un eventuale uso alternativo. I.3. - La complessa "causa" delle concessioni demaniali marittime. Il soddisfacimento di finalità pubblicistiche costituisce, dunque, un elemento imprescindibile della concessione di beni pubblici, al punto da costituirne scopo e ragione essenziale, deponendo chiaramente in tal senso l'art. 37 cod. nav., laddove, in presenza di più richieste di concessione, rimette al discrezionale giudizio dell'Amministrazione la valutazione in ordine alla migliore rispondenza di un certo utilizzo anziché di un altro rispetto ad un più rilevante interesse pubblico, sottintendendo un complesso bilanciamento di molteplici profili di rilievo che si colgono, da un lato, con riguardo al vantaggio conseguito dalla collettività in ragione delle finalità pubbliche per il soddisfacimento delle quali il bene è concesso in uso ad altri e, dall'altro, in relazione al nocumento patito dalla medesima collettività a causa della temporanea sottrazione del bene all'uso libero e generalizzato cui è naturalmente o potrebbe essere destinato. La preminenza del primo interesse pubblico sul secondo giustifica la concessione del bene in uso vincolato ad un determinato scopo, ma non significa che il secondo interesse venga del tutto meno, rilevando proprio sul piano della determinazione del canone in qualità di uno dei molteplici parametri di riferimento da tenere in adeguata considerazione. La complessa valutazione degli interessi pubblici coinvolti dalla decisione di concedere o meno il rilascio della chiesta concessione di beni demaniali culmina, dunque, in un giudizio comparativo di eventuale preminenza dell'interesse pubblico potenzialmente soddisfatto dal peculiare utilizzo del bene che il concessionario si sia impegnato a garantire rispetto all'interesse pubblico attuale a mantenere il libero uso del bene da parte della collettività, al punto da imporre una sintesi tra il primo in funzione propulsivo-innovativa ed il secondo in funzione oppositivo-conservativa, posto che, secondo quanto desumibile dall'art. 36 cod. nav., l'utilizzo esclusivo può essere concesso compatibilmente con le esigenze del pubblico uso. Sennonché, il contemperamento tra l'uno e l'altro costituisce una componente determinante ma da sola non sufficiente a contraddistinguere lo scopo giustificativo della concessione, concorrendo anche le finalità individuali perseguite dal concessionario. Più precisamente, la concessione di beni demaniali è contraddistinta da una duplice finalità di rilevanza causale: ed ossia, da un lato, il vantaggio personale ritraibile per il concessionario dall'uso esclusivo del bene e, dall'altro, il necessario soddisfacimento degli interessi pubblici perseguiti dall'Autorità amministrativa concedente all'esito della predetta complessa valutazione di bilanciamento, non essendo possibile il rilascio di una concessione unicamente preordinata a soddisfare le esigenze personali del concessionario a discapito e, quindi, senza il soddisfacimento di qualsivoglia pubblico interesse. E poiché le predette duplici componenti causali contraddistinguono la concessione di beni demaniali su tutti gli aspetti della relazione intercorrente tra l'Autorità concedente ed il concessionario ed ossia, tanto in ordine alla struttura dell'atto, quanto in ordine allo svolgimento del rapporto concessorio, ecco la ragione per la quale il canone assolve ad una funzione, come detto, sia corrispettiva del vantaggio scaturente dal diritto di uso esclusivo del bene demaniale, sia compensativa del nocumento patito dall'interesse pubblico soddisfatto dal non più consentito o limitato originario diritto di uso collettivo del bene medesimo. Donde, la considerazione del canone quale elemento essenziale caratterizzante la concessione di beni pubblici demaniali marittimi, al punto da dover essere previsto a carico del concessionario sempre e, quindi, anche laddove lo scopo pubblico perseguito dall'Amministrazione concedente e giustificante la sottrazione del bene all'uso generalizzato che lo contraddistinguerebbe sia rinvenibile nella beneficenza o in altre finalità di pubblico interesse che, evidentemente, condividano con la prima gli aspetti salienti, quali, in primo luogo l'assenza di profitti o proventi. I.4. - La funzione mono-finalistica del canone di riconoscimento di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav.. In tal senso è particolarmente indicativa la disciplina contemplata dall'art. 39 co. 2 cod. nav. nella parte in cui prevede l'assimilazione della beneficenza con altre finalità di pubblico interesse, al punto da giustificare il pagamento di un canone in una misura tale, ossia talmente ridotta, da costituire un mero atto di riconoscimento del carattere demaniale dei beni concessi in uso. La funzione del canone in questi casi, infatti, è mono-finalistica, poiché riflette l'unica finalità perseguita dalla concessione e coincidente con il soddisfacimento soltanto degli interessi pubblici giustificanti il diritto di uso esclusivo del bene demaniale concesso. Ed invero, nelle ipotesi di cui all'art. 39 co.2 cod. nav. il canone non assolve ad una funzione retributiva, poiché il concessionario non trae un vantaggio economico dall'utilizzo dei beni a lui concessi in uso, essendo soltanto soddisfatta la funzione compensativa, poiché la finalità pubblica perseguita con la concessione, pur realizzando per la collettività un vantaggio eguale o assai prossimo a quello originariamente ritraibile dall'uso generalizzato del quale il bene sarebbe suscettibile, determina e giustifica un utilizzo generale in tutto o in parte differente rispetto a quello originario. Più precisamente, il canone di mero riconoscimento del carattere demaniale dei beni rinviene la sua giustificazione nella mera distrazione del bene stesso dal suo utilizzo generale originario per assicurare un utilizzo altrettanto generale ma diverso che consenta alla collettività di trarre, sul piano quali-quantitativo, un'eguale o, comunque, assimilabile, sebbene non identica, pubblica utilità . Donde, la ragione per la quale il canone di mero riconoscimento del carattere demaniale del bene concesso in uso è di entità economica particolarmente contenuta. Nelle concessioni di cui all'art. 39 co.2 cod. nav. ed all'art. 37 reg. esec. cod. nav., manca, dunque, la duplicità finalistica caratterizzante la composita natura della "causa" (o meglio degli scopi propri) delle concessioni di beni demaniali, poiché la finalità di beneficenza o di pubblico interesse nella fattispecie perseguita dall'Autorità concedente diviene assorbente, unitaria ed escludente di qualsivoglia componente utilitaristica del concessionario. La disposizione regolamentare da ultimo citata, infatti, al co. 2 delimita l'ambito di operatività della nozione di "pubblico interesse" giustificante la determinazione del canone demaniale nella misura ridotta di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav., precisando che "Agli effetti dell'applicazione del canone, previsto dal secondo comma dell'articolo 39 del codice, si intendono per concessioni che perseguono fini di pubblico interesse diversi dalla beneficenza quelle nelle quali il concessionario non ritrae dai beni demaniali alcun lucro o provento". La specificazione è opportuna per eludere i dubbi ermeneutici dipendenti dall'ampia nozione di pubblico interesse che, di per sé, non è incompatibile, per le ragioni anzidette, con la concessione "ordinaria" di cui all'art. 36 cod. nav., in ragione della composita natura causale che la contraddistingue. I.5. - Gli interessi pubblici di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav. e l'ambito di operatività del canone ricognitorio. Ogni concessione, infatti, è e deve essere deputata al soddisfacimento di interessi pubblici. Donde, la rilevanza della disposta assimilazione delle finalità di pubblico interesse di cui all'art. 39 co.2 con l'altro parametro di riferimento menzionato in funzione paritetica, ossia la beneficenza, come tale, indicativa di un'attività svolta nell'esclusivo interesse altrui, ed ossia in assenza di alcun interesse egoistico del concessionario finalizzato al conseguimento di un compenso, un profitto, un introito o un utile. L'art. 37 co. 2 reg. esec. cod. nav., non integrando, dunque, il dettato normativo dell'art. 39 co.2 cod. nav., ma limitandosi soltanto, in coerenza con la sua funzione esecutiva, a chiarirne l'ambito applicativo, nel rispetto della gerarchia delle fonti del diritto, rinviene nell'assenza di lucro l'elemento legittimante la corresponsione del ridotto canone di riconoscimento della natura demaniale del bene concesso in uso, adoperando un'espressione talmente ampia da implicare l'esclusione di qualsiasi utilità o vantaggio suscettibile di valutazione economica per il concessionario. Può, dunque, affermarsi che l'applicazione del canone meramente ricognitorio postula che l'occupazione dell'area, implicante la sua sottrazione all'immediato uso pubblico, sia comunque funzionale alla stretta attuazione di una finalità pubblicistica, oppure all'esercizio di servizi di pubblica utilità privi di redditività o proventi (Consiglio di Stato sez. VI, 10 aprile 2014, n. 1716). I.5.1. Sennonché, la richiamata disposizione regolamentare, pur dovendo sempre essere interpretata in senso restrittivo in ragione dell'indiscusso carattere di specialità dell'art. 39 co. 2 cod. nav. di cui costituisce attuazione rispetto ai principi generali, necessita di un'interpretazione evolutiva, dettata dall'esigenza di adeguarne l'ambito di operatività al mutato contesto di riferimento economico-sociale rispetto a quello in auge all'epoca della sua entrata in vigore. Ed invero, l'articolo 37, comma 2, reg. esec. cod. nav. appare istituire un'antitesi tra amministrazione e impresa; tra finalità di carattere generale, orientate all'interesse pubblico, da un lato, e attività di impresa, fonte di lucro o anche solo di margine economico positivo dall'altro. In contrario deve tuttavia darsi atto che all'epoca della sua emanazione l'antitesi in questione era smentita sul piano fenomenico dall'azionariato di Stato e dall'ulteriore forma di intervento di quest'ultimo nell'economia attraverso gli enti pubblici economici. Ad oggi il dato fenomenico della compatibilità tra amministrazione e impresa è confermato sul piano del diritto positivo, tra l'altro, dalla figura dell'organismo di diritto pubblico, che secondo la definizione contenuta nell'art. 3, comma 1, lett. d), del codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, è quell'ente, "anche in forma societaria", che, in conformità all'elemento teleologico enunciato dal n. 1) della disposizione in esame, è "istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale". Dalla definizione ora riportata si evince a contrario che è possibile perseguire finalità di interesse pubblico anche secondo schemi di azione propri dell'impresa privata operante in regime di concorrenza, ai quali è riferibile la formula "aventi carattere industriale o commerciale", nel qual caso vengono meno i presupposti normativi per applicare l'evidenza pubblica all'attività contrattuale dell'organismo, ma non le ragioni istitutive dell'organismo, a loro volta connesse in modo specifico ad "esigenze di interesse generale", ed espresse dal controllo pubblico, di cui all'ulteriore requisito della figura, previsto dal n. 3) della medesima disposizione del codice dei contratti pubblici. Lo svolgimento da parte di autorità amministrative di attività di interesse pubblico in forma di impresa non implica quindi il venir meno dell'immanente fine pubblico di ogni attività delle medesime autorità, ed anzi si palesa coerente con il principio costituzionale del buon andamento dell'amministrazione, nella misura in cui consente in linea di principio una gestione improntata all'equilibrio economico. Nella prospettiva finora delineata l'art. 37, comma 2, del regolamento di esecuzione del codice della navigazione va, dunque, interpretato sul piano sistematico nel senso che non ogni "provento" proveniente dalla gestione dei beni in concessione implica il venir meno del fine di pubblico interesse per cui il canone può essere fissato in misura ricognitoria. In tal senso, infatti, rileva la nozione di imprenditore di cui all'art. 2082 c.c. da intendersi in senso oggettivo, dovendosi riconoscere il carattere imprenditoriale all'attività economica organizzata che sia ricollegabile a un dato obiettivo inerente all'attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi, rimanendo giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, il quale riguarda il movente soggettivo che induce l'imprenditore ad esercitare la sua attività (Cassazione civile sez. I, 24 marzo 2014, n. 6835). L'acquisizione di proventi può invece considerarsi incompatibile con la finalità di interesse pubblico della concessione solo quando lo sfruttamento economico del compendio demaniale sia finalizzato ad un fine soggettivo di "lucro", e dunque per l'arricchimento personale. Sulla base delle considerazioni finora svolte, l'apparente antitesi ricavabile dall'art. 37, comma 2, del regolamento di esecuzione del codice della navigazione tra fine di interesse pubblico e ogni "lucro o provento" va quindi risolta con l'attribuzione a quest'ultima espressione del valore di un'endiadi, per cui i proventi ottenuti dalla gestione economica dei beni oggetto di concessione per finalità di pubblico interesse diviene incompatibile con la causa di quest'ultima se destinato a scopo di destinazione soggettiva del risultato netto della gestione, e dunque di lucro, anziché di devoluzione a finalità di interesse generale (Consiglio di Stato Sez. VII, 16 febbraio 2023, n. 1642). I.5.2. Con riguardo al caso in esame, la E-D. S.p.A. è una società di distribuzione di energia elettrica operante sul territorio italiano in ragione di una concessione che, pur attestandone l'indiscussa rilevanza sul piano del pubblico interesse, legittima l'esercizio di un'attività commerciale di imponenti dimensioni economiche, di per sé presuntivamente comprovanti la rispondenza dell'organizzazione societaria alle logiche del lucro soggettivo. E poiché, dunque, dalla documentazione offerta in comunicazione non può desumersi la prova (contraria) della gestione dell'attività secondo criteri di mera economicità sostanzialmente tendenti al c.d. lucro oggettivo, ossia alla mera copertura dei costi nel medio-lungo periodo (Cassazione civile sez. I, 24 marzo 2014, n. 6835), non può nella circostanza ritenersi sussistente la condizione prevista dall'art. 37 co.2 reg. esec. cod. nav. dell'assenza di lucro in senso soggettivo per l'applicazione del canone di riconoscimento. I.6. - Il rapporto tra il lucro escludente il canone ricognitorio e l'utilizzo dei beni demaniali in concessione. L'appellante sostiene che il profitto o provento escludente il beneficio in questione sia soltanto quello direttamente ritraibile dall'uso del bene demaniale e non anche quello conseguente dall'attività esercitata dal concessionario tramite l'uso del bene demaniale, come nella circostanza, posto che la redditività della sua attività dipenderebbe dalle tariffe pagate dagli utenti. Peraltro, siffatte tariffe sarebbero stabilite dall'ARERA e, quindi, l'utilizzo di un bene demaniale da parte del concessionario del servizio di distribuzione dell'energia elettrica sarebbe del tutto ininfluente sul procedimento di determinazione delle stesse. I.6.1. Il Collegio osserva che la strumentalità delle condutture e degli impianti di cui è titolare l'appellante per l'erogazione di un servizio pubblico essenziale, come detto, non è revocabile in dubbio, come anche la rilevanza delle relative aree demaniali all'uopo utilizzate. A pagina 13 e 14 dell'appello, infatti, si precisa che i cavi interrati, le linee in BT e MT e le cabine elettriche che E-D. S.p.A. gestisce all'interno delle aree del demanio marittimo oggetto di concessione sono destinate a garantire l'approvvigionamento energetico sia di utenze private, sia di edifici pubblici quali la Capitaneria di Porto, l'Università di Cagliari, gli Uffici della Regione, la sede Enav, la sede dei Vigili del Fuoco, gli uffici della Guardia di Finanza, del Genio Militare, dell'aeronautica Militare, del Comune e della stessa Autorità Portuale. Il che comprova la strumentalità delle aree demaniali concesse in uso per favorire l'esercizio di un'attività imprenditoriale di pubblico interesse contraddistinta da una certa redditività dipendente, contrariamente a quanto sostenuto dall'appellante, non soltanto dal servizio di distribuzione dell'energia elettrica complessivamente considerato, ma anche dallo sfruttamento dei beni demaniali utilizzati. Se, infatti, il bene demaniale è adoperato per collocare gli impianti di erogazione del servizio di fornitura dell'energia elettrica da cui dipende la redditività dell'attività economica esercitata dal concessionario, il bene stesso assolve rispetto a siffatta attività la medesima funzione strumentale degli impianti direttamente adoperati, palesandosi, quindi, un collegamento tra il possesso del bene demaniale ed il profitto o il provento scaturente dal servizio pubblico erogato. Non può, infatti, ritenersi ininfluente sul piano della redditività dell'attività esercitata dall'appellante l'ubicazione degli impianti strumentali all'erogazione del servizio di fornitura dell'energia elettrica su un'area demaniale o su un'area privata, incidendo la circostanza direttamente sui costi di gestione e, quindi, sul profitto derivante dall'attività esercitata. Non assume, dunque, portata dirimente la determinazione ad opera dell'ARERA della tariffa unica nazionale obbligatoria (pag. 18 dell'appello) e, quindi, l'irrilevanza a siffatti fini dell'allocazione degli impianti adoperati su un'area demaniale o privata, poiché quest'ultima circostanza incide direttamente sugli utili, potendone significativamente diminuire l'entità qualora i costi necessari per l'acquisizione dell'area da destinare all'ubicazione degli impianti e delle reti siano elevati. Appare, dunque, verosimile che la scelta dell'area all'uopo da utilizzare possa dipendere anche (sebbene non soltanto) da ragioni di economicità connesse al costo del canone da sostenere. Il che comprova, nella circostanza, la non estraneità dell'aspetto economico nella gestione tanto del bene demaniale concesso in uso, quanto dell'attività ivi esercitata, al punto cioè da indurre a ritenere connesso all'uso del bene demaniale l'utile ed i proventi scaturenti dall'attività predetta. Pertanto, il canone di "mero riconoscimento" non può essere applicato quando la ritrazione di utili o proventi dell'attività deriva in modo, indiretto e mediato che sia (ma pur sempre legato da un nesso di strumentalità necessaria), dall'impiego del bene demaniale (cfr. Cons Stato, sez. VI, 12 marzo 2012, n. 1399; Consiglio di Stato sez. VI, 10 aprile 2014, n. 1716). Donde, l'esclusione dei presupposti per l'applicazione del canone di mero riconoscimento del carattere demaniale del bene concesso in uso di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav. ed all'art. 37 co. 2 reg. esec. cod. nav., non potendosi ritenere la finalità di pubblico interesse perseguita dall'appellante, nella sua qualità di concessionaria delle aree demaniali in questione, assimilabile a quella caratterizzante la beneficenza. Come, infatti, precisato, l'art. 39 co. 2 cod. nav., dopo avere menzionato la beneficenza, utilizza la congiunzione disgiuntiva "o" per estendere il proprio ambito applicativo anche alle concessioni rilasciate "per altri fini di pubblico interesse" che condividano gli aspetti essenziali caratterizzanti la prima, al punto da sottintendersi un non espressamente richiamato requisito di omogeneità dell'interesse pubblico compatibile con la determinazione del canone nella ridotta misura in questione poi precisato nella norma regolamentare di cui all'art. 37 co.2 reg. esec. cod. nav., con conseguente incompatibilità con qualsivoglia sfruttamento economico diretto o indiretto del bene demaniale che determini in favore del concessionario un lucro in senso soggettivo. Il primo motivo di appello, pertanto, è infondato. II. - Il secondo motivo di appello. Con il secondo motivo si lamenta l'erroneità della decisione impugnata nella parte in cui non ha ritenuto fondata la censura dedotta in ordine all'illegittima determinazione di un canone minimo da parte dell'Autorità Portuale per carenza di potere. Secondo l'appellante, infatti, l'art. 13 della legge n. 84/1994 includerebbe tra le entrate delle Autorità di sistema portuale, per quanto di interesse in questa sede: a) i canoni di concessione delle aree demaniali e delle banchine comprese nell'ambito portuale di cui all'art. 18, ossia quelli concernenti le concessioni per l'espletamento delle operazioni portuali quali l'attività di carico, scarico, trasbordo, deposito, movimento merci svolte in ambito portuale; b) i proventi di autorizzazione per operazioni portuali di cui all'art. 16. E poiché l'appellante svolge attività di distribuzione di energia elettrica tramite gestione, per concessione ministeriale, delle reti elettriche pubbliche, i canoni dovuti per l'occupazione delle relative aree demaniali non potrebbero costituire oggetto di autonoma determinazione, dovendo, nella fattispecie, applicarsi la disciplina di cui al D.L. n. 400/1993 nella misura da ultimo confermata dall'art. 2 co. 7 D.M. 5 agosto 1998 n. 342, pari a un decimo dell'ammontare ordinario. Peraltro, l'art. 7 co. 3 D.L. 5 ottobre 1993, n. 400 espressamente esclude che l'adozione di autonomi criteri di determinazione delle misure dei canoni possa comportare la disapplicazione della disciplina prevista dall'art. 03 co.1 lett. i), (poi divenuta lettera d) a seguito delle modifiche apportate dall'art. 1 co. 251 della legge n. 296/2006) e co.2 del medesimo decreto, ossia "proprio le concessioni indicate al secondo comma dell'articolo 39 del codice della navigazione e all'articolo 37 del regolamento per l'esecuzione del codice della navigazione, di cui al d.P.R. 15.2.1952, n. 328 per le quali deve dunque ritenersi ferma ed inderogabile la riduzione del canone ordinario nella misura del 90 per cento" (pag. 22 dell'appello). Il provvedimento impugnato, inoltre, non considererebbe l'impatto economico del principio di diritto affermato che, se confermato, implicherebbe oneri cospicui per l'appellante in ragione della molteplicità di concessioni demaniali rilasciatele su tutto il territorio nazionale, in violazione dell'art. 4 L. n. 239/2004 secondo cui lo Stato e le Regioni, al fine di assicurare su tutto il territorio nazionale i livelli essenziali delle prestazioni concernenti l'energia nelle sue varie forme e in condizioni di omogeneità sia con riguardo alle modalità di fruizione sia con riguardo ai criteri di formazione delle tariffe e al conseguente impatto sulla formazione dei prezzi, garantiscono, tra l'altro, l'assenza di oneri di qualsiasi specie che abbiano effetti economici diretti o indiretti ricadenti al di fuori dell'ambito territoriale delle autorità che li prevedono. II.1. Il Collegio osserva che il provvedimento impugnato reca una motivazione apparentemente indicativa della volontà dell'Autorità Portuale di non disconoscere i presupposti per l'applicabilità dell'invocato art. 39 co.2 cod. nav. Sebbene, infatti, nella parte conclusiva della motivazione si affermi che "il canone demaniale in argomento è stato determinato nella misura del canone base con riduzione al 10per cento ai sensi dell'art. 39 c. 2 del Codice della Navigazione ma con valore minimo fissato dalla suddetta Delibera", il riferimento, tuttavia, alla delibera n. 243/04, di per sé, comporta la disapplicazione dell'art. 39 co. 2 cod. nav., ritenendo preminente sul canone di riconoscimento il canone minimo determinato dall'Autorità Portuale (la cui misura, come si è già osservato, risulta sensibilmente superiore a quella del canone di riconoscimento). Il giudice di primo grado, escludendo i presupposti per l'invocata applicazione dell'art. 39 co. 2 cod. nav., ha ritenuto legittima la determinazione nella misura minima stabilita con la predetta delibera del canone demaniale dovuto. Ma il motivo in esame pone a confronto due distinte discipline nella prospettiva di individuare quella in concreto applicabile in quanto unica in tal senso o in quanto preminente, comunque, sull'altra. L'appellante revoca, anzitutto, in dubbio il potere dell'Autorità Portuale di determinare un canone minimo. L'assunto è infondato se si considera il chiaro tenore testuale dell'art. 7 co. 1 D.L. 5 ottobre 1993, n. 400, convertito dall'articolo unico della legge 4 dicembre 1993, n. 494, secondo cui "Gli enti portuali potranno adottare, per concessioni demaniali marittime rientranti nel proprio ambito territoriale, criteri diversi da quelli indicati nel presente decreto, che comunque non comportino l'applicazione di canoni inferiori rispetto a quelli che deriverebbero dall'applicazione del decreto stesso". La richiamata disposizione normativa, ancora formalmente in vigore, attribuisce agli enti portuali in generale e, quindi, anche alle Autorità Portuali di Sistema successivamente istituite con la legge n. 84/1994, il potere di prevedere criteri di quantificazione dei canoni in misura superiore rispetto a quelli stabiliti dal predetto decreto legge in relazione alle concessioni demaniali marittime rientranti nell'ambito territoriale di siffatti Enti, senza distinguere a seconda delle funzioni o degli scopi caratterizzanti l'utilizzo dei beni demaniali affidati in uso ai concessionari. Sennonché, la disposizione dell'art. 7 co. 3 del D.L. citato esclude la possibilità per gli enti portuali di disapplicare la disciplina concernente la fattispecie di cui all'art. 3 co. 1 lett. d), ossia proprio quella concernente le concessioni di pubblico interesse beneficianti del c.d. canone di riconoscimento previsto dall'art. 39 co. 2 cod. nav.. Donde, l'illegittimità dell'impugnato provvedimento nella parte in cui, pur sembrando ammettere l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav., afferma la prevalenza del canone minimo sul c.d. canone di riconoscimento. Tuttavia, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado e come precisato in relazione al primo motivo di appello, non ricorrono i presupposti per l'applicabilità dell'art. 39 co. 2 cod. nav., da cui discende la correttezza del dispositivo del provvedimento impugnato, sebbene con motivazione diversa da quella adottata dal primo Giudice. Donde, l'insussistenza dei presupposti per pronunciare l'annullamento del provvedimento impugnato, essendo evidente dagli atti di causa che la decisione nell'occasione assunta dall'Amministrazione non avrebbe potuto e non potrebbe essere di segno diverso. Ed invero, quand'anche nella circostanza si accogliesse il motivo in esame, l'Autorità di Sistema Portuale dovrebbe rideterminare il canone dovuto, non applicando l'art. 39 co. 2 cod. nav. per le ragioni anzidette (ossia non perché il canone di riconoscimento sarebbe inferiore al canone minimo previsto nella richiamata delibera, ma poiché non sussisterebbero, a monte, i presupposti per ricondurre la concessione demaniale in questione nell'ambito delle c.d. concessioni per pubblico interesse di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav. ed all'art. 37 reg. esec. cod. nav.). E poiché, quindi, il risultato finale scaturente in ragione dell'effetto conformativo conseguente all'eventuale annullamento del provvedimento impugnato sarebbe identico a quello in questa sede contestato, non potendo l'Autorità Portuale di Sistema riconoscere all'appellante il beneficio del canone ricognitorio del carattere demaniale del bene concesso in uso, il motivo è infondato come l'intero appello che, pertanto, deve essere respinto. III. - La peculiarità delle questioni di diritto esaminate e gli indirizzi giurisprudenziali non univoci espressi sul tema in esame giustificano l'integrale compensazione delle spese processuali del grado d'appello. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese processuali del grado di appello compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2023 con l'intervento dei magistrati: Claudio Contessa - Presidente Fabio Franconiero - Consigliere Daniela Di Carlo - Consigliere Maurizio Antonio Pasquale Francola - Consigliere, Estensore Marco Valentini - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3175 del 2021, proposto da E-D. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ce. Ca., Gi. De Ve., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Gi. De Ve. in Roma, via (...); contro Autorità di Sistema Portuale del Mare di Sardegna - Cagliari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna Sezione Prima n. 511/2020, resa tra le parti Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Autorità di Sistema Portuale del Mare di Sardegna - Cagliari; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 aprile 2023 il Cons. Maurizio Antonio Pasquale Francola e udito per l'appellante l'avvocato Ma. Pe. per delega dell'avvocato Ce. Ca.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO La vicenda scaturisce da un contenzioso pluriennale tra l'appellante e l'Autorità Portuale di Cagliari (poi confluita nell'Autorità di Sistema Portuale del Mare di Sardegna ai sensi dell'art. 6 L. n. 84/1994) in ordine all'esatta individuazione del canone demaniale dalla prima dovuto nella qualità di concessionaria di beni demaniali marittimi e proprietaria di una serie di impianti elettrici posti nell'area del Porto di Ca.. Tra il 2008 ed il 2011, infatti, En. Di. S.p.A. (oggi E-D. S.p.A.) aveva adito il T.A.R. per la Sardegna per sentire annullare le delibere con le quali la predetta Autorità aveva quantificato il canone demaniale dovuto per le molteplici concessioni rilasciate omettendo di applicare la riduzione prevista dall'art. 39 co.2 R.D. 30 marzo 1942 n. 327 (Codice della Navigazione) e dall'art. 37 co.2 D.P.R. 15 febbraio 1952 n. 328 (Regolamento per l'esecuzione del Codice della Navigazione) che avrebbe comportato una riduzione del 90per cento ed il conseguente dovere di corresponsione del canone demaniale ordinario nella misura residua del 10per cento. Il T.A.R., con le sentenze n. 849-857 e 862 del 2012, accoglieva i ricorsi, ritenendo sussistenti i presupposti previsti per la riduzione del canone demaniale nella misura del 90per cento, in virtù delle richiamate disposizioni. Sennonché, l'Autorità Portuale di Cagliari con successivi provvedimenti chiedeva, per le tredici concessioni rilasciate all'appellante, il pagamento del "canone minimo" determinato con la propria delibera n. 243/2004, ma non applicando la predetta riduzione. La misura di tale "canone minimo" risultava infatti sensibilmente più alta di quella che sarebbe scaturita all'esito dell'invocata riduzione del 90 per cento. En. Di. S.p.A., allora, domandava la rideterminazione del canone demaniale in applicazione della richiamata normativa di favore. Ma l'Autorità Portuale di Cagliari respingeva l'istanza, poiché, pur riconoscendo il fondamento della pretesa alla riduzione del canone nella misura del 90 per cento ai sensi dell'art. 39 co. 2 cod. nav., rientrerebbe tra le sue prerogative, secondo quanto previsto dall'art. 10 del D.M. 19 luglio 1989 e dall'art. 7 co.1 L. n. 494/1993 di conversione del D.L. n. 400/1993, la facoltà di adottare, per le concessioni demaniali marittime rientranti nel proprio ambito territoriale, criteri diversi da quelli indicati dalla normativa statale, purché non implicanti canoni inferiori rispetto a quelli che deriverebbero dall'applicazione della normativa stessa. Donde, la legittima quantificazione dei canoni dovuti nella misura minima di euro 500,00 fissata per l'anno 2004 secondo i criteri stabiliti nella delibera n. 243/2004 del 10 dicembre 2004 e nella successiva ordinanza n. 97 del 22 dicembre 2004 della medesima Autorità, da aggiornare annualmente secondo quanto stabilito con decreto del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti. L'Autorità Portuale di Cagliari concludeva, quindi, precisando che il canone demaniale doveva intendersi determinato nella misura del canone base con riduzione al 10 per cento dell'art. 39 co.2 cod. nav. ma con valore minimo fissato dalla suddetta delibera. In tal modo, pur non disconoscendo l'applicabilità dell'art. 39 co.2 cod. nav., l'Autorità riteneva prevalente la disciplina introdotta con la propria delibera n. 234/2004 con cui fissava il canone annuo minimo in euro 500,00. En. Di. S.p.A., allora, ricorreva nuovamente al T.A.R. per la Sardegna, stavolta, però, senza successo. L'adito T.A.R., infatti, riconsiderava il proprio orientamento precedentemente espresso nelle decisioni del 2012, escludendo l'applicabilità dell'art. 39 co.2 cod. nav. e ritenendo legittima la determinazione del canone demaniale dovuto nella misura minima di cui alla delibera n. 234/2004, anziché in quella minore "di mero riconoscimento" pretesa dalla società concessionaria, in ragione di un nuovo indirizzo giurisprudenziale recentemente affermatosi. Con appello notificato il 19 marzo 2021 e depositato il 2 aprile 2021 E-D. S.p.A., già En. Di. S.p.A., impugnava la predetta decisione, domandandone la riforma per i seguenti motivi: 1) error in iudicando per violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 39 co.2 cod. nav. e dell'art. 37 reg. esec. cod. nav. e per motivazione contraddittoria e travisamento dei fatti - poiché, contrariamente a quanto erroneamente affermato nella sentenza impugnata, sussisterebbero tutte le condizioni per l'applicazione del canone nella pretesa misura ridotta del 10 per cento, non ottenendo la società appellante dall'utilizzo del bene demaniale concesso in uso un diretto vantaggio economico, né sussistendo l'assunto mutamento di indirizzo giurisprudenziale che, secondo il giudice di prime cure, giustificherebbe il rigetto del ricorso, non essendo conferenti o influenti i precedenti richiamati a riprova del nuovo orientamento ermeneutico sulla corretta applicazione dell'art. 39 co.2 cod. nav. e dell'art. 37 reg. esec. cod. nav.. 2) error in iudicando per violazione e falsa applicazione dell'art. 7 co. 1 e 3 D.L. n. 400/1993, violazione e falsa applicazione del D.M. 19 luglio 1989, dell'art. 3 co. 1 lett. d) D.L. n. 400/1993, dell'art. 2 D.M. n. 342/1998, erroneità ed insufficienza della motivazione - poiché il giudice avrebbe erroneamente non accolto la censura con la quale si lamentava l'illegittimità del provvedimento impugnato per carenza di potere dell'Autorità Portuale in ordine alla determinazione del canone demaniale dovuto per le concessioni di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav. in misura minima superiore al canone ordinario ridotto del 90per cento. Si costituiva l'Autorità di Sistema Portuale del Mare di Sardegna, opponendosi all'accoglimento dell'appello in quanto infondato in fatto e in diritto. L'appellante, allora, depositava una memoria difensiva. All'udienza pubblica del 18 aprile 2023, il Consiglio di Stato, dopo avere udito i procuratori delle parti costituite presenti come da verbale, tratteneva l'appello in decisione. DIRITTO I. - Il primo motivo di appello. Con il primo motivo di appello si lamenta l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui nega la sussistenza dei presupposti per l'invocata applicazione dell'art. 39 co. 2 cod. nav., poiché : a) l'appellante utilizzerebbe l'area demaniale concessa in uso per l'erogazione di un servizio pubblico essenziale, qual deve ritenersi l'erogazione dell'energia elettrica in favore della collettività e delle Autorità pubbliche; b) secondo la società appellante non vi sarebbe alcun rapporto di derivazione diretta tra i proventi dell'attività svolta dal concessionario e l'utilizzo del bene demaniale occupato in regime di concessione, posto che i ricavi della E-D. S.p.A. deriverebbero non dallo sfruttamento delle aree del demanio ma dal servizio di distribuzione dell'energia elettrica complessivamente considerato; c) l'utile ritraibile dall'erogazione del servizio pubblico di fornitura di energia elettrica, infatti, dipenderebbe dalla tariffa unica nazionale obbligatoria stabilita ed aggiornata periodicamente dall'ARERA e sarebbe identica anche qualora il servizio fosse erogato senza l'utilizzo dei beni demaniali in questione. Donde, la conclusione secondo cui il provento ricavato dall'esercente l'attività di erogazione di energia elettrica scaturirebbe dal corrispettivo versato dagli utenti e non dall'utilizzazione del bene demaniale. I.1. - La questione interpretativa del combinato disposto degli artt. 39 co. 2 cod. nav. e 37 co. 2 reg. esec. cod. nav.. Il motivo attiene alla corretta interpretazione ed applicazione della disciplina contemplata dall'art. 39 co. 2 cod. nav. e dall'art. 37 co. 2 reg. esec. cod. nav.. L'art. 39 cod. nav., dopo avere precisato al co. 1 che la misura del canone demaniale è determinata dall'atto di concessione, statuisce al co. 2 che "Nelle concessioni a enti pubblici o privati, per fini di beneficenza o per altri fini di pubblico interesse, sono fissati canoni di mero riconoscimento del carattere demaniale dei beni". A sua volta l'art. 37 co. 2 reg. esec. cod. nav. chiarisce che "Agli effetti dell'applicazione del canone, previsto dal secondo comma dell'articolo 39 del codice, si intendono per concessioni che perseguono fini di pubblico interesse diversi dalla beneficenza quelle nelle quali il concessionario non ritrae dai beni demaniali alcun lucro o provento". Quest'ultima disposizione, pertanto, esclude, per l'applicazione del canone di mero riconoscimento della natura demaniale del bene di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav., la possibilità che il concessionario esercente sui beni demaniali attività di pubblico interesse diverse dalla beneficenza ritragga un lucro o un provento. Nella fattispecie, l'appellante utilizza i beni demaniali in concessione per l'allocazione degli impianti occorrenti per l'erogazione dell'energia elettrica, svolgendo un'attività di pubblico interesse senz'altro riconducibile nell'ambito dei servizi pubblici. Donde, il dubbio in ordine all'esistenza o meno di una connessione tra l'utilizzo del bene demaniale in concessione ed il lucro conseguente dall'esercizio della predetta attività che possa, rispettivamente, precludere o ammettere il beneficio previsto dall'art. 39 co. 2 cod. nav. legittimante il pagamento di un canone irrisorio o, comunque, particolarmente contenuto. La soluzione dipende da un'interpretazione teleologica del combinato disposto delle richiamate norme. I.2. - La rilevanza e la funzione del canone nelle concessioni demaniali marittime. Ed invero, muovendo, anzitutto, dalla fonte primaria, l'art. 39 cod. nav. esordisce al co. 1 implicitamente affermando la regola dell'onerosità delle concessioni demaniali marittime. Statuendo, infatti, che la misura del canone è determinata nell'atto di concessione, la disposizione in esame, da un lato, consente all'Amministrazione concedente di determinare l'entità del canone dovuto e, dall'altro, presuppone la necessaria previsione di un canone a carico del concessionario, escludendo la possibilità di concessioni demaniali marittime gratuite, anche laddove il concessionario persegua soltanto ed esclusivamente finalità di interesse generale. L'art. 39 co. 2 cod. nav., infatti, impone il pagamento di un canone anche nell'ipotesi in cui il bene demaniale sia concesso ad enti pubblici o privati per finalità di beneficenza o per altri fini di pubblico interesse, poiché considera l'onerosità un elemento qualificante imprescindibile del rapporto concessorio in ragione della sua funzione, ad un tempo, retributivo-compensativa giustificante la sottrazione del bene demaniale marittimo al possibile uso generale da parte della collettività del quale il medesimo è capace. I beni del demanio marittimo elencati dall'art. 822 co.1 c.c., ed ossia il lido del mare, le spiagge, le rade e i porti, al pari di quelli indicati dall'art. 28 cod. nav., ed ossia le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini di acqua salsa o salmastra che almeno durante una parte dell'anno comunicano liberamente col mare ed i canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo, sono, infatti, beni pubblici puri, in quanto non rivali, né escludibili, essendo accessibili a tutti e suscettibili di godimento congiunto simultaneo da parte di più soggetti, tale che l'uso ad opera di taluno non esclude il pari utilizzo contemporaneo ad opera di altri. E poiché la concessione in uso di siffatti beni esclude o limita l'uso generale della collettività al quale i medesimi sono naturalmente soggetti e destinati, è necessario che il concessionario corrisponda un canone in funzione tanto corrispettiva del vantaggio personale derivante dall'acquisizione di un diritto di utilizzo esclusivo del bene demaniale richiesto, quanto compensativa del pregiudizio sofferto dalla generalità dei consociati a causa della perdita o della limitazione del libero uso del bene dipendente dall'attitudine del diritto di uso esclusivo concesso di limitare o pregiudicare in tutto o in parte il diritto pubblico di uso collettivo originariamente esercitato o esercitabile e giustificatamente sacrificato in ragione delle finalità pubblicistiche, in concreto, perseguite dall'Autorità concedente con il rilascio della concessione. La concessione di beni pubblici costituisce, infatti, un contratto attivo per l'Amministrazione, in cui il vantaggio conseguito dall'Ente concedente si coglie tanto sul piano dell'utilità pubblica soddisfatta dal peculiare utilizzo per il quale il bene è concesso in uso ad altri, quanto nell'incasso di somme di denaro a titolo di canone in funzione sia retributiva che compensativa per la sottrazione del bene al possibile uso collettivo al quale sia naturalmente destinato o potenzialmente propedeutico. Donde, quindi, la duplice rilevanza del canone nelle concessioni di beni pubblici non soltanto quale mera controprestazione dovuta dal concessionario in ragione del vantaggio dal medesimo conseguito dall'uso del bene a lui concesso in godimento vincolato per il soddisfacimento di un certo fine di pubblico rilievo, ma anche quale rimedio compensativo del pregiudizio patito dalla collettività per la sottrazione del bene all'uso libero da parte di chiunque o al beneficio potenzialmente scaturente dalle ulteriori utilità ritraibili in ragione di un eventuale uso alternativo. I.3. - La complessa "causa" delle concessioni demaniali marittime. Il soddisfacimento di finalità pubblicistiche costituisce, dunque, un elemento imprescindibile della concessione di beni pubblici, al punto da costituirne scopo e ragione essenziale, deponendo chiaramente in tal senso l'art. 37 cod. nav., laddove, in presenza di più richieste di concessione, rimette al discrezionale giudizio dell'Amministrazione la valutazione in ordine alla migliore rispondenza di un certo utilizzo anziché di un altro rispetto ad un più rilevante interesse pubblico, sottintendendo un complesso bilanciamento di molteplici profili di rilievo che si colgono, da un lato, con riguardo al vantaggio conseguito dalla collettività in ragione delle finalità pubbliche per il soddisfacimento delle quali il bene è concesso in uso ad altri e, dall'altro, in relazione al nocumento patito dalla medesima collettività a causa della temporanea sottrazione del bene all'uso libero e generalizzato cui è naturalmente o potrebbe essere destinato. La preminenza del primo interesse pubblico sul secondo giustifica la concessione del bene in uso vincolato ad un determinato scopo, ma non significa che il secondo interesse venga del tutto meno, rilevando proprio sul piano della determinazione del canone in qualità di uno dei molteplici parametri di riferimento da tenere in adeguata considerazione. La complessa valutazione degli interessi pubblici coinvolti dalla decisione di concedere o meno il rilascio della chiesta concessione di beni demaniali culmina, dunque, in un giudizio comparativo di eventuale preminenza dell'interesse pubblico potenzialmente soddisfatto dal peculiare utilizzo del bene che il concessionario si sia impegnato a garantire rispetto all'interesse pubblico attuale a mantenere il libero uso del bene da parte della collettività, al punto da imporre una sintesi tra il primo in funzione propulsivo-innovativa ed il secondo in funzione oppositivo-conservativa, posto che, secondo quanto desumibile dall'art. 36 cod. nav., l'utilizzo esclusivo può essere concesso compatibilmente con le esigenze del pubblico uso. Sennonché, il contemperamento tra l'uno e l'altro costituisce una componente determinante ma da sola non sufficiente a contraddistinguere lo scopo giustificativo della concessione, concorrendo anche le finalità individuali perseguite dal concessionario. Più precisamente, la concessione di beni demaniali è contraddistinta da una duplice finalità di rilevanza causale: ed ossia, da un lato, il vantaggio personale ritraibile per il concessionario dall'uso esclusivo del bene e, dall'altro, il necessario soddisfacimento degli interessi pubblici perseguiti dall'Autorità amministrativa concedente all'esito della predetta complessa valutazione di bilanciamento, non essendo possibile il rilascio di una concessione unicamente preordinata a soddisfare le esigenze personali del concessionario a discapito e, quindi, senza il soddisfacimento di qualsivoglia pubblico interesse. E poiché le predette duplici componenti causali contraddistinguono la concessione di beni demaniali su tutti gli aspetti della relazione intercorrente tra l'Autorità concedente ed il concessionario ed ossia, tanto in ordine alla struttura dell'atto, quanto in ordine allo svolgimento del rapporto concessorio, ecco la ragione per la quale il canone assolve ad una funzione, come detto, sia corrispettiva del vantaggio scaturente dal diritto di uso esclusivo del bene demaniale, sia compensativa del nocumento patito dall'interesse pubblico soddisfatto dal non più consentito o limitato originario diritto di uso collettivo del bene medesimo. Donde, la considerazione del canone quale elemento essenziale caratterizzante la concessione di beni pubblici demaniali marittimi, al punto da dover essere previsto a carico del concessionario sempre e, quindi, anche laddove lo scopo pubblico perseguito dall'Amministrazione concedente e giustificante la sottrazione del bene all'uso generalizzato che lo contraddistinguerebbe sia rinvenibile nella beneficenza o in altre finalità di pubblico interesse che, evidentemente, condividano con la prima gli aspetti salienti, quali, in primo luogo l'assenza di profitti o proventi. I.4. - La funzione mono-finalistica del canone di riconoscimento di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav.. In tal senso è particolarmente indicativa la disciplina contemplata dall'art. 39 co. 2 cod. nav. nella parte in cui prevede l'assimilazione della beneficenza con altre finalità di pubblico interesse, al punto da giustificare il pagamento di un canone in una misura tale, ossia talmente ridotta, da costituire un mero atto di riconoscimento del carattere demaniale dei beni concessi in uso. La funzione del canone in questi casi, infatti, è mono-finalistica, poiché riflette l'unica finalità perseguita dalla concessione e coincidente con il soddisfacimento soltanto degli interessi pubblici giustificanti il diritto di uso esclusivo del bene demaniale concesso. Ed invero, nelle ipotesi di cui all'art. 39 co.2 cod. nav. il canone non assolve ad una funzione retributiva, poiché il concessionario non trae un vantaggio economico dall'utilizzo dei beni a lui concessi in uso, essendo soltanto soddisfatta la funzione compensativa, poiché la finalità pubblica perseguita con la concessione, pur realizzando per la collettività un vantaggio eguale o assai prossimo a quello originariamente ritraibile dall'uso generalizzato del quale il bene sarebbe suscettibile, determina e giustifica un utilizzo generale in tutto o in parte differente rispetto a quello originario. Più precisamente, il canone di mero riconoscimento del carattere demaniale dei beni rinviene la sua giustificazione nella mera distrazione del bene stesso dal suo utilizzo generale originario per assicurare un utilizzo altrettanto generale ma diverso che consenta alla collettività di trarre, sul piano quali-quantitativo, un'eguale o, comunque, assimilabile, sebbene non identica, pubblica utilità . Donde, la ragione per la quale il canone di mero riconoscimento del carattere demaniale del bene concesso in uso è di entità economica particolarmente contenuta. Nelle concessioni di cui all'art. 39 co.2 cod. nav. ed all'art. 37 reg. esec. cod. nav., manca, dunque, la duplicità finalistica caratterizzante la composita natura della "causa" (o meglio degli scopi propri) delle concessioni di beni demaniali, poiché la finalità di beneficenza o di pubblico interesse nella fattispecie perseguita dall'Autorità concedente diviene assorbente, unitaria ed escludente di qualsivoglia componente utilitaristica del concessionario. La disposizione regolamentare da ultimo citata, infatti, al co. 2 delimita l'ambito di operatività della nozione di "pubblico interesse" giustificante la determinazione del canone demaniale nella misura ridotta di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav., precisando che "Agli effetti dell'applicazione del canone, previsto dal secondo comma dell'articolo 39 del codice, si intendono per concessioni che perseguono fini di pubblico interesse diversi dalla beneficenza quelle nelle quali il concessionario non ritrae dai beni demaniali alcun lucro o provento". La specificazione è opportuna per eludere i dubbi ermeneutici dipendenti dall'ampia nozione di pubblico interesse che, di per sé, non è incompatibile, per le ragioni anzidette, con la concessione "ordinaria" di cui all'art. 36 cod. nav., in ragione della composita natura causale che la contraddistingue. I.5. - Gli interessi pubblici di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav. e l'ambito di operatività del canone ricognitorio. Ogni concessione, infatti, è e deve essere deputata al soddisfacimento di interessi pubblici. Donde, la rilevanza della disposta assimilazione delle finalità di pubblico interesse di cui all'art. 39 co.2 con l'altro parametro di riferimento menzionato in funzione paritetica, ossia la beneficenza, come tale, indicativa di un'attività svolta nell'esclusivo interesse altrui, ed ossia in assenza di alcun interesse egoistico del concessionario finalizzato al conseguimento di un compenso, un profitto, un introito o un utile. L'art. 37 co. 2 reg. esec. cod. nav., non integrando, dunque, il dettato normativo dell'art. 39 co.2 cod. nav., ma limitandosi soltanto, in coerenza con la sua funzione esecutiva, a chiarirne l'ambito applicativo, nel rispetto della gerarchia delle fonti del diritto, rinviene nell'assenza di lucro l'elemento legittimante la corresponsione del ridotto canone di riconoscimento della natura demaniale del bene concesso in uso, adoperando un'espressione talmente ampia da implicare l'esclusione di qualsiasi utilità o vantaggio suscettibile di valutazione economica per il concessionario. Può, dunque, affermarsi che l'applicazione del canone meramente ricognitorio postula che l'occupazione dell'area, implicante la sua sottrazione all'immediato uso pubblico, sia comunque funzionale alla stretta attuazione di una finalità pubblicistica, oppure all'esercizio di servizi di pubblica utilità privi di redditività o proventi (Consiglio di Stato sez. VI, 10 aprile 2014, n. 1716). I.5.1. Sennonché, la richiamata disposizione regolamentare, pur dovendo sempre essere interpretata in senso restrittivo in ragione dell'indiscusso carattere di specialità dell'art. 39 co. 2 cod. nav. di cui costituisce attuazione rispetto ai principi generali, necessita di un'interpretazione evolutiva, dettata dall'esigenza di adeguarne l'ambito di operatività al mutato contesto di riferimento economico-sociale rispetto a quello in auge all'epoca della sua entrata in vigore. Ed invero, l'articolo 37, comma 2, reg. esec. cod. nav. appare istituire un'antitesi tra amministrazione e impresa; tra finalità di carattere generale, orientate all'interesse pubblico, da un lato, e attività di impresa, fonte di lucro o anche solo di margine economico positivo dall'altro. In contrario deve tuttavia darsi atto che all'epoca della sua emanazione l'antitesi in questione era smentita sul piano fenomenico dall'azionariato di Stato e dall'ulteriore forma di intervento di quest'ultimo nell'economia attraverso gli enti pubblici economici. Ad oggi il dato fenomenico della compatibilità tra amministrazione e impresa è confermato sul piano del diritto positivo, tra l'altro, dalla figura dell'organismo di diritto pubblico, che secondo la definizione contenuta nell'art. 3, comma 1, lett. d), del codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, è quell'ente, "anche in forma societaria", che, in conformità all'elemento teleologico enunciato dal n. 1) della disposizione in esame, è "istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale". Dalla definizione ora riportata si evince a contrario che è possibile perseguire finalità di interesse pubblico anche secondo schemi di azione propri dell'impresa privata operante in regime di concorrenza, ai quali è riferibile la formula "aventi carattere industriale o commerciale", nel qual caso vengono meno i presupposti normativi per applicare l'evidenza pubblica all'attività contrattuale dell'organismo, ma non le ragioni istitutive dell'organismo, a loro volta connesse in modo specifico ad "esigenze di interesse generale", ed espresse dal controllo pubblico, di cui all'ulteriore requisito della figura, previsto dal n. 3) della medesima disposizione del codice dei contratti pubblici. Lo svolgimento da parte di autorità amministrative di attività di interesse pubblico in forma di impresa non implica quindi il venir meno dell'immanente fine pubblico di ogni attività delle medesime autorità, ed anzi si palesa coerente con il principio costituzionale del buon andamento dell'amministrazione, nella misura in cui consente in linea di principio una gestione improntata all'equilibrio economico. Nella prospettiva finora delineata l'art. 37, comma 2, del regolamento di esecuzione del codice della navigazione va, dunque, interpretato sul piano sistematico nel senso che non ogni "provento" proveniente dalla gestione dei beni in concessione implica il venir meno del fine di pubblico interesse per cui il canone può essere fissato in misura ricognitoria. In tal senso, infatti, rileva la nozione di imprenditore di cui all'art. 2082 c.c. da intendersi in senso oggettivo, dovendosi riconoscere il carattere imprenditoriale all'attività economica organizzata che sia ricollegabile a un dato obiettivo inerente all'attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi, rimanendo giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, il quale riguarda il movente soggettivo che induce l'imprenditore ad esercitare la sua attività (Cassazione civile sez. I, 24 marzo 2014, n. 6835). L'acquisizione di proventi può invece considerarsi incompatibile con la finalità di interesse pubblico della concessione solo quando lo sfruttamento economico del compendio demaniale sia finalizzato ad un fine soggettivo di "lucro", e dunque per l'arricchimento personale. Sulla base delle considerazioni finora svolte, l'apparente antitesi ricavabile dall'art. 37, comma 2, del regolamento di esecuzione del codice della navigazione tra fine di interesse pubblico e ogni "lucro o provento" va quindi risolta con l'attribuzione a quest'ultima espressione del valore di un'endiadi, per cui i proventi ottenuti dalla gestione economica dei beni oggetto di concessione per finalità di pubblico interesse diviene incompatibile con la causa di quest'ultima se destinato a scopo di destinazione soggettiva del risultato netto della gestione, e dunque di lucro, anziché di devoluzione a finalità di interesse generale (Consiglio di Stato Sez. VII, 16 febbraio 2023, n. 1642). I.5.2. Con riguardo al caso in esame, la E-D. S.p.A. è una società di distribuzione di energia elettrica operante sul territorio italiano in ragione di una concessione che, pur attestandone l'indiscussa rilevanza sul piano del pubblico interesse, legittima l'esercizio di un'attività commerciale di imponenti dimensioni economiche, di per sé presuntivamente comprovanti la rispondenza dell'organizzazione societaria alle logiche del lucro soggettivo. E poiché, dunque, dalla documentazione offerta in comunicazione non può desumersi la prova (contraria) della gestione dell'attività secondo criteri di mera economicità sostanzialmente tendenti al c.d. lucro oggettivo, ossia alla mera copertura dei costi nel medio-lungo periodo (Cassazione civile sez. I, 24 marzo 2014, n. 6835), non può nella circostanza ritenersi sussistente la condizione prevista dall'art. 37 co.2 reg. esec. cod. nav. dell'assenza di lucro in senso soggettivo per l'applicazione del canone di riconoscimento. I.6. - Il rapporto tra il lucro escludente il canone ricognitorio e l'utilizzo dei beni demaniali in concessione. L'appellante sostiene che il profitto o provento escludente il beneficio in questione sia soltanto quello direttamente ritraibile dall'uso del bene demaniale e non anche quello conseguente dall'attività esercitata dal concessionario tramite l'uso del bene demaniale, come nella circostanza, posto che la redditività della sua attività dipenderebbe dalle tariffe pagate dagli utenti. Peraltro, siffatte tariffe sarebbero stabilite dall'ARERA e, quindi, l'utilizzo di un bene demaniale da parte del concessionario del servizio di distribuzione dell'energia elettrica sarebbe del tutto ininfluente sul procedimento di determinazione delle stesse. I.6.1. Il Collegio osserva che la strumentalità delle condutture e degli impianti di cui è titolare l'appellante per l'erogazione di un servizio pubblico essenziale, come detto, non è revocabile in dubbio, come anche la rilevanza delle relative aree demaniali all'uopo utilizzate. A pagina 13 e 14 dell'appello, infatti, si precisa che i cavi interrati, le linee in BT e MT e le cabine elettriche che E-D. S.p.A. gestisce all'interno delle aree del demanio marittimo oggetto di concessione sono destinate a garantire l'approvvigionamento energetico sia di utenze private, sia di edifici pubblici quali la Capitaneria di Porto, l'Università di Cagliari, gli Uffici della Regione, la sede Enav, la sede dei Vigili del Fuoco, gli uffici della Guardia di Finanza, del Genio Militare, dell'aeronautica Militare, del Comune e della stessa Autorità Portuale. Il che comprova la strumentalità delle aree demaniali concesse in uso per favorire l'esercizio di un'attività imprenditoriale di pubblico interesse contraddistinta da una certa redditività dipendente, contrariamente a quanto sostenuto dall'appellante, non soltanto dal servizio di distribuzione dell'energia elettrica complessivamente considerato, ma anche dallo sfruttamento dei beni demaniali utilizzati. Se, infatti, il bene demaniale è adoperato per collocare gli impianti di erogazione del servizio di fornitura dell'energia elettrica da cui dipende la redditività dell'attività economica esercitata dal concessionario, il bene stesso assolve rispetto a siffatta attività la medesima funzione strumentale degli impianti direttamente adoperati, palesandosi, quindi, un collegamento tra il possesso del bene demaniale ed il profitto o il provento scaturente dal servizio pubblico erogato. Non può, infatti, ritenersi ininfluente sul piano della redditività dell'attività esercitata dall'appellante l'ubicazione degli impianti strumentali all'erogazione del servizio di fornitura dell'energia elettrica su un'area demaniale o su un'area privata, incidendo la circostanza direttamente sui costi di gestione e, quindi, sul profitto derivante dall'attività esercitata. Non assume, dunque, portata dirimente la determinazione ad opera dell'ARERA della tariffa unica nazionale obbligatoria (pag. 18 dell'appello) e, quindi, l'irrilevanza a siffatti fini dell'allocazione degli impianti adoperati su un'area demaniale o privata, poiché quest'ultima circostanza incide direttamente sugli utili, potendone significativamente diminuire l'entità qualora i costi necessari per l'acquisizione dell'area da destinare all'ubicazione degli impianti e delle reti siano elevati. Appare, dunque, verosimile che la scelta dell'area all'uopo da utilizzare possa dipendere anche (sebbene non soltanto) da ragioni di economicità connesse al costo del canone da sostenere. Il che comprova, nella circostanza, la non estraneità dell'aspetto economico nella gestione tanto del bene demaniale concesso in uso, quanto dell'attività ivi esercitata, al punto cioè da indurre a ritenere connesso all'uso del bene demaniale l'utile ed i proventi scaturenti dall'attività predetta. Pertanto, il canone di "mero riconoscimento" non può essere applicato quando la ritrazione di utili o proventi dell'attività deriva in modo, indiretto e mediato che sia (ma pur sempre legato da un nesso di strumentalità necessaria), dall'impiego del bene demaniale (cfr. Cons Stato, sez. VI, 12 marzo 2012, n. 1399; Consiglio di Stato sez. VI, 10 aprile 2014, n. 1716). Donde, l'esclusione dei presupposti per l'applicazione del canone di mero riconoscimento del carattere demaniale del bene concesso in uso di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav. ed all'art. 37 co. 2 reg. esec. cod. nav., non potendosi ritenere la finalità di pubblico interesse perseguita dall'appellante, nella sua qualità di concessionaria delle aree demaniali in questione, assimilabile a quella caratterizzante la beneficenza. Come, infatti, precisato, l'art. 39 co. 2 cod. nav., dopo avere menzionato la beneficenza, utilizza la congiunzione disgiuntiva "o" per estendere il proprio ambito applicativo anche alle concessioni rilasciate "per altri fini di pubblico interesse" che condividano gli aspetti essenziali caratterizzanti la prima, al punto da sottintendersi un non espressamente richiamato requisito di omogeneità dell'interesse pubblico compatibile con la determinazione del canone nella ridotta misura in questione poi precisato nella norma regolamentare di cui all'art. 37 co.2 reg. esec. cod. nav., con conseguente incompatibilità con qualsivoglia sfruttamento economico diretto o indiretto del bene demaniale che determini in favore del concessionario un lucro in senso soggettivo. Il primo motivo di appello, pertanto, è infondato. II. - Il secondo motivo di appello. Con il secondo motivo si lamenta l'erroneità della decisione impugnata nella parte in cui non ha ritenuto fondata la censura dedotta in ordine all'illegittima determinazione di un canone minimo da parte dell'Autorità Portuale per carenza di potere. Secondo l'appellante, infatti, l'art. 13 della legge n. 84/1994 includerebbe tra le entrate delle Autorità di sistema portuale, per quanto di interesse in questa sede: a) i canoni di concessione delle aree demaniali e delle banchine comprese nell'ambito portuale di cui all'art. 18, ossia quelli concernenti le concessioni per l'espletamento delle operazioni portuali quali l'attività di carico, scarico, trasbordo, deposito, movimento merci svolte in ambito portuale; b) i proventi di autorizzazione per operazioni portuali di cui all'art. 16. E poiché l'appellante svolge attività di distribuzione di energia elettrica tramite gestione, per concessione ministeriale, delle reti elettriche pubbliche, i canoni dovuti per l'occupazione delle relative aree demaniali non potrebbero costituire oggetto di autonoma determinazione, dovendo, nella fattispecie, applicarsi la disciplina di cui al D.L. n. 400/1993 nella misura da ultimo confermata dall'art. 2 co. 7 D.M. 5 agosto 1998 n. 342, pari a un decimo dell'ammontare ordinario. Peraltro, l'art. 7 co. 3 D.L. 5 ottobre 1993, n. 400 espressamente esclude che l'adozione di autonomi criteri di determinazione delle misure dei canoni possa comportare la disapplicazione della disciplina prevista dall'art. 03 co.1 lett. i), (poi divenuta lettera d) a seguito delle modifiche apportate dall'art. 1 co. 251 della legge n. 296/2006) e co.2 del medesimo decreto, ossia "proprio le concessioni indicate al secondo comma dell'articolo 39 del codice della navigazione e all'articolo 37 del regolamento per l'esecuzione del codice della navigazione, di cui al d.P.R. 15.2.1952, n. 328 per le quali deve dunque ritenersi ferma ed inderogabile la riduzione del canone ordinario nella misura del 90 per cento" (pag. 22 dell'appello). Il provvedimento impugnato, inoltre, non considererebbe l'impatto economico del principio di diritto affermato che, se confermato, implicherebbe oneri cospicui per l'appellante in ragione della molteplicità di concessioni demaniali rilasciatele su tutto il territorio nazionale, in violazione dell'art. 4 L. n. 239/2004 secondo cui lo Stato e le Regioni, al fine di assicurare su tutto il territorio nazionale i livelli essenziali delle prestazioni concernenti l'energia nelle sue varie forme e in condizioni di omogeneità sia con riguardo alle modalità di fruizione sia con riguardo ai criteri di formazione delle tariffe e al conseguente impatto sulla formazione dei prezzi, garantiscono, tra l'altro, l'assenza di oneri di qualsiasi specie che abbiano effetti economici diretti o indiretti ricadenti al di fuori dell'ambito territoriale delle autorità che li prevedono. II.1. Il Collegio osserva che il provvedimento impugnato reca una motivazione apparentemente indicativa della volontà dell'Autorità Portuale di non disconoscere i presupposti per l'applicabilità dell'invocato art. 39 co.2 cod. nav. Sebbene, infatti, nella parte conclusiva della motivazione si affermi che "il canone demaniale in argomento è stato determinato nella misura del canone base con riduzione al 10per cento ai sensi dell'art. 39 c. 2 del Codice della Navigazione ma con valore minimo fissato dalla suddetta Delibera", il riferimento, tuttavia, alla delibera n. 243/04, di per sé, comporta la disapplicazione dell'art. 39 co. 2 cod. nav., ritenendo preminente sul canone di riconoscimento il canone minimo determinato dall'Autorità Portuale (la cui misura, come si è già osservato, risulta sensibilmente superiore a quella del canone di riconoscimento). Il giudice di primo grado, escludendo i presupposti per l'invocata applicazione dell'art. 39 co. 2 cod. nav., ha ritenuto legittima la determinazione nella misura minima stabilita con la predetta delibera del canone demaniale dovuto. Ma il motivo in esame pone a confronto due distinte discipline nella prospettiva di individuare quella in concreto applicabile in quanto unica in tal senso o in quanto preminente, comunque, sull'altra. L'appellante revoca, anzitutto, in dubbio il potere dell'Autorità Portuale di determinare un canone minimo. L'assunto è infondato se si considera il chiaro tenore testuale dell'art. 7 co. 1 D.L. 5 ottobre 1993, n. 400, convertito dall'articolo unico della legge 4 dicembre 1993, n. 494, secondo cui "Gli enti portuali potranno adottare, per concessioni demaniali marittime rientranti nel proprio ambito territoriale, criteri diversi da quelli indicati nel presente decreto, che comunque non comportino l'applicazione di canoni inferiori rispetto a quelli che deriverebbero dall'applicazione del decreto stesso". La richiamata disposizione normativa, ancora formalmente in vigore, attribuisce agli enti portuali in generale e, quindi, anche alle Autorità Portuali di Sistema successivamente istituite con la legge n. 84/1994, il potere di prevedere criteri di quantificazione dei canoni in misura superiore rispetto a quelli stabiliti dal predetto decreto legge in relazione alle concessioni demaniali marittime rientranti nell'ambito territoriale di siffatti Enti, senza distinguere a seconda delle funzioni o degli scopi caratterizzanti l'utilizzo dei beni demaniali affidati in uso ai concessionari. Sennonché, la disposizione dell'art. 7 co. 3 del D.L. citato esclude la possibilità per gli enti portuali di disapplicare la disciplina concernente la fattispecie di cui all'art. 3 co. 1 lett. d), ossia proprio quella concernente le concessioni di pubblico interesse beneficianti del c.d. canone di riconoscimento previsto dall'art. 39 co. 2 cod. nav.. Donde, l'illegittimità dell'impugnato provvedimento nella parte in cui, pur sembrando ammettere l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav., afferma la prevalenza del canone minimo sul c.d. canone di riconoscimento. Tuttavia, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado e come precisato in relazione al primo motivo di appello, non ricorrono i presupposti per l'applicabilità dell'art. 39 co. 2 cod. nav., da cui discende la correttezza del dispositivo del provvedimento impugnato, sebbene con motivazione diversa da quella adottata dal primo Giudice. Donde, l'insussistenza dei presupposti per pronunciare l'annullamento del provvedimento impugnato, essendo evidente dagli atti di causa che la decisione nell'occasione assunta dall'Amministrazione non avrebbe potuto e non potrebbe essere di segno diverso. Ed invero, quand'anche nella circostanza si accogliesse il motivo in esame, l'Autorità di Sistema Portuale dovrebbe rideterminare il canone dovuto, non applicando l'art. 39 co. 2 cod. nav. per le ragioni anzidette (ossia non perché il canone di riconoscimento sarebbe inferiore al canone minimo previsto nella richiamata delibera, ma poiché non sussisterebbero, a monte, i presupposti per ricondurre la concessione demaniale in questione nell'ambito delle c.d. concessioni per pubblico interesse di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav. ed all'art. 37 reg. esec. cod. nav.). E poiché, quindi, il risultato finale scaturente in ragione dell'effetto conformativo conseguente all'eventuale annullamento del provvedimento impugnato sarebbe identico a quello in questa sede contestato, non potendo l'Autorità Portuale di Sistema riconoscere all'appellante il beneficio del canone ricognitorio del carattere demaniale del bene concesso in uso, il motivo è infondato come l'intero appello che, pertanto, deve essere respinto. III. - La peculiarità delle questioni di diritto esaminate e gli indirizzi giurisprudenziali non univoci espressi sul tema in esame giustificano l'integrale compensazione delle spese processuali del grado d'appello. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese processuali del grado di appello compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2023 con l'intervento dei magistrati: Claudio Contessa - Presidente Fabio Franconiero - Consigliere Daniela Di Carlo - Consigliere Maurizio Antonio Pasquale Francola - Consigliere, Estensore Marco Valentini - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3173 del 2021, proposto da E-D. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ce. Ca., Gi. De Ve., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Gi. De Ve. in Roma, via (...); contro Autorità di Sistema Portuale del Mare di Sardegna - Cagliari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna Sezione Prima n. 510/2020, resa tra le parti Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Autorità di Sistema Portuale del Mare di Sardegna - Cagliari; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 aprile 2023 il Cons. Maurizio Antonio Pasquale Francola e udito per l'appellante l'avvocato Ma. Pe. per delega dell'avvocato Ce. Ca.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO La vicenda scaturisce da un contenzioso pluriennale tra l'appellante e l'Autorità Portuale di Cagliari (poi confluita nell'Autorità di Sistema Portuale del Mare di Sardegna ai sensi dell'art. 6 L. n. 84/1994) in ordine all'esatta individuazione del canone demaniale dalla prima dovuto nella qualità di concessionaria di beni demaniali marittimi e proprietaria di una serie di impianti elettrici posti nell'area del Porto di Cagliari. Tra il 2008 ed il 2011, infatti, En. Di. S.p.A. (oggi E-D. S.p.A.) aveva adito il T.A.R. per la Sardegna per sentire annullare le delibere con le quali la predetta Autorità aveva quantificato il canone demaniale dovuto per le molteplici concessioni rilasciate omettendo di applicare la riduzione prevista dall'art. 39 co.2 R.D. 30 marzo 1942 n. 327 (Codice della Navigazione) e dall'art. 37 co.2 D.P.R. 15 febbraio 1952 n. 328 (Regolamento per l'esecuzione del Codice della Navigazione) che avrebbe comportato una riduzione del 90per cento ed il conseguente dovere di corresponsione del canone demaniale ordinario nella misura residua del 10per cento. Il T.A.R., con le sentenze n. 849-857 e 862 del 2012, accoglieva i ricorsi, ritenendo sussistenti i presupposti previsti per la riduzione del canone demaniale nella misura del 90per cento, in virtù delle richiamate disposizioni. Sennonché, l'Autorità Portuale di Cagliari con successivi provvedimenti chiedeva, per le tredici concessioni rilasciate all'appellante, il pagamento del "canone minimo" determinato con la propria delibera n. 243/2004, ma non applicando la predetta riduzione. La misura di tale "canone minimo" risultava infatti sensibilmente più alta di quella che sarebbe scaturita all'esito dell'invocata riduzione del 90 per cento. En. Di. S.p.A., allora, domandava la rideterminazione del canone demaniale in applicazione della richiamata normativa di favore. Ma l'Autorità Portuale di Cagliari respingeva l'istanza, poiché, pur riconoscendo il fondamento della pretesa alla riduzione del canone nella misura del 90 per cento ai sensi dell'art. 39 co. 2 cod. nav., rientrerebbe tra le sue prerogative, secondo quanto previsto dall'art. 10 del D.M. 19 luglio 1989 e dall'art. 7 co.1 L. n. 494/1993 di conversione del D.L. n. 400/1993, la facoltà di adottare, per le concessioni demaniali marittime rientranti nel proprio ambito territoriale, criteri diversi da quelli indicati dalla normativa statale, purché non implicanti canoni inferiori rispetto a quelli che deriverebbero dall'applicazione della normativa stessa. Donde, la legittima quantificazione dei canoni dovuti nella misura minima di euro 500,00 fissata per l'anno 2004 secondo i criteri stabiliti nella delibera n. 243/2004 del 10 dicembre 2004 e nella successiva ordinanza n. 97 del 22 dicembre 2004 della medesima Autorità, da aggiornare annualmente secondo quanto stabilito con decreto del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti. L'Autorità Portuale di Cagliari concludeva, quindi, precisando che il canone demaniale doveva intendersi determinato nella misura del canone base con riduzione al 10 per cento dell'art. 39 co.2 cod. nav. ma con valore minimo fissato dalla suddetta delibera. In tal modo, pur non disconoscendo l'applicabilità dell'art. 39 co.2 cod. nav., l'Autorità riteneva prevalente la disciplina introdotta con la propria delibera n. 234/2004 con cui fissava il canone annuo minimo in euro 500,00. En. Di. S.p.A., allora, ricorreva nuovamente al T.A.R. per la Sardegna, stavolta, però, senza successo. L'adito T.A.R., infatti, riconsiderava il proprio orientamento precedentemente espresso nelle decisioni del 2012, escludendo l'applicabilità dell'art. 39 co.2 cod. nav. e ritenendo legittima la determinazione del canone demaniale dovuto nella misura minima di cui alla delibera n. 234/2004, anziché in quella minore "di mero riconoscimento" pretesa dalla società concessionaria, in ragione di un nuovo indirizzo giurisprudenziale recentemente affermatosi. Con appello notificato il 19 marzo 2021 e depositato il 2 aprile 2021 E-D. S.p.A., già En. Di. S.p.A., impugnava la predetta decisione, domandandone la riforma per i seguenti motivi: 1) error in iudicando per violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 39 co.2 cod. nav. e dell'art. 37 reg. esec. cod. nav. e per motivazione contraddittoria e travisamento dei fatti - poiché, contrariamente a quanto erroneamente affermato nella sentenza impugnata, sussisterebbero tutte le condizioni per l'applicazione del canone nella pretesa misura ridotta del 10 per cento, non ottenendo la società appellante dall'utilizzo del bene demaniale concesso in uso un diretto vantaggio economico, né sussistendo l'assunto mutamento di indirizzo giurisprudenziale che, secondo il giudice di prime cure, giustificherebbe il rigetto del ricorso, non essendo conferenti o influenti i precedenti richiamati a riprova del nuovo orientamento ermeneutico sulla corretta applicazione dell'art. 39 co.2 cod. nav. e dell'art. 37 reg. esec. cod. nav.. 2) error in iudicando per violazione e falsa applicazione dell'art. 7 co. 1 e 3 D.L. n. 400/1993, violazione e falsa applicazione del D.M. 19 luglio 1989, dell'art. 3 co. 1 lett. d) D.L. n. 400/1993, dell'art. 2 D.M. n. 342/1998, erroneità ed insufficienza della motivazione - poiché il giudice avrebbe erroneamente non accolto la censura con la quale si lamentava l'illegittimità del provvedimento impugnato per carenza di potere dell'Autorità Portuale in ordine alla determinazione del canone demaniale dovuto per le concessioni di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav. in misura minima superiore al canone ordinario ridotto del 90per cento. Si costituiva l'Autorità di Sistema Portuale del Mare di Sardegna, opponendosi all'accoglimento dell'appello in quanto infondato in fatto e in diritto. L'appellante, allora, depositava una memoria difensiva. All'udienza pubblica del 18 aprile 2023, il Consiglio di Stato, dopo avere udito i procuratori delle parti costituite presenti come da verbale, tratteneva l'appello in decisione. DIRITTO I. - Il primo motivo di appello. Con il primo motivo di appello si lamenta l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui nega la sussistenza dei presupposti per l'invocata applicazione dell'art. 39 co. 2 cod. nav., poiché : a) l'appellante utilizzerebbe l'area demaniale concessa in uso per l'erogazione di un servizio pubblico essenziale, qual deve ritenersi l'erogazione dell'energia elettrica in favore della collettività e delle Autorità pubbliche; b) secondo la società appellante non vi sarebbe alcun rapporto di derivazione diretta tra i proventi dell'attività svolta dal concessionario e l'utilizzo del bene demaniale occupato in regime di concessione, posto che i ricavi della E-D. S.p.A. deriverebbero non dallo sfruttamento delle aree del demanio ma dal servizio di distribuzione dell'energia elettrica complessivamente considerato; c) l'utile ritraibile dall'erogazione del servizio pubblico di fornitura di energia elettrica, infatti, dipenderebbe dalla tariffa unica nazionale obbligatoria stabilita ed aggiornata periodicamente dall'ARERA e sarebbe identica anche qualora il servizio fosse erogato senza l'utilizzo dei beni demaniali in questione. Donde, la conclusione secondo cui il provento ricavato dall'esercente l'attività di erogazione di energia elettrica scaturirebbe dal corrispettivo versato dagli utenti e non dall'utilizzazione del bene demaniale. I.1. - La questione interpretativa del combinato disposto degli artt. 39 co. 2 cod. nav. e 37 co. 2 reg. esec. cod. nav.. Il motivo attiene alla corretta interpretazione ed applicazione della disciplina contemplata dall'art. 39 co. 2 cod. nav. e dall'art. 37 co. 2 reg. esec. cod. nav.. L'art. 39 cod. nav., dopo avere precisato al co. 1 che la misura del canone demaniale è determinata dall'atto di concessione, statuisce al co. 2 che "Nelle concessioni a enti pubblici o privati, per fini di beneficenza o per altri fini di pubblico interesse, sono fissati canoni di mero riconoscimento del carattere demaniale dei beni". A sua volta l'art. 37 co. 2 reg. esec. cod. nav. chiarisce che "Agli effetti dell'applicazione del canone, previsto dal secondo comma dell'articolo 39 del codice, si intendono per concessioni che perseguono fini di pubblico interesse diversi dalla beneficenza quelle nelle quali il concessionario non ritrae dai beni demaniali alcun lucro o provento". Quest'ultima disposizione, pertanto, esclude, per l'applicazione del canone di mero riconoscimento della natura demaniale del bene di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav., la possibilità che il concessionario esercente sui beni demaniali attività di pubblico interesse diverse dalla beneficenza ritragga un lucro o un provento. Nella fattispecie, l'appellante utilizza i beni demaniali in concessione per l'allocazione degli impianti occorrenti per l'erogazione dell'energia elettrica, svolgendo un'attività di pubblico interesse senz'altro riconducibile nell'ambito dei servizi pubblici. Donde, il dubbio in ordine all'esistenza o meno di una connessione tra l'utilizzo del bene demaniale in concessione ed il lucro conseguente dall'esercizio della predetta attività che possa, rispettivamente, precludere o ammettere il beneficio previsto dall'art. 39 co. 2 cod. nav. legittimante il pagamento di un canone irrisorio o, comunque, particolarmente contenuto. La soluzione dipende da un'interpretazione teleologica del combinato disposto delle richiamate norme. I.2. - La rilevanza e la funzione del canone nelle concessioni demaniali marittime. Ed invero, muovendo, anzitutto, dalla fonte primaria, l'art. 39 cod. nav. esordisce al co. 1 implicitamente affermando la regola dell'onerosità delle concessioni demaniali marittime. Statuendo, infatti, che la misura del canone è determinata nell'atto di concessione, la disposizione in esame, da un lato, consente all'Amministrazione concedente di determinare l'entità del canone dovuto e, dall'altro, presuppone la necessaria previsione di un canone a carico del concessionario, escludendo la possibilità di concessioni demaniali marittime gratuite, anche laddove il concessionario persegua soltanto ed esclusivamente finalità di interesse generale. L'art. 39 co. 2 cod. nav., infatti, impone il pagamento di un canone anche nell'ipotesi in cui il bene demaniale sia concesso ad enti pubblici o privati per finalità di beneficenza o per altri fini di pubblico interesse, poiché considera l'onerosità un elemento qualificante imprescindibile del rapporto concessorio in ragione della sua funzione, ad un tempo, retributivo-compensativa giustificante la sottrazione del bene demaniale marittimo al possibile uso generale da parte della collettività del quale il medesimo è capace. I beni del demanio marittimo elencati dall'art. 822 co.1 c.c., ed ossia il lido del mare, le spiagge, le rade e i porti, al pari di quelli indicati dall'art. 28 cod. nav., ed ossia le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini di acqua salsa o salmastra che almeno durante una parte dell'anno comunicano liberamente col mare ed i canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo, sono, infatti, beni pubblici puri, in quanto non rivali, né escludibili, essendo accessibili a tutti e suscettibili di godimento congiunto simultaneo da parte di più soggetti, tale che l'uso ad opera di taluno non esclude il pari utilizzo contemporaneo ad opera di altri. E poiché la concessione in uso di siffatti beni esclude o limita l'uso generale della collettività al quale i medesimi sono naturalmente soggetti e destinati, è necessario che il concessionario corrisponda un canone in funzione tanto corrispettiva del vantaggio personale derivante dall'acquisizione di un diritto di utilizzo esclusivo del bene demaniale richiesto, quanto compensativa del pregiudizio sofferto dalla generalità dei consociati a causa della perdita o della limitazione del libero uso del bene dipendente dall'attitudine del diritto di uso esclusivo concesso di limitare o pregiudicare in tutto o in parte il diritto pubblico di uso collettivo originariamente esercitato o esercitabile e giustificatamente sacrificato in ragione delle finalità pubblicistiche, in concreto, perseguite dall'Autorità concedente con il rilascio della concessione. La concessione di beni pubblici costituisce, infatti, un contratto attivo per l'Amministrazione, in cui il vantaggio conseguito dall'Ente concedente si coglie tanto sul piano dell'utilità pubblica soddisfatta dal peculiare utilizzo per il quale il bene è concesso in uso ad altri, quanto nell'incasso di somme di denaro a titolo di canone in funzione sia retributiva che compensativa per la sottrazione del bene al possibile uso collettivo al quale sia naturalmente destinato o potenzialmente propedeutico. Donde, quindi, la duplice rilevanza del canone nelle concessioni di beni pubblici non soltanto quale mera controprestazione dovuta dal concessionario in ragione del vantaggio dal medesimo conseguito dall'uso del bene a lui concesso in godimento vincolato per il soddisfacimento di un certo fine di pubblico rilievo, ma anche quale rimedio compensativo del pregiudizio patito dalla collettività per la sottrazione del bene all'uso libero da parte di chiunque o al beneficio potenzialmente scaturente dalle ulteriori utilità ritraibili in ragione di un eventuale uso alternativo. I.3. - La complessa "causa" delle concessioni demaniali marittime. Il soddisfacimento di finalità pubblicistiche costituisce, dunque, un elemento imprescindibile della concessione di beni pubblici, al punto da costituirne scopo e ragione essenziale, deponendo chiaramente in tal senso l'art. 37 cod. nav., laddove, in presenza di più richieste di concessione, rimette al discrezionale giudizio dell'Amministrazione la valutazione in ordine alla migliore rispondenza di un certo utilizzo anziché di un altro rispetto ad un più rilevante interesse pubblico, sottintendendo un complesso bilanciamento di molteplici profili di rilievo che si colgono, da un lato, con riguardo al vantaggio conseguito dalla collettività in ragione delle finalità pubbliche per il soddisfacimento delle quali il bene è concesso in uso ad altri e, dall'altro, in relazione al nocumento patito dalla medesima collettività a causa della temporanea sottrazione del bene all'uso libero e generalizzato cui è naturalmente o potrebbe essere destinato. La preminenza del primo interesse pubblico sul secondo giustifica la concessione del bene in uso vincolato ad un determinato scopo, ma non significa che il secondo interesse venga del tutto meno, rilevando proprio sul piano della determinazione del canone in qualità di uno dei molteplici parametri di riferimento da tenere in adeguata considerazione. La complessa valutazione degli interessi pubblici coinvolti dalla decisione di concedere o meno il rilascio della chiesta concessione di beni demaniali culmina, dunque, in un giudizio comparativo di eventuale preminenza dell'interesse pubblico potenzialmente soddisfatto dal peculiare utilizzo del bene che il concessionario si sia impegnato a garantire rispetto all'interesse pubblico attuale a mantenere il libero uso del bene da parte della collettività, al punto da imporre una sintesi tra il primo in funzione propulsivo-innovativa ed il secondo in funzione oppositivo-conservativa, posto che, secondo quanto desumibile dall'art. 36 cod. nav., l'utilizzo esclusivo può essere concesso compatibilmente con le esigenze del pubblico uso. Sennonché, il contemperamento tra l'uno e l'altro costituisce una componente determinante ma da sola non sufficiente a contraddistinguere lo scopo giustificativo della concessione, concorrendo anche le finalità individuali perseguite dal concessionario. Più precisamente, la concessione di beni demaniali è contraddistinta da una duplice finalità di rilevanza causale: ed ossia, da un lato, il vantaggio personale ritraibile per il concessionario dall'uso esclusivo del bene e, dall'altro, il necessario soddisfacimento degli interessi pubblici perseguiti dall'Autorità amministrativa concedente all'esito della predetta complessa valutazione di bilanciamento, non essendo possibile il rilascio di una concessione unicamente preordinata a soddisfare le esigenze personali del concessionario a discapito e, quindi, senza il soddisfacimento di qualsivoglia pubblico interesse. E poiché le predette duplici componenti causali contraddistinguono la concessione di beni demaniali su tutti gli aspetti della relazione intercorrente tra l'Autorità concedente ed il concessionario ed ossia, tanto in ordine alla struttura dell'atto, quanto in ordine allo svolgimento del rapporto concessorio, ecco la ragione per la quale il canone assolve ad una funzione, come detto, sia corrispettiva del vantaggio scaturente dal diritto di uso esclusivo del bene demaniale, sia compensativa del nocumento patito dall'interesse pubblico soddisfatto dal non più consentito o limitato originario diritto di uso collettivo del bene medesimo. Donde, la considerazione del canone quale elemento essenziale caratterizzante la concessione di beni pubblici demaniali marittimi, al punto da dover essere previsto a carico del concessionario sempre e, quindi, anche laddove lo scopo pubblico perseguito dall'Amministrazione concedente e giustificante la sottrazione del bene all'uso generalizzato che lo contraddistinguerebbe sia rinvenibile nella beneficenza o in altre finalità di pubblico interesse che, evidentemente, condividano con la prima gli aspetti salienti, quali, in primo luogo l'assenza di profitti o proventi. I.4. - La funzione mono-finalistica del canone di riconoscimento di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav.. In tal senso è particolarmente indicativa la disciplina contemplata dall'art. 39 co. 2 cod. nav. nella parte in cui prevede l'assimilazione della beneficenza con altre finalità di pubblico interesse, al punto da giustificare il pagamento di un canone in una misura tale, ossia talmente ridotta, da costituire un mero atto di riconoscimento del carattere demaniale dei beni concessi in uso. La funzione del canone in questi casi, infatti, è mono-finalistica, poiché riflette l'unica finalità perseguita dalla concessione e coincidente con il soddisfacimento soltanto degli interessi pubblici giustificanti il diritto di uso esclusivo del bene demaniale concesso. Ed invero, nelle ipotesi di cui all'art. 39 co.2 cod. nav. il canone non assolve ad una funzione retributiva, poiché il concessionario non trae un vantaggio economico dall'utilizzo dei beni a lui concessi in uso, essendo soltanto soddisfatta la funzione compensativa, poiché la finalità pubblica perseguita con la concessione, pur realizzando per la collettività un vantaggio eguale o assai prossimo a quello originariamente ritraibile dall'uso generalizzato del quale il bene sarebbe suscettibile, determina e giustifica un utilizzo generale in tutto o in parte differente rispetto a quello originario. Più precisamente, il canone di mero riconoscimento del carattere demaniale dei beni rinviene la sua giustificazione nella mera distrazione del bene stesso dal suo utilizzo generale originario per assicurare un utilizzo altrettanto generale ma diverso che consenta alla collettività di trarre, sul piano quali-quantitativo, un'eguale o, comunque, assimilabile, sebbene non identica, pubblica utilità . Donde, la ragione per la quale il canone di mero riconoscimento del carattere demaniale del bene concesso in uso è di entità economica particolarmente contenuta. Nelle concessioni di cui all'art. 39 co.2 cod. nav. ed all'art. 37 reg. esec. cod. nav., manca, dunque, la duplicità finalistica caratterizzante la composita natura della "causa" (o meglio degli scopi propri) delle concessioni di beni demaniali, poiché la finalità di beneficenza o di pubblico interesse nella fattispecie perseguita dall'Autorità concedente diviene assorbente, unitaria ed escludente di qualsivoglia componente utilitaristica del concessionario. La disposizione regolamentare da ultimo citata, infatti, al co. 2 delimita l'ambito di operatività della nozione di "pubblico interesse" giustificante la determinazione del canone demaniale nella misura ridotta di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav., precisando che "Agli effetti dell'applicazione del canone, previsto dal secondo comma dell'articolo 39 del codice, si intendono per concessioni che perseguono fini di pubblico interesse diversi dalla beneficenza quelle nelle quali il concessionario non ritrae dai beni demaniali alcun lucro o provento". La specificazione è opportuna per eludere i dubbi ermeneutici dipendenti dall'ampia nozione di pubblico interesse che, di per sé, non è incompatibile, per le ragioni anzidette, con la concessione "ordinaria" di cui all'art. 36 cod. nav., in ragione della composita natura causale che la contraddistingue. I.5. - Gli interessi pubblici di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav. e l'ambito di operatività del canone ricognitorio. Ogni concessione, infatti, è e deve essere deputata al soddisfacimento di interessi pubblici. Donde, la rilevanza della disposta assimilazione delle finalità di pubblico interesse di cui all'art. 39 co.2 con l'altro parametro di riferimento menzionato in funzione paritetica, ossia la beneficenza, come tale, indicativa di un'attività svolta nell'esclusivo interesse altrui, ed ossia in assenza di alcun interesse egoistico del concessionario finalizzato al conseguimento di un compenso, un profitto, un introito o un utile. L'art. 37 co. 2 reg. esec. cod. nav., non integrando, dunque, il dettato normativo dell'art. 39 co.2 cod. nav., ma limitandosi soltanto, in coerenza con la sua funzione esecutiva, a chiarirne l'ambito applicativo, nel rispetto della gerarchia delle fonti del diritto, rinviene nell'assenza di lucro l'elemento legittimante la corresponsione del ridotto canone di riconoscimento della natura demaniale del bene concesso in uso, adoperando un'espressione talmente ampia da implicare l'esclusione di qualsiasi utilità o vantaggio suscettibile di valutazione economica per il concessionario. Può, dunque, affermarsi che l'applicazione del canone meramente ricognitorio postula che l'occupazione dell'area, implicante la sua sottrazione all'immediato uso pubblico, sia comunque funzionale alla stretta attuazione di una finalità pubblicistica, oppure all'esercizio di servizi di pubblica utilità privi di redditività o proventi (Consiglio di Stato sez. VI, 10 aprile 2014, n. 1716). I.5.1. Sennonché, la richiamata disposizione regolamentare, pur dovendo sempre essere interpretata in senso restrittivo in ragione dell'indiscusso carattere di specialità dell'art. 39 co. 2 cod. nav. di cui costituisce attuazione rispetto ai principi generali, necessita di un'interpretazione evolutiva, dettata dall'esigenza di adeguarne l'ambito di operatività al mutato contesto di riferimento economico-sociale rispetto a quello in auge all'epoca della sua entrata in vigore. Ed invero, l'articolo 37, comma 2, reg. esec. cod. nav. appare istituire un'antitesi tra amministrazione e impresa; tra finalità di carattere generale, orientate all'interesse pubblico, da un lato, e attività di impresa, fonte di lucro o anche solo di margine economico positivo dall'altro. In contrario deve tuttavia darsi atto che all'epoca della sua emanazione l'antitesi in questione era smentita sul piano fenomenico dall'azionariato di Stato e dall'ulteriore forma di intervento di quest'ultimo nell'economia attraverso gli enti pubblici economici. Ad oggi il dato fenomenico della compatibilità tra amministrazione e impresa è confermato sul piano del diritto positivo, tra l'altro, dalla figura dell'organismo di diritto pubblico, che secondo la definizione contenuta nell'art. 3, comma 1, lett. d), del codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, è quell'ente, "anche in forma societaria", che, in conformità all'elemento teleologico enunciato dal n. 1) della disposizione in esame, è "istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale". Dalla definizione ora riportata si evince a contrario che è possibile perseguire finalità di interesse pubblico anche secondo schemi di azione propri dell'impresa privata operante in regime di concorrenza, ai quali è riferibile la formula "aventi carattere industriale o commerciale", nel qual caso vengono meno i presupposti normativi per applicare l'evidenza pubblica all'attività contrattuale dell'organismo, ma non le ragioni istitutive dell'organismo, a loro volta connesse in modo specifico ad "esigenze di interesse generale", ed espresse dal controllo pubblico, di cui all'ulteriore requisito della figura, previsto dal n. 3) della medesima disposizione del codice dei contratti pubblici. Lo svolgimento da parte di autorità amministrative di attività di interesse pubblico in forma di impresa non implica quindi il venir meno dell'immanente fine pubblico di ogni attività delle medesime autorità, ed anzi si palesa coerente con il principio costituzionale del buon andamento dell'amministrazione, nella misura in cui consente in linea di principio una gestione improntata all'equilibrio economico. Nella prospettiva finora delineata l'art. 37, comma 2, del regolamento di esecuzione del codice della navigazione va, dunque, interpretato sul piano sistematico nel senso che non ogni "provento" proveniente dalla gestione dei beni in concessione implica il venir meno del fine di pubblico interesse per cui il canone può essere fissato in misura ricognitoria. In tal senso, infatti, rileva la nozione di imprenditore di cui all'art. 2082 c.c. da intendersi in senso oggettivo, dovendosi riconoscere il carattere imprenditoriale all'attività economica organizzata che sia ricollegabile a un dato obiettivo inerente all'attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi, rimanendo giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, il quale riguarda il movente soggettivo che induce l'imprenditore ad esercitare la sua attività (Cassazione civile sez. I, 24 marzo 2014, n. 6835). L'acquisizione di proventi può invece considerarsi incompatibile con la finalità di interesse pubblico della concessione solo quando lo sfruttamento economico del compendio demaniale sia finalizzato ad un fine soggettivo di "lucro", e dunque per l'arricchimento personale. Sulla base delle considerazioni finora svolte, l'apparente antitesi ricavabile dall'art. 37, comma 2, del regolamento di esecuzione del codice della navigazione tra fine di interesse pubblico e ogni "lucro o provento" va quindi risolta con l'attribuzione a quest'ultima espressione del valore di un'endiadi, per cui i proventi ottenuti dalla gestione economica dei beni oggetto di concessione per finalità di pubblico interesse diviene incompatibile con la causa di quest'ultima se destinato a scopo di destinazione soggettiva del risultato netto della gestione, e dunque di lucro, anziché di devoluzione a finalità di interesse generale (Consiglio di Stato Sez. VII, 16 febbraio 2023, n. 1642). I.5.2. Con riguardo al caso in esame, la E-D. S.p.A. è una società di distribuzione di energia elettrica operante sul territorio italiano in ragione di una concessione che, pur attestandone l'indiscussa rilevanza sul piano del pubblico interesse, legittima l'esercizio di un'attività commerciale di imponenti dimensioni economiche, di per sé presuntivamente comprovanti la rispondenza dell'organizzazione societaria alle logiche del lucro soggettivo. E poiché, dunque, dalla documentazione offerta in comunicazione non può desumersi la prova (contraria) della gestione dell'attività secondo criteri di mera economicità sostanzialmente tendenti al c.d. lucro oggettivo, ossia alla mera copertura dei costi nel medio-lungo periodo (Cassazione civile sez. I, 24 marzo 2014, n. 6835), non può nella circostanza ritenersi sussistente la condizione prevista dall'art. 37 co.2 reg. esec. cod. nav. dell'assenza di lucro in senso soggettivo per l'applicazione del canone di riconoscimento. I.6. - Il rapporto tra il lucro escludente il canone ricognitorio e l'utilizzo dei beni demaniali in concessione. L'appellante sostiene che il profitto o provento escludente il beneficio in questione sia soltanto quello direttamente ritraibile dall'uso del bene demaniale e non anche quello conseguente dall'attività esercitata dal concessionario tramite l'uso del bene demaniale, come nella circostanza, posto che la redditività della sua attività dipenderebbe dalle tariffe pagate dagli utenti. Peraltro, siffatte tariffe sarebbero stabilite dall'ARERA e, quindi, l'utilizzo di un bene demaniale da parte del concessionario del servizio di distribuzione dell'energia elettrica sarebbe del tutto ininfluente sul procedimento di determinazione delle stesse. I.6.1. Il Collegio osserva che la strumentalità delle condutture e degli impianti di cui è titolare l'appellante per l'erogazione di un servizio pubblico essenziale, come detto, non è revocabile in dubbio, come anche la rilevanza delle relative aree demaniali all'uopo utilizzate. A pagina 13 e 14 dell'appello, infatti, si precisa che i cavi interrati, le linee in BT e MT e le cabine elettriche che E-D. S.p.A. gestisce all'interno delle aree del demanio marittimo oggetto di concessione sono destinate a garantire l'approvvigionamento energetico sia di utenze private, sia di edifici pubblici quali la Capitaneria di Porto, l'Università di Cagliari, gli Uffici della Regione, la sede Enav, la sede dei Vigili del Fuoco, gli uffici della Guardia di Finanza, del Genio Militare, dell'aeronautica Militare, del Comune e della stessa Autorità Portuale. Il che comprova la strumentalità delle aree demaniali concesse in uso per favorire l'esercizio di un'attività imprenditoriale di pubblico interesse contraddistinta da una certa redditività dipendente, contrariamente a quanto sostenuto dall'appellante, non soltanto dal servizio di distribuzione dell'energia elettrica complessivamente considerato, ma anche dallo sfruttamento dei beni demaniali utilizzati. Se, infatti, il bene demaniale è adoperato per collocare gli impianti di erogazione del servizio di fornitura dell'energia elettrica da cui dipende la redditività dell'attività economica esercitata dal concessionario, il bene stesso assolve rispetto a siffatta attività la medesima funzione strumentale degli impianti direttamente adoperati, palesandosi, quindi, un collegamento tra il possesso del bene demaniale ed il profitto o il provento scaturente dal servizio pubblico erogato. Non può, infatti, ritenersi ininfluente sul piano della redditività dell'attività esercitata dall'appellante l'ubicazione degli impianti strumentali all'erogazione del servizio di fornitura dell'energia elettrica su un'area demaniale o su un'area privata, incidendo la circostanza direttamente sui costi di gestione e, quindi, sul profitto derivante dall'attività esercitata. Non assume, dunque, portata dirimente la determinazione ad opera dell'ARERA della tariffa unica nazionale obbligatoria (pag. 18 dell'appello) e, quindi, l'irrilevanza a siffatti fini dell'allocazione degli impianti adoperati su un'area demaniale o privata, poiché quest'ultima circostanza incide direttamente sugli utili, potendone significativamente diminuire l'entità qualora i costi necessari per l'acquisizione dell'area da destinare all'ubicazione degli impianti e delle reti siano elevati. Appare, dunque, verosimile che la scelta dell'area all'uopo da utilizzare possa dipendere anche (sebbene non soltanto) da ragioni di economicità connesse al costo del canone da sostenere. Il che comprova, nella circostanza, la non estraneità dell'aspetto economico nella gestione tanto del bene demaniale concesso in uso, quanto dell'attività ivi esercitata, al punto cioè da indurre a ritenere connesso all'uso del bene demaniale l'utile ed i proventi scaturenti dall'attività predetta. Pertanto, il canone di "mero riconoscimento" non può essere applicato quando la ritrazione di utili o proventi dell'attività deriva in modo, indiretto e mediato che sia (ma pur sempre legato da un nesso di strumentalità necessaria), dall'impiego del bene demaniale (cfr. Cons Stato, sez. VI, 12 marzo 2012, n. 1399; Consiglio di Stato sez. VI, 10 aprile 2014, n. 1716). Donde, l'esclusione dei presupposti per l'applicazione del canone di mero riconoscimento del carattere demaniale del bene concesso in uso di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav. ed all'art. 37 co. 2 reg. esec. cod. nav., non potendosi ritenere la finalità di pubblico interesse perseguita dall'appellante, nella sua qualità di concessionaria delle aree demaniali in questione, assimilabile a quella caratterizzante la beneficenza. Come, infatti, precisato, l'art. 39 co. 2 cod. nav., dopo avere menzionato la beneficenza, utilizza la congiunzione disgiuntiva "o" per estendere il proprio ambito applicativo anche alle concessioni rilasciate "per altri fini di pubblico interesse" che condividano gli aspetti essenziali caratterizzanti la prima, al punto da sottintendersi un non espressamente richiamato requisito di omogeneità dell'interesse pubblico compatibile con la determinazione del canone nella ridotta misura in questione poi precisato nella norma regolamentare di cui all'art. 37 co.2 reg. esec. cod. nav., con conseguente incompatibilità con qualsivoglia sfruttamento economico diretto o indiretto del bene demaniale che determini in favore del concessionario un lucro in senso soggettivo. Il primo motivo di appello, pertanto, è infondato. II. - Il secondo motivo di appello. Con il secondo motivo si lamenta l'erroneità della decisione impugnata nella parte in cui non ha ritenuto fondata la censura dedotta in ordine all'illegittima determinazione di un canone minimo da parte dell'Autorità Portuale per carenza di potere. Secondo l'appellante, infatti, l'art. 13 della legge n. 84/1994 includerebbe tra le entrate delle Autorità di sistema portuale, per quanto di interesse in questa sede: a) i canoni di concessione delle aree demaniali e delle banchine comprese nell'ambito portuale di cui all'art. 18, ossia quelli concernenti le concessioni per l'espletamento delle operazioni portuali quali l'attività di carico, scarico, trasbordo, deposito, movimento merci svolte in ambito portuale; b) i proventi di autorizzazione per operazioni portuali di cui all'art. 16. E poiché l'appellante svolge attività di distribuzione di energia elettrica tramite gestione, per concessione ministeriale, delle reti elettriche pubbliche, i canoni dovuti per l'occupazione delle relative aree demaniali non potrebbero costituire oggetto di autonoma determinazione, dovendo, nella fattispecie, applicarsi la disciplina di cui al D.L. n. 400/1993 nella misura da ultimo confermata dall'art. 2 co. 7 D.M. 5 agosto 1998 n. 342, pari a un decimo dell'ammontare ordinario. Peraltro, l'art. 7 co. 3 D.L. 5 ottobre 1993, n. 400 espressamente esclude che l'adozione di autonomi criteri di determinazione delle misure dei canoni possa comportare la disapplicazione della disciplina prevista dall'art. 03 co.1 lett. i), (poi divenuta lettera d) a seguito delle modifiche apportate dall'art. 1 co. 251 della legge n. 296/2006) e co.2 del medesimo decreto, ossia "proprio le concessioni indicate al secondo comma dell'articolo 39 del codice della navigazione e all'articolo 37 del regolamento per l'esecuzione del codice della navigazione, di cui al d.P.R. 15.2.1952, n. 328 per le quali deve dunque ritenersi ferma ed inderogabile la riduzione del canone ordinario nella misura del 90 per cento" (pag. 22 dell'appello). Il provvedimento impugnato, inoltre, non considererebbe l'impatto economico del principio di diritto affermato che, se confermato, implicherebbe oneri cospicui per l'appellante in ragione della molteplicità di concessioni demaniali rilasciatele su tutto il territorio nazionale, in violazione dell'art. 4 L. n. 239/2004 secondo cui lo Stato e le Regioni, al fine di assicurare su tutto il territorio nazionale i livelli essenziali delle prestazioni concernenti l'energia nelle sue varie forme e in condizioni di omogeneità sia con riguardo alle modalità di fruizione sia con riguardo ai criteri di formazione delle tariffe e al conseguente impatto sulla formazione dei prezzi, garantiscono, tra l'altro, l'assenza di oneri di qualsiasi specie che abbiano effetti economici diretti o indiretti ricadenti al di fuori dell'ambito territoriale delle autorità che li prevedono. II.1. Il Collegio osserva che il provvedimento impugnato reca una motivazione apparentemente indicativa della volontà dell'Autorità Portuale di non disconoscere i presupposti per l'applicabilità dell'invocato art. 39 co.2 cod. nav. Sebbene, infatti, nella parte conclusiva della motivazione si affermi che "il canone demaniale in argomento è stato determinato nella misura del canone base con riduzione al 10per cento ai sensi dell'art. 39 c. 2 del Codice della Navigazione ma con valore minimo fissato dalla suddetta Delibera", il riferimento, tuttavia, alla delibera n. 243/04, di per sé, comporta la disapplicazione dell'art. 39 co. 2 cod. nav., ritenendo preminente sul canone di riconoscimento il canone minimo determinato dall'Autorità Portuale (la cui misura, come si è già osservato, risulta sensibilmente superiore a quella del canone di riconoscimento). Il giudice di primo grado, escludendo i presupposti per l'invocata applicazione dell'art. 39 co. 2 cod. nav., ha ritenuto legittima la determinazione nella misura minima stabilita con la predetta delibera del canone demaniale dovuto. Ma il motivo in esame pone a confronto due distinte discipline nella prospettiva di individuare quella in concreto applicabile in quanto unica in tal senso o in quanto preminente, comunque, sull'altra. L'appellante revoca, anzitutto, in dubbio il potere dell'Autorità Portuale di determinare un canone minimo. L'assunto è infondato se si considera il chiaro tenore testuale dell'art. 7 co. 1 D.L. 5 ottobre 1993, n. 400, convertito dall'articolo unico della legge 4 dicembre 1993, n. 494, secondo cui "Gli enti portuali potranno adottare, per concessioni demaniali marittime rientranti nel proprio ambito territoriale, criteri diversi da quelli indicati nel presente decreto, che comunque non comportino l'applicazione di canoni inferiori rispetto a quelli che deriverebbero dall'applicazione del decreto stesso". La richiamata disposizione normativa, ancora formalmente in vigore, attribuisce agli enti portuali in generale e, quindi, anche alle Autorità Portuali di Sistema successivamente istituite con la legge n. 84/1994, il potere di prevedere criteri di quantificazione dei canoni in misura superiore rispetto a quelli stabiliti dal predetto decreto legge in relazione alle concessioni demaniali marittime rientranti nell'ambito territoriale di siffatti Enti, senza distinguere a seconda delle funzioni o degli scopi caratterizzanti l'utilizzo dei beni demaniali affidati in uso ai concessionari. Sennonché, la disposizione dell'art. 7 co. 3 del D.L. citato esclude la possibilità per gli enti portuali di disapplicare la disciplina concernente la fattispecie di cui all'art. 3 co. 1 lett. d), ossia proprio quella concernente le concessioni di pubblico interesse beneficianti del c.d. canone di riconoscimento previsto dall'art. 39 co. 2 cod. nav.. Donde, l'illegittimità dell'impugnato provvedimento nella parte in cui, pur sembrando ammettere l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav., afferma la prevalenza del canone minimo sul c.d. canone di riconoscimento. Tuttavia, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado e come precisato in relazione al primo motivo di appello, non ricorrono i presupposti per l'applicabilità dell'art. 39 co. 2 cod. nav., da cui discende la correttezza del dispositivo del provvedimento impugnato, sebbene con motivazione diversa da quella adottata dal primo Giudice. Donde, l'insussistenza dei presupposti per pronunciare l'annullamento del provvedimento impugnato, essendo evidente dagli atti di causa che la decisione nell'occasione assunta dall'Amministrazione non avrebbe potuto e non potrebbe essere di segno diverso. Ed invero, quand'anche nella circostanza si accogliesse il motivo in esame, l'Autorità di Sistema Portuale dovrebbe rideterminare il canone dovuto, non applicando l'art. 39 co. 2 cod. nav. per le ragioni anzidette (ossia non perché il canone di riconoscimento sarebbe inferiore al canone minimo previsto nella richiamata delibera, ma poiché non sussisterebbero, a monte, i presupposti per ricondurre la concessione demaniale in questione nell'ambito delle c.d. concessioni per pubblico interesse di cui all'art. 39 co. 2 cod. nav. ed all'art. 37 reg. esec. cod. nav.). E poiché, quindi, il risultato finale scaturente in ragione dell'effetto conformativo conseguente all'eventuale annullamento del provvedimento impugnato sarebbe identico a quello in questa sede contestato, non potendo l'Autorità Portuale di Sistema riconoscere all'appellante il beneficio del canone ricognitorio del carattere demaniale del bene concesso in uso, il motivo è infondato come l'intero appello che, pertanto, deve essere respinto. III. - La peculiarità delle questioni di diritto esaminate e gli indirizzi giurisprudenziali non univoci espressi sul tema in esame giustificano l'integrale compensazione delle spese processuali del grado d'appello. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese processuali del grado di appello compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2023 con l'intervento dei magistrati: Claudio Contessa - Presidente Fabio Franconiero - Consigliere Daniela Di Carlo - Consigliere Maurizio Antonio Pasquale Francola - Consigliere, Estensore Marco Valentini - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ROSI Elisabetta - Presidente Dott. SOCCI Angelo Matteo - Consigliere Dott. GENTILI Andrea - rel. Consigliere Dott. DI STASI Antonella - Consigliere Dott. SEMERARO Luca - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nata a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la ordinanza n. 24/2022 del Tribunale di Sassari del 13 giugno 2022; letti gli atti di causa, ordinanza impugnata e i ricorsi introduttivi; sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GENTILI Andrea; sentito il PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. BALDI Fulvio, il quale ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi; sentito, altresi', per i ricorrenti l'avv. (OMISSIS), del foro di Sassari, anche in sostituzione dell'avv. (OMISSIS), del foro di Tempio Pausania, il quale ha insistito per l'accoglimento dei ricorsi. RITENUTO IN FATTO Il Tribunale di Sassari, agendo in qualita' di giudice dell'appello cautelare, ha rigettato la impugnazione che era stata proposta da (OMISSIS) e da (OMISSIS), indagati in ordine alla violazione della normativa urbanistica e paesaggistica per avere proceduto, secondo la accusa in assenza di un valido strumento autorizzatorio, alla realizzazione, previo abbattimento di un preesistente edificio, di un nuovo manufatto, avverso il provvedimento con il quale il Gip del Tribunale di Tempio Pausania aveva rigettato, su conforme parere del locale Pm, la istanza di revoca del provvedimento di sequestro preventivo dell'immobile in questione. Il Tribunale, pur avendo rilevato che doveva intendersi decaduta la provvisoria imputazione avente ad oggetto la commissione del reato paesaggistico per effetto della intervenuta verifica di compatibilita' paesaggistica rilasciata in data 29 novembre 2021, ha, tuttavia, osservato che non poteva, viceversa, ritenersi legittima la avvenuta sanatoria ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 36, in quanto il rilascio del relativo atto non era stato preceduto, ai fini della verifica della originaria conformita' agli strumenti urbanistici dell'immobile in questione, frutto della riedificazione di un preesistente edificio oggetto di demolizione quasi integrale, della valutazione di minor impatto ambientale che avrebbe dovuto caratterizzare, per essere legittima, la nuova edificazione, atteso che la stessa, realizzata in fascia costiera ed in zona H (cioe' di assoluta inedificabilita'), presentava una originaria difformita' di sagoma rispetto alla precedente costruzione. Hanno interposto ricorso per cassazione i due precedenti istanti, deducendo due motivi di impugnazione. Il primo, riguardante la violazione di legge, per avere il Tribunale ritenuto che la normativa relativa alla necessaria valutazione di impatto ambientale debba riguardare anche le opere di integrale ristrutturazione e non le sole opere del tutto nuove ricadenti entro i 300 metri dal litorale. La ordinanza impugnata sarebbe, altresi', viziata nella parte in cui in essa e' esclusa la legittimita' della sanatoria, collegata ad opere di ripristino; operazione che, invece, sarebbe, ad avviso del ricorrente, consentita nella Regione Sardegna. In ogni caso la valutazione di minor impatto ambientale sarebbe stata implicitamente fatta allorche' era stata imposta agli indagati la modifica della costruzione rispetto a come era stata originariamente realizzata (si tratta della avvenuta rimozione del tetto a falda). Con il secondo motivo di ricorso e' stata censurata la ordinanza per l'omessa motivazione in relazione alla avvenuta cessazione delle irregolarita' amministrative connesse all'edificazione che, seppure non avesse cagionato il venire meno della contravvenzione, avrebbe comunque dovuto fare venire meno il sequestro. CONSIDERATO IN DIRITTO I ricorsi sono risultati infondati e, pertanto, gli stessi debbono essere rigettati. Con riferimento al primo motivo di impugnazione, con il quale la ricorrente difesa lamenta la violazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 36, per non essere stata presa in considerazione la sanatoria edilizia emessa dal Comune Olbia ai sensi del combinato disposto della Legge Regionale Sardegna n. 23 del 1985, articolo 16 e Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 36, si osserva che tali disposizioni, la cui concreta applicazione e' soggetta al sindacato del giudice penale ai fini della estinzione del reato urbanistico (e, pertanto, anche ai fini della valutazione, rilevante nella presente fase procedimentale, della ricorrenza del fumus delitti), presuppongono, ai fini del rilascio della autorizzazione in sanatoria, che l'opera realizzata sia caratterizzata dalla cosiddetta "doppia conforme", cioe' alla conformita' agli strumenti edilizi vigenti del manufatto edificato sia al momento della sua realizzazione sia al momento in cui la autorizzazione, postumamente richiesta, venga rilasciata (in tale senso, cfr.: Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 12 novembre 2019, n. 45845). Nel caso di specie siffatta situazione non e' stata considerata ravvisabile, tanto che, come evidenziato nella ordinanza impugnata, l'autorizzazione in sanatoria era stata subordinata alla esecuzione di taluni interventi atti ad, apparentemente, ricondurre a legittimita' le opere; una tale operazione e', pero', fonte di vizio del provvedimento autorizzatorio, come segnalato dalla costante giurisprudenza di questa Corte, la quale ha evidenziato come sia illegittimo, e non tale da determina l'estinzione del reato edilizio di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44, lettera b), il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformita' agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria, collegabile alla gia' avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica (Corte di cassazione, Sezione 3 penale 15 ottobre 2020, n. 28666). Ne' vale sostenere, come invece ritenuto dalla difesa dei ricorrenti, che un tale principio non sarebbe applicabile sul territorio della Regione Sarda, trattandosi di Regione a statuto speciale, dotata di un particolare autonomia legislativa in tema di edilizia ed urbanistica; infatti, anche per tal genere di Regioni la giurisprudenza di questa Corte di e' espressa nel senso che in materia urbanistica, le disposizioni introdotte da leggi regionali devono rispettare i principi generali stabiliti dalla legislazione nazionale, e conseguentemente devono essere interpretate in modo da non collidere con i detti principi (fra le altre: Corte di cassazione, Sezione feriale, 12 ottobre 2018, n. 46500; Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 20 giugno 2017, n. 30657). Deve, pertanto, escludersi che, come invece fallacemente postulato dalla ricorrente difesa, sia consentito, per effetto della legislazione locale, nel territorio delle Regione Sardegna cio' che permesso non e' sull'intero restante territorio nazionale, cioe' che la sanatoria Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, ex articolo 36 sia soggetta a legittimo rilascio anche in relazione ad opere che - non soltanto non risultavano dotate di regolare assenso amministrativo al momento della loro realizzazione, ma - neppure erano originariamente conformi agli strumenti edilizi, divenendo tali solo nel corso del procedimento volto al rilascio della concessione in sanatoria. Al rigetto del primo motivo di impugnazione fa seguito, per logica conseguenza, anche la inammissibilita', per la sua manifesta infondatezza, del secondo motivo. Questo, infatti, poggia le sue basi sulla esistenza di un provvedimento di sanatoria edilizia che, come detto, non appare, quanto meno in relazione agli ambiti conoscitivi propri della presente fase cautelare, dotato di alcuna efficacia scriminante della condotta dei ricorrenti proprio perche' privo di legittimita' - valutata incidentalmente nel procedimento ora in esame dal giudice penale - sotto il profilo della azione amministrativa con esso esercitata in evidente violazione di legge. Al rigetto del ricorso fa seguito, visto l'articolo 616 c.p.p., la condanna dei due ricorrenti al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ANDREAZZA Gastone - Presidente Dott. PAZIENZA Vittorio - Consigliere Dott. SEMERARO Luca - Consigliere Dott. REYNAUD Gianni Filippo - Consigliere Dott. CORBO Antonio - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sui ricorsi proposti da: 1. (OMISSIS), nato a (OMISSIS); 2. (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 01/03/2022 della Corte d'appello di Roma; visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal consigliere Antonio Corbo; udito il Pubblico Ministero in persona dell'Avvocato generale (OMISSIS), che ha concluso per l'inammissibilita' dei ricorsi; udito, per il ricorrente (OMISSIS), l'avvocato (OMISSIS), che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza emessa il 1 marzo 2022, la Corte d'appello di Roma, in parziale riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Roma, per quanto di interesse in questa sede, ha: -) confermato nei confronti di (OMISSIS), la dichiarazione di non doversi procedere per estinzione per prescrizione del reato di cui alla L. n. 195 del 1974, articolo 7, commi 2 e 3, e L. n. 689 del 1981, articolo 4, comma 1, fino al 10 luglio 2009 (capo B); -) dichiarato nei confronti del medesimo (OMISSIS), di non doversi procedere per estinzione per prescrizione del reato di cui alla L. n. 195 del 1974, articolo 7, commi 2 e 3, e L. n. 689 del 1981, articolo 4, comma 1, per i fatti successivi al 10 luglio 2009 (ancora capo B), in riforma della sentenza di condanna in primo grado; -) confermato nei confronti di (OMISSIS), la dichiarazione di estinzione per prescrizione del reato di cui all'articolo 323 c.p. (capo G). Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito: -) (OMISSIS), avrebbe commesso fatti sussumibili nella fattispecie di finanziamento illecito per aver percepito la somma di 800.000,00 Euro, versata in piu' rate, corrisposte tra il (OMISSIS), allorche' egli era membro del Parlamento in carica, mediante erogazioni formalmente effettuate in favore della " (OMISSIS) s.p.a.", di cui era l'effettivo dominus, sulla base di contratti simulati e privi di causa, con fondi provenienti dal patrimonio delle societa' " (OMISSIS) s.r.l.", " (OMISSIS) s.r.l.", " (OMISSIS) s.r.l." e " (OMISSIS) s.r.l.", in difetto di deliberazione dell'organo societario e di regolare iscrizione dei contributi nel bilancio delle societa' concedenti; -) (OMISSIS), avrebbe commesso fatti sussumibili nella fattispecie di abuso d'ufficio per avere, nella qualita' di presidente della Giunta regionale della Sardegna, concorso a deliberare la nomina di (OMISSIS), alla carica di direttore generale dell'ARPA Sardegna, senza alcuna effettiva valutazione di merito comparativa, in violazione, in particolare, dell'articolo 10 della legge reg. Sardegna n. 6 del 2006, prevedente, per tale nomina, l'adozione di una procedura ad evidenza pubblica. 2. Hanno presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe (OMISSIS), con atto a firma degli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), e (OMISSIS), con atto a firma dell'avvocato - (OMISSIS). 3. Il ricorso di (OMISSIS) e' articolato in due motivi. 3.1. Con il primo motivo, si denuncia erronea applicazione della legge penale, in riferimento alla L. n. 195 del 1974, articolo 7, e L. n. 659 del 1981, articolo 4, a norma dell'articolo 606, comma 1, lettera b), c.p.p., avuto riguardo alla mancata assoluzione dell'imputato perche' il fatto non e' previsto dalla legge come reato. Si deduce, in primo luogo, che la Corte di appello ha applicato illegittimamente la disposizione di cui alla L. n. 195 del 1974, articolo 7, in quanto, per la configurabilita' di tale reato, i finanziamenti debbono essere devoluti a partiti politici o a loro articolazioni politico-organizzative, mentre la " (OMISSIS) s.p.a.", soggetto beneficiario dei contributi, non e' assimilabile ad un'organizzazione politica, e pertanto l'eventuale estensione della portata applicativa di tale previsione incriminatrice darebbe vita ad un'analogia in malam partem, vietata nell'ordinamento penalistico. Si rileva, inoltre, che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto il finanziamento effettuato a favore della " (OMISSIS) s.p.a." produttivo di un ingiusto vantaggio patrimoniale per il ricorrente, nella sua qualita' di socio e dominus dell'impresa, in quanto il medesimo, dalla sua partecipazione alla indicata societa', ha ricavato solo debiti che lo hanno costretto a rilasciare la sua fideiussione per compensare le perdite societarie. Si deduce, in secondo luogo, che la Corte di appello ha fatto un'applicazione errata anche della norma di cui alla L. n. 659 del 1981, articolo 4, il cui comma 6, letto in combinato disposto con dalla L. n. 689 del 1981, articolo 32, rende evidente che il contributo erogato al singolo parlamentare non integra un fatto previsto dalla legge come reato, ma solo un illecito amministrativo. Si osserva, inoltre, che, secondo la stessa sentenza impugnata, il ricorrente avrebbe beneficiato della somma ricevuta in qualita' di socio e dominus della " (OMISSIS) s.p.a.", non, quindi, quale membro della Camera dei deputati. 3.2. Con il secondo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), avuto riguardo alla omessa motivazione circa la consapevolezza, da parte dell'attuale ricorrente, della provenienza del contributo da societa' e del difetto delle necessarie deliberazioni degli organi sociali di queste ultime. Si deduce che la sentenza impugnata in motivazione si e' concentrata esclusivamente sulla destinazione del contributo economico contestato, omettendo di confrontarsi con le censure formulate con l'atto di appello, le quali rilevavano l'assenza di prova circa la conoscenza da parte del ricorrente delle modalita' con cui il denaro sarebbe stato procurato alla " (OMISSIS) s.p.a.". Si aggiunge che la sentenza impugnata ha anche omesso di motivare in merito al motivo di gravame evidenziante il difetto di conoscenza, da parte dei titolari delle societa' le quali avevano erogato le somme pervenute alla " (OMISSIS) s.p.a.", sulla destinazione delle stesse in favore di (OMISSIS) o di enti a questo collegati. Si richiamano, in particolare, le deposizioni di due testimoni a dibattimento, dalle quali si evince che i titolari delle societa' da cui provenivano le somme ritenute costituire l'oggetto del finanziamento illecito, avevano erogato in favore di (OMISSIS), 7.250.000,00 Euro nella convinzione che tale somma fosse destinata ad un progetto eolico da sviluppare in Sardegna, senza immaginare che una parte di quel denaro sarebbe stata destinata alla " (OMISSIS) s.p.a.". 4. Il ricorso di (OMISSIS), e' articolato in tre motivi. 4.1. Con il primo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), avuto riguardo alla affermazione di sussistenza del fatto ascritto all'attuale ricorrente. Si deduce che illegittimamente la Corte di appello ha omesso di rispondere al motivo di gravame con cui erano stati evidenziati la mancata violazione da parte dell'imputato dell'articolo 10 legge Regione Sardegna n. 6 del 2006, nonche' il rigoroso rispetto della disciplina normativa che regolava il procedimento di nomina del direttore generale dell'ARPA Sardegna. Si segnala che questo procedimento, come gia' rappresentato con l'atto di appello, era costituito da: -) una prima fase, ad evidenza pubblica, gestita da una commissione composta da dirigenti e funzionari pubblici con il compito di esaminare i titoli dei candidati al fine di formare un elenco di soggetti in possesso dei requisiti per essere scelti dalla Giunta regionale per lo specifico incarico di direttore generale; -) una seconda fase nella quale la Giunta Regionale procedeva alla "scelta" del soggetto ritenuto piu' idoneo tra i candidati inseriti nell'elenco. Si sottolinea che il vocabolo "scelto", impiegato dall'articolo 10, comma 2, legge reg. Sardegna n. 6 del 2006 esclude il dovere di individuare il nominando sulla base di "criteri oggettivi"; l'unico vincolo attiene alla necessita' di selezionare il nominando tra le persone incluse nell'elenco formato dalla commissione tecnica. Si precisa che la persona "scelta", l'ingegnere (OMISSIS), era in possesso di tutti i requisiti richiesti dalla legge, avendo anche ricoperto l'incarico di direttore dell'ARPA in sede provinciale, e che avverso la nomina non e' stata proposta alcuna impugnazione. Si aggiunge che una conferma della natura fiduciaria della scelta relativa al direttore generale dell'ARPA Sardegna e' inferibile dalla previsione della conferma o revoca della persona preposta a tale incarico entro i tre mesi successivi all'insediamento di una nuova Giunta Regionale, a norma del combinato disposto dell'articolo 10, comma 8, legge reg. Sardegna n. 6 del 2006 e 28, comma 9, legge reg. Sardegna n. 31 del 1998. 4.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in relazione agli articoli 323 c.p. e 192 c.p.p., nonche' vizio di motivazione, a norma dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), avendo riguardo alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di abuso di ufficio. Si deduce che difettano sia la prova concernente l'elemento dell'ingiustizia dell'evento o del vantaggio, sia la prova del dolo intenzionale. In particolare, si osserva che l'ingiustizia del vantaggio del reato di abuso d'ufficio non si identifica nell'ingiustizia della condotta (si citano Sez. 6, n. 10133 del 17/02/2015, Scassellati, Rv. 262800-01, e Sez. 6, n. 17676 del 18/03/2016, Florio, Rv. 267171-01), e che, nella specie, la persona nominata, l'ingegner (OMISSIS), era persona altamente qualificata. 4.3. Con il terzo motivo, si denuncia vizio di violazione di legge, in relazione all' articolo 2, comma 2, e articolo 323 c.p., a norma dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b), avendo riguardo al mancato rispetto della disciplina in tema di successione nel tempo di leggi penali. Si deduce che, a seguito della modifica introdotta dall'articolo 23 Decreto Legge 16 luglio 2020, n. 76, e' stato ristretto l'ambito applicativo dell'articolo 323 c.p., determinando una parziale abolitio criminis in relazione alle condotte commesse prima dell'entrata in vigore della riforma, realizzate mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che lascino residuare margini di discrezionalita' (si cita Sez. 6, n. 442 del 09/12/2020, dep. 2021, Garau, Rv. 280296-01). Si rileva che la norma della legge regionale che si assume violata e' stata frutto di numerose interpretazioni, anche da parte della stessa Corte di appello di Roma, ed e' pertanto da considerare fonte di una disciplina su cui residuano margini di discrezionalita'. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono nel complesso infondati per le ragioni di seguito precisate. 2. Il ricorso di (OMISSIS) e' infondato con riferimento alle censure formulate nel primo motivo ed inammissibile relativamente alle censure esposte nel secondo motivo. 3. Complessivamente infondate sono le censure enunciate nel primo motivo del ricorso di (OMISSIS), le quali contestano la configurabilita' del reato di ricezione di finanziamenti illeciti, deducendo che la L. 2 maggio 1974, n. 195, articolo 7, sanziona penalmente solo le erogazioni devolute a partiti politici o a loro articolazioni politico-organizzative, mentre della L. 18 novembre 1981, n. 659, articolo 4, relativo alle erogazioni alle persone fisiche, tipizza un mero illecito amministrativo, e che inoltre, il ricorrente, in concreto, non ha ricevuto vantaggi dal versamento, o comunque li ha ricevuti come dominus di una societa' privata. 4. Il primo ordine dei rilievi formulati nel primo motivo del ricorso di (OMISSIS), in sostanza, si fonda sull'assunto secondo cui le erogazioni dei soggetti di cui alla L. n. 195 del 1974, articolo 7, tra cui, come nella specie, le societa' private, in favore delle persone fisiche indicate della legge n. 659 del 1981, articolo 4, comma 1, costituiscono mero illecito amministrativo, perche' vietate dal solo articolo 4 della L. n. 659 del 1981, depenalizzato a norma della L. 24 novembre 1981, n. 689, articolo 32. 4.1. Puo' essere utile, per maggiore chiarezza, riportare i dati normativi. La L. n. 195 del 1974, articolo 7, nel testo vigente, dispone: "Sono vietati i finanziamenti o i contributi, sotto qualsiasi forma e in qualsiasi modo erogati, da parte di organi della pubblica amministrazione, di enti pubblici, di societa' con partecipazione di capitale pubblico superiore al 20 per cento o di societa' controllate da queste ultime, ferma restando la loro natura privatistica, a favore di partiti o loro articolazioni politico-organizzative e di gruppi parlamentari. Sono vietati altresi' i finanziamenti o i contributi sotto qualsiasi forma, diretta o indiretta, da parte di societa' non comprese tra quelle previste nel comma precedente in favore di partiti o loro articolazioni politico-organizzative o gruppi parlamentari, salvo che tali finanziamenti o contributi siano stati deliberati dallo organo sociale competente e regolarmente iscritti in bilancio e sempre che non siano comunque vietati dalla legge. Chiunque corrisponde o riceve contributi in violazione dei divieti previsti nei commi precedenti, ovvero, trattandosi delle societa' di cui al comma 2, senza che sia intervenuta la deliberazione dell'organo societario o senza che il contributo o il finanziamento siano stati regolarmente iscritti nel bilancio della societa' stessa, e' punito, per cio' solo, con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e con la multa fino al triplo delle somme versate in violazione della presente legge". La L. n. 659 del 1981, articolo 4, nel testo vigente, statuisce: "I divieti previsti dalla L. 2 maggio 1974, n. 195, articolo 7, sono estesi ai finanziamenti ed ai contributi in qualsiasi forma o modo erogati, anche indirettamente, ai membri del Parlamento nazionale, ai membri italiani del Parlamento Europeo, ai consiglieri regionali, provinciali e comunali, ai candidati alle predette cariche, ai raggruppamenti interni dei partiti politici nonche' a coloro che rivestono cariche di presidenza, di segreteria e di direzione politica e amministrativa a livello regionale, provinciale e comunale nei partiti politici. Nel caso di contributi erogati a favore di partiti o loro articolazioni politico-organizzative e di gruppi parlamentari in violazione, accertata con sentenza passata in giudicato, dei divieti previsti dall'articolo 7 della L. 2 maggio 1974, n. 195, l'importo del contributo statale di cui all'articolo 3 della stessa legge e' decurtato in misura pari al doppio delle somme illegittimamente percepite. Nel caso di erogazione di finanziamenti o contributi ai soggetti indicati nella L. 2 maggio 1974, n. 195, articolo 7, e nel comma 1 del presente articolo, per un importo che nell'anno superi i cinque milioni di lire, sotto qualsiasi forma, compresa la messa a disposizione di servizi, il soggetto che li eroga ed il soggetto che li riceve sono tenuti a farne dichiarazione congiunta, sottoscrivendo un unico documento, depositato presso la Presidenza della Camera dei deputati ovvero a questa indirizzato con raccomandata con avviso di ricevimento. La disposizione non si applica per tutti i finanziamenti direttamente concessi da istituti di credito o da aziende bancarie, alle condizioni fissate dagli accordi interbancari. Nell'ipotesi di contributi o finanziamenti di provenienza estera l'obbligo della dichiarazione e' posto a carico del solo soggetto che li percepisce. L'obbligo di cui al terzo e comma 4 deve essere adempiuto entro tre mesi dalla percezione del contributo o finanziamento. Nel caso di contributi o finanziamenti erogati dallo stesso soggetto, che soltanto nella loro somma annuale superino l'ammontare predetto, l'obbligo deve essere adempiuto entro il mese di marzo dell'anno successivo. Chiunque non adempie gli obblighi di cui al terzo, quarto e comma 5 ovvero dichiara somme o valori inferiori al vero e' punito con la multa da due a sei volte l'ammontare non dichiarato e con la pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici prevista dall'articolo 28 c.p., comma 3. 4.2. Nell'esaminare il significato e i rapporti tra le due disposizioni, la giurisprudenza, gia' da lungo tempo, ha chiarito che la sanzione amministrativa prevista dalla L. n. 659 del 1981, articolo 4, comma 6, in relazione alla L. 24 novembre 1981, n. 689, articolo 32, comma 1, la quale punisce l'inadempimento dell'obbligo, da parte del soggetto che eroga il finanziamento e del soggetto che li riceve, di farne dichiarazione congiunta, sottoscrivendo un unico documento, depositato presso la Presidenza della Camera dei deputati ovvero a questa indirizzata con raccomandata con avviso di ricevimento, non vale a rendere inoperante il disposto dalla L. n. 195 del 1974, articolo 7, comma 3. A fondamento di questa conclusione, si e' segnalato che, mentre della L. n. 659 del 1981, articolo 4, comma 6, si riferisce esclusivamente a contributi erogati dalle societa' di cui alla L. n. 195 del 1974, articolo 7, comma 2, (oltre che da altre figure soggettive) regolarmente deliberati ed iscritti in bilancio e in cui manchi soltanto la dichiarazione congiunta (in caso contrario, la previsione normativa farebbe carico all'erogante ed al percipiente di un obbligo di denuncia di un fatto costituente reato), la norma della Legge del 1974 riguarda proprio la violazione di quei precetti posti a tutela della trasparenza e che giustifica un regime esclusivo per le societa', rispetto alle quali soltanto hanno motivo di porsi sia la delibera assembleare sia l'iscrizione in bilancio (cosi', segnatamente, Sez. 6, n. 12729 del 17/10/1994, Armanini, Rv. 199994-01, nonche' Sez. 6, n. 9354 del 19/09/1997, Paolucci, Rv. 210302-01, ma anche, in motivazione, Sez. 5, n. 10041 del 13/06/1998, Altissimo, massimata per altro, nonche', di recente, Sez. 5, 25251 del 12/02/2021, Corona, non massimata). E la configurabilita' del reato di cui al combinato disposto della L. n. 195 del 1974, articolo 7 e della L. n. 659 del 1981, articolo 4, con riferimento ai finanziamenti o contributi erogati alle persone fisiche indicate dalla L. n. 659 del 1981, articolo 4, comma 1, da parte degli enti e societa' di cui alla L. n. 195 del 1974, articolo 7, commi 1 e 2, non risulta essere mai stata messa in discussione dalla successiva giurisprudenza fino alle pronunce piu' recenti. Si pensi, ad esempio, alle decisioni riguardanti somme versate al candidato alla carica di sindaco di un Comune (Sez. 6, n. 16781 del 21/10/2021), ovvero al membro del Parlamento e segretario di un partito politico (Sez. 6, n. 37624 del 14/06/2019, Naro, Rv. 277199-01), ovvero al consigliere provinciale candidato al Parlamento nazionale (Sez. 3, n. 38009 del 11/06/2013, Vindimian, Rv. 256854-01). 4.3. Gli approdi della giurisprudenza in argomento risultano, ad avviso del Collegio, condivisibili. 4.3.1. Innanzitutto, non sembra configurabile un rapporto di specialita' tra le due fattispecie, quella di cui al combinato disposto della L. n. 195 del 1974 articolo 7 e della L. n. 659 del 1981, articolo 4, comma 1, e quella di cui alla L. n. 659 del 1981, articolo 4, comma 6, perche' i fatti da esse previsti appaiono diversi nella loro conformazione strutturale. In effetti, come ripetutamente osservato in giurisprudenza, il criterio di specialita' ex articolo 15, c.p., richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme puo' ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle (cfr., per tutte, Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248864-01, nonche', di recente, Sez. 3, n. 3241 del 11/10/2022, dep. 2023, C., in corso di massimazione, la quale ha precisato che sussiste relazione di continenza tra due norme solo nel caso in cui sia possibile sostenere, a seguito del raffronto tra norme stesse, che per realizzare la fattispecie astratta prevista da una delle due previsioni evocate dal fatto sia sempre necessario passare per la realizzazione della fattispecie prevista dall'altra, l'una contenendo l'altra, con in piu' un elemento specializzante). Ora, il fatto contemplato dal combinato disposto della L. n. 659 del 1981, articolo 4, comma 1, e della L. n. 195 del 1974, articolo 7, ha ad oggetto i finanziamenti erogati da organi della pubblica amministrazione, da enti pubblici, da societa' con partecipazione di capitale pubblico superiore al 20 per cento o di societa' controllate da queste ultime, ovvero da societa' diverse da quelle appena indicate le quali non ne abbiano deliberato la corresponsione con delibera dell'organo sociale competente o non li abbiano regolarmente iscritti in bilancio, sia a partiti politici, loro organizzazioni politico-organizzative e gruppi parlamentari, sia, "anche indirettamente, ai membri del Parlamento nazionale, ai membri italiani del Parlamento Europeo, ai consiglieri regionali, provinciali e comunali, ai candidati alle predette cariche, ai raggruppamenti interni dei partiti politici nonche' a coloro che rivestono cariche di presidenza, di segreteria e di direzione politica e amministrativa a livello regionale, provinciale e comunale nei partiti politici". Il fatto contemplato dalla L. n. 659 del 1981, articolo 4, comma 6, invece, ha ad oggetto la violazione degli obblighi concernenti la presentazione di una dichiarazione congiunta del soggetto erogante e del soggetto ricevente da depositare o indirizzare alla Presidenza della Camera dei deputati, da adempiere "entro tre mesi dalla percezione del contributo o finanziamento", e in relazione a qualunque erogazione, "per un importo che nell'anno superi i cinque milioni di lire", da chiunque effettuata, anche se proveniente da una persona fisica o da una societa' la quale la abbia regolarmente deliberata e ne abbia dato conto in bilancio. 4.3.2. Sotto altro profilo, poi, viene in rilievo un ulteriore argomento di natura sistematica. Invero, come gia' osservato dalla giurisprudenza, l'obbligo di dichiarazione congiunta a carico del soggetto erogante e del soggetto ricevente i finanziamenti alla Presidenza della Camera puo' riguardare solo contributi diversi da quelli previsti della L. n. 195 del 1974, articolo 7, perche', in caso contrario, si risolverebbe in un dovere di auto-denuncia. 4.3.3. Puo' quindi concludersi, per quanto di specifico interesse in questa sede, che le condotte di erogazione e di ricezione di finanziamenti e contributi in qualsiasi forma o modo corrisposti da societa' senza partecipazione di capitale pubblico superiore al 20 per cento o non controllate da queste ultime, "anche indirettamente, ai membri del Parlamento nazionale, ai membri italiani del Parlamento Europeo, ai consiglieri regionali, provinciali e comunali, ai candidati alle predette cariche, ai raggruppamenti interni dei partiti politici nonche' a coloro che rivestono cariche di presidenza, di segreteria e di direzione politica e amministrativa a livello regionale, provinciale e comunale nei partiti politici", costituiscono reato punito con le sanzioni previste dalla L. n. 195 del 1974, articolo 7, comma 3, quando gli indicati finanziamenti o contributi non sono stati deliberati dall'organo sociale competente o non sono stati regolarmente iscritti in bilancio. 5. Posto che le erogazioni dei soggetti di cui alla L. n. 195 del 1974, articolo 7, effettuate, "anche indirettamente", ai membri del Parlamento nazionale costituiscono illecito penale, pure il secondo ordine di rilievi formulati nel primo motivo del ricorso di Densi (OMISSIS), concernente l'omessa ricezione di vantaggi da parte del ricorrente, o comunque la loro ricezione nella qualita' di dominus di una societa' privata, e non di membro del Parlamento, risulta infondato. 5.1. La sentenza impugnata osserva che, pur volendo riconoscere che la somma di denaro erogata da societa' private sia rimasta nella disponibilita' delle casse sociali della " (OMISSIS) s.p.a.", questa somma ha comunque aumentato il patrimonio sociale di tale impresa e ha determinato un vantaggio patrimoniale anche in favore di (OMISSIS), in quanto socio di maggioranza e dominus della precisata societa', oltre che fideiussore personale per la stessa. Per completezza, la vicenda, come descritta dalla Corte d'appello, e' la seguente: -) con contratto preliminare stipulato in data 8 settembre 2004, (OMISSIS) ed altro soggetto si erano impegnati a cedere alla " (OMISSIS) s.p.a." la loro quota in "NTE s.r.l.", pari al 20 % del capitale di questa seconda impresa, oltre ad altre quote che si impegnavano ad acquistare da altri soci, e ricevevano in cambio dalla " (OMISSIS) s.p.a." la somma pattuita di 800.000,00 Euro; -) successivamente, e per cinque anni, (OMISSIS) e l'altro promittente venditore non avevano ottemperato all'obbligo di cedere le quote, ma mai nessuna azione era stata intrapresa dalla " (OMISSIS) s.p.a." per ottenere l'adempimento o la restituzione delle somme versate; -) in data 5 giugno 2009, la " (OMISSIS) s.p.a." aveva stipulato una scrittura privata con cui cedeva ad altri soggetti la propria posizione contrattuale relativa al contratto preliminare dell'otto settembre 2004, e in esecuzione di tale contratto del 5 giugno 2009, aveva ricevuto la somma di Euro 800.000,00 in piu' rate con versamenti effettuati su un conto corrente della " (OMISSIS) s.p.a." acceso presso il (OMISSIS) di cui era presidente e dominus (OMISSIS); -) la somma di Euro 800.000,00 pervenuta alla " (OMISSIS) s.p.a." in esecuzione del contratto del 5 giugno 2009 proveniva, per il tramite di (OMISSIS), dalle societa' " (OMISSIS) s.r.l.", " (OMISSIS) s.r.l.", " (OMISSIS) s.r.l." e " (OMISSIS) s.r.l.", in difetto di deliberazione dell'organo societario e di regolare iscrizione dei contributi nel bilancio delle societa' concedenti. 5.2. L'affermazione della Corte d'appello, secondo cui l'erogazione di finanziamenti per l'importo di 800.000,00 Euro alla " (OMISSIS) s.p.a.", cosi' da aumentarne il patrimonio sociale, ha determinato un vantaggio patrimoniale anche in favore di (OMISSIS), in quanto socio di maggioranza e dominus della societa', oltre che fideiussore personale per la stessa, integra gli estremi della fattispecie di cui al combinato disposto della articolo 4, comma 1, L. n. 659 del 1981 e dell'articolo 7 L. n. 195 del 1974, e' corretta. Secondo quanto precisato dalla L. n. 659 del 1981articolo 4, comma 1, la fattispecie di reato prevista dal combinato disposto tra essa e l'articolo 7 cit. riguarda i finanziamenti e i contributi "in qualsiasi forma o modo erogati, anche indirettamente, ai membri del Parlamento nazionale (...)". E l'indicazione secondo cui il versamento dell'importo di 800.000,00 Euro alla " (OMISSIS) s.p.a." deve ritenersi diretta anche a favore di (OMISSIS), in quanto socio di maggioranza e dominus della societa', oltre che fideiussore personale per la stessa, equivale esattamente ad affermare che l'operazione costituisce erogazione di contributi "in qualsiasi forma o modo erogati, anche indirettamente," ad un membro del Parlamento nazionale. Ne' tale valutazione e' contestabile in questa sede sotto il profilo della ricostruzione del fatto, anche laddove si afferma che il versamento delle somme indicate ha costituito una erogazione anche in favore di (OMISSIS), in quanto il reato e' ormai estinto per prescrizione, come gia' dichiarato in parte dal Tribunale, e per la parte residua dalla Corte d'appello, e non essendo pendenti questioni concernenti l'azione civile o la confisca. Invero, secondo un principio ampiamente consolidato in giurisprudenza, ed enunciato anche dalle Sezioni Unite, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimita' vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (cfr. Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275-01). 5.3. Ancora, non e' risolutivo il rilievo secondo cui l'attuale ricorrente avrebbe beneficiato dell'erogazione non quale membro del Parlamento, ma quale socio e dominus della " (OMISSIS) s.p.a.". In proposito, infatti, risulta dirimente osservare che la fattispecie di cui al combinato disposto della L. n. 659 del 1981, articolo 4, comma 1, e della L. n. 195 del 1974, articolo 7, non attribuisce rilievo alle ragioni per le quali vengono erogate le somme, ma alla sola qualita' soggettiva del ricevente, senza prevedere alcuna connessione funzionale tra la dazione e tale qualita'. L'articolo 4, primo comma, cit., infatti, precisa, con formula estremamente ampia, che il divieto concerne i finanziamenti e i contributi "in qualsiasi forma o modo erogati, anche indirettamente, ai membri del Parlamento nazionale (...)". Questa soluzione ermeneutica, inoltre, appare pienamente coerente con l'interesse tutelato dalla fattispecie. In particolare, relativamente all'ipotesi di erogazioni non deliberate dall'organo sociale competente o non regolarmente iscritte in bilancio, come nel caso di specie, si e' piu' volte rilevato in giurisprudenza che, "(c)on la fattispecie di finanziamento societario occulto, il legislatore ha (...) inteso tutelare la trasparenza delle fonti di finanziamento dei partiti politici a garanzia di un corretto esercizio del potere sovrano di concorrere a determinare la politica nazionale; la ratio della fattispecie e', dunque, ravvisabile nell'interesse dei cittadini a conoscere i reali rapporti tra i detentori del potere economico e i partiti o i singoli membri del Parlamento" (cfr., tra le tante, Sez. 6, n. 11835 del 08/02/2022, Carrai, massimata per altro, e Sez. 2, n. 14791 del 21/03/2000, Martelli, Rv. 224139-01). Ora, se il divieto penalmente sanzionato e' diretto a tutelare l'interesse dei cittadini a conoscere i reali rapporti tra i detentori del potere economico e anche i singoli membri del Parlamento, l'esigenza in questione risulta immutata indipendentemente dalla causale dell'erogazione: cio' che conta e' che la dazione e' stata occultata, e che, quindi, non e' stata resa conoscibile l'esistenza del rapporto economico tra il singolo membro del Parlamento e colui che gli corrisponde i finanziamenti o i contributi. 6. Le censure enunciate nel secondo motivo del ricorso di (OMISSIS) contestano l'omesso esame delle censure formulate nell'atto di appello con riguardo al difetto di prova in ordine alla consapevolezza sia dell'attuale ricorrente circa la provenienza del denaro da societa' private le quali avevano effettuato le erogazioni in violazione degli obblighi previsti dal combinato disposto della L. n. 659 del 1981, articolo 4, comma 1, e della L. n. 195 del 1974, articolo 7 sia dei titolari delle societa' di erogare contributi ad un membro del Parlamento nazionale. Secondo quanto espressamente puntualizzato dalla Corte d'appello, "non puo' ritenersi provata la mancanza della consapevolezza in capo all'imputato (OMISSIS), della provenienza del denaro secondo i meccanismi sopra descritti, atteso che dalle risultanze istruttorie acquisite e' emerso che il (OMISSIS) avesse sempre comunicato con i suoi interlocutori e fosse sempre stato tenuto al corrente dei passaggi formali e delle operazioni compiute". La ricostruzione fattuale appena indicata non puo' essere censurata in questa sede, attesa l'intervenuta estinzione del reato per cui si procede per prescrizione, Invero, come gia' osservato in precedenza, al § 5.2, secondo un principio ampiamente consolidato in giurisprudenza, ed enunciato anche dalle Sezioni Unite, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimita' vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (cfr. Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275-01). Deve inoltre aggiungersi che, ai fini della configurabilita' della fattispecie contestata nei confronti del "ricevente", e' irrilevante accertare la consapevolezza dei titolari delle societa' di erogare contributi ad un membro del Parlamento nazionale, perche', come piu' volte ribadito dalla giurisprudenza, la struttura del reato di cui alla L. n. 195 del 1974, articolo 7, non richiede la concorrente consapevolezza dell'erogatore e del percettore dell'illiceita' del finanziamento, attese all'autonomia della responsabilita' dei soggetti (cfr., in proposito: Sez. 6, n. 41768 del 22/06/2017, Fitto, Rv. 271282-01; Sez. 3, n. 2378 del 21/06/1996, Vizzini, Rv. 205805-01; Sez. 3, n. 5611 del 17/04/1996, Albanese, Rv. 20547201; Sez. 6, n. 5531 del 27/03/1996, Spisani, Rv. 205011-01; Sez. 6, n. 12729 del 17/10/1994, Armanini, Rv. 199995-01). 7. Il ricorso di (OMISSIS), e' infondato con riferimento alle censure formulate in tutti e tre i motivi del ricorso. 8. Infondate sono le censure enunciate nel primo e nel terzo motivo del ricorso di (OMISSIS), da esaminare congiuntamente, perche' tra loro strettamente connesse, le quali contestano la configurabilita' del reato di abuso di ufficio, anche in applicazione della nuova disciplina della fattispecie di cui al articolo 323 c.p., recata dal Decreto Legge 16 luglio 2020, n. 76, articolo 23, deducendo che la condotta, costituita dall'adozione dell'atto di nomina del direttore generale dell'ARPA Sardegna, non integra una violazione di legge puntuale, o comunque e' stata espressione di esercizio di discrezionalita' amministrativa, in quanto si trattava di una scelta rimessa ad una insindacabile valutazione della Giunta regionale, in ragione di quanto previsto, in particolare, dagli articoli 10 legge reg. Sardegna n. 6 del 2000, e 28 legge reg. Sardegna n. 31 del 1998. 8.1. Occorre premettere che, come osserva il ricorrente, le censure relative alla configurabilita' di una fattispecie sussumibile nel tipo previsto dall'articolo 323 c.p. debbono essere valutate alla luce della formulazione della disposizione appena indicata come risultante per effetto della riforma recata dall'articolo 23 Decreto Legge 16 luglio 2020, n. 76. Invero, la nuova disciplina e' sicuramente piu' favorevole all'imputato, perche' fissa in termini piu' specifici e "ristretti" la condotta penalmente rilevante, ed e' quindi applicabile a norma dell'articolo 2 c.p., comma 4. Infatti, mentre la precedente formulazione dell'articolo 323 c.p. sanzionava il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che agiva "in violazione di norme di legge o di regolamento", o di doveri di astensione, il 13 nuovo testo punisce il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che agisce "in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalita'", o di doveri di astensione. E in questo senso e' orientata in modo ormai consolidato la giurisprudenza di legittimita'. Costituisce infatti principio ripetutamente ribadito quello secondo cui, in tema di abuso di ufficio, la modifica introdotta con il Decreto Legge 16 luglio 2020, n. 76, articolo 23, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, ha ristretto l'ambito applicativo dell'articolo 323 c.p., determinando l'abolitio criminis delle condotte, antecedenti all'entrata in vigore della riforma, realizzate mediante violazione di norme generali e astratte dalle quali non siano ricavabili regole di comportamento specifiche ed espresse, o che comunque lascino residuare margini di discrezionalita', sicche' deve escludersi che integri il reato la sola violazione dei principi di imparzialita' e buon andamento di cui all'articolo 97, comma 3, Cost. (cosi', tra le tante, Sez. 6, n. 28402 del 10/06/2022, Bobbio, Rv. 283359-01, e Sez. 6, n. 23794 del 07/04/2022, Graziani, Rv. 283285-01). 8.2. Cio' posto, deve valutarsi se l'adozione dell'atto di nomina del direttore generale dell'ARPA Sardegna, in difetto di qualunque valutazione comparativa tra i titoli dei vari aspiranti, e percio' in ritenuta violazione della legge reg. Sardegna n. 6 del 2006, articolo 10, comma 2, sia qualificabile come atto compiuto "in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalita'". 8.2.1. Innanzitutto, deve premettersi che il significato del sintagma "violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalita'" e' riferibile anche alle leggi regionali. Invero, le leggi regionali sono atti aventi forza di legge, come emerge anche da numerose disposizioni della Costituzione. In particolare, l'articolo 117 Cost., al comma 1, prevede esplicitamente che le Regioni esercitano anch'esse, come lo Stato, la potesta' legislativa, statuendo: "La potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali". Inoltre, le leggi delle Regioni, esattamente come quelle dello Stato, sono sottoposte al sindacato di legittimita' costituzionale della Corte costituzionale, secondo quanto si evince testualmente dall'articolo 134 Cost. 8.2.2. Occorre, in secondo luogo, esaminare il tema, specificamente posto nel ricorso, se la locuzione "violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalita'" escluda dall'area della rilevanza penale, gia' sotto il profilo oggettivo, anche le determinazioni dei pubblici agenti in ordine all'interpretazione del dato normativo. Secondo una decisione di legittimita', le cui conclusioni sono condivise dal Collegio, l'interpretazione di una locuzione normativa, quando attiene all'individuazione dei presupposti per l'esercizio di un potere discrezionale, e non invece all'esercizio in concreto di tale potere, esula dall'area della discrezionalita' amministrativa, con la conseguenza che, quando il potere amministrativo deve ritenersi esercitato in difetto dei presupposti di legge, e' configurabile il reato di abuso d'ufficio anche nella formulazione vigente a seguito della modifica recata dal Decreto Legge n. 76 del 2000 (cosi' Sez. F., n. 42640 del 17/08/2021, Amato, Rv. 282268-01). A fondamento di questo principio, si e' osservato, in particolare che, "la discrezionalita' inerisce all'an, al quid, al quomodo e non e' riferibile alla statica sussistenza dei presupposti per l'esercizio di un potere legalmente dato, sui quali fondare poi la relativa valutazione: non puo' invocarsi l'esercizio di un potere discrezionale di cui in radice non sussistano i presupposti, dovendosi in casi siffatti parlare piuttosto di violazione di una specifica regola di esclusione, cioe' di una regola iuris, avente ad oggetto il divieto dell'esercizio del potere, quand'anche connotato da un contenuto discrezionale". Si e' poi precisato: "In definitiva puo' ritenersi che l'attribuzione di un potere di azione discenda comunque da una regola specifica, dotata di un contenuto precettivo di cui puo' ipotizzarsi la violazione, e che al di fuori di cio' possa rilevare solo una regola di condotta rispetto alla quale possa staticamente contemplarsi quella contraria inosservante, senza necessita' di valutare gli interessi sottesi e il risultato dell'azione amministrativa, a meno che quest'ultimo sia specificamente predeterminato. Non viene in rilievo in tale quadro il diverso tema della formulazione della regola, in quanto se del caso suscettibile di un'interpretazione non univoca. In casi siffatti la regola va comunque individuata alla luce dell'interpretazione, tanto piu' se consolidata e tale da assicurare un canone di condotta affidabile e generalmente condiviso. Va del resto sottolineato come perfino nella materia penale la Corte costituzionale abbia segnalato che "l'inclusione nella formula descrittiva dell'illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti âEuroËœelastici', non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice - avuto riguardo alle finalita' perseguite dall'incriminazione ed al piu' ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca di stabilire il significato di tale elemento mediante un'operazione interpretativa non esorbitante dall'ordinario compito a lui affidato: quando cioe' quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo" (principio ribadito da ultimo da Corte Cost. n. 141 del 2019). Ne' puo' sottacersi che una regola complessa, pur formulata in termini generali, puo' contenere elementi specificamente selettivi, idonei a delimitarne il campo d'azione ed a porre dunque una cogente regola di esclusione, con riguardo ad una gamma di ipotesi, come quando vengano utilizzati aggettivi destinati a descrivere e restringere una nozione di carattere generale, come quella di necessita'" (cosi', testualmente, Sez. F, n. 42640 del 2021, cit., § 2.2 del Considerato in Diritto). 8.2.3. Cio' posto, va valutato se, nella specie, si sia verificata una "violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalita'" nei termini precisati, in particolare, nel § 8.2. In punto di fatto, l'assenza di valutazione comparativa tra gli aspiranti all'incarico non e' in discussione. La sentenza di primo grado, anzi, puntualizza che l'atto di nomina ha selezionato il prescelto, a fronte di quarantotto manifestazioni di disponibilita', con le seguenti parole: "Il Dott. (OMISSIS), possiede il profilo idoneo per ricoprire l'incarico di Direttore generale, come desumibile dal curriculum allegato". La sentenza impugnata ritiene che vi sia stata violazione di legge perche' la legge reg. Sardegna n. 6 del 2006, articolo 10 prevede una procedura ad evidenza pubblica. Precisamente, della legge reg. articolo 10, comma 2, citata dispone: "Il direttore generale e' scelto, con procedura ad evidenza pubblica, tra i dirigenti dell'Amministrazione o degli enti regionali di cui alla legge regionale n. 31 del 1998, articolo 28 comma 2, o tra soggetti esterni di cui all'articolo 29 della medesima legge, in possesso di comprovata professionalita' ed esperienza acquisita nella direzione di sistemi organizzativi complessi di medie e grandi dimensioni per almeno cinque anni nei dieci anni precedenti, il cui rapporto di lavoro non sia stato risolto per demerito o altro fatto imputabile al soggetto medesimo". La soluzione, ad avviso del Collegio, e' correttamente motivata, e consente di ritenere che, nella vicenda in esame, sia ipotizzabile anche una "violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalita'". Invero, il riferimento normativo alla effettuazione della scelta sulla base di "procedura ad evidenza pubblica" esige indefettibilmente lo svolgimento di una procedura comparativa tra gli aspiranti, e, quindi, l'indicazione delle ragioni per le quali il selezionato viene preferito rispetto agli altri candidati. In questo senso, del resto e' orientata la giurisprudenza civile di legittimita', la quale richiede che, per il conferimento di un incarico pubblico dirigenziale, anche apicale e fiduciario, da parte della Pubblica Amministrazione, e' sempre necessario comparare le posizioni dei vari candidati ed esternare le ragioni giustificatrici delle scelte (cosi', ad esempio, Sez. L civ., n. 29206 del 07/10/2022, Rv. 665861-01, con riferimento alla nomina del Segretario generale di un Consiglio regionale, nonche' Sez. L civ., n. 6485 del 09/03/2021, Rv. 60630-01, e Sez. L civ., n. 18972 del 24/09/2015, Rv. 637045-01, relative a nomine di dirigenti pubblici, rispettivamente, regionali e statali). Ne' questa conclusione e' inficiata dal rilievo per cui il direttore generale dell'ARPA Sardegna e' soggetto a conferma o revoca entro i tre mesi successivi all'insediamento di una nuova Giunta Regionale, a norma del combinato disposto della legge reg. Sardegna n. 6 del 2006, articolo 10, comma 8, e legge reg. Sardegna n. 31 del 1998 articolo 28, comma 9. La previsione della possibilita' di conferma o revoca dell'incarico del direttore generale dell'ARPA Sardegna entro i tre mesi successivi all'insediamento di una nuova Giunta Regionale, infatti, evidenzia il rapporto fiduciario tra il primo e la seconda, e puo' certamente incidere sull'esercizio delle determinazioni discrezionali di quest'ultima, ma non implica addirittura l'eliminazione del dovere di procedere ad una valutazione comparativa tra i diversi aspiranti. Del resto, se la possibilita' di revoca o conferma dell'incarico di cui alla legge reg. Sardegna n. 31 del 1998, articolo 28, comma 9, implicasse l'eliminazione del dovere di procedere a valutazioni comparative tra gli aspiranti, si perverrebbe a privare di qualunque significato la previsione di cui alla legge reg. n. 6 del 2006, articolo 10, comma 2, tra l'altro successiva all'altra, laddove richiede lo svolgimento di "procedura ad evidenza pubblica". 8.2.4. In conclusione, quindi, puo' ritenersi che il fatto indicato nell'imputazione e' sussumibile nel tipo previsto dall'articolo 323 c.p., anche nella formulazione successiva all'entrata in vigore del Decreto Legge n. 76 del 2000, con riferimento al profilo oggettivo della condotta. Invero, risulta corretto affermare che l'attuale ricorrente, sotto il profilo oggettivo, ha agito in "violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalita'", perche' il medesimo, secondo quanto evidenziato dalle sentenze di merito, ha determinato e concorso ad adottare la nomina del direttore generale dell'ARPA Sardegna in difetto dello svolgimento di una procedura comparativa tra gli aspiranti, e, quindi, dell'indicazione delle ragioni per le quali il selezionato e' stato preferito rispetto agli altri candidati, in puntuale contrasto con quanto stabilito dalla legge reg. n. 6 del 2006, articolo 10, comma 2. 9. Infondate sono anche le censure formulate nel secondo motivo del ricorso di (OMISSIS), le quali contestano la configurabilita' del reato di abuso di ufficio, deducendo che nella specie difettano sia l'elemento dell'ingiustizia del danno o del vantaggio, non potendo comunque lo stesso identificarsi nell'ingiustizia della condotta, sia la prova del dolo intenzionale. 9.1. Con riferimento al primo profilo, si rileva, almeno prima facie, ed in linea generale, che la nomina di un candidato ad un ufficio pubblico comportante remunerazione, con ingiustificata pretermissione degli altri aspiranti, puo' implicare un ingiusto vantaggio patrimoniale per il primo ed un ingiusto danno per i secondi. E in questo senso si sono espressi concordemente i giudici di merito, formulando una valutazione che, relativamente al profilo della ricostruzione dei fatti, non e' sindacabile in questa sede, in quanto il reato e' ormai estinto per prescrizione, come gia' rilevato in primo grado, e non essendo pendenti questioni concernenti l'azione civile o la confisca. Va infatti ricordato, come gia' ripetutamente evidenziato in precedenza, ai §§ 5.2 e 6, che secondo un principio ampiamente consolidato in giurisprudenza, ed enunciato anche dalle Sezioni Unite, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimita' vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (cfr. Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275-01). 9.2. Relativamente al secondo profilo, poi, occorre osservare che il giudizio in ordine alla sussistenza del dolo specifico costituisce fondamentalmente l'esito di una valutazione degli elementi di prova, e che, nella specie, la sentenza impugnata ha rilevato come l'attuale ricorrente ha provveduto alla nomina di (OMISSIS), alla carica di direttore generale dell'ARPA Sardegna a seguito di insistenti e ripetute sollecitazioni dell'onorevole (OMISSIS). Anche a questo proposito, quindi, occorre dare applicazione al principio piu' volte richiamato, da ultimo al § 9.1, in forza del quale, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimita' vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva. 10. Alla complessiva infondatezza delle censure segue il rigetto dei ricorsi e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. RAMACCI Luca - Presidente Dott. ACETO Aldo - Consigliere Dott. GENTILI Andrea - Consigliere Dott. SCARCELLA Alessio - rel. Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro M - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI TERAMO; nei confronti di: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso l'ordinanza del 14/04/2022 del TRIB. LIBERTA' di TERAMO; udita la relazione svolta dal Consigliere ALESSIO SCARCELLA; lette le conclusioni del PG PASQUALE FIMIANI, che ha concluso per l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata; lette le memorie difensive dell'Avv. (OMISSIS), con cui, in replica al ricorso del Pubblico Ministero ed alle conclusioni scritte del PG, ha chiesto il rigetto del ricorso e la conferma del provvedimento impugnato. RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza 14.04.2022, il tribunale del riesame di Teramo ha accolto il ricorso proposto nell'interesse di (OMISSIS), quale legale rappresentante della soc. (OMISSIS) s.n.c. avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP/Tribunale di Teramo in data 18.03.2022 avente ad oggetto le opere ricadenti in area demaniale marittima senza valido titolo autorizzatorio, il tutto presso il ristorante pub ad insegna "(OMISSIS)" di proprieta' della predetta societa', e nelle sue aree di pertinenza, corrente in (OMISSIS). 2. Avverso l'ordinanza impugnata nel presente procedimento, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Teramo propone ricorso per cassazione, deducendo un unico ed articolato motivo, di seguito sommariamente indicato. 2.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all'articolo 1161 c.n. In sintesi, il ricorso evidenzia come la concessione demaniale marittima denominata "(OMISSIS)" risultava in capo alla societa' dell'indagato in forza del titolo rilasciatogli in data 18.03.2002, titolo che, rilasciato per la durata di sei anni, aveva una validita' dal 1.01.2002 al 31.12.2007. Nel predetto titolo concessorio era presente la clausola di rinnovo automatico in forza del Decreto Legge 400 del 1993 articolo 1, comma 2, conv. con modd. in L. 494 del 1993, come sostituito dall'articolo 10, L. n. 88 del 2001. Al punto 10 delle condizioni indicate nella concessione demaniale in questione veniva specificato che il tacito rinnovo della concessione in questione era subordinato al pagamento dei canoni e al versamento dei depositi cauzionali entro il termine stabilito, a pena di decadenza e con l'onere di sgombero e riconsegna. Orbene, rileva il PM ricorrente che dalle indagini svolte e' emerso che il canone del 2009 non risultava pagato e lo stesso risultava essere stato richiesto dall'autorita' competente alla ditta concessionaria con nota 1.09.2009. Ne consegue, quindi, che deve escludersi che possa essersi verificato il tacito rinnovo della concessione demaniale in questione, atteso che il pagamento del canone del 2009 aveva impedito il rinnovo della concessione demaniale in questione, donde la stessa e' da ritenersi spirata prima dell'entrata in vigore delle norme che hanno introdotto il regime delle proroghe tacite delle concessioni demaniali marittime turistico - ricreative, di cui all'articolo 18, Decreto Legge 194 del 2009, conv. con modd. in L. 25 del 2010, e successive modifiche ed integrazioni, dovendosi pertanto ritenere fondata l'occupazione arbitraria in totale carenza di un valido titolo demaniale marittimo. Il tribunale, dunque, aderendo alla tesi difensiva proposta in sede di riesame, non avrebbe adeguatamente effettuato quell'indispensabile attivita' critica che avrebbe dovuto essere svolta. A tal fine, il PM ricorrente, dopo aver operato un'ampia e dettagliata ricognizione normativa e giurisprudenziale sul tema delle proroghe tacite delle concessioni demaniali marittime, osserva come il tribunale del riesame avrebbe errato nel configurare il rinnovo automatico come una vera e propria protrazione del medesimo rapporto concessorio, senza soluzione di continuita', essendo giunto a tale soluzione senza analizzare i presupposti dell'istituto del rinnovo, insistendo sull'assunto che, rinnovata automaticamente, la concessione demaniale in questione sarebbe stata prorogata. In altri termini, sarebbe stato erroneamente applicato il principio secondo cui, in sede di proroga, e non quindi in sede di rinnovo alla data della scadenza del 31.12.2007, vi fosse l'esonero dell'Amministrazione dall'istruire qualsiasi procedimento di rinnovo, nonche' l'esonero di attivita' istruttorie finalizzate a qualsiasi accertamento di carattere ammi-nistrativo/finanziario, anche in relazione alla pretesa correttezza del concessionario nel pagamento dei canoni concessori dovuti. Diversamente, ribadisce il PM ricorrente, nel caso in esame non sussisterebbero le condizioni del c.d. rinnovo automatico, attesa l'assenza dei requisiti richiesti dalla normativa, tra cui la regolarita' della corresponsione dei canoni dovuti alla data di scadenza, nonche' la sottoscrizione e registrazione di un titolo valido, che ove esistente e regolarmente formalizzato, avrebbe eventualmente dato accesso al regime di proroga. Sul punto, evidenzia come la regione Abruzzo, ufficio demanio marittimo, con nota 9.02.2021 aveva evidenziato che la societa' riferibile all'indagato non aveva effettuato il pagamento dei canoni demaniali marittimi dal 2009 ad oggi, per una somma totale di quasi 364.000 Euro, senza nemmeno pagare le imposte regionali, pari al 10% del canone, per una somma di poco inferiore ai 42.000 Euro. Operata, infine, una puntualizzazione sulle differenze tra "proroga" e "rinnovo", in cui si anniderebbe l'errore dei giudici del riesame, ribadisce il PM che detta tesi sarebbe stata suffragata anche da plurime decisioni del giudice amministrativo, richiamando quattro sentenze del Consiglio di Stato pronunciate in data 3.12.2018 e riguardanti l'accoglimento di ricorsi in appello promossi proprio dall'Agenzia del Demanio di Pescara contro le opposizioni proposte rispettivamente da altrettanti stabilimenti balneari del teramano. Di conseguenza, nessun procedimento amministrativo preordinato alla decadenza della concessione avrebbe dovuto essere instaurato dalla Regione Abruzzo, in quanto il descritto istituto cadu-catorio presuppone la sussistenza di un rapporto giuridico valido ed efficace e non, come nel caso in esame, una situazione scaduta e quindi definitivamente esaurita. Da ultimo, infine, si duole il PM ricorrente per aver i giudici del riesame operato un distinguo delle difformita' edilizie accertate in sede di ispezione demaniale alla concessione, parte delle quali derubricata ad innovazioni anziche' ad abusi, atteso che, diversamente, la prospettazione accusatoria sarebbe confermata dalla circostanza per la quale, in assenza di un provvedimento mai formalmente rinnovatosi, e quindi mai prorogato di validita', permarrebbe la piena operativita' del reato di cui all'articolo 1161 c.n., nei termini dell'abusiva occupazione dell'intera area assentita in concessione, illecito penale posto a base del carattere permanente della fattispecie e del requisito del periculum in mora ravvisato dal GIP, dovendosi in ultima analisi ritenere che il periculum risulterebbe in re ipsa. Sarebbe, conseguentemente, superato il dubbio espresso dal Tribunale circa la maggiore occupazione della superficie demaniale (1610 mq. anziche' 1530 mq.) condizione che da sola aveva determinato il tribunale a disporre l'annullamento del decreto di sequestro, atteso che l'indagato dal 2009 non aveva effettuato alcun pagamento dei canoni demaniali, e che l'ultimo titolo concessorio demaniale marittimo rilasciato era quello scaduto il 31.12.2007. Erroneamente, pertanto, i giudici del riesame avrebbero ritenuto insussistenti le esigenze cautelari solo in ragione dell'incerta perimetrazione delle maggiori aree occupate, trascurando invece le occupazioni del demanio marittimo constatate dalla PG e contestate nel capo b) dalla lettera b) alla lettera k). 3. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato in data 28.11.2022 la propria requisitoria scritta con cui ha insistito per l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata. In particolare, il P.G. ha evidenziato: (a) che e' ormai consolidato l'orientamento di legittimita' il quale, partendo dalle pronunce della Corte Costituzionale (sentenze n. 213 del 2011, n. 340 del 2010, n. 233 del 2010 e n. 180 del 2010), ha affermato che le disposizioni che prevedono proroghe automatiche di concessioni demaniali marittime violano l'articolo 117 Cost., comma 1, per contrasto con i vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario in tema di diritto di stabilimento e di tutela della concorrenza (c.d. Direttiva Bolkestein), con conseguente obbligo di disapplicazione delle norme (nazionali o regionali) che prevedono taciti rinnovi delle concessioni per il periodo in cui sono state in vigore, e relativa caducazione di tali taciti rinnovi in ragione del venire meno del presupposto normativo su cui si fondavano (in argomento, anche Sez. 3, sentenza n. 7267 del 09/01/2014 - dep. 14/02/2014, Granata e altri, Rv. 259294 - 01, secondo cui dalla immediata operativita' della direttiva CE sopra indicata consegue la disapplicazione del Decreto Legge n. 400 del 1993, come conv. e succ. modif., con l'effetto che le concessioni demaniali che scadevano il 31.12.2007, quale e' quella di specie, non potevano essere piu' prorogate automaticamente); (b) che la proroga legale dei termini di durata delle concessioni, prevista dall'articolo 1, comma 18, Decreto Legge n. 30 dicembre 2009, n. 194 (conv. in L. 26 febbraio 2010, n. 25), la quale, se applicabile alla concreta fattispecie, esclude la configurabilita' del reato di cui all'articolo 1161 c.n., presuppone la titolarita' di un provvedimento concessorio valido ed efficace ed opera solo per gli atti ampliativi successivi all'entrata in vigore del medesimo Decreto Legge n. 194 del 2009 (su cui si richiama anche Sez. 3, sentenza n. 29763 del 26/03/2014 - dep. 08/07/2014, Di Francia, Rv. 260108 - 01; succ. conformi, da ultimo, Sez. 3, sentenza n. 15676 del 13/04/2022 - dep. 22/04/2022, Galli, n. m.), mentre nella specie, al momento di entrata in vigore dell'articolo 1 citato, la concessione demaniale de qua era gia' scaduta, non operando cosi' il regime di rinnovo automatico; (c) il dictum di Sez. 3, sentenza n. 29105 del 16/09/2020 - dep. 21/10/2020, Longino, n. m., relativa ad analoga vicenda, peraltro nella stessa zona demaniale. 4. In data 21.10.2022 l'Avv. (OMISSIS), nell'interesse dell'indagato, ha fatto pervenire memoria difensiva, con cui, in replica al ricorso del Pubblico Ministero, ha chiesto il rigetto del ricorso e la conferma del provvedimento impugnato. Con successiva memoria datata 2.12.2022, il predetto difensore, in replica alla requisitoria scritta del PG, ha insistito per il rigetto del ricorso del PM. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso - in assenza di richiesta di discussione orale, trattato ai sensi dell'articolo 23, Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, e successive modifiche ed integrazioni e' fondato. 2. Al fine di meglio chiarire le ragioni che hanno determinato il Collegio a tale soluzione, e' utile ripercorrere, sebbene sinteticamente, la vicenda storico processuale al medesimo sottesa. 3. Il 9.02.2021 l'Ufficio Demanio Marittimo della Giunta Regionale abruzzese, Dipartimento Territorio - Ambiente, Servizio Pianificazione territoriale e Paesaggio segnalava alcune criticita' relative alla concessione demaniale accordata alla societa' " (OMISSIS) s.n.c.", di cui e' legale rappresentante l'indagato. In tale nota si rappresentava l'emersione, a seguito di alcuni sopralluoghi eseguiti negli anni 1997 e 2008, di tutta una serie di manufatti, abusivamente realizzati e connessi funzionalmente alla concessione in questione, e si disponeva la rettifica dei canoni demaniali in ragione dell'effettiva consistenza riscontrata. La nota veniva, poi, inoltrata all'Ufficio Circondariale Marittimo - Guardia Costiera di (OMISSIS), a sua volta richiesto di eseguire ulteriori accertamenti sulla regolarita' delle opere e sulla tempestivita' dei versamenti degli oneri concessori. In sede di attivita' compiuta in data 11.11.2021, la societa' dell'indagato non era in grado di esibire il titolo concessorio in corso di validita'; l'indagato negava di aver ricevuto solleciti di pagamento di canoni relativi alla concessione demaniale e non presentava documentazione inerente all'avvenuto pagamento delle imposte regionali dovute. A questo punto, l'Agenzia del Demanio di Pescara rimetteva una nota con cui evidenziava il mancato pagamento dei canoni demaniali dovuti per la concessione a partire dal 2009. Veniva, peraltro, acquisita ulteriore documentazione inerente al titolo concessorio demaniale, che veniva identificato nella concessione n. 29/2002 rilasciata dalla Capitaneria di Porto di Pescara. Tale concessione aveva una durata di sei anni, come previsto dal Decreto Legge n. 400 del 1993 articolo 1, comma 2, (poi abrogato dall'articolo 1, comma 1, lettera a), L. n. 217/2011 al dichiarato fine di favorire la rapida e favorevole definizione di procedure d'infrazione a carico dello Stato avviate dalla Commissione Europea). Il personale dell'Agenzia del Demanio, Direzione Regionale Abruzzo e Molise intraprendeva un'attivita' ispettiva nell'ambito della quale veniva esaminata la documentazione tecnico-amministrativa, veniva avviato il contraddittorio con l'indagato, e veniva espletato un sopralluogo sempre in data 11.11.2021: in questo contesto venivano acquisiti i titoli edilizi che assentivano gli interventi eseguiti sul compendio immobiliare oggetto di concessione (ossia dell'autorizzazione edilizia n. 114 del 12.09.1984, n. 103 del 04/05/1987, n. 384 del 16/06/1987 e n. 199 del 21/07/1987). All'esito dei rilievi venivano accertate: 1) attivita' di rilevanza edilizia poste in essere in assenza o in difformita' ai titoli edilizi (per cui si veda il capo a) d'imputazione); 2) rilevanti scostamenti dal titolo concessorio, ritenuto scaduto, quanto all'effettiva occupazione di spazi demaniali. In conseguenza di cio', in data 18.03.2022, il G.I.P. presso il Tribunale di Teramo disponeva il sequestro preventivo del ristorante/pub, con aree di pertinenza, ritenendo sussistente il fumus boni iuris in relazione ad entrambi i reati contestati in via provvisoria all'indagato. Quanto al capo a) della rubrica (reato p. e p. dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 e s.m.i. articolo 35, 44 lettera c), Decreto Legislativo n. 42 del 2004 e s.m.i. articolo 142, comma 1 lettera a), articolo 146, commi 1 e 2, articolo 181, comma 1-bis lettera A)), risultava, infatti, essere stata accertata, in sede di sopralluogo presso i locali in uso all'impresa dell'indagato, la realizzazione di tutta una serie di opere, vuoi in totale difformita' dai titoli edilizi, vuoi in totale carenza degli stessi, da identificare, in ragione della natura demaniale del bene immobile destinato ad ospitare le opere, nel permesso a costruire. Quanto al capo b) della rubrica (reato p. e p. dagli articoli 54, 1161, comma 1, Regio Decreto n. 327/1942 - Codice della Navigazione), anche in questo caso (dopo aver operato una sintetica rassegna delle principali disposizioni e pronunce in materia) venivano ritenuti sussistenti gli elementi del fumus boni iuris in relazione al reato di occupazione arbitraria, poiche' avente ad oggetto superficie maggiore di quella assentita dai titoli demaniali e poiche' discendente da "innovazioni non consentite" ai sensi dell'articolo 1161 codice navale idonee a determinare un ampliamento dell'occupazione (risultando, infatti, che la concessione in favore dell'indagato consentiva l'occupazione di una superficie totale massima di 1530 mq, a fronte dell'effettiva occupazione di 1610 mq, in ragione evidentemente delle innovazioni non consentite). Infine, veniva ritenuto sussistente anche il periculum in mora, dato che "la realizzazione di numerosi interventi edilizi sine titulo, l'ampliamento per le vie di fatto dell'oggetto della concessione e l'omissione di pagamenti dei canoni concessori per vari anni (...) consentivano di ritenere assai probabile l'aggravamento delle conseguenze dell'illecito penale" (pag. 3 decreto di sequestro G.I.P. Teramo). In data 31.03.2022, l'indagato interponeva istanza di riesame avverso il provvedimento di sequestro, chiedendo in via principale l'annullamento del decreto di sequestro preventivo del 18.03.2022 oppure, in via subordinata, la sostituzione della misura con altra meno onerosa (sostenendosi peraltro, a pag. 12, come vi fosse una differenza tra la volumetria concessa, pari a 1530 mq, e quella effettivamente occupata, pari a 1610 mq). Erano due i motivi di riesame: il primo concernente l'asserita insussistenza del fumus boni iuris della misura cautelare reale (peraltro sollevando la questione relativa alla prescrizione dell'illecito di cui al capo a) di imputazione); il secondo relativo all'insussistenza del periculum in mora, indefettibile ai fini dell'adozione del provvedimento cautelare di sequestro preventivo. In data 14.04.2022, il Tribunale penale di Teramo, Sezione per il riesame nei provvedimenti di sequestro, accoglieva il ricorso e revocava il sequestro preventivo in essere (definitivamente disponendo il dissequestro lo stesso 14.04.2022, come da verbale di dissequestro ex articolo 263 c.p.p.). Difatti, richiamando l'impostazione e le argomentazioni difensive, il Giudice del Riesame affermava di non ritenere sussistente il fumus boni iuris che aveva portato all'emissione della misura da parte del G.I.P. in quanto, ai fini del rinnovo della concessione, non erano necessari gli incombenti di cui parlava l'accusa a carico dell'indagato, non sussistendo in definitiva il reato di occupazione arbitraria posta in totale carenza di titolo demaniale. Nessun argomento veniva speso in punto di periculum in mora e, conclusivamente, veniva operato un incerto riferimento a come "non sia possibile allo stato dei fatti determinare e circostanziare l'area che e' abusivamente occupata" (pag. 4 ord. Riesame Trib. Teramo). 4. Tanto premesso, puo' quindi procedersi nell'esame del ricorso del Procuratore della Repubblica che, come anticipato, e' fondato. 5. In punto di fatto, innanzitutto merita ricordare che la concessione demaniale marittima denominata "(OMISSIS)", presente nel Comune di (OMISSIS) ed oggetto del ricorso, risultava in Capo alla Ditta " (OMISSIS) s.n.c." di (OMISSIS) in forza del titolo concessorio n. 29 - Rep. 29710 in data 18.03.2002, redatto ai sensi del Codice della Navigazione e del relativo Regolamento, nonche' a quanto prescritto dalla L. n. 88/2001, che prevedeva da quattro a sei anni la durata dei titoli concessori. Di fatto, dunque, il titolo risultava rilasciato per la durata di sei anni, dal 01.01.2002 al 31.12.2007 (con la clausola secondo cui "alla scadenza si rinnova automaticamente per altri sei anni e cosi' successivamente ad ogni scadenza, salvo diverso provvedimento di revoca da parte dell'Amministrazione concedente ex articolo 42 del codice navale ovvero di decadenza ex articolo 47 del c.n., fermo restando il pagamento della tassa di registrazione da richiedersi a cura della medesima Amministrazione"), e la clausola di "rinnovo automatico della concessione demaniale marittima" sopra indicata veniva redatta nel titolo in forza dell'articolo 1, comma 2 del Decreto Legge n. 400/1993, poi sostituito dall'articolo 10 della L. n. 88/2001 (dall'esame del testo della concessione, peraltro, risultano le seguenti annotazioni: "Si rilascia la presente licenza subordinata oltre che alle discipline doganali e di pubblica sicurezza alle condizioni che seguono:", al cui successivo punto 10 si rileva che "il tacito rinnovo della presente concessione e' comunque subordinato al pagamento dei canoni ed al versamento dei depositi cauzionali entro il termine stabilito, sempre sotto pena di decadenza e con l'onere di sgombero e riconsegna di cui alle condizioni precitate"). Dall'attivita' di P.G. svolta, tuttavia, si rilevava che il canone del 2009 non risultava pagato e lo stesso risultava essere stato richiesto dall'Autorita' competente alla ditta concessionaria sopra indicata con nota protocollo n. 437/DE3 del 09.01.2009. Pertanto, a fronte di tale clausola ed al mancato pagamento del canone 2009, deve escludersi che possa considerarsi tacitamente rinnovata la concessione demaniale marittima in questione, oltre al fatto che non vi e' evidenza dei depositi cauzionali eseguiti ai fini del rinnovo della concessione demaniale. Quindi, se il mancato pagamento del canone 2009 ha impedito il rinnovo della concessione demaniale, la stessa e' da considerarsi spirata prima del regime normativo che stabilisce le tacite proroghe delle concessioni demaniali marittime turistico ricreative, disposta dall'articolo 18 del Decreto Legge n. 194/2009, convertito in L. n. 25/2010, dovendosi ritenere fondata l'arbitraria occupazione in totale carenza di un valido titolo demaniale marittimo. 6. In merito alla durata delle concessioni demaniali marittime, l'articolo 10, comma 1, L. n. 88 del 2001 ha introdotto il principio del c.d. "rinnovo automatico" di sei anni in sei anni alla scadenza del titolo concessorio e, contestualmente, l'articolo 37 del Codice della Navigazione, come modificato dal Decreto Legge n. 400 del 1993 ha enunciato il "diritto di insistenza" dei concessionari sui beni oggetto della concessione, stabilendo che in sede di rinnovo delle stesse, dovesse esser accordata preferenza al precedente concessionario. La disciplina normativa fin qui esaminata e' stata poi oggetto di attenzione da parte del Legislatore, il quale, in sede di approvazione della Legge Finanziaria 2007 (L. n. 296 del 2006) ha modificato l'articolo 3 del Decreto Legge n. 400 del 1993, tramite l'inserimento del comma 4-bis, che prevede la possibilita' di essere titolari di concessioni demaniali marittime per una durata non inferiore a 6 anni e non superiore a 20 anni "in ragione dell'entita' e della rilevanza economica delle opere da realizzare e sulla base dei piani di utilizzazione delle aree del demanio marittimo predisposti dalle Regioni" (articolo 1, comma 253). L'impianto normativo italiano pocanzi esaminato ha dovuto uniformarsi alla pronuncia della direttiva comunitaria del 12.12.2006 n. 2006/123/CE - Bolkestein, che (in particolare, ai §§ 1-2, articolo 12) ha ritenuto che nel comparto servizio-turismo la modalita' di assegnazione della concessione demaniale marittima debba essere assoggettata a gara, con la conseguente applicazione delle norme che sovrintendono le procedure ad evidenza pubblica. Lo strappo con il diritto comunitario e' divenuto cosi' inevitabile e nel 2008 la Commissione Europea, nel verificare il rispetto della Direttiva da parte dello Stato italiano, rilevata l'incompatibilita' con i principi in essa contenuti delle disposizioni rinvenibili nel Codice della Navigazione e del Decreto Legge n. 400/1993, attinenti il diritto di insistenza, ha formalmente ammonito l'Italia con la procedura d'infrazione n. 2008/4908, intimando la revisione dell'ordinamento giuridico interno al fine di armonizzare le disposizioni normative nazionali ai principi comunitari. Sul punto sono anche intervenute diverse pronunce della Giustizia Amministrativa (ex multis, Cons. St., 25.09.2009, n. 5765), che hanno affermato il principio giuridico in base al quale "alle concessioni di beni pubblici di rilevanza economica (specificamente le concessioni demaniali marittime), poiche' idonee a fornire una situazione di guadagno a soggetti operanti nel libero mercato, devono applicarsi i principi discendenti dall'articolo 81 del Trattato UE e dalle Direttive comunitarie in materia di appalti, quali quelli della loro necessaria attribuzione mediante procedure concorsuali, trasparenti, non discriminatorie, nonche' tali da assicurare la parita' di trattamento ai partecipanti" (TAR Campania, Napoli, Sez. VII, n. 3828/2009; occorrendo anche nell'assegnazione di un bene demaniale l'individuazione del soggetto maggiormente idoneo a consentire il perseguimento dell'interesse pubblico, garantendo a tutti gli operatori economici una parita' di possibilita' di accesso all'utilizzazione dei beni demaniali, sic TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 23.04.2010, n. 2085). Rebus sic stantibus, il Legislatore italiano e' intervenuto con il Decreto Legge n. 194 del 2009, convertito con L. n. 25/2010, il cui articolo 1, comma 18, ha abrogato il comma 2 dell'articolo 37 del c.n., disciplinante il "diritto di insistenza" e, contestualmente, disponendo una proroga sino al 31.12.2015 della scadenza di tutte le concessioni in essere alla data di entrata in vigore del decreto. Tale emendamento ha poi comportato l'apertura di una seconda procedura di infrazione comunitaria (la n. 2010/2734), legata al permanere della disposizione relativa al rinnovo automatico delle concessioni gia' esistenti. 7. Orbene, il Tribunale, aderendo sostanzialmente ai contenuti dell'istanza di riesame datata 31.03.2022, depositata dalla difesa dell'indagato in sede di riesame, non risulta aver adeguatamente effettuato quella indispensabile attivita' critica che doveva ineludibilmente essere operata nel caso di specie, se solo si considera che il richiamato giudizio si rivelava evidentemente incentrato su un taglio interpretativo della norma pro-assistito, che, sebbene offrisse un apprezzabile quadro generale della disciplina generale della materia trattata, trascurava alcuni passaggi critici indispensabili per delineare la corretta soluzione. Occorre, infatti, rilevare come il Collegio adito configuri il rinnovo automatico (il primo istituto in ordine cronologico reputato sussistente che, solo al suo concretizzarsi, avrebbe poi legittimato le successive proroghe riconosciute ai titoli concessori) come una vera e propria protrazione del medesimo rapporto conces-sorio, senza soluzione di continuita'. Tuttavia, tale conclusione e' offerta a fondamento della motivazione dell'ordinanza impugnata senza analizzare in alcuna maniera i presupposti dell'istituto del rinnovo, insistendo ulteriormente sull'assunto che, rinnovata automaticamente, la concessione in esame sia stata prorogata, con cio' richiamando il principio secondo cui in sede di proroga - e non di rinnovo (alla data della scadenza al 31.12.2007) - sussistessero i presupposti per l'esonero dell'Amministrazione dall'istruire qualsiasi procedimento di rinnovo, nonche' per l'esonero di attivita' istruttorie finalizzate a qualsivoglia accertamenti di carattere amministrativo/finanziario, anche in relazione alla pretesa correttezza del concessionario nel pagamento dei canoni concessori dovuti. Nel caso in esame, tuttavia, non sussistono le condizioni del c.d. rinnovo automatico, stante l'assenza dei presupposti richiesti dalla normativa; tra questi, proprio la regolarita' nella corresponsione dei canoni dovuti alla data di scadenza, nonche' la sottoscrizione e registrazione di un titolo valido che, qualora esistente e regolarmente formalizzato, avrebbe eventualmente dato in seguito accesso al regime di proroga. E invero, per il perfezionamento del citato iter procedimentale di rinnovo, la Regione Abruzzo e' tenuta, ineludibilmente, a riscontrare l'avvenuto pagamento dei canoni dovuti. Conformemente a tali disposizioni normative, la Regione Abruzzo - Servizio di Pianificazione Territoriale e Paesaggio - Ufficio Demanio Marittimo tramite la nota n. 48641 del 09.02.2021 evidenziava del resto che la societa' (OMISSIS) s.n.c. non aveva effettuato il pagamento dei canoni demaniali marittimi dell'anno 2009 ad oggi per una somma totale pari a Euro 363.915,17 e altresi' non aveva pagato le imposte regionali (10/0 del canone) per una somma totale pari a Euro 41.794,61. Nel caso di specie, invece, il mancato configurarsi di tali essenziali presupposti ha conseguentemente inibito la definizione del procedimento e, con esso, anche l'adozione e l'emanazione di un titolo concessorio valido, titolo che, qualora regolarmente formalizzato, avrebbe avuto poi accesso al gia' richiamato istituto della proroga. Infatti, sulla base della normativa richiamata, il distinguo tra l'istituto del rinnovo dell'atto concessorio e quello della mera proroga e' rappresentato dalla ineludibile circostanza che, mentre quest'ultima presuppone la continuazione di un rapporto in corso, il rinnovo, invece, incide, rivitalizzandolo, su un rapporto ormai esaurito. Perche' tale rivitalizzazione si concretizzi, non si puo' prescindere dal concretizzarsi degli estremi di una nuova concessione, che si sostituisce alla precedente gia' scaduta. In tal senso, si noti, anche alcune pronunce della giurisprudenza amministrativa riguardanti l'accoglimento di ricorsi in appello promossi proprio dall'Agenzia del Demanio di Pescara contro le opposizioni proposte dagli stabilimenti balneari del teramano (Cons. St., sentenze nn. 6850-6851-68526853/2018, tutte in data 03/12/2018). Di fatto, nella concreta fattispecie, nessun procedimento amministrativo, preordinato alla decadenza della concessione, doveva essere instaurato dalla Regione Abruzzo, in quanto tale istituto caducatorio presuppone inevitabilmente la sussistenza di un rapporto giuridico valido ed efficace e non, come in questo caso, una situazione gia' scaduta e, quindi, definitivamente esaurita. 8. Alla stregua di quanto sopra, poi, non rileva, a giudizio del Collegio, la questione relativa alla "proroga automatica" delle concessioni che, infatti, presuppone un titolo concessorio valido ed efficace e non, invece, un titolo scaduto, peraltro alla data del 31.12.2007, dunque antecedente alla normativa interna, succedutasi nel tempo (ossia Decreto Legge n. 194 del 2009articolo 1, comma 18, , che ha prorogato i termini di scadenza delle concessioni di beni demaniali marittimi con finalita' turistico - ricreative dapprima al 31.12.2015; successivamente, le modifiche apportate dal Decreto Legge n. 18 ottobre 2012, convertito nella L. 17 dicembre 2012, n. 221, sino al 31.12.2020 e, infine, per effetto dell'articolo 1, commi 682 e 683 della successiva L. n. 145/2018, sino al 31.12.2033), dichiarata incompatibile alla luce della Direttiva n. 2006/123/CE. Ed invero, va ricordato che Decreto Legge n. 400 del 1993articolo 1, comma 2, , abrogato dal L. 15 dicembre 2011, n. 217 articolo 11, comma 1, (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunita' Europee Legge comunitaria 2010) stabiliva che "le concessioni di cui al comma 1, indipendentemente dalla natura o dal tipo degli impianti previsti per lo svolgimento delle attivita', hanno durata di sei anni. Alla scadenza si rinnovano automaticamente per altri sei anni e cosi' successivamente ad ogni scadenza, fatto salvo l'articolo 42, comma 2, codice navale Le disposizioni del presente comma non si applicano alle concessioni rilasciate nell'ambito delle rispettive circoscrizioni territoriali dalle autorita' portuali di cui alla L. 28 gennaio 1994, n. 84". L'abrogazione di quella disposizione, come espressamente chiarito dalla L. n. 217 del 2011, che vi provvedeva, si era resa necessaria per chiudere la procedura di infrazione n. 2008/4908 avviata ai sensi dell'articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea e per rispondere all'esigenza degli operatori del mercato di usufruire di un quadro normativo stabile che, conformemente ai principi comunitari, consentisse lo sviluppo e l'innovazione dell'impresa turistico-balneare-ricreativa. L'instaurazione della procedura d'infrazione e la successiva abrogazione della norma erano conseguenza di un contrasto della normativa interna, oltre che con i principi del Trattato in tema di concorrenza e di liberta' di stabilimento, con la direttiva n. 2006/123/CE nella parte in cui, con l'articolo 12, comma 2, esclude il rinnovo automatico della concessione. 9. Conclusivamente, la concessione rilasciata alla 4G, con scadenza alla data del 31 dicembre 2007, non "esisteva" piu' al momento dell'entrata in vigore del Decreto Legge n. 194 del 2009 articolo 1, comma 18, , conv. in L. n. 25 del 2010, e come tale non poteva essere non solo oggetto di rinnovo (posto che il mancato pagamento del canone ex articolo 47, lettera d), c.n., ne comporta la decadenza, imponendo all'Amministrazione l'esercizio di un potere di discrezionalita' vincolata, con conseguente esclusione di ogni possibile bilanciamento tra l'interesse pubblico e le esigenze del privato concessionario: tra le tante, Cons. St., Sez. VI, n. 465 del 2 febbraio 2015) ne', tantomeno, oggetto di proroga. Sul punto, del resto, e' sufficiente in questa sede ricordare che in relazione allo svolgimento del rapporto concessorio conseguente al rilascio di una concessione demaniale marittima, la decadenza del concessionario per omesso pagamento del canone concessorio costituisce atto doveroso, unitamente alle altre ipotesi previste dall'articolo 47 del Codice della Navigazione, che (con l'esclusione della lettera f), che fa generico riferimento alla " inadempienza degli obblighi derivanti dalla concessione") rappresentano altrettante clausole risolutive espresse, integrate le quali la risoluzione opera di diritto (v., sul punto: Cass. civ., Sez. 2, sentenza n. 20854 del 02/10/2014, Rv. 632838 - 01), senza necessita' di provare la gravita' dell'inadempimento della controparte (T.A.R. Cagliari, Sardegna, sez. I, 18/09/2019, n. 746). La concessione demaniale in questione era scaduta e non prorogata ne' prorogabile; e cio' in quanto gia' Decreto Legge n. 30 dicembre 2009, n. 194, articolo 1, comma 18 conv. in L. 26 febbraio 2010, n. 25 prevedeva che il termine di durata delle concessioni "in essere" alla data di entrata in vigore del predetto decreto e in scadenza entro il 31 dicembre 2015 fosse prorogato fino al 31 dicembre 2020, con la logica conseguenza che la proroga dovesse intendersi come valevole solo per le concessioni "nuove" (nel senso di successive al Decreto Legge n. 194 del 2009 conv. in L. n. 25 del 2010) in quanto "in essere alla data di entrata in vigore del Decreto Legge n. 194 del 2009 e in scadenza" e tale non era la concessione originariamente emessa a favore della 4G (v., in senso conforme: Sez. 3, n. 29763 del 26/03/2014 - dep. 08/07/2014, Di Francia, Rv. 260108; Sez. 3, n. 32966 del 02/05/2013 - dep. 30/07/2013, Vita, Rv. 256411). Del tutto inconferente e' dunque il richiamo, da parte del Tribunale distrettuale e della difesa della 4G, dell'omessa attivazione, da parte dell'Amministrazione, del procedimento di decadenza dalla concessione per l'omesso pagamento del canone di concessione, di cui all'articolo 47, comma 1, lettera d), c.n., per l'assorbente ragione che, essendo la concessione scaduta, non era piu' in essere alcun rapporto giuridico tra l'amministrazione e la 4G. Ne', infine, risulta che la concessionaria abbia usufruito del c.d. condono balneare di cui all'articolo 100, di. 4 agosto 2020, n. 104, convertito con modificazioni dalla L. 13 ottobre 2020, n. 126. 10. Che, del resto, questa sia la conclusione corretta, era stato gia' affermato da questa stessa Sezione (Sez. 3, n. 29105 del 16 settembre 2020, dep. 21 ototbre 2020, PM in proc. Longino, n. m.). Va, infine, richiamata la giurisprudenza di legittimita' secondo cui il reato di abusiva occupazione di spazio demaniale marittimo si configura anche in caso di occupazione protrattasi oltre la scadenza del titolo, a nulla rilevando l'esistenza della pregressa concessione e la tempestiva presentazione dell'istanza di rinnovo (da ultimo: Sez. 3, n. 34622 del 22/06/2011 - dep. 23/09/2011, P.M. in proc. Barbieri, Rv. 250976), attesa la natura costitutiva del diritto e non meramente autorizzatoria del provvedimento amministrativo di concessione. 11. Da ultimo, ritiene il Collegio che parimenti non abbia rilievo l'articolo 3, comma 3, L. 5 agosto 2022, n. 118 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021, in G.U. n. 188 del 12-8-2022), in vigore dal 27/08/2022, che ha disciplinato l'annosa questione delle concessioni demaniali marittime all'articolo 3, introducendo un inciso al comma 3 che impedisce di ritenere configurabile, fino al 31.12.2023 o, in presenza delle condizioni ivi indicate, fino al 31.12.2024, il reato di cui all'articolo 1161 c.n. Tale disposizione, che proroga ex lege l'efficacia, fino alle predette date, delle concessioni indicate dalla lettera a) della medesima disposizione, subordina infatti la proroga "a tempo" dell'efficacia alla condizione che la concessione sia "in essere alla data di entrata in vigore della presente legge sulla base di proroghe o rinnovi disposti anche ai sensi della L. 30 dicembre 2018, n. 145, e del Decreto Legge 14 agosto 2020, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla L. 13 ottobre 2020, n. 126", con la conseguenza che tale disposizione non trova applicazione, invece, a quelle concessioni che non sono in essere alla data del 27.08.2022, ossia data di entrata in vigore della L. 118/2022. E' quindi lo stesso Legislatore a prevedere espressamente che tale "beneficio" non possa estendersi alle concessioni scadute, tra cui vi rientra quella in esame, soggetta si' a rinnovo automatico in forza della clausola n. 10, ma subordinatamente alla condizione del regolare pagamento dei canoni concessori, non corrisposti a far data dal 2009, come emerge dagli atti, donde la stessa da tale data era da considerarsi scaduta perche' decaduta ex articolo 47, comma 1, lettera d), c.n., con conseguente permanenza dell'abusiva occupazione dello spazio demaniale marittimo, integrante l'illecito di cui all'articolo 1161 c.n. 12. L'impugnata ordinanza dev'essere pertanto annullata per nuovo giudizio davanti al tribunale di Teramo. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Teramo competente ai sensi dell'articolo 324, comma 5, c.p.p.

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