Sentenze recenti Tribunale Agrigento

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AGRIGENTO Sezione Lavoro Il Tribunale di Agrigento, in funzione di Giudice del (...) in persona della dott.ssa (...) ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al numero di ruolo generale (...) del 2023, e vertente TRA (...) rappresentato e difeso dall'Avv. (...) giusta procura depositata telematicamente; -ricorrente- CONTRO L'(...), DIREZIONE PROVINCIALE DI (...), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avv. (...) giusta procura depositata telematicamente; -resistente - Oggetto: Altre controversie in materia di previdenza obbligatoria (...) come in atti. Svolgimento del processo Con ricorso del 10.3.23 impugnava in riassunzione a seguito di dichiarazione di incompetenza territoriale da parte del Tribunale di Palermo l'avviso di addebito n. (...) notificato in data (...), contenente la richiesta di pagamento della somma di (...) 3.624,32, per aver intrapreso attività imprenditoriale nel settore (...)turismo/terziario, con iscrizione al Registro delle imprese al (...) PA ed inizio attività dal 01/01/2020, con la (...) a responsabilità limitata. Nel merito, contestava l'esistenza dei presupposti per l'iscrizione alla (...) Si costituiva (...) contestando le avverse pretese e chiedendo il rigetto del ricorso alla luce della carica di socio unico della società (...) a responsabilità limitata. La causa, istruita solo documentalmente, veniva decisa all'esito del deposito di note scritte in sostituzione dell'udienza del 10.9.24 ex art. 127 ter cpc. Motivi della decisione Il ricorso è fondato in quanto l'(...) non ha dato prova della sussistenza dei requisiti di legge previsti per l'iscrizione -per l'anno 2020- alla gestione commercianti della parte ricorrente e per la sussistenza del conseguente suo obbligo contributivo. In particolare, nessuna prova è stata fornita in ordine al presupposto della partecipazione della parte ricorrente al lavoro aziendale, con carattere di abitualità e prevalenza, nell'ambito della (...) a responsabilità limitata. A tal fine non può ritenersi sufficiente la mera circostanza della sussistenza in capo all'odierna ricorrente parte della veste di socio unico. A tal proposito si deve osservare che l'obbligo di iscrizione alla (...) è stato disciplinato dall'art 1 comma 203 1. n. 662/1996, da cui si evince che tale obbligo sussiste per tutti coloro che: 1) Siano titolari o gestori in proprio di imprese che...siano organizzate e/o dirette prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti la famiglia; 2) Abbiano la piena responsabilità dell'impresa ad assumano tutti gli oneri e i rischi relativi alla sua gestione; 3) Partecipino personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza; 4) Siano in possesso...di licenze o autorizzazioni e/o siano iscritti in albi, registri o ruoli. Più in particolare, l'art. 1 della legge citata ha esteso l'obbligo assicurativo presso la gestione commercianti anche ai soci delle srl nell'ipotesi in cui la prestazione di attività lavorativa in favore della società sia abituale e prevalente. La materia in questione è stata ulteriormente disciplinata con l'art. 12, comma 11, del d.l. n. 78/10, convertito in legge n. 122 del 2010, con il quale è stata data un'interpretazione delle predette disposizioni al fine di dirimere alcuni dubbi applicativi circa la coesistenza di tale iscrizione previdenziale con quella alla gestione previdenziale di cui all'art. 2 co. 26 della l. 16.8.1995 n. 335, su cui si sono pronunciate successivamente diverse decisioni di legittimità, a partire dalla sentenza n. 17076 del 2011 delle (...) della Cassazione. Nell'ambito di tali pronunce merita di essere segnalata, la sentenza della Cassazione n. 10763 del 4 maggio 2018, e ciò non tanto per le conclusioni cui essa è pervenuta in ordine alla suddetta coesistenza, questione che non viene in rilievo precipuo nella presente controversia, ma per altri principi da essa affermati nella materia de qua, avendo essa concluso che "una volta stabilito che per il socio amministratore di società che partecipi all'attività aziendale vi possa essere in via di principio la doppia iscrizione consentita dalla legge (anche in base alla nuova norma interpretativa), rimane sempre da accertare in concreto, in ogni singola fattispecie, il presupposto della partecipazione personale all'attività aziendale commerciale in modo abituale e prevalente ai fini dell'iscrizione alla gestione commercianti". Partendo da tale presupposto, la Cassazione ha quindi affermato che "diventa necessario considerare quindi la partecipazione al lavoro aziendale, ma, come già osservato da questa Corte (5360/2012) deve, altresì, precisarsi che, stante l'ampiezza della dizione usata dal legislatore, per partecipazione personale al lavoro aziendale deve intendersi non soltanto l'espletamento di un'attività esecutiva o materiale, ma anche di un' attività organizzativa e direttiva, di natura intellettuale, posto che anche con tale attività il socio offre il proprio personale apporto all'attività di impresa, ingerendosi direttamente ed in modo rilevante nel ciclo produttivo della stessa; tuttavia la partecipazione personale al lavoro aziendale in modo abituale e prevalente (anche attraverso un'attività di coordinamento e direttiva) è cosa diversa e non può essere scambiata con l'espletamento dell'attività di amministratore per la quale il socio è iscritto alla gestione separata; occorre distinguere perciò tra prestazione di lavoro ed attività di amministratore; e la distinzione delle due posizioni è alla base dei dati normativi di partenza posto che, appunto, la legge ai fini della iscrizione alla gestione commercianti richiede come titolo che il socio partecipi al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza; mentre qualora il socio si limiti ad esercitare l'attività di amministratore egli dovrà essere iscritto alla gestione separata; non possono perciò confondersi, già sul piano logico giuridico, l'attività inerente al ruolo di amministratore con quella esercitata come lavoratore (neppure quando questa seconda attività si esplica al livello più elevato dell'organizzazione e della direzione); si tratta di attività che rimangono su piani giuridici differenti, dal momento che l'attività di amministratore si basa su una relazione di immedesimazione organica o al limite di mandato ex 2260 c.c.; e comporta, a seconda della concreta delega, la partecipazione ad una attività di gestione, l'espletamento di una attività di impulso e di rappresentanza che è rivolta ad eseguire il contratto di società assicurando il funzionamento dell'organismo sociale e sotto certi aspetti la sua stessa esistenza; laddove l'attività lavorativa è rivolta alla concreta realizzazione dello scopo sociale, al suo raggiungimento operativo, attraverso il concorso dell'opera prestata a favore della società dai soci, e dagli altri lavoratori subordinati o autonomi". A tale decisione hanno fatto seguito altre pronunce di legittimità che, riprendendone i principi enunciati, hanno ribadito che "secondo l'indirizzo espresso da questa Corte di cassazione, qualora il socio amministratore di una società a responsabilità limitata partecipi al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza, ha l'obbligo di iscrizione alla gestione commercianti, mentre, qualora si limiti ad esercitare l'attività di amministratore, deve essere iscritto alla sola gestione separata, operando le due attività su piani giuridici differenti, in quanto la prima è diretta alla concreta realizzazione dello scopo sociale, attraverso il concorso dell'opera prestata dai soci e dagli altri lavoratori, e la seconda alla esecuzione del contratto di società sulla base di una relazione di immedesimazione organica volta, a seconda della concreta delega, alla partecipazione alle attività di gestione, di impulso e di rappresentanza (Cass. nn. 10426, 18281 del 2018; n. 23782 del 2019); ciò conferma l'indirizzo, che può dirsi ormai consolidato, che ritiene presupposto imprescindibile per l'iscrizione alla gestione commercianti che sia provato, in conformità a quanto previsto dalla L. n. 662 del 1996 n. 662, art. 1 comma 203 (che ha sostituito la L. 3 giugno 1975, n. 160, art. 29, comma 1, concernente i requisiti previsti per ritenere l'obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali), lo svolgimento di un'attività commerciale (v. Cass. n. 3835 del 2016; Cass. n. 5210 del 2017) per cui con riferimento alle società non è sufficiente la qualità di amministratore a far sorgere l'obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali, essendo necessaria anche la partecipazione personale al lavoro aziendale, con carattere di abitualità e prevalenza; in particolare (v., fra le tante, Cass. n. 4440 del 2017) tale carattere va inteso con riferimento all'attività lavorativa espletata dal soggetto stesso in seno all'impresa, al netto dell'attività eventualmente esercitata in quanto amministratore, indipendentemente dal fatto che il suo apporto sia prevalente rispetto agli altri fattori produttivi (naturali, materiali e personali); tale accezione del requisito della prevalenza meglio si attaglia alla lettera della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 203, volto a valorizzare l'elemento del lavoro personale, ed alla sua ratio, includendo nell'area di applicazione della norma tutti i casi in cui l'attività del socio, ancorché abituale e prevalente rispetto al resto delle sue attività, non possa essere ritenuta preponderante rispetto agli altri fattori produttivi dell'impresa". Nel caso di specie non può ritenersi raggiunta la prova, il cui onere incombeva all'ente previdenziale, che l'attività svolta dalla parte ricorrente in seno alla predetta srl (che da visura camerale prodotta da (...) risulta impiegare più di 100 dipendenti) si sia estesa oltre i limiti propri dell'attività dell'amministrazione della società così come puntualizzata dalla Cassazione, e cioè quale attività che si basa su una relazione di immedesimazione organica, o al limite di mandato ex 2260 c.c., e comporta la partecipazione ad una attività di gestione, l'espletamento di una attività di impulso e di rappresentanza che è rivolta ad eseguire il contratto di società assicurando il funzionamento dell'organismo sociale e sotto certi aspetti la sua stessa esistenza. Quanto alla richiesta di cancellazione, la stessa non può che avere effetto per l'anno 2020, essendo l'avviso impugnato relativo a tale annualità e mancando qualsivoglia deduzione ed allegazione circa gli anni successivi. Del resto la parte non ha rappresentato nessun interesse attuale e concreto (atteso che non risultano allo stato emessi avvisi di addebito per le annualità successive) alla cancellazione, bensì solo futuro ed eventuale. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo tenuto conto della serialità del contenzioso, del valore della controversia e della esigua attività processuale svolta. P.Q.M. Il Tribunale di Agrigento, in funzione di Giudice del (...) accoglie il ricorso e per l'effetto annulla l'avviso di addebito n. (...) ed ordina ad (...) la cancellazione di parte ricorrente dalla gestione commercianti per l'anno 2020. (...) al pagamento delle spese di lite, liquidate in euro 900,00, da distrarsi.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AGRIGENTO Sezione Civile - in composizione monocratica - in persona del Giudice dott. (...) ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. (...) del Ruolo Generale degli (...) civili contenziosi dell'anno 2020 vertente TRA (...) nato a (...) il (...), c.f.: (...) ed ivi res.te in via (...); (...) nato a (...) il (...), c.f.: (...) ed ivi residente in via (...); (...) nata a (...) il (...), c.f.: (...) ed ivi res.ti in via (...); (...) nata a (...) il (...), c.f.: (...) ed ivi res.te in via (...), rappresentati e difesi per procura in atti dall'Avv. (...) ed elettivamente domiciliati in (...) presso il suo studio in (...); - attori - CONTRO (...), partita IVA e (...) Fisc.:(...), con sede (...)persona del suo Presidente e legale rappresentante, Avv. (...) elettivamente domiciliato in (...), presso lo (...) dell'Avv. (...) rappresentato e difeso dall'Avv. (...) giusta (...) alle (...) del 2/10/2015, rep. N. (...), racc. n. (...), in (...) ta di Palermo; - convenuto - OGGETTO: azione di accertamento negativo del credito. MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto di citazione ritualmente notificato a mezzo pec il (...), (...) e (...) ria (...) hanno convenuto in giudizio, dinnanzi al (...) di (...) la (...) deducendo che i contratti di mutuo (del 23.4.2001, 10.7.2006, 7.2.2007, 9.7.2007, 6.7.2010, tutti estinti ad eccezione dell'ultimo) dagli stessi sottoscritti con l'istituto di credito convenuto fossero affetti da indeterminatezza nella pattuizione delle condizioni contrattuali, indeterminatezza derivante dalla previsione della clausola floor (con riferimento al contratto di mutuo n. (...) stipulato da (...) il (...)), in presenza di una discrasia tra tassi convenuti e tassi applicati, usura sia con riguardo agli interessi corrispettivi che a quelli moratori, e anatocismo e formulando le seguenti conclusioni: "rejectis adversiis, (...) - CONTRATTO DI MUTUO DEL 23.04.2001 a) Ritenere e dichiarare il contratto di mutuo affetto da tutte le criticità e problematiche descritte nella parte motiva del presente atto, affetto da anatocismo, con usurarietà degli interessi praticati; b) Conseguentemente, condannare la convenuta alla restituzione ed al pagamento in favore dell'attore (...) della somma di Euro 25.529,17 (euro venticinquemilacinquecentoventinove/17) per interessi illegittimamente percepiti; (...) - CONTRATTO DI MUTUO DEL 23.04.2001 c) Ritenere e dichiarare il contratto di mutuo affetto da tutte le criticità e problematiche descritte nella parte motiva del presente atto, affetto da nullità del contratto floor anatocismo, con usurarietà degli interessi praticati, con ricalcolo con l'applicazione del tasso minimo BOT dei 12 mesi precedenti la sua stipula ai sensi dell'art. 117 TUB; d) Conseguentemente, condannare la convenuta alla restituzione ed al pagamento in favore dell'attore (...) della somma di Euro 6.527,19 (euro seimilacinquecentoventisette/19) per un importo illegittimamente addebitato al correntista, oltre interessi legali dal 06/02/2017. (...) + (...) - (...) DEL 10.06.2006 e) Ritenere e dichiarare il contratto di mutuo affetto da tutte le criticità e problematiche descritte nella parte motiva del presente atto, affetto da anatocismo, con usurarietà degli interessi praticati; f) Conseguentemente, condannare la convenuta alla restituzione ed al pagamento in favore degli attori (...) e (...) della somma di Euro 26.864,71 (euro ventiseimilaottocentosessantaquattro/71) per interessi illegittimamente percepiti; (...) - (...) 9.07.2007 g) Ritenere e dichiarare il contratto di mutuo affetto da tutte le criticità e problematiche descritte nella parte motiva del presente atto, affetto da anatocismo, con usurarietà degli interessi praticati; h) Conseguentemente, condannare la convenuta alla restituzione ed al pagamento in favore dell'attrice (...) della somma di Euro 17.234,12 (euro diciassettemiladuecentotrentaquattro/13) a titolo di restituzione di tutti gli interessi pagati, stante il superamento del tasso di usura; (...) - (...) 06.07.2010 i) Ritenere e dichiarare il contratto di mutuo affetto da tutte le criticità e problematiche descritte nella parte motiva del presente atto, affetto da anatocismo, con usurarietà degli interessi praticati; j) Ritenere e dichiarare che l'attore (...) stante l'usurarietà degli interessi praticati, ha pagato la somma di Euro 15.058,55 in più rispetto a quella realmente dovuta; k) Condannare la convenuta a compensare la somma di cui al punto j con quanto già pagato, dovendo, indi, corrispondere a saldo (...) cesco la residua somma di Euro 22.233,47 in 122 rate a partire dal 05.06.2020". Ritualmente costituitasi, la (...) contestando le allegazioni di parte attrice, chiedeva il rigetto delle domande avversarie, con vittoria di spese. Eccepiva con riferimento al contratto di mutuo n. 11 602 6280 stipulato da (...) il (...) ed estinto in data (...), la prescrizione decennale di qualsiasi pretesa tenuto conto che la prima formale richiesta restitutoria è stata avanzata con pec di diffida e messa in mora del 15/06/2020. Nel corso del processo veniva svolta una ctu contabile; all'udienza del 13.3.2024 la causa, intese le conclusioni scritte delle parti, veniva posta in decisione, con assegnazione dei termini ex art. 190 cpc. Oggetto della presente controversia sono i seguenti contratti: . (...) di (...) con garanzia ipotecaria rep.n. (...) racc. (...), stipulato il (...) tra la (...) e (...) con gli allegati (...) (all. A) e Piano di ammortamento (all. B) (...); · (...) di (...) con garanzia ipotecaria rep. n. (...) racc. (...), stipulato il (...) tra la (...) e (...) con gli allegati: (...) (all. A), Documento di sintesi (all. B), Piano di ammortamento (all. C) (...); · (...) di (...) con garanzia ipotecaria rep. n. (...) racc. (...), stipulato il (...) tra la (...) e (...) e (...) con gli allegati: (...) (all. A), Documento di sintesi (all. B), Piano di ammortamento (all. C) (...); · (...) di (...) con garanzia ipotecaria rep n. (...) racc. (...), stipulato il (...) tra la (...) e (...) con gli allegati: (...) (all. B), Documento di sintesi (all. C), Piano di ammortamento (all. D) (...); · (...) di (...) fondiario rep.n. (...) racc. n. (...), stipulato il (...) tra la (...) e (...) na e (...) con gli allegati : (...) (all. A), Documento di sintesi (all. B), Piano di ammortamento (all. C) (ancora in essere). È fondata l'eccezione di prescrizione sollevata dalla banca convenuta con riferimento al contratto di mutuo n. (...) (rep. n. (...) racc. n. (...)) stipulato da (...) il (...) ed estinto in data (...), poiché la scadenza dell'ultima rata segna l'inizio del periodo prescrizionale (Cass. 4232/23, "Nel contratto di mutuo, l'unicità dell'obbligazione di pagamento dei ratei (il cui debito non può considerarsi scaduto prima della scadenza dell'ultima rata) fa sì, da un lato, che la prescrizione del diritto al rimborso della somma mutuata inizi a decorrere dalla scadenza dell'ultima rata, e dall'altro che, con riguardo agli interessi previsti nel piano di ammortamento, non operi la prescrizione quinquennale ex art. 2948 c.c..") e la prima richiesta restitutoria è stata avanzata dall'attore con pec di diffida e messa in mora del 15/06/2020, quando la causa estintiva era già maturata. (...) dell'eccezione di prescrizione, comporta l'assorbimento delle doglianze di merito relativamente al contratto di mutuo n. (...). * In ordine alla censura di indeterminatezza delle condizioni contrattuali, si premette che il ctu ha verificato che la quasi totalità dei contratti di finanziamento in esame adotta il sistema di ammortamento alla francese con un regime composto (pag. 9 "(...) degli importi previsti nei piani di ammortamento allegati ai diversi contratti ha consentito di appurare che gli stessi sono stati calcolati adottando la metodologia alla francese in regime finanziario composto") e che laddove tale aspetto non sia esplicitato in contratto è stato possibile risalire al suo impiego "con un procedimento di ricostruzione contabile procedendo a ritroso a partire dall'importo della rata indicato in contratto o dal piano di ammortamento allegato" (cfr. ctu pag. 10). Non sono condivisibili le conclusioni del Consulente tecnico d'(...) con riferimento alla indeterminatezza del tasso di interesse derivante dalla mancata specificazione, nel contratto, della formula matematica da applicare ai mutui e del sistema di calcolo degli interessi inclusi nella rata periodica, cioè a dire dell'omessa indicazione del regime di capitalizzazione, semplice o composto, (il che comporterebbe - in considerazione dell'astratta individuazione di una pluralità di piani di ammortamento e di importi delle rate fisse tra di loro alternativi - l'applicazione dei tassi sostitutivi di cui all'art. 117 TUB), poiché l'art. 117 T.u.b. non richiede (a fortiori a pena di nullità) l'esplicitazione del regime di ammortamento nel contratto, né lo richiede la normativa secondaria in tema di trasparenza contrattuale. Dalla disamina degli atti di erogazione e frazionamento dei mutui sopra citati e dagli allegati documenti di sintesi si evince chiaramente il capitale finanziato, è fissato il numero e la periodicità delle rate, l'indicazione del tasso nominale annuo è stabilito in misura determinata per l'intera durata dell'ammortamento (cfr. documentazione in atti). Ora, dall'interpretazione congiunta dei contratti di mutuo e dei relativi piani di ammortamento sviluppati e sottoscritti dalla parte mutuataria ove si prevede la restituzione del prestito in un tempo predeterminato e a scadenza periodica, con indicazione della data di decorrenza del periodo di ammortamento nonché del tasso di interesse - contrariamente a quanto sostengono gli attori - si evince l'accordo sulla costanza della rata che è la caratteristica tipica usualmente associata all'ammortamento "alla francese", contraddistinto da rate costanti composte da quote per capitale e per interessi rispettivamente crescenti e decrescenti. Conseguentemente, una volta raggiunto l'accordo, come sopra detto, sulla somma mutuata, sui tassi, sulla durata del prestito e sul rimborso mediante un numero predefinito di rate costanti, la misura della rata discende matematicamente da tali elementi contrattuali e, benché possa non essere di immediata percezione per il contraente, il piano di ammortamento - costituente parte integrante ed esecutiva del contratto di mutuo - è stato sottoscritto contestualmente dalle parti, dunque, non può discorrersi di indeterminatezza del tasso rilevante ai sensi dell'art. 117 tub, né di mancanza di trasparenza delle condizioni contrattuali (poiché, "il maggior carico di interessi derivante dalla tipologia di ammortamento in questione non deriva da un fenomeno di moltiplicazione in senso tecnico degli interessi che non maturano su altri interessi e non si traduce in una maggiore voce di costo, prezzo o esborso da esplicitare nel contratto, non incidendo sul TAN e sul (...) ma costituisce il naturale effetto della scelta concordata di prevedere che il piano di rimborso si articoli nel pagamento di una rata costante (inizialmente calmierata) e non decrescente, cfr. SU n. 15130/2024). All'atto della stipulazione, invero è stato allegato al contratto il piano di ammortamento e dunque il mutuatario è stato messo nelle condizioni di avere contezza della misura di digradazione del capitale prestato e di conseguenza di poter rendersi conto del regime di capitalizzazione impiegato dall'(...) di credito. A tal proposito, la Suprema Corte, in diverse occasioni, ha affermato, al fine di ritenere sussistente il requisito della determinabilità dell'oggetto del contratto di cui all'art. 1346 c.c., che il tasso d'interesse debba essere desumibile dal contratto, senza alcun margine di incertezza o di discrezionalità in capo all'istituto mutuante, anche individuato per relationem: in quest'ultimo caso, mediante rinvio a dati che siano conoscibili a priori e siano dettati per eseguire un calcolo matematico il cui criterio risulti con esattezza dallo stesso contratto. I dati ed il criterio di calcolo devono perciò essere facilmente individuabili in base a quanto previsto dalla clausola contrattuale, mentre non rilevano la difficoltà del calcolo che va fatto per pervenire al risultato finale nè la perizia richiesta per la sua esecuzione (cfr. Cass. 8028/2018; Cass. 25205/2014; Cass. n. 2765/1992 e n. 7547/92; Cass. 22898/2005, Cass. n. 2317/2007, Cass. 17679/2009, tutte richiamate da Cassazione civile sez. III, 25/06/2019, n.16907). Non assume rilevanza in senso contrario l'astratta possibilità di addivenire ad un piano di ammortamento diverso (con regime semplice) da quello convenuto con un importo della rata e quindi dell'obbligazione accessoria per interessi, minore rispetto a quella indicata nel piano di ammortamento, poiché deve aversi riguardo in via esclusiva al programma negoziale concretamente definito dai contraenti e cristallizzato, giova ribadirlo, nel piano di rimborso allegato. E d'altronde, la mancata indicazione delle modalità di ammortamento e della pattuizione espressa del regime finanziario di capitalizzazione non esplica effetti pregiudizievoli in termini di prezzo o di condizioni praticati, rilevando semmai sulla composizione delle singole rate in cui viene frazionata nel tempo l'obbligazione restitutoria, la quale rimane - come sopra detto - determinata nel suo ammontare e conosciuta ex ante dal cliente all'atto di sottoscrizione delle condizioni economiche. In tema, è da ultimo intervenuta la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite 29/05/2024, (ud. 27/02/2024, dep. 29/05/2024), n.15130 statuendo che "in tema di mutuo bancario, a tasso fisso, con rimborso rateale del prestito regolato da un piano di ammortamento "alla francese" di tipo standardizzato tradizionale, non è causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione della modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione "composto" degli interessi debitori, per indeterminatezza o indeterminabilità dell'oggetto del contratto né per violazione della normativa in tema di trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra gli istituti di credito e i clienti". (cfr. sentenza pag. 23 e ss) Non può discorrersi altresì di indeterminatezza con riferimento alla mancata indicazione delle specifiche del parametro (...) (fixing e base)(v. risposta alle osservazioni, perizia pag. 58, "Nello specifico i contratti del 10/07/2006, 7/02/2007, 9/07/2007, 6/07/2010 prevedono tutti la rilevazione dell'(...) 3 mesi "il primo giorno possibile dei mesi di gennaio, aprile, luglio e ottobre di ogni anno", specificandone altresì la base "365", mentre il contratto del 23/04/2001 prevede la rilevazione dell'(...) applicabile dopo il primo periodo di 60 rate previsto a tasso variabile, il "31 ottobre antecedente la data di scadenza della sessantesima rata" e poi "al 30 di novembre di ogni anno" con effetto "dalla prima rata successiva, cioè quella che andrà a scadere dal primo dicembre di ogni anno in poi". Anche per quanto riguarda la modalità di variazione del piano di ammortamento, non si rileva indeterminatezza perché i contratti prevedono che le rate periodiche si compongano, distintamente, di "tanta parte del capitale quanto occorre a compiere la restituzione del capitale mutuato, secondo il su allegato piano di ammortamento" e "una quota interessi la misura dei quali è determinata (...)" secondo il tasso via via vigente) e alla previsione di una clausola floor al di sotto del quale il tasso non può scendere, in presenza di tutti gli elementi utili ad individuare l'ammontare esatto del tasso (ctu pag. 11, 14 , 20, 28, 60 "la clausola non trasferisce un rischio, ma garantisce alla banca una remuneratività (...) collegata al prestito, prevedendo un prezzo per il proprio servizio. (...) il (...) contabile internazionale IAS 39, le clausole di cap e floor non sarebbero da considerarsi derivati incorporati qualora siano "strettamente correlati alle caratteristiche economiche e ai rischi del contratto primario"; - in merito alla determinatezza della clausola stessa, si osserva altresì che nessuna incertezza applicativa può derivare dalla previsione in termini numerici perfettamente individuati di un tasso minimo e/o massimo, qualora il tasso variabile determinato secondo le specifiche contrattuali superi il valore di detti tassi minimi o massimi") . Pertanto, anche tale censura merita il rigetto. * In ordine alla doglianza relativa all'anatocismo, si osserva che l'adozione del regime composto non genera ex se una surrettizia capitalizzazione degli interessi e non è, perciò, in contrasto col divieto di anatocismo, né con i doveri di trasparenza. La struttura caratteristica del tipo di ammortamento alla francese comporta - per propria conformazione strutturale, seppur con intensità maggiore o minore a seconda delle fattispecie che nel concreto lo realizzino - che i singoli ratei siano composti da quote di (restituzione del) capitale e quote di (pagamento degli) interessi compensativi in rapporto variabile nella successione delle rate: "e così a muovere, più precisamente, dalle rate iniziali, in cui la misura assegnata agli interessi è preponderante, e comunque superiore, rispetto a quella che viene imputata al capitale ancora da restituire; secondo una dinamica in via progressiva decrescente col susseguirsi delle rate; sino a invertire il rapporto quantitativo tra le quote di interessi e di capitale nelle rate inerenti alla fase terminale del previsto rientro" (come spiega Cass. 14166/2021). Nessuna contraddizione, quindi, può essere ravvisata fra l'utilizzo dell'aggettivo "composto", da intendersi come evocato in correlazione con la natura del mutuo in esame, e il successivo rilievo del fatto che la quota di interessi dovuta per ciascuna rata "è calcolata applicando il tasso convenuto solo sul capitale residuo, il che esclude l'anatocismo". (cfr. da ultimo, Cass. ord. 24 novembre 2022 n.(...), Corte appello, (...), sez. I, 28/03/2024, n. 273) Corte appello, Taranto, 17/04/2023, n. 157). Ad escludere l'effetto anatocistico con riferimento al sistema di ammortamento alla francese è la stessa Cassazione a sez. un., 29/05/2024, (ud. 27/02/2024, dep. 29/05/2024), n.15130 sopra citata, laddove ha evidenziato che "con riferimento ai piani di ammortamento "alla francese" standardizzati tradizionali" non si riscontra "un effetto anatocistico vietato se si ha riguardo alla fisiologia dei rapporti di mutuo a restituzione frazionata, riferendosi il divieto ex art. 1283 c.c. (comunque superabile alle condizioni ivi previste) al momento patologico del rapporto, cioè alla pattuizione (...) avente ad oggetto la produzione di interessi su interessi "scaduti" cioè non pagati alla scadenza" e che "deve escludersi che la quota di interessi in ciascuna rata sia il risultato di un calcolo che li determini sugli interessi relativi al periodo precedente o che generi a sua volta la produzione di interessi nel periodo successivo", infatti, "l'ammortamento alla francese prevede che l'obbligazione per interessi sia calcolata sin da subito sull'intero capitale erogato benché quest'ultimo non sia ancora integralmente esigibile" ? come accade anche in altri sistemi di ammortamento, come quello c.d. "all'italiana" in cui la quota di interessi è calcolata sin da subito sull'intero importo mutuato e non su quello residuo ? "ma non prevede che sugli interessi scaduti (e, si potrebbe aggiungere, non scaduti) maturino altri interessi. Il metodo alla francese è, piuttosto, costruito in modo tale che ad ogni rata il debito per interessi si estingue a condizione ovviamente che il pagamento sia avvenuto nel termine prestabilito". Una opposta conclusione non potrebbe argomentarsi rilevando semplicemente che nel mutuo "alla francese" la capitalizzazione avviene in regime "composto" che è una espressione descrittiva del fenomeno per cui la quota capitale è incrementata con gli interessi generati, però, non (...) su altri interessi ma sul capitale (...) residuo, né destinati (...) a generare a loro volta (diventando parte della somma fruttifera di) ulteriori interessi nel periodo successivo (quantomeno nel regime di ammortamento "alla francese" standard e nella dinamica fisiologica del rapporto)..... "la capitalizzazione composta è quindi, nel caso di specie, del tutto eterogenea rispetto all'anatocismo ed è solo un modo per calcolare la somma dovuta da una parte all'altra in esecuzione del contratto concluso tra loro; è, in altre parole, una forma di quantificazione di una prestazione o una modalità di espressione del tasso di interesse applicabile a un capitale dato" (Cass. 27823/2023 in materia fiscale) Quanto alla verifica dell'usurarietà dei tassi occorre fare riferimento al TEG e, dunque alle istruzioni della (...) d'(...) e non già all'art. 644 c.p., assumendo come indefettibile l'esigenza di omogeneità, o simmetria, fra rilevazione del tasso soglia ((...) e verifica dell'eventuale ricorrenza dell'usura a livello di fattispecie concreta e considerato che le istruzioni della (...) d'(...) hanno natura di norme tecniche autorizzate, costituendo lo strumento utilizzato dall'autorità amministrativa nel procedimento d'integrazione del contenuto del'art.644 c.p. e dell'art.2 della L. 108 del 1996 che la stessa legge le demanda per la concreta determinazione del tasso medio, in base al quale viene poi stabilito - con un semplice automatismo - il cd. "tasso soglia" per ciascuna categoria di operazione (cfr. Cass. sent. 22-06-2016, n. 12965). Nella base di calcolo da confrontare con il tasso soglia vanno inclusi solo gli oneri con funzione di remunerazione del credito con esclusione delle imposte e tasse, dei costi solo eventuali collegati al mutuo, come la mora, le commissioni per anticipata estinzione in conseguenza di risoluzione, le penali per il recesso dal momento che tutte le voci menzionate, oltre ad essere meramente eventuali, hanno natura e ratio eterogenea e si caratterizzano per essere elementi accidentali del negozio con funzione indennizzante per il mutuante (ex multis da ultimo, (...) , sez. II , 04/10/2021 , n. 1669, Corte appello di Perugia , sez. I , 01/10/2021 , n. 561, (...) di Bologna , sez. IV , 08/04/2021 , 904, (...) , Novara , 01/07/2020 , n. 324). In merito, da ultimo, la Suprema Corte di Cassazione con la Sentenza n. 7352 del 07/03/2022 ha chiarito che: "In tema di usura bancaria, ai fini del superamento del "tasso soglia" previsto dalla disciplina antiusura, non è possibile procedere alla sommatoria degli interessi moratori con la commissione di estinzione anticipata del finanziamento, non costituendo quest'ultima una remunerazione, a favore della banca, dipendente dalla durata dell'effettiva utilizzazione del denaro da parte del cliente, bensì un corrispettivo previsto per lo scioglimento anticipato degli impegni a quella connessi". Peraltro, si osserva che nel caso in oggetto la penale per estinzione anticipata non è stata mai concretamente addebitata in quanto l'ammortamento dei mutui si è concluso alle regolari scadenze per quattro finanziamenti, mentre il quinto era in regolare ammortamento fino alla rata n. 117, quando l'applicazione della penale non avrebbe mai potuto provocare lo sforamento del tasso (cfr. CTU pag. 55). Ciò posto, in merito alla verifica del rispetto del tasso soglia con riguardo agli interessi corrispettivi, il consulente ha operato il confronto tra il TEG ed il tasso soglia rilevato dal decreto ministeriale relativo ai trimestri di riferimento per ogni singolo mutuo pervenendo alla conclusione che il TEG è inferiore al tasso soglia per i mutui nel periodo di riferimento; alla stessa conclusione è giunto con riferimento agli interessi di mora. la doglianza è infondata. In base al principio della soccombenza, le spese del giudizio vanno poste a carico delle parti attrici in solido e si liquidano nella misura indicata in dispositivo, tenuto conto del valore della controversia e dell'attività in concreto svolta, nelle fasi del giudizio, alla luce dei parametri tra i minimi e i medi di cui al DMG 55/2014. Parimenti le spese di ctu vanno poste definitivamente a carico di parte attrice. P.Q.M. Il Tribunale di Agrigento uditi i procuratori delle parti costituite, ogni contraria istanza, eccezione e difesa disattesa, definitivamente pronunciando: ? Rigetta le domande proposte con atto di citazione del 21.10.2020 da (...) e (...) ria (...) nei confronti della (...); ? (...) seppe e (...) in solido al pagamento in favore di (...) delle spese del giudizio, liquidate in complessivi euro 10.000,00, oltre le spese generali al 15%, I.V.A. e C.P.A. nella misura legalmente dovuta; ? pone le spese di C.T.U., liquidate come da decreti in atti, definitivamente a carico delle parti attrici in solido

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AGRIGENTO SEZIONE CIVILE in composizione monocratica nella persona del giudice, Matteo De Nes, visto l'art. 281 - sexies c.p.c., a seguito della discussione della causa, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile in primo grado iscritta in data (...) e vertente tra (...) (p.i. (...)), in persona dell'amministratore pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. (...) ATTORE e (...) (c.f. (...)), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti (...) e (...) CONVENUTO MOTIVAZIONE Profili processuali rilevanti Il presente procedimento riguarda l'azione per l'accertamento della natura condominiale di un bene, il vano ascensore, sito nel condominio "(...)". Nello specifico, l'attore rappresentava che l'immobile oggetto del procedimento, originariamente edificato in maniera abusiva e successivamente oggetto di concessione edilizia in sanatoria, è costituito da sei elevazioni fuori terra: un piano seminterrato ed un piano terra, di proprietà della (...) e adibiti ad attività commerciale, tre piani destinati a residenza e un'ultima elevazione costituita dalla terrazza. Rappresentava, poi, che i condomini, all'assemblea straordinaria del (...), deliberavano di istallare un ascensore e che la ditta affidataria dell'incarico, durante il primo sopralluogo, constatava che il vano ascensore era parzialmente occupato da un impianto ad uso privato della (...) che collegava il piano seminterrato al piano terra. Concludeva, quindi, chiedendo la condanna al ripristino dello stato dei luoghi con la rimozione dell'impianto di proprietà della convenuta. Il tutto con vittoria di spese. (...) regolarmente costituitasi, chiedeva, in via preliminare, l'integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini e, nel merito, il rigetto della domanda; in subordine, eccepiva l'intervenuta prescrizione del diritto azionato in giudizio. Il tutto con vittoria di spese. La presente causa, istruita mediante l'assunzione di prova testimoniale (con i testi (...), (...), (...) e (...) escussi all'udienza del (...) e (...), escusso all'udienza del (...)) e l'espletamento di ctu tecnica, è stata posta in decisione a seguito della precisazione delle conclusioni sopra riportate. L'azione del condominio " (...) " è fondata per i motivi di seguito esposti. Sulla integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini dell'edificio (...) ha preliminarmente eccepito l'integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini dell'edificio. L'attore si è opposto. L'eccezione è priva di fondamento. Sul punto, la Suprema Corte ha avuto modo di osservare che: "In tema di condominio, le azioni reali da esperirsi contro i singoli condomini o contro terzi e dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità, al contenuto o alla tutela dei diritti reali dei condomini su cose o parti dell'edificio condominiale che esulino dal novero degli atti meramente conservativi (al cui compimento l'amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1130 n. 4 cod. civ.) possono essere esperite dall'amministratore solo previa autorizzazione dell'assemblea, ex art. 1131 comma primo cod. civ., adottata con la maggiorana qualificata di cui all'art. 1136 stesso codice" (Cass. n. 5147 del 2003 e Cass. n. 14797 del 2014). Nel caso di specie, è intervenuta delibera autorizzativa in favore dell'amministratore (cfr. verbale di assemblea condominiale del (...), all.to 2 della memoria ex art. 183 c. 6 n. 2 c.p.c. di parte attrice), adottata con la necessaria maggioranza, ai fini della proposizione della presente azione. Sussiste, quindi, la legittimazione dell'amministratore, così come autorizzato dall'assemblea condominiale, non essendo necessaria una deliberazione unanime, né la partecipazione al giudizio di tutti i condomini. Sull'accertamento della proprietà del vano ascensore. Entrando nel merito, parte attrice ha chiesto di accertare la natura condominiale del vano ascensore. (...) si è opposta eccependo di aver acquistato l'immobile comprensivo dell'ascensore/montacarichi che collegava il piano terra con il seminterrato. Ha eccepito, così, la prescrizione dell'azione o comunque l'usucapione poiché il montacarichi sarebbe stato realizzato dai precedenti proprietari, così come risulterebbe dalle planimetrie catastali del 1985, in atti. L'attività istruttoria espletata ha confermato l'assunto attoreo circa l'esistenza di un vano ascensore di natura condominiale. Infatti, il C.T.U. incaricato -le cui conclusioni questo Giudice ritiene di condividere- ha accertato "l'effettiva esistenza di un vano ascensore condominiale, a servizio di tutti i piani e realizzato a destra della quarta serie di pilastri, ma che, a differenza di quanto rilevato nella documentazione tecnica, non presenta un solaio di piano terra continuo. Il vano ascensore condominiale, invece di fermarsi al piano terra, mette in comunicazione lo stesso con il piano seminterrato. L'accesso al vano, dal piano terra, non avviene dall'androne condominiale, ma dall'interno dell'attività commerciale. Il vano montacarichi/ascensore che, come rilevato in atti, avrebbe dovuto collegare il piano terra con il seminterrato, e si sarebbe dovuto trovare alla sinistra della quarta fila di pilastri, è stato realizzato in continuità con il vano corsa ascensore condominiale, quindi alla destra della quarta fila di pilastri, sovrapponendosi planimetricamente, con lo stesso". Osserva ancora il C.T.U. "di fatto i due vani corsa si trovano planimetricamente sovrapposti, al posto di avere due distinti vani corsa (uno condominiale alla destra della quarta fila di pilastri, e uno privato alla sinistra della quarta fila di pilastri) esiste un solo vano corsa ascensore, che collega il piano seminterrato al piano terrazzo dell'immobile, occupato attualmente dal montacarichi della ditta (...) al servizio del solo piano terra e seminterrato". Inoltre, il C.T.U. incaricato e le dichiarazioni rese dal teste (...) , escusso all'udienza del (...) , hanno confermato che il vano ascensore risulta parzialmente occupato da un impianto ad uso privato che pregiudica l'istallazione dell'ascensore ad uso condominiale. Ciò posto, l'art. 1117 c.c. individua l'ascensore tra le parti dell'edificio che si presumono di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari. L'articolo in questione formula, pertanto, una presunzione di appartenenza comune ai condomini dei beni in esso elencati che, come tale, può essere superata solo dalle risultanze opposte di un determinato titolo (Cass. S.U. sentenza n. 7449/1993, Cassazione sentenza n. 3852/2020), prova che nel caso in esame non è stata raggiunta. Infatti, negli atti di trasferimento della proprietà degli immobili da parte dell'originario proprietario, depositati dall'attore, è dato leggersi "la compravendita concerne l'immobile nello stato di fatto in cui si trova, con ogni diritto, ragione ed azione e con le relative pertinenze, dipendenze, servitù e diritti di condominio; con espressa esclusione di ogni e qualsiasi diritto sull'area soprastante l'ultimo piano che rimane di proprietà esclusiva dei venditori" (cfr. all.to 5 dell'atto di citazione, atto di compravendita (...)); ancora, "è compreso tutto quanto altro per legge, uso e consuetudine è proprietà comune in un edificio in condominio, con espressa esclusione di ogni e qualsiasi diritto sull'area soprastante l'ultimo piano che è rimasta di esclusiva proprietà e disponibilità dei venditori" (cfr. all.to 6 dell'atto di citazione, atto di compravendita (...)). Manca, pertanto, una valida riserva da parte dell'originario proprietario sul bene comune (vano ascensore). In ordine alla prescrizione dell'azione e all'acquisto per usucapione del diritto della convenuta di mantenere il montacarichi, si osserva quanto segue. L'art. 948 c.c. dispone che: "l'azione di rivendicazione non si prescrive, salvi gli effetti dell'acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione". Chi agisce in rivendica deve provare, pertanto, di aver acquistato la titolarità del bene a titolo originario. Gli elementi indispensabili affinché si possa realizzare l'acquisto a titolo originario sono il possesso della cosa, pacifico e continuo, e il trascorrere di un determinato periodo di tempo. La giurisprudenza della Suprema Corte ha avuto modo di statuire che: "Il requisito della non clandestinità va riferito non agli espedienti che il possessore potrebbe attuare per apparire proprietario, ma al fatto che il possesso sia stato acquistato ed esercitato pubblicamente, cioè in modo visibile a tutti o almeno ad un'apprezzabile ed indistinta generalità di soggetti e non solo dal precedente possessore o da una limitata cerchia di persone che abbiano la possibilità di conoscere la situazione di fatto soltanto grazie al proprio particolare rapporto con quest'ultimo". (Cass. civ. sentenza n. 11465 del 2021). Inoltre, per provare il possesso continuo, pacifico e indisturbato non rileva che gli altri condomini comproprietari si astengano dall'uso della cosa comune, ma è necessario che si verifichi una utilizzazione esclusiva fornendo la dimostrazione che il singolo comproprietario che invoca l'usucapione ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilità di utilizzo che spetta agli altri condomini comproprietari. La Suprema Corte, sul punto, ha affermato che il condomino che rivendica l'usucapione deve dimostrare una condotta diretta a rivelare in modo "inequivoco che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso costituito da atti rivolti contro gli altri compossessori tali da palesare concretamente l'intenzione di non possedere più come compossessore" (fra le tante Cass. Civ., 20039/2016, 5324/2016, 1 7321 /201 5, 17630/2013). In altri termini, il condomino che invoca l'usucapione deve provare il possesso esclusivo del bene e dimostrare che la facoltà di utilizzo di tale bene da parte degli altri condomini sia stata palesemente impedita e/o esclusa per il periodo necessario di 20 anni, prova che nel caso di specie non è stata raggiunta. Infatti, l'attività istruttoria espletata ha confermato che gli altri condomini non erano a conoscenza dell'esistenza di un montacarichi/ascensore che collegava il piano terra con il seminterrato e ciò perché il vano ascensore non era nemmeno visibile. Il teste (...), escusso all'udienza del (...), ha precisato che: "il vano ascensore non è visibile nei vari piani poiché chiuso da pareti in muratura; io l'ho potuto visionare accedendovi da una piccola porta (da cui si accede con fatica chinandosi a terra, larga circa 55 cm e alta circa 80 cm) presente a sinistra della prima rampa di scale che, passando sotto il pianerottolo intermedio tra il piano terra e il primo piano, consente di raggiungere la colonna dell'ascensore". Di alcuna rilevanza appare, poi, la planimetria catastale datata (...) prodotta da parte convenuta atteso che, come correttamente rilevato dal C.T.U., la planimetria catastale è di data antecedente al certificato di sanatoria e rappresenta uno stato dei luoghi difforme dalla condizione rilevata al piano seminterrato. La convenuta deve essere quindi condannata a liberare il vano ascensore rimuovendo il montacarichi che collega il piano terra al piano seminterrato. Sulle spese di lite Le spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo secondo il pertinente scaglione di valore - indeterminabile a complessità bassa - di cui al d.m. 55/2014 (così come aggiornato dal d.m. 147/2022), con applicazione dei valori medi. Le spese relative alla consulenza tecnica vanno poste definitivamente a carico della convenuta (...) P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, così provvede: 1) accerta che il vano ascensore del (...), oggetto di causa, è condominiale e, per l'effetto, condanna la convenuta (...) a liberare detto vano ascensore rimuovendo il montacarichi presente; 2) condanna (...) al pagamento delle spese di lite sostenute dall'attore che liquida in 7.616,00 euro, oltre spese esenti e oltre al rimborso spese generali 15%, CPA e IVA come per legge, con distrazione ex art. 93 c.p.c. a favore del difensore dell'attore dichiaratosi antistatario; 3) pone le spese di CTU, liquidate con separato decreto, definitivamente a carico della società convenuta (...) Così deciso in Agrigento l'8 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria l'8 gennaio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI AGRIGENTO SEZIONE LAVORO In persona della Dott.ssa Tecla De Bono, in funzione di Giudice Onorario di Pace presso il Tribunale di Agrigento, Sezione Lavoro, all'udienza del 24 aprile 2023 ha pronunciato alle ore 15,01, la seguente SENTENZA ex art. 429 c.p.c. nelle causa in materia previdenziale iscritta al n. 3571 R.G. 2019 del Ruolo Lavoro Previdenza Assistenza promossa: da B.C. (C.F. (...)). avv. BALSAMO TERESA - opponente - contro I.N.P.S. Istituto Nazionale della Previdenza Sociale in persona del suo legale rappresentate pro tempore corrente in Roma, Via Ciro il Grande n. 21 I.N.P.S. Istituto Nazionale della Previdenza Sociale in persona del suo legale rappresentate pro tempore - cod. fisc. (...) con sede in Agrigento in Via (...) l'I.N.P.S. Istituto Nazionale della Previdenza Sociale in persona del suo legale rappresentate pro tempore sede di Canicattì via (...) avv. IL.GI. - opposto - OGGETTO: Iscrizione elenco lavoratori agricoli - disconoscimento giornate lavorative. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso depositato in data 18 novembre 2019 l' istante in epigrafe conveniva in giudizio l'I.N.P.S. - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale - in persona del legale rappresentante pro-tempore chiedendo di ritenere fondato nel merito il ricorso de quo e conseguentemente ordinare all'I.N.P.S. in persona del suo legale rappresentante pro-tempore di reinserire il ricorrente nell'elenco dei braccianti agricoli relativamente agli anni dal 2014 al 2017 avendo lo stesso, svolto attività lavorativa di bracciante agricolo presso la Ditta "(...)" con sede legale in C. di L. (A.) via M. n.21. A sostegno della domanda deduceva di avere lavorato per la Ditta "(...)" con sede legale in C. di L. (A.) come da documentazione in atti ; che l'I.N.P.S. di Agrigento gli aveva comunicato in data 22 gennaio 2019 che la domanda di disoccupazione agricola relative all'anno 2016 già accolta, d'ufficio è stata riesaminata il 9.1.2019 e respinta con la seguente motivazione: "REIEZIONE DOM.: NON RISULTA ISCRITTO NEGLI ELENCHI AGRICOLI"; che con successivo Provv. del 24 gennaio 2019, pervenuto il 28 febbraio 2019 l'I.N.P.S. di Agrigento gli aveva comunicato che l'indebito già versato per la suddetta causale per il periodo dal 01.01.2014 al 31.12.2017 era pari ad Euro 20.688,42 e di avere revocato conseguentemente gli assegni per il nucleo familiare, somma della quale chiedeva la restituzione; che Avverso detto provvedimento veniva proposti separati ricorsi al Comitato Provinciale I.N.P.S. in data 19 aprile 2019 ed in data 22 giugno 2019 ai quali non è stato dato alcun riscontro. Da qui la proposizione del presente giudizio. Eccepiva a sostegno della propria tesi la illegittimità del provvedimento di cancellazione dall'Elenco Agricoli per avere effettivamente svolto attività lavorative alle dipendenze della ditta (...), la illegittimità provvedimenti adottati dall'INPS/mancanza di motivazione. Concludeva, pertanto, chiedendo l'accoglimento del ricorso e delle conclusioni ivi rassegnate con vittoria di spese, competenze ed onorari da distrarre in favore del procuratore dichiaratosi antistatario. Instauratosi il contraddittorio, si costituiva in giudizio l'I.n.p.s. in persona del suo legale rappresentante pro-tempore che eccepiva, in via preliminare l'inammissibilità del ricorso per intervenuta decadenza ai sensi degli artt. 11 D.Lgs. n. 375 del 1993 e 22 D.I. n. 7 del 1970 e nè chiedeva nel merito il rigetto deducendone variamente l'infondatezza. Con vittoria di spese di lite. La causa veniva istruita documentalmente, ed autorizzato il deposito di note scritte sulla questione preliminare di decadenza sollevata dall'istituto , veniva rinviata per discussione decisione all'udienza del 30 marzo 2021 , poi a causa dell'emergenza epidemiologica da covid 19, ed infine per carico di lavoro del giudice. All'odierna udienza del 24 aprile 2023 viene decisa con sentenza emessa ai sensi dell'art. 429 c.p.c. che viene comunicata alle parti. MOTIVI DELLA DECISIONE La domanda è inammissibile per intervenuta decadenza ex L. n. 83 del 1970. Il diritto alle prestazioni previdenziali spettanti ai lavoratori operai agricoli a tempo determinato, è condizionato dall'esistenza di un fattispecie complessa che è costituita non solo dallo svolgimento di un'attività di lavoro subordinato a titolo oneroso per un numero minimo di giornate per ciascun anno di riferimento, ma altresì dall'iscrizione di tali giornate in appositi elenchi nominativi (cfr. per tutte Cass. n. 276/2008). Il sistema previdenziale per i lavoratori agricoli è gestito dall'I.n.p.s (subentrato allo SCAU - Servizio per i contributi agricoli unificati a far data dal 1 luglio 1995, a norma dell'art.19 della L. n. 724 del 1994) il quale, sulla base delle dichiarazioni trimestrali dei datori di lavoro, provvede a compilare gli elenchi in questione. Tuttavia, una volta avvenuta, l'iscrizione può essere oggetto di controlli e di cancellazione (artt. 8, 9, 16 e 19 del D.Lgs. n. 375 del 1993, recante Attuazione dell'art. 3, comma 1, lettera aa), della L. 23 ottobre 1992, n. 421, concernente razionalizzazione dei sistemi di accertamento dei lavoratori dell'agricoltura e dei relativi contributi) e in particolare, ove sulla base di accertamenti ispettivi verifichi l'inesistenza del rapporto, l'istituto emette un atto di disconoscimento della prestazione di lavoro ed adotta il conseguente atto di cancellazione (art. 9 D.Lgs. n. 375 del 1993 cit.). Tale possibilità per l'ente previdenziale permane anche a seguito dell'abolizione degli elenchi trimestrali, avvenuta ai sensi dell'art. 38, comma 6, D.L. n. 98 del 2011 convertito in L. n. 111 del 2011, potendo l'I.n.p.s. provvedere, in caso di riconoscimento o di disconoscimento di giornate lavorative intervenuti dopo la compilazione e pubblicazione dell'elenco annuale, alla notifica ai lavoratori interessati di appositi elenchi nominativi trimestrali di variazione. A tale potere di controllo e modifica unilaterale dell'I.n.p.s., si contrappone un doppio grado di gravame amministrativo. Ed invero, per la verifica della definitività del provvedimento occorre fare riferimento al procedimento disciplinato dall'art. 11 del D.Lgs. n. 375 del 1993 di attuazione dell'art. 3 comma 1 lett. a) della L. n. 421 del 1992, per il quale "contro i provvedimenti adottati in materia di accertamento degli operai agricoli a tempo determinato ed indeterminato e dei compartecipanti familiari e piccoli coloni e contro la non iscrizione è data facoltà agli interessati di proporre, entro il termine di trenta giorni, ricorso alla commissione provinciale per la manodopera agricola che decide entro novanta giorni. Decorso inutilmente tale termine il ricorso si intende respinto. Contro le decisioni della Commissione l'interessato e il dirigente della competente sede SCAU (ante riforma ex art. 19 della L. n. 724 del 194) possono proporre, entro trenta giorni, ricorso alla Commissione Centrale preposta al predetto Servizio che decide entro novanta giorni. Decorso inutilmente tale termine il ricorso si intende respinto". Inoltre, a norma dell'art. 22 del D.L. 3 febbraio 1970, n. 7, convertito nella L. 11 marzo 1970, n. 83, "contro i provvedimenti definitivi adottati in applicazione del presente decreto da cui derivi una lesione di diritti soggettivi, l'interessato può proporre azione giudiziaria davanti al pretore nel termine di 120 giorni dalla notifica o dal momento in cui ne abbia avuto conoscenza". Per costante orientamento della Corte di Cassazione, al quale va prestata adesione: In caso di avvenuta presentazione dei ricorsi amministrativi previsti dal D.Lgs. 11 agosto 1993, n. 375, art. 11, contro i provvedimenti di mancata iscrizione, totale o parziale, negli elenchi nominativi dei lavoratori agricoli, ovvero di cancellazione dagli elenchi medesimi, il termine di 120 giorni per l'esercizio dell'azione giudiziaria stabilito dall'art. 22 D.L. 3 febbraio 1970, n. 7, convertito dalla L. 11 marzo 1970, n. 83, decorre dalla definizione del procedimento amministrativo contenzioso, che coincide con la data di notifica all'interessato del provvedimento conclusivo espresso, se adottato nei termini previsti dall'art. 11 D.Lgs. n. 375 del 1993, cit., ovvero con la scadenza di questi stessi termini nel caso del loro inutile decorso, dovendosi equiparare l'inerzia della competente autorità a un provvedimento tacito di rigetto conosciuto ex lege dall'interessato al verificarsi della descritta evenienza. (Principio affermato ai sensi dell'art. 360 bis, comma 1, c.p.c.).( cfr. Cass. 27/12/2011 n. 29070). Ora, ai sensi dell'art. 38 comma 7 del D.L n. 98 del 2011 convertito in L. n. 111 del 2011 "A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono soppressi gli elenchi nominativi trimestrali di cui all'articolo 9-quinquies del D.L. 1 ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 novembre 1996, n. 608. In caso di riconoscimento o di disconoscimento di giornate lavorative intervenuti dopo la compilazione e la pubblicazione dell'elenco nominativo annuale, l'INPS provvede alla notifica ai lavoratori interessati mediante la pubblicazione, con le modalità telematiche previste dall'articolo 12-bis del R.D. 24 settembre 1940, n. 1949, di appositi elenchi nominativi trimestrali di variazione. Agli eventuali maggiori compiti previsti dal presente comma a carico dell'I.N.P.S. si provvede con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente". Se per un verso la pubblicazione telematica dell'elenco in variazione ha ormai valore di notifica, al lavoratore interessato, del disconoscimento e della cancellazione dall'elenco annuale, per altro verso, tuttavia, nel caso di specie appare equo fare decorrere il termine di trenta giorni per la proposizione del ricorso amministrativo previsto dall'art. 11 D.Lgs. n. 375 del 1993 cit. - termine trascorso il quale il disconoscimento e la cancellazione devono considerarsi definitivi - dalla data in cui il ricorrente allega di essere venuto a conoscenza del disconoscimento e della cancellazione. Risulta dalla documentazione prodotta in atti che la parte ricorrente è stata cancellata dagli elenchi dei lavoratori agricoli a seguito della pubblicazione nel sito internet dell'Inps del terzo e il quarto elenco nominativo trimestrale di variazione per l'anno 2018 per il comune di Campobello di Licata, pubblicati nel sito internet dell'Inps dal 15/12/2018 al 31/12/2018 e dal 10/03/2019 al 25/03/2019( circostanza questa mai contestata dalla parte ricorrente) , da cui risulta l'intervenuta variazione della posizione di parte ricorrente per l'intero periodo indicato in ricorso. (cfr. Produzione fascicolo telematico inps), che tale cancellazione gli è stata comunicata con raccomandata con avviso di ricevimento dall'I.N.P.S. (cfr. All. N. 1 fascicolo parte ricorrente) in data 28 gennaio 2019 per l'anno 2016 come peraltro ammesso dalla stessa parte ricorrente , che ha proposto ricorso al Comitato provinciale in data 22 giugno 2019 per l'anno 2016 (cfr. All. fascicolo ricorrente). Nel caso di specie, se per un verso la pubblicazione telematica (nel caso di specie avvenuta nel sito internet dell'Inps dal 15/12/2018 al 31/12/2018 e dal 10/03/2019 al 25/03/2019 dell'elenco di variazione, ai sensi dell'art. 38 comma 6 D.L. n. 98 del 2011, ha ormai valore di notifica, al lavoratore interessato, del disconoscimento e della cancellazione dall'elenco annuale, per altro verso, tuttavia, il ricorrente ha appreso dell'avvenuto disconoscimento delle giornate di lavoro e la conseguente cancellazione con la nota Inps del in data 28 gennaio 2019 per l'anno 2016 - e pertanto è da tale data che deve farsi decorrere il termine di trenta giorni per il ricorso amministrativo previsto dall'art. 11 D.Lgs. n. 375 del 1993 cit., trascorso il quale il provvedimento deve considerarsi definitivo. Ebbene, il ricorrente non solo non ha proposto tempestivamente i suddetti ricorsi amministrativi - in atti risulta depositato un ricorso al comitato provinciale inoltrato solo in data 22 giugno 2019 ( anno 2016) - ma non ha neppure provveduto, ad impugnare in via amministrativa l'elenco in variazione, la cui pubblicazione sul sito Inps, dal 15/12/2018 al 31/12/2018 e dal 10/03/2019 al 25/03/2019, che aveva come si è detto valore di notifica della cancellazione delle giornate lavorative iscritte per l'anno 2016. Ne deriva che, nel caso di specie, l'azione giudiziaria avrebbe dovuto essere proposta entro 150 giorni (30 per il ricorso amministrativo, decorsi i quali il provvedimento di disconoscimento è divenuto definitivo e lesivo + 120 per il ricorso giudiziale) decorrenti dal 28 gennaio 2019 per l'anno 2016 ( data di notifica del provvedimento inps di cancellazione) ovvero dal 15/12/2018 al 31/12/2018 e dal 10/03/2019 al 25/03/2019 data di pubblicazione telematica dell'elenco in variazione ex art. 38 comma 6 D.L. n. 98 del 2011 (conv. in L. n. 111 del 2011), e cioè nel primo caso entro il 27 giugno 2019, e nel secondo caso entro il 23 settembre 2019 avendo la relativa cancellazione acquistato definitività, consentendo il decorrere dei 120 giorni fissati a pena di decadenza dall'art. 22 D.L. 3 febbraio 1970, n. 7 cit. per la proposizione del ricorso giudiziale. Alla data del deposito del ricorso (18 novembre 2019 ), pertanto, il termine di decadenza di cui all' art. 22 D.L. n. 7 del 1970 era ormai irrimediabilmente spirato in entrambe le ipotesi sopra prospettate. Infine , si rileva che se per un verso sarebbe ammissibile l'accertamento incidentale circa la consistenza del numero di giornate e, quindi, del monte contributivo del lavoratore agricolo da parte del giudice adito per il pagamento della prestazione, sul quale non incide peraltro la mancata iscrizione (o la cancellazione) negli elenchi - atteso che la sussistenza di tale elemento costitutivo del diritto alla prestazione previdenziale può essere chiesta e dimostrata nel giudizio avente ad oggetto la stessa prestazione (in questo senso, sia pure in fattispecie parzialmente diversa cfr. Cass. 15.07.2005, n. 14994) - per altro verso nondimeno il relativo giudizio avrebbe dovuto essere intentato nel termine di decadenza previsto dalla legge per reagire avverso i provvedimenti di disconoscimento e cancellazione, ciò che come si è detto non è avvenuto nel caso di specie. Alla luce della ormai intervenuta incontestabilità del provvedimento di disconoscimento e di cancellazione delle giornate dall'elenco del 2016, nessun interesse appare residuare in capo al ricorrente in ordine all'accertamento delle giornate di lavoro agricolo svolto alle dipendenze della ditta (...), con sede legale in C. di L. nel suddetto anno, non potendone comunque discendere, in mancanza dell'indefettibile presupposto dell'iscrizione nel relativo elenco nominativo, il diritto all'indennità di disoccupazione agricola. Il ricorso è pertanto rigettato. Ritenuta la particolarità della questione trattata compensa tra le parti le spese di lite inerenti il presente giudizio P.Q.M. La Dott.ssa Tecla De Bono, in funzione di Giudice Onorario presso il Tribunale di Agrigento, Sezione Lavoro, ogni diversa istanza, eccezione o deduzione disattesa, definitivamente pronunciando nel contraddittorio delle parti nella causa iscritta al n. 3571/2019 R.G.; rigetta il ricorso. compensa tra le parti le spese di lite. Così deciso in Agrigento il 24 aprile 2023. Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI AGRIGENTO SEZIONE SPECIALIZZATA AGRARIA così composto: 1. Marco Salvatori - Presidente 2. Vincenza Bennici - Giudice 3. G. Claudia Ragusa - Giudice rel. 4. Giuseppe Pistone - Esperto 5. Gaetano Ritacco - Esperto nel procedimento n. 197/2022 R.G., promosso DA (...) elettivamente domiciliata presso lo studio dell'avv. (...) che la rappresenta e difende, unitamente all'avv. (...) giusta procura allegata al ricorso introduttivo -ricorrente - CONTRO (...) elettivamente domiciliata presso lo studio dell'avv. (...) giusta procura in calce alla memoria di costituzione; (...) elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv. (...) giusta procura in calce alla memoria di costituzione; resistenti e ricorrenti in via riconvenzionale OGGETTO: Azione di condanna al rilascio di fondo; condanna al pagamento di indennizzo per migliorie in via riconvenzionale; RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO Con ricorso, depositato il 24 gennaio 2022, (...) premettendo di essere comproprietaria di un fondo rustico, sito in A., in località C., identificato in catasto al foglio (...) particelle n. (...) esteso circa 2, 1 ettari, giusta successione ereditaria di (...) e allegando una occupazione sine titulo da parte di (...) e di (...) ha chiesto l'immediato rilascio del fondo libero da persone e da cose. La medesima ricorrente ha chiesto, in subordine, qualora nel corso del giudizio fosse emersa l'esistenza di un contratto, la cessazione dello stesso per intervenuta disdetta notificata in data 14 luglio 2021 o ancora la risoluzione del medesimo rapporto contrattuale per inadempimento dei resistenti nella conduzione del fondo, domandando, infine e in ogni caso, la condanna di questi ultimi al risarcimento del danno da liquidarsi in via equitativa per occupazione sine titulo, con vittoria di spese del giudizio. Instaurato il contraddittorio, con memorie depositate il 17 marzo 2022 si sono costituiti (...) e (...) i quali hanno resistito alla domanda di rilascio, eccependo, in via riconvenzionale, il loro acquisto per usucapione del fondo per cui è causa, domandando, in subordine e in via riconvenzionale, nel caso di mancato accoglimento della predetta eccezione la condanna della ricorrente al pagamento in loro favore delle spese sostenute per le migliorie apportate sul fondo pari a Euro 50.000,00, opponendosi, infine, alla richiesta di risarcimento del danno. Differita la prima udienza alla luce della proposizione della domanda riconvenzionale, le parti sono state autorizzate al deposito di note. La ricorrente ha contestato l'eccezione di usucapione e la domanda riconvenzionale, eccependo, in via preliminare, l'improcedibilità delle stesse per il mancato esperimento, rispettivamente, del tentativo di mediazione e di conciliazione, nel merito, ha contestato le avverse difese, producendo un contratto di mezzadria sottoscritto dai rispettivi dante causa nel 2004. I resistenti hanno disconosciuto la scrittura privata suddetta e hanno insistito nelle proprie difese, chiedendo eventualmente l'assegnazione di un termine per la proposizione del tentativo di conciliazione e/o di mediazione. La causa, a seguito di rinuncia della ricorrente alla verificazione della scrittura privata, è stata istruita con produzione documentale e all'udienza del 29 marzo 2023 è stata discussa e decisa con il deposito del dispositivo di sentenza. Cosi sinteticamente delineato l'oggetto del contendere, seguendo un ordine di pregiudizialità logica e giuridica, va, innanzitutto, affermata la proponibilità della domanda di rilascio, essendo stata preceduta dalla comunicazione stragiudiziale notificata, alle controparti, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento del 26 luglio 2021, nonché dal preventivo esperimento del tentativo di conciliazione presso il competente Ispettorato provinciale dell'Agricoltura ai sensi dell'art. 46, comma primo della L. 3 maggio 1982, n. 203, concluso con esito negativo ( cfr. all. 5-7 Ricorso). A questo punto, va esaminata l'eccezione preliminare di usucapione sollevata dai resistenti. Va, innanzitutto, affermata l'ammissibilità della stessa, atteso che, trattandosi di un'eccezione e non di una domanda, non era necessario il preventivo tentativo di mediazione, previsto, invece, a pena di improcedibilità, in presenza di domande (proposte in via principale o in via riconvenzionale) in materia di diritti reali. Nel merito, l'eccezione è infondata e va disattesa. Invero, in disparte ogni valutazione sulla assenza di specificità nella indicazione del fondo asseritamente posseduto con riferimento all'estensione superficiaria e ai confini dello stesso (cfr. sulla indispensabilità delle indicazioni Cass. n. 4332/2013), si ritiene come non siano stati dimostrati i presupposti di cui all'art. 1158 c.c., ossia il possesso in senso tecnico da parte di chi non è titolare del diritto corrispondente e la durata dello stesso per il tempo richiesto dalla legge, accompagnati dall'animus rem sibi habendi. Nella specie, i resistenti hanno allegato di aver coltivato il fondo per oltre vent'anni, comportandosi come unici proprietari con segni visibili all'esterno (messa a dimora di piante, alberi di ulivo, di limoni, di colture e opere di varia natura). Tuttavia, si ritiene come i medesimi resistenti non abbiano fornito adeguata prova del possesso uti dominus, stante l'irrilevanza, ai fini del decidere, delle prove testimoniali articolate, che, quand'anche ammesse, avrebbero dimostrato la mera coltivazione del fondo da parte dei resistenti e non già un possesso utile ai fini del perfezionamento della fattispecie acquisitiva. A tal proposito, va richiamato l'orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in relazione alla domanda di accertamento dell'intervenuta usucapione della proprietà di un fondo destinato ad uso agricolo, non è sufficiente, ai fini della prova del possesso "uti dominus" del bene, la sua mera coltivazione, poiché tale attività è pienamente compatibile con una relazione materiale fondata su un titolo convenzionale, o sulla mera tolleranza del proprietario, e non esprime comunque un'attività idonea a realizzare l'esclusione dei terzi dal godimento del bene, che costituisce l'espressione tipica del diritto di proprietà. A tal fine, per conseguire la prova dell'esercizio del possesso "uti dominus" del bene, colui che invochi l'accertamento dell'intervenuta usucapione del fondo agricolo deve fornire la prova dell'intervenuta recinzione del fondo, che costituisce, in concreto, la più rilevante dimostrazione dell'intenzione del possessore di esercitare sul bene immobile una relazione materiale configurabile in termini di ius excludendi alios, e, dunque, di possederlo come proprietario, escludendo i terzi da qualsiasi relazione di godimento con il cespite predetto ( cfr. Cass n. 8176/2022). Applicando i summenzionati principi al caso di specie, si osserva come non sia stata fornita la prova del possesso da parte dei resistenti teso a escludere l'altrui godimento, stante la mancata formulazione di capitoli di prova orale relativi all'avvenuta recinzione del fondo per un periodo di tempo sufficiente a opera dei resistenti, i quali, invece, si sono limitati ad allegare che l'accesso al fondo in questione sarebbe stato chiuso da un cancelletto, le cui chiavi sarebbero state possedute dai medesimi ( cfr. note autorizzate del 14 maggio 2022). Tale lacuna probatoria non avrebbe potuto essere colmata dalle eventuali dichiarazioni rese in sede di interrogatorio libero (e non formale) chiesto da ciascun resistente nei confronti dell'altro, stante l'assenza di una valenza confessoria delle stesse. A conclusioni diverse non può giungersi neppure valorizzando la produzione documentale allegata alle suddette note autorizzate, dal momento che le foto prodotte non dimostrano inequivocabilmente che il fondo per cui è causa sia chiuso da un cancello, le cui chiavi siano detenute esclusivamente dai resistenti. Ne consegue il rigetto dell'eccezione, stante la carenza di prova dei presupposti richiesti dall'art. 1158 c.c.. Venendo, adesso, alla domanda di rilascio si osserva quanto segue. Innanzitutto, non è contestato che la parte ricorrente sia comproprietaria del fondo rustico indicato in ricorso, per averlo ereditato dal de cuius (...) (cfr. documentazione in atti). Di contro, i resistenti, che non hanno, si ribadisce, dimostrato di aver acquistato per usucapione il fondo in questione, non hanno neppure provato di detenerlo in virtù di un titolo contrattuale. Ne discende che questi ultimi detengono senza titolo il fondo in questione, e per l'effetto, vanno condannati al rilascio, al termine dell'annata agraria in corso, del fondo suddetto, e di quanto su di esso insiste e relative pertinenze, libero da persone e cose. Parimenti, merita accoglimento la domanda della ricorrente di ottenere la condanna dei resistenti al risarcimento del danno per mancato godimento dell'immobile. In tali ipotesi, il danno subito dal proprietario per l'indisponibilità del medesimo va inteso quale pregiudizio all'impossibilità stessa di disporre del bene, senza comunque far venir meno l'onere per lo stesso di allegare e di provare, anche con l'ausilio delle presunzioni, il fatto da cui discende il lamentato pregiudizio, ossia che se egli avesse immediatamente recuperato la disponibilità dell'immobile, l'avrebbe subito impiegato per finalità produttive, quali il godimento diretto o la locazione (Cass. ord. 21835/2020). Nella specie, si ritiene dimostrato il pregiudizio subito, ravvisabile nella dichiarata impossibilità di ricavare un reddito dal fondo, che è comprovato dall'invito della ricorrente rivolto nel 2020 (prima dell'instaurazione del giudizio) ai resistenti di stipulare un contratto di affitto di fondo rustico ( cfr. all. 2 Note autorizzate della ricorrente del 5 maggio 2022). Ebbene, ai fini della determinazione di tale importo, tenuto conto della estensione e della natura del fondo e prendendo come base di riferimento l'importo di Euro 1000,00 annuo (a partire dalla richiesta stragiudiziale di rilascio del 2021), va prevista la condanna dei resistenti al pagamento di Euro 3000,00 complessivi, tenuto conto del numero di annualità trascorse ( 1000 x 3), oltre interessi legali decorrenti dal deposito della sentenza sino al soddisfo. Tanto chiarito, resta, a questo punto, da esaminare la domanda riconvenzionale proposta dai resistenti di ottenere un indennizzo per i miglioramenti apportati sul fondo per cui è causa. Tale domandava dichiarata improponibile, stante il mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, che andava proposto necessariamente prima della instaurazione del giudizio. Infatti, nelle controversie agrarie, la domanda riconvenzionale, al pari di quella proposta dal ricorrente, deve essere preceduta dal tentativo di conciliazione di cui all'art. 46 della L. 3 maggio 1982, n. 203 e, in mancanza, deve essere dichiarata improponibile, tuttavia, non sussiste la necessità di tale preventivo tentativo, qualora il resistente abbia già dedotto le relative richieste nella procedura di conciliazione sperimentata dal ricorrente (cfr. Cassazione n. 23816/2017). Come anticipato, nel caso di specie, i resistenti non solo non hanno esperito il tentativo di conciliazione, ma neppure hanno partecipato al tentativo di conciliazione promosso alla ricorrente, nel corso del quale si sarebbe potuto interloquire sulla domanda riconvenzionale dinanzi ai medesimi organi deputati alla conciliazione. In ogni caso e per incidens va osservato che i medesimi resistenti non hanno neppure dimostrato di aver rispettato le rigide prescrizioni dettate dagli artt. 16 e seguenti della L. n. 203 del 1982, ispirate all'intento di assicurare un costante contraddittorio tra il locatore ed affittuario ed il proprietario, in tema di possibilità di esecuzione di nuove opere attinenti il fondo, anche di tipo migliorativo ( quali, l'esecuzione nel rispetto dei programmi regionali di sviluppo, la comunicazione preventiva alla controparte e all'Istituto provinciale dell'agricoltura con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, corredata da progetto sulla natura, sulle caratteristiche e finalità delle opere di cui si chiede l'esecuzione, la convocazione da parte dell'IPA, delle parti, ai fini della conciliazione e la pronuncia dell'IPA comunicata ad entrambe le parti). Pertanto, sulla scorta delle superiori considerazioni, (...) e (...) vanno condannati al rilascio del fondo per cui è causa libero da persone e cose entro la fine dell'annata agraria in corso, nonché al pagamento della somma complessiva di Euro 3000,00 a titolo di risarcimento del danno per occupazione sine titulo, oltre interessi legali decorrenti dalla pubblicazione della sentenza sino al soddisfo. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo tra i valori minimi e medi delle fasi processuali espletate dello scaglione di riferimento di cui al D.M. n. 147 del 2022, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, disattesa ogni altra istanza, eccezione e difesa: 1. in accoglimento del ricorso, condanna i resistenti (...) e (...) al rilascio, al termine dell'annata agraria in corso, del fondo per cui è causa, meglio indicato in ricorso, e di quanto su di esso insiste e relative pertinenze, libero da persone o cose; 2. dichiara improponibile la domanda riconvenzionale in ordine alle migliorie proposta dai resistenti; 3. condanna i resistenti, (...) e (...) al pagamento in favore della ricorrente, per occupazione sine titolo del fondo, dell'importo complessivo di Euro 3000,00, oltre interessi legali dalla data di deposito della presente sentenza sino al soddisfo; 4. condanna i resistenti, in solido, al pagamento delle spese di lite in favore della parte ricorrente, che liquida in Euro 1500,00, per compensi, oltre Euro 284,00 per spese, oltre IVA e accessori di legge e rimborso spese forfettarie. Così deciso in Agrigento il 29 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 7 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AGRIGENTO SEZIONE LAVORO Il giudice del Tribunale di Agrigento, dott.ssa Valentina Di Salvo, in funzione di Giudice del Lavoro, in seguito all'udienza del 13 settembre 2022 tenuta ai sensi dell'art. 83, comma 7, lett. h), del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 convertito con modificazioni in L. 24 aprile 2020, n. 27, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. R.G.N.R. 1133 / 2020 promossa da (...), C.F. (...), rappresentato e difeso dall'avv. PI.MA., giusta procura in atti, -ricorrente- Contro INPS, in persona del suo rappresentante legale pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. VI.CA., giusta procura in atti -resistente- Oggetto: impugnazione di avviso di addebito. MOTIVI DELLA DECISIONE In fatto e in diritto Con ricorso depositato il 06.05.2020, il ricorrente ha impugnato l'avviso di addebito n. (...) del 23.11.2019 col quale l'Inps di Agrigento gli ha intimato il pagamento della somma di Euro 2.052,06 a titolo di contributi I.V.S. per i periodi ottobre-dicembre 2018 e gennaio-marzo 2019; in particolare, ha dedotto l'illegittimità della pretesa contributiva per insussistenza dei requisiti richiesti dall'art. 1, comma 203, L. n. 662 del 1996 ai fini della iscrizione alla Gestione Commercianti, avendo costituito nel marzo 2016 una società a responsabilità limitata di cui egli è solo socio unico e amministratore. Concludeva, pertanto, chiedendo "Preliminarmente sospendere, con decreto inaudita altera parte, gli effetti dell'atto impugnato. Nel merito annullare lo stesso e dichiarare non dovute le somme pretese dall'Inps a titolo di contributi I.V.S. con l'avviso di addebito impugnato. Con vittoria di spese e compensi.". L'INPS si è costituito in giudizio eccependo, in via preliminare, l'inammissibilità del ricorso per tardività dell'opposizione, argomentandone nel merito variamente l'infondatezza. Mutato il Giudicante, all'odierna udienza, tenuta ai sensi dell'art. 83, comma 7, lett. h), del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 convertito con modificazioni in L. 24 aprile 2020, n. 27, in esito al deposito telematico di note scritte, la causa veniva decisa con adozione fuori udienza della sentenza. Preliminarmente, va rigettata l'eccezione di inammissibilità dell'opposizione per tardività del ricorso sollevata dall'ente previdenziale. Invero, alla luce della sospensione straordinaria, dovuta all'insorgere della pandemia da Covid 19, di tutti i termini processuali dal 9 marzo 2020 all'11 maggio 2020 (art. 83 D.L. n. 418 del 2020; art. 36, comma 1, D.L. n. 23 del 2020) la scadenza del termine di 40 giorni decorrente dalla notifica dell'avviso di addebito impugnato, avvenuta in data 12.02.2020, era da individuarsi nel 26.05.2020; essendo stato il ricorso depositato il 6.05.2020, l'opposizione proposta è da ritenersi tempestiva. Nel merito, va evidenziato che la disciplina relativa alla gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali è stata modificata dall'art. 1, comma 203, della L. n. 662 del 1996 il quale, nel riformulare l'art. 29, comma 1, della L. n. 160 del 1975, ha previsto che l'obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti delle attività commerciali sussiste per i soggetti che siano in possesso dei seguenti requisiti: a) siano titolari o gestori in proprio di imprese che, a prescindere dal numero dei dipendenti, siano organizzate e/o dirette prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia, ivi compresi i parenti e gli affini entro il terzo grado, ovvero siano familiari coadiutori preposti al punto vendita; b) abbiano la piena responsabilità dell'impresa e assumano tutti gli oneri ed i rischi relativi alla sua gestione (ancorché tale requisito non sia richiesto per i familiari coadiutori preposti al punto vendita nonché per i soci di società a responsabilità limitata); c) partecipino personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza; d) siano in possesso, ove previsto da leggi o regolamenti, di licenze o autorizzazioni e/o siano iscritti in albi, registri o ruoli. Parte ricorrente ritiene che, nel caso di specie, difetti il chiesto requisito della partecipazione personale del socio amministratore al lavoro aziendale, con carattere di abitualità e prevalenza. Orbene, giova sul punto ricordare che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 3240/2010, hanno precisato che l'assicurazione obbligatoria "è posta a protezione, fin dalla sua iniziale introduzione, non già dell'elemento imprenditoriale del lavoratore autonomo, sia esso commerciante, coltivatore diretto o artigiano, ma per il fatto che tutti costoro sono accomunati ai lavoratori dipendenti dall'espletamento di attività lavorativa abituale, nel suo momento esecutivo, connotandosi detto impegno personale come elemento prevalente (rispetto agli altri fattori produttivi) all'interno dell'impresa". Inoltre, è da ritenere che il requisito di cui alla lett. c) non può discendere automaticamente dalla qualità di amministratore, poiché, come ritenuto da Cass. n. 23360/16 a proposito dei soci accomandatari (con poteri di amministrazione) nelle società in accomandita semplice, "vanno tenuti distinti i due piani del funzionamento della società, con i connessi poteri di amministrazione, e della gestione dell'attività commerciale, che ben può essere affidata a soggetti estranei alla compagine sociale o ad altri soci che non siano anche amministratori della società". Difatti, qualora il socio amministratore di una società partecipi al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza ha l'obbligo di iscrizione alla Gestione Commercianti mentre, qualora si limiti ad esercitare l'attività di amministratore, dovrà essere iscritto alla sola gestione separata, operando le due attività su piani giuridici differenti, in quanto la prima è diretta alla concreta realizzazione dello scopo sociale, attraverso il concorso dell'opera prestata dai soci e dagli altri lavoratori, e la seconda alla esecuzione del contratto di società sulla base di una relazione di immedesimazione organica volta, a seconda della concreta delega, alla partecipazione alle attività di gestione, di impulso e di rappresentanza (ex multiis Cass. sent. n. 18281 del 2018; Cass. sent. n.23782 del 2019; Cass. sent. n. 3637/2020; Cass. sent. n. 3829/2020). Con riguardo al riparto dell'onere probatorio, va rilevato che nei giudizi di opposizione ad avviso di addebito l'opposto, benché convenuto in senso formale, è attore sostanziale del procedimento per opposizione e, incombe, pertanto, su quest'ultimo l'onere di provare le ragioni del proprio credito (cfr. Cass. sent. n. 4286/1994 e n. 3175/1974); in particolare, l'onere della prova dei predetti caratteri di abitualità e prevalenza nel senso ora chiarito, secondo un consolidato principio di diritto, è a carico dell'Istituto assicuratore titolare della pretesa contributiva (cfr. Cass. sent. n. 3835/2016). Nel caso di specie, l'Istituto convenuto - che ne aveva l'onere - non ha offerto in giudizio elementi di prova atti a dimostrare che il ricorrente abbia svolto lavoro personale in via prevalente ed abituale all'interno dell'impresa; invero, quanto riferito in merito all'attività svolta dai dipendenti è rimasto al rango di mera allegazione. Viene così a mancare uno dei presupposti da cui la legge fa dipendere l'iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali, vale a dire che si tratti di soggetti che, ai sensi dell'art. 1, comma 203, lett. c) della L. n. 662 del 1996, al di là della qualifica di socio o di amministratore in seno all'impresa, "partecipino al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza", nel senso più sopra chiarito. Pertanto, va dichiarata illegittima la pretesa contributiva azionata dall'Inps in relazione all'attività di amministratore svolta dal ricorrente presso la (...) srl. In senso inverso, tuttavia, deve argomentarsi con riferimento alla debenza dei contributi richiesti per l'espletamento di attività nei mesi ottobre-dicembre 2018. Invero, il ricorrente era titolare della ditta individuale "(...) di (...)" sino al 21.12.2018, data in cui la stessa è stata cancellata. Sul punto, è pacifico che l'iscrizione in questa Gestione dell'INPS è obbligatoria sia per gli artigiani che esercitano in forma individuale (elettricisti, muratori, falegnami, estetiste, etc.) che per i commercianti che acquistano e rivendono beni di consumo quali abbigliamento, mobili, e-commerce oppure svolgono attività di servizi per le quali è necessaria l'iscrizione al Registro delle Imprese. Alla luce di tali osservazioni, i contributi pretesi non sono dovuti con riferimento al periodo gennaio-marzo 2019, essendo l'iscrizione del ricorrente alla Gestione Commercianti viziata con riferimento al periodo indicato in quanto effettuata in mancanza dei necessari presupposti di legge; viceversa, va affermata la legittimità della pretesa contributiva con riferimento al periodo ottobre-dicembre 2018, in relazione allo svolgimento di attività in seno alla ditta individuale "(...) di (...)". Per le suesposte ragioni, l'opposizione risulta solo parzialmente meritevole di accoglimento. Avuto riguardo all'esito della lite, le spese vanno compensate. P.Q.M. Il Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe indicata, accoglie parzialmente il ricorso dichiarando sussistenti i presupposti per l'iscrizione di (...) alla Gestione Commercianti solo per il periodo ottobre-dicembre 2018 e, per l'effetto, conferma l'avviso di addebito n. (...) limitatamente alle somme ingiunte con riferimento a tale periodo; dichiara per il resto non dovuti i contributi derivanti dall'erronea iscrizione per il periodo gennaio-marzo 2019; compensa integralmente le spese di lite tra le parti. Così deciso in Agrigento il 13 settembre 2022. Depositata in Cancelleria il 13 settembre 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AGRIGENTO SEZIONE LAVORO Il giudice del Tribunale di Agrigento Alfonso Pinto, in funzione di Giudice del Lavoro, in seguito all'udienza del 1 dicembre 2021 tenuta ai sensi dell'art. 83, comma 7, lett. h), del D.L. 17 marzo 2020 n. 18 convertito con modificazioni in legge 24 aprile 2020 n. 27, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. R.G.N.R. 381/2019 promossa da (...), nato (...), rappresentato e difeso dagli avv.ti Sa.Va. e Ma.Ac., giusta procura in atti, - ricorrente - Contro ENTE DI SVILUPPO AGRICOLO, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Palermo, - resistente - Oggetto: contratti a termine e risarcimento del danno MOTIVI DELLA DECISIONE In fatto e in diritto Con ricorso depositato il 5.02.2019, l'odierno ricorrente - premesso di aver svolto, a far data dal 1988, attività di lavoro subordinato alle dipendenze e in favore dell'Ente di Sviluppo Agricolo in forza di reiterati contratti a tempo determinato aventi a oggetto attività di meccanizzazione agricola - chiedeva dichiararsi l'illegittimità dei suddetti contratti sotto il profilo della violazione del limite temporale e, per l'effetto, condannarsi l'Ente convenuto al risarcimento del danno previsto dal d. lgs. 81/2015, in misura pari a 21.221,00 Euro, ossia equivalente a n. 14 mensilità, riferita all'ultima retribuzione media globale di fatto da lui percepita o alla diversa somma ritenuta di giustizia, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data della decisione al soddisfo. Si costituiva in giudizio l'Ente di Sviluppo Agricolo, eccependo, preliminarmente, l'inammissibilità del ricorso per intervenuta decadenza e l'intervenuta prescrizione delle pretese retributive formulate dal ricorrente e, contestando, nel merito, la fondatezza delle domande delle quali ha chiesto il rigetto. All'odierna udienza, tenuta ai sensi dell'art. 83, comma 7, lett. h), del D.L. 17 marzo 2020 n. 18 convertito con modificazioni in legge 24 aprile 2020 n. 27, in esito al deposito telematico di note scritte, la causa veniva decisa con adozione fuori udienza della sentenza. Così brevemente tratteggiato l'oggetto del contendere, va preliminarmente, rilevato che l'eccezione di decadenza formulata dall'Ente resistente non risulta meritevole di accoglimento. Sul punto, si osserva che l'art. 32 della legge n. 183/2010 prevede che la disciplina delle impugnazioni indicate dal nuovo art. 6 della legge n. 604/1966 si applichi anche "all'azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo". Segnatamente, dal dato letterale di tale disposizione si evince che il suindicato art. 6 si applica esclusivamente alle azioni di nullità del termine che sia apposto al contratto ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del d. lgs. n. 368/2001 e, dunque, soltanto alle azioni volte all'accertamento della carenza delle ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive legittimanti, in via generale, il ricorso a tale tipologia contrattuale, ovvero dirette a contestare la ricorrenza delle specifiche condizioni tipizzate per i settori del trasporto aereo e dei servizi postali, oppure rivolte a sanzionare l'insussistenza delle condizioni che consentono la proroga del contratto. L'art. 32 non contiene, invece, alcun richiamo alla fattispecie disciplinata dall'art. 5, comma 4-bis, del d. lgs. n. 368/2001, secondo il quale "ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti e fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro, il rapporto di lavoro si considera indeterminato ai sensi del comma 2". Ne consegue che alle azioni fondate sulla violazione dei limiti alle successioni dei contratti a termine - qual è quella contenuta nel ricorso introduttivo del presente giudizio, in cui il ricorrente non ha impugnato il termine apposto al contratto, ma ha chiesto esclusivamente la condanna dell'Ente al risarcimento del danno, in ragione del superamento del periodo di trentasei mesi di lavoro a tempo determinato - non si applica l'onere di impugnazione previsto dall'art. 32 della legge n. 183/2010 e pertanto alcuna decadenza può validamente contestarsi, nel caso di specie, al ricorrente. Parimenti, con riguardo alla prescrizione eccepita da parte resistente, va evidenziato che essa fa riferimento a differenze retributive che invero non sono state richieste in ricorso, nel quale è stato chiesto, come già detto, esclusivamente il pagamento dell'indennità risarcitoria prevista dall'art. 32 della legge n. 183/2010. Tanto premesso, il ricorso è fondato e va accolto per le ragioni che seguono. In primo luogo, contrariamente a quanto sostenuto dall'Ente resistente, non può riconoscersi natura stagionale ai contratti a termine stipulati tra le parti e, conseguentemente, non può escludersi l'applicazione del d. lgs. n. 368/2001 e della stessa normativa comunitaria. Segnatamente, i contratti versati in atti riportano tutti come mansioni di assunzione quelle di effettuazione di lavori meccanici in agricoltura, senza fare riferimento a una determinata cadenza stagionale; nei medesimi contratti, inoltre, le specifiche mansioni sono quelle di conduttore di macchine semplici e complesse, lavori di officina, lavori di riparazione e manutenzione dei mezzi in dotazione, di collaborazione con il Servizio di Meccanizzazione Agricola, nonché quelle di cui all'art. 1, comma 2, della L. .. n. 16/1998 nell'ambito del territorio della Regione Siciliana, le quali non appaiono peraltro legate a una singola lavorazione a carattere stagionale, bensì alle esigenze più svariate determinate dal Centro di Meccanizzazione Agricola dell'Ente resistente. A ciò si aggiunga che l'Ente non ha allegato in giudizio le precise attività alle quali negli anni è stato adibito il ricorrente, sicché non appare possibile verificare la fondatezza dell'eccepita natura stagionale dei contratti né condividersi l'applicazione di una disciplina speciale, derogatoria rispetto a quella prevista dall'art. 5, comma 4-bis, del d. lgs. n. 368/2001 e dalla normativa successiva in materia. Esclusa la natura stagionale dell'attività svolta, i contratti a termine stipulati tra le parti oggi in causa sono, dunque, soggetti alla disciplina generale, con la precisazione che, come peraltro dedotto dallo stesso ricorrente, stante la natura pubblica dell'Ente resistente, è possibile procedere esclusivamente alla liquidazione del danno ex art. 36, comma 5, del d. lgs. 165/2001, e non alla conversione del contratto, dovendosi ritenere che il divieto di conversione opera in relazione alla natura giuridica del datore di lavoro, che è pacificamente di tipo pubblico (cfr. Cass. 1163/2008). Sul punto, va ricordato che, secondo i principi affermati nella sentenza delle SS.UU. n. 5072/2016, nei casi di abusiva reiterazione di contratti a tempo determinato oltre il limite massimo di durata dei trentasei mesi, bisognerà fare riferimento, per la liquidazione del danno ex art. 36, comma 5, del D.Lgs. 165/2001, al criterio determinativo offerto dall'art. 32, comma 5, della L. 183/2010, la quale prevede - per l'ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato - che "il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604". Le Sezioni Unite del 2016 hanno altresì chiarito che il danno di cui all'art. 36, comma 5, del D.Lgs. 165/2001 non è riferibile alla mancata conversione del rapporto a termine in un rapporto a tempo indeterminato, visto che nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni il lavoratore - stante il divieto di conversione legislativamente previsto - non può reclamare un tale diritto, trattandosi piuttosto del danno per la perdita della chance di conseguire, con percorso alternativo, l'assunzione mediante concorso nel pubblico impiego o la costituzione di un ordinario rapporto di lavoro privatistico a tempo indeterminato, risarcibile "nella misura in cui l'illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro stabile", e hanno precisato che entro i limiti di cui all'art. 32, comma 5, della L. 183/2010 il danno è presunto con conseguente esonero del lavoratore dall'onere della prova e ferma restando la possibilità per il lavoratore che assuma di aver subito un danno in misura superiore rispetto a quella risultante dall'applicazione della suddetta indennità forfetizzata di offrire la prova del maggior danno. Orbene, nel caso di specie, si osserva che la parte ricorrente non ha fornito prova concreta del danno sofferto per l'illegittima reiterazione dei contratti a termine, sicché quest'ultimo - giusti i principi testé ricordati - deve presumersi sussistere entro i limiti dell'indennità forfetizzata di cui all'art. 32, comma 5, della L. 183/2010, che, in applicazione dei criteri di cui all'art. 8 della L. 604/1966, tenuto conto in particolare della durata complessiva (oltre venti anni) del rapporto di lavoro intrattenuto dal ricorrente con l'Ente resistente in esecuzione dei contratti a termine, delle dimensioni dell'ente e dell'entità della violazione in rapporto al numero consistente dei rinnovi (criterio del comportamento delle parti), pare adeguato determinare nella misura di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, rispetto alle quali, trattandosi di rapporto di pubblico impiego, vanno liquidati solo gli interessi legali e non anche la rivalutazione monetaria (si veda, sul punto, Consiglio di Stato 11 febbraio 2013 n. 748). Per le suesposte ragioni, il ricorso va, quindi, accolto. Il peso delle spese segue la soccombenza, con distrazione dei compensi in favore dei difensori dichiaratisi antistatari. P.Q.M. Il Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe indicata, accoglie il ricorso e, per l'effetto, condanna l'Ente di Sviluppo Agricolo, in persona del legale rappresentante pro tempore, alla corresponsione, in favore del ricorrente, a titolo di risarcimento del danno da abusiva reiterazione dei contratti a termine intercorsi tra le parti, di un'indennità pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi legali dalla data della presente condanna al soddisfo; condanna altresì l'Ente di Sviluppo Agricolo al pagamento, in favore del ricorrente, delle spese processuali che si liquidano - tenuto conto della natura rutinaria della causa - in complessivi 1.300,00 Euro per compensi, oltre IVA, CPA e spese forfettarie al 15% come per legge, con distrazione in favore dei procuratori antistatari. Così deciso in Agrigento l'1 dicembre 2021. Depositata in Cancelleria l'1 dicembre 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AGRIGENTO Il giudice del lavoro del Tribunale di Agrigento dott. Alfonso Pinto, dando pubblica lettura del dispositivo e dell'esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, all'udienza del 6 aprile 2021, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. R.G.N.R. 3612/2017 promossa da (...) - il Sindacato dei Medici, in persona del suo segretario regionale dott. (...), nonché dal segretario di Azienda (...), rappresentato e difeso dagli avv.ti Gi.Fa. e Lo.Ma., giusta procura in atti, - ricorrente - contro (...) DI (...), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv.to An.No., giusta procura in atti - resistente - Oggetto: opposizione ex art. 28 della L. n. 300 del 1970 RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso, depositato il 17 novembre 2017, la (...) ha proposto opposizione ex art. 28 della L. n. 300 del 1970 avverso il decreto del 6 novembre 2017 emesso dal Tribunale di Agrigento, in funzione di Giudice del Lavoro, con cui era stata rigettata la richiesta volta a dichiarare la natura antisindacale di alcuni comportamenti posti in essere dall'(...) di (...). Riproponendo dunque le argomentazioni svolte in prima fase e censurando le argomentazioni contenute nel provvedimento impugnato, ha dunque chiesto condannarsi la (...) convenuta: (i) a revocare il trasferimento della dr.ssa (...), rappresentante sindacale, con suo ritorno alla unità operativa di pregressa appartenenza, in quanto disposto senza il previo nulla osta dell'organizzazione sindacale di appartenenza; (ii) a riconoscere il ruolo di RSL (responsabile per la sicurezza del lavoro) della dr.ssa (...) siccome così designata dalla organizzazione sindacale ricorrente; (iii) ad ordinare alla (...) di dare attuazione a corrette relazioni sindacali a proposito dei contenuti della deliberazione n. 744 del 19 maggio 2017 nelle materia elencate nel relativo capo di narrativa, sospendendo - fino ad esaurimento delle stesse - l'applicazione della suddetta deliberazione. Si è costituita in giudizio l'(...), chiedendo il rigetto dell'opposizione nonché infondata in fatto e in diritto. La causa è stata istruita con la produzione documentale delle parti. Nel merito, l'opposizione è infondata e deve essere rigettata. Il (...) - Il Sindacato dei Medici, organizzazione sindacale rappresentativa nell'ambito dell'area negoziale della dirigenza (sanitaria) medico veterinaria, lamenta la condotta antisindacale serbata dalla (...) di (...) in relazione, anzitutto, al trasferimento della propria rappresentante sindacale, dr. (...), dal Dipartimento di Prevenzione Laboratorio di Sanità Pubblica al Dipartimento di Salute Mentale presso il Sert di Agrigento, senza aver preventivamente acquisito il nulla osta della organizzazione sindacale di appartenenza. Mette conto premettere che, alla stregua di quanto previsto dall'art. 22, comma 1, della L. n. 300 del 1970, "Il trasferimento dall'unità produttiva dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di cui al precedente art. 19, dei candidati e dei membri di commissione interna può essere disposto solo previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza". In materia di pubblico impiego la disciplina va integrata con quanto espressamente previsto dall'art. 42 co. 2 D.Lgs. n. 165 del 2001, che, per quel che in questa sede rileva, così dispone: "comma 2. In ciascuna amministrazione, ente o struttura amministrativa di cui al comma 8, le organizzazioni sindacali che, in base ai criteri dell'articolo 43, siano ammesse alle trattative per la sottoscrizione dei contratti collettivi, possono costituire rappresentanze sindacali aziendali ai sensi dell'articolo 19 e seguenti della L. 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni. Ad esse spettano, in proporzione alla rappresentatività, le garanzie previste dagli articoli 23, 24 e 30 della medesima L. n. 300 del 1970, e le migliori condizioni derivanti dai contratti collettivi... Comma 6. I componenti della rappresentanza unitaria del personale sono equiparati ai dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali ai fini della L. 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, e del presente decreto". Il chiaro dettato normativo in questione consente agevolmente di distinguere, anzitutto, i rappresentanti sindacali aziendali dai componenti della rappresentanza unitaria del personale. E consente ancora di inferire che ai rappresentanti sindacali aziendali competano, delle "garanzie" previste dallo Statuto dei lavoratori, solo quelle previste da citati artt. 23, 24 e 30 (permessi retribuiti, permessi non retribuiti, permessi per i dirigenti provinciali), oltre alle migliori "condizioni" previste dai contratti collettivi. E' dunque evidente che la giustapposizione tra "garanzie" (previste dallo "Statuto") e "condizioni" impone di escludere che possa essere applicata analogicamente o comunque estesa a favore di una categoria non prevista una garanzia così pregnante quale quella relativa alle guarentigie nel trasferimento dei dirigente. Come correttamente rilevato nel decreto del G.L. - della cui opposizione si tratta - è vero che l'art. 42 D.Lgs. n. 165 del 2001 non sembra escludere la contemporanea presenza, in una stessa unità produttiva, oltre che della RSU anche di una o più RSA. Nondimeno, è la stessa legge a prevedere la costituzione della RSU in luogo della RSA nel pubblico impiego. Difatti l'art. 42 del D.Lgs. n. 165 del 2001 dispone che "i componenti della rappresentanza unitaria del personale sono equiparati ai dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300". Ed ancora dalla lettura sistematica dei commi 2, 3 e 6 della suddetta norma emerge che, mentre ai componenti delle RSU compete tutta la gamma di diritti, permessi, libertà e tutele sindacali già spettanti ai dirigenti delle RSA ai sensi del titolo III della L. n. 300 del 1970 -il comma 6 invero testualmente prevede che "i componenti della rappresentanza unitaria del personale sono equiparati ai dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali ai fini della L. 20 maggio 1970, n. 300" -a questi ultimi (dirigenti delle RSA), invece, nelle amministrazioni ormai per legge dotate di RSU, il comma 2 prevede che spettino esclusivamente "le garanzie previste dagli articoli 23, 24 e 30 della medesima L. n. 300 del 1970" e non anche quella di cui all'art. 22. Alla stregua di quanto poi previsto dall' Acc. Interconfederale del 20 dicembre 1993, a proposito di diritti, permessi, libertà sindacali, tutele e modalità di esercizio "I componenti delle r.s.u. subentrano ai dirigenti delle r.s.a. nella titolarità di diritti, permessi, libertà sindacali e tutele già loro spettanti; per effetto delle disposizioni di cui al titolo 3 della L. n. 300 del 1970"- Privo di pregio è allora quanto sostenuto da (...) che ha dedotto, nei propri confronti, l'inapplicabilità dell'accordo interconfederale del 20 dicembre 1993 in materia di costituzione di RSU, sostenendo che lo stesso sarebbe stato sottoscritto soltanto da Confindustria, CGIL, CISL, UIL e non già da alcuna delle organizzazioni sindacali rappresentanti l'area della dirigenza dell'ex pubblico impiego ed invocando, in proprio favore, l'applicabilità del CCNQ in data 7 agosto 1998. A fronte della chiara regolamentazione operata dal citato art. 42 del D.Lgs. n. 165 del 2001 è certamente destinato a recedere quanto eventualmente previsto da diversi contratti collettivi non idonei certamente a derogare alla disciplina legislativa, oltre tutto sopravvenuta temporalmente. Alla luce di questi principi, pacifico essendo che presso l'(...) di (...) la presenza del sindacato nel luogo di lavoro sia garantita anche alle RSU (rappresentanze sindacali unitarie) eletta dai lavoratori a suffragio universale è solo a questi ultimi che deve essere riservata la specifica garanzia dell'art. 22 dello Statuto dei lavoratori. Pertanto nel caso di specie il trasferimento della dr.ssa (...) non postulava il preventivo nulla osta dell'organizzazione sindacale ricorrente. Con la seconda doglianza, (...) deduce che, a torto, l'(...) di (...) non avrebbe riconosciuto la designazione della (...) quale rappresentante per la sicurezza dei lavoratori e ciò perché del tutto infondata sarebbe l'incompatibilità paventata dalla resistente. In realtà della produzione documentale dell'(...) risulta, anzitutto, che con Delib. n. 80761 del 7 maggio 2016 il direttore generale dell'(...) - quale datore di lavoro ex art. 2 D.Lgs. n. 81 del 2008 - ha conferito delega ex art. 16 al dr. (...). Quest'ultimo, con nota prot. n. (...) del 17 gennaio 2017, ha designato la dr.ssa (...) quale "dirigente" ai sensi dell'art. 18 del D.Lgs. n. 81 del 2008. Ora, a mente della citata delega, la dr.ssa (...) era titolare di molteplici incombenze connesse alla tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, al pari del datore di lavoro (si rinvia, all'uopo, al comma 1 dell'art. 18 lettere da a) a bb). Anche se non espressamente prevista appare logico che il lavoratore, già investito di questa funzione da parte datoriale, non possa parimenti svolgere la diversa funzione di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza ex art. 47 D.Lgs. n. 81 del 2008. Sul punto (...) ha sostenuto che detta determinazione non sarebbe stata mai notificata alla dr.ssa (...) che avrebbe anche disconosciuto la propria sottoscrizione nell'ambito di un esposto presentato alla Procura della Repubblica. E' evidente però che alcun "disconoscimento" rituale è stato fatto nell'ambito di questo giudizio né tanto meno alcuna querela di falso sicchè - non essendo nemmeno note le sorti dell'esposto presentato dalla dr.ssa (...) - non vi sono certo elementi per dubitare della autenticità della sottoscrizione della dr.ssa (...) in calce ad un provvedimento di cui non pare possibile, sulla scorta degli elementi offerti, predicare l'inesistenza o l'inefficacia. Parimenti infondata è la terza doglianza sollevata dalla (...) che si è lamentata del fatto che, nell'ambito degli istituti che governano le relazioni sindacali dell'area della dirigenza interessata, non sarebbe stata consultata prima dell'adozione della deliberazione n. 744 del 19.5.2017 di rideterminazione della dotazione organica aziendale a seguito del D.A. n. 629/17. Invero dal verbale della riunione sindacale del 19 maggio 2017 risulta anzitutto che tutte le organizzazioni sindacali erano state convocate il 15 maggio 2017 e che la dr.ssa (...), quale rappresentante della (...), ha attivamente partecipato alla detta riunione sindacale, avente ad oggetto lo "adeguamento dotazione organica nuova rete ospedaliera", svolgendo pienamente il ruolo e le prerogative connesse e ottenendo pure la verbalizzazione di alcune osservazioni. Ciò posto la (...) lamenta che, in questo modo, l'(...) di (...) avrebbe sacrificato il diritto alla "concertazione" previsto dal CCNL 3 novembre 2005. In realtà, l'ordine del giorno del 19 maggio 2017 - "adeguamento dotazione organica nuova rete ospedaliera" - non rientra tra le materie per cui, a mente dell'art. 6 del ccnl 3 novembre 2005, è prevista la "concertazione" sindacale. In ogni caso, non risulta che ricevuta l'informativa della riunione, la (...) abbia chiesto la formale concertazione. Se ne trae, quindi, che siano stati in ogni caso rispettati i diritti sindacali della (...) riguardo alla "informazione" ed alla "consultazione". Per le suesposte ragioni, il ricorso non risulta, quindi, meritevole di accoglimento. Il peso delle spese segue la soccombenza. P.Q.M. Il Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando, rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali della resistente che si liquidano in complessivi Euro 2000,00 per compensi, oltre accessori come per legge. Così deciso in Agrigento il 6 aprile 2021. Depositata in Cancelleria il 6 aprile 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AGRIGENTO Sezione Civile - in composizione monocratica - in persona del Giudice dott. Beatrice Ragusa ha pronunciato la seguente sentenza nella causa iscritta al n. 3176 del Ruolo Generale degli Affari civili contenziosi dell'anno 2017 vertente tra RI. S.p.A. (già SE. S.p.A.), Agente della Riscossione per la Provincia di AGRIGENTO, in persona del Direttore Generale f.f., rappresentato e difeso dall'Avv. Vi.DA. - appellante - contro RU.GI. (...) rappresentato e difeso dall'Avv. Ga.Di.; - convenuto - Oggetto: appello avverso la sentenza del GdP di Agrigento n. 637/17 MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto di appello notificato in data 23.10.2017 Ri. S.p.A. conveniva dinanzi all'intestato Tribunale Ru.Gi. per la riforma integrale della sentenza n. 637/2017 emessa dal Giudice di Pace di Agrigento, depositata in Cancelleria il 10/07/2017 a definizione del procedimento n. 308/2017 con la quale il Giudice di prime cure dichiarava prescritto il credito riportato nell'intimazione di pagamento n. (...), relativa alla cartella di pagamento n. (...) avente ad oggetto contravvenzioni al codice della strada emesse dalla Prefettura di Caltanissetta nell'anno 2010. Riproponeva le medesime doglienze già esposte in primo grado, ossia:1) l'inammissibilità dell'opposizione avversaria per vizio di forma poiché proposta con atto di citazione, anziché con ricorso; 2) inammissibilità dell'opposizione in quanto tardiva, perché depositata in data 31.1.2017, essendo decorsi 30 giorni dalla notifica dell'atto impugnato avvenuta in data 19.12.2016; 3) nel merito, contestava la ritenuta prescrizione del credito vista la notifica della cartella di pagamento in data 7.11.2011, considerato che tra la stessa e la successiva notifica dell'intimazione di pagamento impugnata in data 31.1.2017 era intervenuta - quale atto interruttivo - la procedura di fermo amministrativo di bene mobile registrata avviata in data 9.10.2012. Parte appellata, costituendosi in giudizio, contestava integralmente quanto dedotto nella domanda, contestava l'ammissibilità della documentazione nuova prodotta relativa al preavviso di fermo amministrativo depositata solo nel presente grado di giudizio e chiedeva il rigetto dell'appello proposto con conseguente conferma della sentenza di primo grado, con vittoria di spese, da distrarsi in favore del procuratore. Mutato il giudicante, la causa veniva istruita in via meramente documentale e all'udienza del 2/12/2020, sulle conclusioni delle parti, veniva posta in decisione, con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c., per il deposito delle comparse conclusionali. L'appello è infondato e deve, pertanto, confermarsi la sentenza di prime cure. In linea generale, quanto agli strumenti impugnatori, è appena il caso di precisare che secondo la costante giurisprudenza "Avverso la cartella esattoriale emessa ai fini della riscossione di sanzioni amministrative pecuniarie per violazioni del codice della strada sono ammissibili: a) l'opposizione ai sensi della legge n. 689 del 1981, allorché sia mancata la notificazione dell'ordinanza-ingiunzione o del verbale di accertamento di violazione al codice della strada, al fine di consentire all'interessato di recuperare il mezzo di tutela previsto dalla legge riguardo agli atti sanzionatoti; b) l'opposizione all'esecuzione ex artt. 615 cod. proc. civ., allorché si contesti la legittimità dell'iscrizione a ruolo per omessa notifica della stessa cartella, e quindi per la mancanza di un titolo legittimante l'iscrizione a ruolo, o si adducano fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo; c) l'opposizione agli atti esecutivi ex artt. 617 cod. proc. civ., qualora si deducano vizi formali della cartella esattoriale o del successivo avviso di mora. Mentre nel primo caso, ove non sia stato possibile proporre opposizione nelle forme e nei tempi previsti dall'art. 204 codice della strada, il ricorso deve essere proposto nel termine di trenta giorni dalla notifica della cartella, determinandosi altrimenti la decadenza dal potere di impugnare, nel caso di contestazione di vizi propri della cartella esattoriale l'opposizione - all'esecuzione o agli atti esecutivi - va proposta nelle forme ordinarie previste dagli artt. 615 e ss. cod. proc. civ., e non è soggetta alla speciale disciplina dell'opposizione a sanzione amministrativa dettata dalla legge n. 689 del 1981 (in termini, ex multis, Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9180 del 20/04/2006; da ultimo, Cass. 18256/2020). Alla luce di tale ricostruzione, dunque, il mezzo di impugnazione corretto per l'unica doglianza avanzata dal Russotto, ossia la prescrizione del credito, è l'opposizione ex art. 615 c.p.c. poiché rientrante tra i fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo e non già l'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.. Sul punto, si rileva preliminarmente l'ammissibilità della dedotta prescrizione in seno al presente giudizio di opposizione all'esecuzione, per la quale, prima dell'inizio dell'esecuzione, giudice competente deve ritenersi, in applicazione del criterio dettato dall'art. 615, primo comma, cod. proc. civ., quello ritenuto idoneo dal legislatore a conoscere della sanzione, cioè quello stesso indicato dalla legge come competente per l'opposizione al provvedimento (cfr. Cass. Sez. 3 n. 16024 del 02/08/2016 "In tema di esecuzione esattoriale per la riscossione di sanzioni amministrative pecuniarie, la prescrizione del credito successiva alla formazione del titolo, per mancata notifica della cartella, può essere dedotta con opposizione all'esecuzione, contro l'atto di pignoramento, senza doversi opporre tempestivamente, ex art. 22 della L. n. 689 del 1981, al primo atto successivo all'eccepita estinzione prescrizionale (nella specie, costituito dall'intimazione di pagamento"). E' inconsistente il primo motivo di appello relativo all'inammissibilità dell'opposizione, poiché come noto i vizi di forma dell'atto introduttivo e l'irregolarità della vocatio, non determinano la nullità dell'atto se lo stesso ha raggiunto lo scopo. Destituita di fondamento è altresì la doglianza relativa alla tardività dell'opposizione, osservato che - trattandosi di opposizione all'esecuzione ex art. 615 cpc - stessa è proponibile in qualsiasi momento, svincolata quindi da qualsivoglia termine decadenziale (v. Cass. 30094/2019). Ciò detto, nel merito, si osserva che il primo valido atto interruttivo della pretesa deve individuarsi nella cartella di pagamento n. (...) del 7.11.2011 cui ha fatto seguito in data 31.1.2017 la notifica dell'intimazione di pagamento n. (...). Correttamente il giudice di prime cure non ha riscontrato validi atti interruttivi della prescrizione della pretesa nel periodo intercorrente tra la notifica della cartella di pagamento e la notifica dell'intimazione di pagamento, con conseguente decorso del termine di prescrizione quinquennale. Infatti, l'Agente della riscossione solo in seno al presente giudizio di appello ha prodotto la documentazione afferente la procedura di fermo amministrativo di bene mobile registrata già avviata in data 9.10.2012 (doc. 3, 4). A mente dell'art. 345 c.p.c. nel giudizio di appello non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile, circostanza non verificatasi nel caso di specie. Pertanto, la succitata documentazione è inammissibile. Si tenga conto, inoltre, che trattasi di documentazione interna all'ufficio (cd. "interrogazioni documenti"), che - essendo atto di parte e dalla valenza meramente interna - non è idonea allo scopo. Di contro, Ri. S.p.A. avrebbe dovuto (nel primo grado di giudizio) depositare gli atti integrali della procedura di fermo con le relate di notifica dalle quali evincere chiaramente la riferibilità agli elementi identificativi essenziali delle cartelle in esame e la regolare notificazione all'appellato. Pertanto, ai sensi dell'art. 28 della L. 689/81, il credito azionato con l'indicazione di pagamento oggetto del giudizio si è prescritto per decorso del termine breve di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione, nel caso di specie contestata nel 2011 (rilevando, incidentalmente, che "Il diritto alla riscossione di un'imposta azionato mediante emissione e notifica di cartella di pagamento non opposto è soggetto a prescrizione quinquennale, non essendovi, in tale ipotesi, un accertamento giurisdizionale che conduca all'applicazione del termine decennale dell'"actio iudicati", di cui all'art. 2953 c.c." Cfr. Cass. SU 23397/2016). Alla luce di quanto sopra, l'appello dunque deve essere rigettato. In base al principio della soccombenza, le spese del presente grado di giudizio vanno poste a carico di parte appellante Ri. S.p.A. e si liquidano nella misura indicata in dispositivo, tenuto conto del valore della controversia dell'assenza della fase istruttoria, della semplicità delle questioni trattate, alla luce dei parametri di cui al DMG 37/2018, in applicazione dei parametri minimi. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, disattesa ogni diversa domanda, eccezione o difesa, così provvede: - Rigetta l'appello proposto da Ri. S.p.A. avverso la sentenza del GdP di Agrigento n. 637/17 per l'effetto, conferma in ogni sua parte; - condanna Ri. S.p.A. al pagamento in favore di Ru.Gi. delle spese di lite del presente grado di giudizio che si liquidano in complessivi Euro 811,00 per compensi oltre spese forfettarie, IVA e CPA come per legge; Ai sensi degli artt. 13 comma 1 quater e 13 comma 1 bis del D.P.R. n. 115 del 2002 va dichiarata la sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico del reclamante dell'ulteriore importo per il contributo unificato pari a quello dovuto per l'appello. Così deciso in Agrigento il 30 marzo 2021. Depositata in Cancelleria il 30 marzo 2021.

  • TRIBUNALE DI AGRIGENTO REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Giudice dott. Gerlando Lo Presti Seminerio ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 3970/2019 R.G.A.C. TRA DE.GI. NATA (...) rapp. e dif. dall'Avv. Mo.Ma. ATTRICE CONTRO TA.MA. NATA (...) rapp. e dif. dall'Avv. Vi.Ca. CONVENUTA OGGETTO: risoluzione di contratto locatizio SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione del 23/10/2019 De.Gi. intimava a Ta.Ma. sfratto per morosità. Esponeva l'intimante a sostegno della domanda azionata di avere concesso alla convenuta in locazione in virtù di apposito contratto stipulato il 28/05/2017 registrato in pari data ad uso abitativo un immobile di sua proprietà sito in Agrigento nella locale Via (...) per un canone mensile di Euro 320,00. Deduceva quindi a sostegno dell'azione intrapresa che la convenuta nella veste di conduttrice s'era resa morosa nel pagamento dei canoni locatizi fin dal mese di agosto del 2019 per una somma complessiva pari ad Euro 960,00 nonché altresì inadempiente nell'obbligo di corrispondere i ratei relativi agli oneri accessori. Pertanto concludendo chiedeva la convalida dell'intimato sfratto. Costituendosi in giudizio con comparsa del 27/11/2019 Ta.Ma. contestava la domanda proposta nei suoi riguardi eccependo che il mancato pagamento dei canoni nella specie non comportava il connotarsi di una condotta inadempiente da parte sua in quanto alla luce del principio inademplenti non est adimplendum la sospensione del pagamento era dovuta al mancato adempimento da parte della locatrice dell'obbligo di eliminare determinati vizi che affliggevano l'immobile oggetto del rapporto locativo in argomento rendendolo inidoneo all'uso pattuito. Pertanto concludeva instando affinché la domanda di convalida dello sfratto inoltratale venisse respinta ed in via riconvenzionale l'attrice condannata alla ripetizione dei canini in eccesso versati da parte sua nel corso del rapporto locativo in argomento ed al risarcimento dei danni. Con apposito provvedimento riservato del 03/12/2019 il giudice disponeva il mutamento di rito del procedimento da ordinario a speciale conseguente all'opposizione della convenuta. Nel merito con apposita memoria integrativa De.Gi. formulava ulteriore domanda di risarcimento dei danni cagionati dalla convenuta all'immobile concessole in locazione. Celebrata l'attività istruttoria esclusivamente attraverso produzioni documentali all'udienza del 15/03/2021 la causa veniva infine decisa come da dispositivo in atti. MOTIVI DELLA DECISIONE La domanda di risoluzione contrattuale, nella quale si converte automaticamente la richiesta di convalida una volta disposto il mutamento di rito da sommario a speciale ai sensi degli artt. 667, 426 e 447 bis c.p.c., è fondata e va, pertanto, accolta. Invero, in base ad un costante orientamento giurisprudenziale al creditore che deduce la sussistenza di un inadempimento da parte del debitore spetta di dimostrare, secondo i criteri di distribuzione dell'onere della prova contenuti nell'art. 2697 c.c., il fatto costitutivo del credito, mentre al debitore spetta di provare il fatto estintivo dello stesso o di una sua parte. Pertanto, il primo è tenuto unicamente a fornire la prova dell'esistenza del rapporto o del titolo dal quale deriva il suo diritto, mentre, a fronte di tale prova, dovrà essere onere del debitore dimostrare di avere adempiuto alle proprie obbligazioni. Applicando questo principio di diritto al caso di specie e rilevando che la convenuta ha ammesso l'esistenza del rapporto contrattuale (peraltro provato documentalmente) che la lega all'attrice, deve ritenersi che ciò basta per considerare sussistente il credito allegato da De.Gi. nei confronti di Ta.Ma., relativo al mancato pagamento dei canoni e degli oneri accessori oggetto dell'intimazione. Alla luce, quindi, di quanto appena affermato deve presumersi, fino a prova contraria, la sussistenza di un oggettivo inadempimento delle obbligazioni pecuniarie di cui sopra. Peraltro, nel caso di specie il mancato pagamento dei canoni intimati risulta poi non contestato da parte convenuta. Deve a questo punto sottolinearsi che in base al disposto dell'art. 1218 c.c., una volta rilevata la sussistenza di un oggettivo inadempimento, si presume che lo stesso sia imputabile al debitore (anche questa volta la prova contraria è a carico di quest'ultimo e, nel caso di specie, non è stata fornita). Occorre a questo punto commentare in tal modo addentrandoci nel merito della vicenda giudizialmente fornita alla nostra attenzione il comportamento della conduttrice la quale non ha provveduto a pagare i canoni pur continuando a godere dell'immobile oggetto del rapporto locativo in argomento adducendo l'esistenza di vizi che non ne consentivano una piena fruizione e quindi l'uso per cui la locazione in parola s'era inaugurata. Al riguardo va ricordato in generale come in tema di locazione di immobili il pagamento del canone costituisca la principale e fondamentale obbligazione del conduttore al quale non è consentito astenersi dal versare il corrispettivo o di determinare unilateralmente il canone nel caso in cui si verifichi una riduzione o una diminuzione del godimento del bene anche quando si assuma che tale evento sia ricollegabile al fatto del locatore e ciò perché la sospensione totale o parziale dell'adempimento di detta obbligazione ai sensi dell'art. 1460 c.c. è legittima soltanto quando venga a mancare contemporaneamente la controprestazione dell'altro protagonista contrattuale. La suddetta eccezione postula la proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti da valutare non in rapporto alla rappresentazione soggettiva che le parti ne facciano ma in relazione alla oggettiva proporzione degli inadempimenti stessi considerata con riferimento all'intero equilibrio del contratto ed alla buona fede. Pertanto se nella vicenda che ci impegna la conduttrice ha in ogni caso continuato a godere dell'immobile per quanto lo stesso presentasse vizi e ha quindi ricevuto la prestazione dubbio alcuno può nutrirsi in riguardo al connotarsi in seguito a ciò di un comportamento gravemente inadempiente posto in essere da parte sua. La convenuta avendo sospeso l'intera sua prestazione pertanto ha fatto si che venisse a mancare la proporzionalità tra i due inadempimenti anche ammettendo l'ipotesi che l'immobile oggetto del rapporto locativo tra le parti fosse in effetti afflitto da vizi che ne limitavano l'uso. Di tali vizi peraltro non è stata fornita nessuna prova in giudizio tantomeno la eventuale misura della limitazione della possibilità di godimento dell'immobile nonché che essi siano insorti successivamente alla stipula del contratto ed infine l'eventuale imputabilità ad inadempimento della locatrice. Ancora infatti è da affermare al riguardo che nell'individuazione di questa proporzionalità da concretizzarsi nell'ambito dell'economia del contratto di locazione possono tenersi in conto per analogia i principi di cui all'art. 1584 c.c. per cui il fatto già che il conduttore abbia goduto dell'immobile seppur presupponendo una qualche limitazione in tale godimento nonostante i vizi della cosa locata imputabili o meno alla locatrice non sembra giustificabile a norma dell'art. 1460 comma 2 c.c. il rifiuto di prestazione dell'intero canone potendo giustificarsi eventualmente solo una riduzione dello stesso proporzionata all'entità del mancato godimento eventualmente da provare. In proposito va pure ricordato che per pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità, in caso di denuncia di inadempienze reciproche ai fini della pronuncia di risoluzione per inadempimento (e per la declaratoria della legittimità del recesso ex art. 1385 c.c.), per stabilire da quale parte sia l'inadempimento colpevole non basta la valutazione dell'inadempimento di un solo contraente ma occorre procedere ad una valutazione unitaria e comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto ed apprezzarne l'effettiva gravità ed efficienza causale rispetto alle finalità economiche del contratto. Ciò tenendo conto dei precetti generali sull'imputabilità e sull'importanza dell'inadempimento ed in modo da stabilire, per quanto riguarda le singole pattuizioni, quale dei due abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l'interesse dell'altro al mantenimento del contratto. Tale giudizio di comparazione deve tenere conto del comportamento complessivo di ciascuno dei contraenti, onde stabilire quale di essi, in relazione ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, possa legittimamente predicarsi come responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ai fini della alterazione funzionale del sinallagma. Occorre quindi procedere ad una valutazione unitaria e comparativa dei rispettivi comportamenti, che, al di là del pur necessario riferimento all'elemento cronologico degli stessi, li investa nel loro rapporto di dipendenza (sul piano causale) e di proporzionalità, nel quadro della funzione economico-sociale del contratto, in maniera da consentire di stabilire su quale dei contraenti debba ricadere l'inadempimento colpevole idoneo a giustificare quello dell'altro ed al fine di accertare la sussistenza degli inadempimenti reciprocamente dedotti e di apprezzarne la effettiva gravità ed efficienza causale. In altri termini, tale valutazione comparativa deve tener conto non solo dell'elemento cronologico, ma anche e soprattutto dei rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e dell'incidenza di queste sulla funzione economico-sociale del contratto. Quindi effettuando nel caso di specie una comparazione degli inadempimenti, deve ritenersi che all'inadempimento del conduttore (mancato pagamento dei canoni di locazione) non è corrisposto un inadempimento della locatrice tale da legittimare la sospensione totale del pagamento dei canoni. Infatti il conduttore ha continuato a godere dell'immobile ed un'eventuale riduzione di tale godimento comunque non l'avrebbe esentato dal pagamento dei canoni. Fondata è altresì la collegata domanda di pagamento dei canoni ed a tal proposito deve ricordarsi che in tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale per il risarcimento del danno ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa costituito dall'avvenuto adempimento ed eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto s'avvalga dell'eccezione d'inadempimento ex art. 1460 c.c. Quanto agli effetti della risoluzione deve ritenersi che la convenuta dovrà rilasciare l'immobile condotto in locazione in favore dell'attrice poichè ormai detenuto senza titolo alcuno e si vedrà altresì costretta a pagare i ratei di canone scaduti e non pagati oltre interessi dalle singole scadenze al saldo e da scadere sino alla data in cui rilascerà il cespite oggetto della locazione in parola. Occorre al riguardo ricordare infatti che la locazione ha natura di contratto ad esecuzione continuata o periodica, e quindi trovando applicazione l'art. 1458 c.c., i canoni di locazione devono essere corrisposti da parte del conduttore sino alla data del godimento dell'immobile. Per giurisprudenza costante, difatti ai fini dell'applicabilità della regola contenuta nella seconda parte del comma 1 dell'art. 1458 c.c. secondo cui gli effetti retroattivi della risoluzione non operano nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, per prestazioni già eseguite. Piace ricordare che sono contratti ad esecuzione continuata o periodica quelli che fanno sorgere obbligazioni di durata per entrambe le parti, ossia quelli in cui l'intera esecuzione del contratto avvenga attraverso una serie di prestazioni da realizzarsi contestualmente nel tempo. Pertanto, mentre non possono considerarsi compresi nella previsione normativa del citato art. 1458 c.c. quei contratti in cui ad una prestazione periodica o continuativa si contrappone una prestazione istantanea dell'altra parte, debbono esservi ricompresi quei contratti in cui ad una prestazione continuativa se ne contrappone un'altra periodica, poiché in tal caso la corrispettività si riflette su tutte le prestazioni attraverso le quali il contratto riceva esecuzione e ciò in applicazione del principio, che la locazione ha natura di contratto ad esecuzione continuata, che si concreta nella corresponsione del canone integrata dal godimento del bene protrattosi nel tempo. A brevissimo commento infine della domanda relativa al pagamento degli oneri accessori che erano senz'altro in ossequio all'art. 9 L. 392/78 interamente a carico della conduttrice piace ricordare che a seguito dell'entrata in vigore della disciplina delle locazioni degli immobili urbani di cui alla L. 392/78 l'obbligazione del conduttore concernente il pagamento degli oneri accessori ancorché in precedenza oggetto di diversa regolamentazione convenzionale autonoma rispetto a quella di pagamento del canone è divenuta parte integrante della struttura sinallagmatica del contratto. Le emergenze processuali appena descritte hanno l'effetto di assorbire e rendere ultroneo ogni commento sulle domande riconvenzionali avanzate dalla convenuta. La data dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 56 della legge 392/1978, avuto riguardo alle ragioni della decisione ed ai contrapposti interessi delle parti, può essere fissata nel termine di mesi due decorrente dalla notifica della presente sentenza. Per quanto riguarda la richiesta attorea di condanna della convenuta al risarcimento dei danni causati all'immobile, va rilevato che tale domanda, assente nell'atto di citazione e formulata soltanto nella memoria integrativa, è da considerare inammissibile. Al riguardo è noto che nell'ordinamento anteriore alla riforma del 1990 era affermazione ricorrente in giurisprudenza che l'opposizione dell'intimato, ai sensi dell'art. 665 c.p.c., determinava la conclusione del procedimento di convalida, a carattere sommario, e l'instaurazione di un nuovo ed autonomo processo con rito e cognizione ordinari. L'art. 667 c.p.c. nel regolare i problemi di competenza che sorgevano dal coordinamento fra la procedura speciale, di competenza per materia del pretore, e il giudizio ordinario di cognizione scaturito dall'opposizione dell'intimato prevedeva che, dopo la pronuncia (o il diniego) dei provvedimenti previsti nei due articoli precedenti (ordinanza non impugnabile di rilascio ovvero condanna al pagamento dei canoni non controversi), il giudizio proseguiva davanti al pretore, per la decisione di merito, soltanto se la causa era di sua competenza, dovendosi, nel caso contrario, rimettere le parti innanzi al giudice competente per valore. In questo sistema era normalmente ammesso che le parti potessero, dal momento dell'opposizione, che segnava il nascere di un novum iudicium, esercitare tutte le facoltà connesse alle rispettive posizioni, e segnatamente che potesse il locatore porre a fondamento della pretesa di rilascio dell'immobile una causa petendi diversa da quella assunta nell'atto di intimazione, e persino introdurre una domanda nuova. La giurisprudenza di legittimità formatasi sulla scorta delle norme processuali previgenti la novella del 1990-1995 ammetteva quindi liberamente la modificazione della domanda e delle eccezioni operata con la memoria prevista dall'art. 667 c.p.c. dopo la conclusione dell'udienza di convalida, sostenendo che con l'opposizione dell'intimato s'instaurava un nuovo ed autonomo processo a cognizione ordinaria soggetto al rito delle controversie individuali di lavoro e tutt'al più subordinando l'ammissibilità del mutamento all'avvenuta accettazione del contraddittorio. Il tradizionale orientamento della Suprema Corte consentiva quindi la proposizione di domande nuove a seguito della opposizione del convenuto, della chiusura della fase sommaria del giudizio e del conseguente inizio di un autonomo giudizio ordinario di cognizione. Siffatto orientamento era già, ad avviso di questo Giudice, in sé discutibile in considerazione sia della formulazione testuale dell'art. 667 c.p.c., laddove è prevista la prosecuzione del medesimo giudizio iniziato nella fase speciale con l'intimazione, sia della sola eventualità del deposito delle memorie integrative, nella cui mancanza il giudice deve comunque esaminare la domanda di risoluzione del contratto azionata con l'intimazione dello sfratto. Inoltre, non può non notarsi come nel caso in cui il giudice ravvisasse (e ravvisi) dei motivi ostativi alla pronuncia dell'ordinanza di convalida, pur in assenza dell'intimato o di sua opposizione ed adottasse (od adotti) la forma dell'ordinanza per il provvedimento di rigetto dell'istanza di convalida si ritiene pacificamente che il provvedimento sia impugnabile con l'appello perché dotato del contenuto definitorio proprio della sentenza, che statuisce però sulla domanda introdotta con l'intimazione. Ancor più non condivisibile è tale ricostruzione se confrontata con le disposizioni che regolano il processo civile dopo la riforma, in cui l'attività deduttiva delle parti deve avvenire con l'atto introduttivo e la comparsa di risposta depositata entro il termine di venti giorni prima dell'udienza di comparizione delle parti, o comunque entro i termini di preclusione dettati dall'art. 183 c.p.c. Inoltre, tale ultima disposizione non consente la proposizione della domanda nuova, ma la mera emendatio in quanto giustificata dalle deduzioni difensive della parte convenuta. Il ricordato orientamento giurisprudenziale si era infatti consolidato in data antecedente alla riforma introdotta con la legge n. 353/1990 entrata in vigore il 30/04/1995, allorquando il giudizio proseguiva davanti al Pretore ovvero davanti al Tribunale competente per valore secondo le forme del vigente rito ordinario, sostanzialmente privo di un sistema di rigide preclusioni per le parti. A seguito della entrata in vigore della "novella" al codice di procedura civile deve, invece, ritenersi preferibile una diversa interpretazione, più coerente con il sistema. Inoltre, dopo l'attribuzione al pretore, dal 30 aprile 1995, della competenza per materia nelle cause di locazione (e di comodato) di immobili urbani (art. 8 c.p.c., 2 comma, n. 3) e l'introduzione, dalla stessa data, in dette cause, del rito speciale del lavoro (art. 447-bis c.p.c.), per il combinato disposto degli artt. 667 e 426 c.p.c., pronunciati (o naturalmente denegati) i provvedimenti previsti dagli artt. 665 e 666 c.p.c., già ricordati, il giudizio "prosegue nelle forme del rito speciale", previa ordinanza di mutamento del rito, con la quale ultima le parti sono "facultate" all'integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria. Ciò significa che l'opposizione dell'intimato non coincide più adesso con l'instaurazione di un nuovo e autonomo giudizio di cognizione, ma produce soltanto un mutamento nella struttura del procedimento, che continua a svolgersi, necessariamente davanti al medesimo giudice, non ponendosi più questioni di competenza per valore, in una nuova fase, quella di merito (che si concluderà con la pronuncia di accoglimento o rigetto della domanda di condanna del conduttore al rilascio dell'immobile locato); ovvero, in altri termini, che "prosegue", con cognizione ordinaria ma con rito speciale, quell'unico procedimento, iniziatosi con l'esercizio, da parte del locatore, di un'azione di condanna nella forma speciale della citazione per convalida. Viste, quindi, la modifica dell'art. 667 c.p.c. nel senso che il giudizio prosegue davanti al medesimo giudice nelle forme del rito speciale previa ordinanza di mutamento di rito ai sensi dell'art. 426 c.p.c. e la necessità di un formale provvedimento di mutamento di rito per il passaggio dalla fase di convalida a quella ordinaria in rito speciale ex art. 447 bis c.p.c., è evidente la sottolineatura, da parte del legislatore, della sussistenza di una continuità volto (nelle intenzioni dell'intimante) Dtra il giudizio c.d. sommario ed il giudizio ordinario di Dall'emissione del provvedimento di convalida cognizione conseguente alla (eventuale) opposizione dell'intimato. In altri termini, a seguito del provvedimento ex art. 426 c.p.c. il giudizio prosegue nelle forme del rito speciale c.d. locatizio senza che tale ultimo procedimento possa essere considerato come nuovo e diverso rispetto all'originario procedimento introdotto con atto di citazione per convalida di licenza o sfratto. La corrente maggioritaria della dottrina e della giurisprudenza di merito escludono quindi che le parti possano introdurre nuove domande con la memoria depositata ai sensi dell'art. 667 c.p.c., che ha una funzione appunto d'integrazione, ossia di mero completamento ed approfondimento delle difese già svolte e ciò anche in considerazione del rigido regime di preclusioni operante per le controversie di lavoro, che all'art. 420 c.p.c. subordina anche la sola emendatio libelli alla formulazione di apposita istanza ed all'autorizzazione del giudice. Tale orientamento pare condivisibile anche perché coerente con gli esiti dell'applicazione dell'istituto previsto dall'art. 426 c.p.c., in riferimento al quale è sempre stato sostenuto che il mutamento del rito non determina la sanatoria di eventuali decadenze e preclusioni verificatesi a seguito dell'errata introduzione del giudizio con un atto a forma prevista per il processo ordinario. Infine, non pare decisivo nemmeno il rilievo della compressione delle facoltà difensive del locatore, per il quale l'esperimento del procedimento di sfratto è frutto di una scelta personale, non obbligata. L'attore non può dolersi del fatto che la limitazione della propria domanda originaria sia conseguenza della specialità del rito prescelto, che non gli consente di chiedere altro rispetto alla convalida (e, in caso di sfratto per morosità, all'ordinanza ingiunzione ex art. 664 c.p.c.). Basterà in proposito rilevare che il locatore non è obbligato a procedere nelle forme di cui agli artt. 657 ss., trattandosi di procedura alternativa al normale giudizio di cognizione cui avrebbe potuto ricorrere per introdurre, unitamente alla domanda di scioglimento o risoluzione del rapporto e di pagamento dei canoni di locazione insoluti, anche eventuali altre domande di merito inerenti al contratto. Una simile interpretazione del dettato normativo appare poi del tutto coerente: a) con la ratio che ha informato la "novella", la quale ha inteso introdurre rigide preclusioni per le parti (sia con riferimento alla formazione del thema decidendum che a quella del thema probandum), dovendo essere chiaro che queste hanno la disponibilità dei diritti in contesa, non già del processo e dei suoi tempi; b) con il rito processuale prescelto per la definizione delle cause di locazione, teso al raggiungimento di una decisione del merito secondo regole processuali informate alla massima speditezza, pur nel necessario rispetto del principio del contraddittorio (regole che, giova sottolinearlo, escludono qualsiasi possibilità di mutatio libelli nel corso del procedimento, ma solo di emendatio libelli dietro autorizzazione del giudice: cfr. art. 420 c.p.c.); c) con la recente modifica dell'art. 111 Cost., il quale, stabilendo al comma 2 che la legge deve assicurare la ragionevole durata del processo, impone al giudice di interpretare le norme in senso compatibile con l'attuazione concreta del dettato costituzionale (e non è dubbio che la proposizione di domande nuove, allargando l'oggetto del giudizio, finisce con l'incidere sui tempi di definizione della originaria controversia). Un ulteriore argomento favorevole alla tesi esposta può trarsi dal costante orientamento seguito dalla Corte di Cassazione in tema di mutamento di rito da ordinario a speciale ex art. 426 c.p.c., essendosi sempre ritenuto che tale provvedimento non fa venire meno le preclusioni già verificatesi per le parti a seguito della (erronea) introduzione del giudizio nelle forme ordinarie. Nel senso indicato da questo giudice sembra poi muoversi anche una pronuncia della Suprema Corte in materia di opposizione tardiva alla convalida di sfratto ex art. 668 c.p.c., laddove si afferma che il locatore convenuto (attore in senso sostanziale) non può proporre nel corso del giudizio di opposizione domande nuove rispetto a quelle originariamente proposte nel procedimento di convalida di licenza o sfratto ma può unicamente modificare le stesse nei limiti di quanto consentito dall'art. 420 c.p.c. In definitiva, pare a questo giudice che l'innesto della nuova disciplina del processo civile, come delineata dalla novella del 1990-1995, sul corpo di norme relative allo speciale procedimento di convalida dello sfratto, rimasto pressocchè immutato, comporti che all'adozione del provvedimento di mutamento del rito segua soltanto la trasformazione dello strumento processuale prescelto per ottenere la pronuncia giudiziale di risoluzione del contratto di locazione ed il rilascio del bene locato, non già l'instaurazione di un nuovo giudizio. Tant'è che non viene richiesta una nuova iscrizione a ruolo, la procura alle liti utilizzata dal patrocinatore resta la medesima, l'intimante conserva la sua qualità di attore, ossia di propositore della domanda giudiziale, che, a fronte di una linea difensiva dell'intimato limitata alla formulazione di eccezioni, resta l'unica da esaminare e definire nel merito. Ne discende l'inammissibilità della proposizione delle nuove domande ad opera delle parti. Tale conclusione, deve adesso considerarsi supportata anche dal recente orientamento assunto sul punto dalla Suprema Corte, la quale ha ritenuto soprattutto alla luce del fatto che l'opposizione dell'intimato non coincide più, con il nuovo regime processuale, con l'instaurazione di un nuovo e autonomo giudizio di cognizione, ma produce soltanto un mutamento nella struttura del procedimento e quindi del fatto che l'unico procedimento, iniziato con l'esercizio da parte del locatore di un'azione di condanna nella forma speciale della citazione per convalida, "prosegue" con cognizione ordinaria ma con rito speciale che "a partire dall'emissione dell'ordinanza di mutamento del rito scattano le preclusioni tipiche del processo del lavoro, anzitutto il divieto di proporre nuove domande nel corso del giudizio di primo grado, che, essendo funzionale ad esigenze di accelerazione del procedimento (artt. 414 e 416 c.p.c.), esorbita dalla tutela del privato interesse delle parti, sicché la tardività della nuova domanda non può essere sanata nemmeno dall'accettazione del contraddittorio sulla medesima ad opera della controparte ed è rilevabile anche d'ufficio dal giudice, persino in sede di appello, ove non rilevata, per qualsiasi motivo, dal giudice di primo grado, con il solo limite del giudicato formatosi in proposito. Conseguentemente considerato peraltro che costituisce ius receptum che le memorie integrative previste dall'art. 426 c.p.c., destinate soltanto a consentire alle parti di mettersi in regola con le prescrizioni introdotte dal nuovo processo del lavoro, non possono contenere domande nuove deve ritenersi consentita soltanto la modificazione della domanda (emendatio libelli), previa peraltro l'autorizzazione del giudice, giustificata da gravi motivi (art. 420 c.p.c., 1° comma). In conclusione, la domanda attorea di condanna della convenuta al risarcimento dei danni causati al cespite oggetto di lite avanzata da parte attrice per la prima volta nella memoria integrativa deve ritenersi nuova e, quindi, tardiva ed inammissibile. Le spese di lite liquidate come in dispositivo seguono la soccombenza. P.Q.M. definitivamente pronunciando; dichiara risolto il contratto di locazione stipulato tra le parti per inadempimento della conduttrice; dispone per l'effetto che parte convenuta provveda entro il termine di mesi due decorrente dalla notifica della presente sentenza a rilasciare in favore di parte attrice l'immobile oggetto del rapporto locativo in argomento; condanna parte convenuta al pagamento dei canoni e degli oneri accessori scaduti e non pagati oltre interessi dalle singole scadenze al saldo e da scadere fino al rilascio dell'immobile; rigetta la domanda attorea di condanna della convenuta al risarcimento dei danni causati all'immobile oggetto del rapporto locativo in argomento; rigetta le domande riconvenzionali avanzate da parte convenuta; condanna infine parte convenuta al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 2.000,00 oltre I.V.A. C.P.A. e spese generali. Così deciso in Agrigento il 15 marzo 2021. Depositata in Cancelleria il 29 marzo 2021.

  • TRIBUNALE DI AGRIGENTO SEZIONE CIVILE - SETTORE LAVORO VERBALE DI UDIENZA Il giorno 2 febbraio 2021, innanzi al Giudice del lavoro dott. Alfonso Pinto, viene chiamata la causa R.G. n. 245 dell'anno 2018 promossa da TU. (TR.) S.r.l. CONTRO GI.TR. Si dà atto che sono presenti l'avv. Co.Pa., in sostituzione dell'avv. SC.RO. Nonché l'avv. RA.AL., oltre al resistente I procuratori discutono oralmente la causa, riportandosi a tutti gli scritti. L'avv. Ra., in particolare, deduce l'applicabilità delle disposizioni di cui al r.d. 148 del 1931 giusta quanto previsto dalla legge 1054 del 1960, artt. 1 e 4 e insiste, ove occorra, nelle istanze istruttorie; L'avv. Pa. chiede di produrre copia di cortesia di richiesta di rinvio a giudizio del 25 gennaio 2021 nonché di verbali di udienze istruttorie presso la Corte di Appello di Palermo del 24 novembre 2020 e 12 gennaio 2021. Rappresenta di averli già depositati telematicamente; insiste ove occorra nell'ammissione dei mezzi istruttori; L'avv. Ra. si oppone alla produzione, evidenziando che., con riguardo ai verbali, si tratta di cause riguardanti altri lavoratori e che in ogni caso dimostrano il contrario di quello che sostiene la TUA, in quanto il lavoratore non era al di fuori della sosta consentita. Il giudice Stante la sopravvenienza dei documenti rispetto alla data dell'ultima udienza., ammette la produzione e si ritira in camera di consiglio per la decisione All'esito, alle ore 11,32, dando atto che nessuna delle parti è presente, dà lettura della sentenza con contestuale motivazione REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano TRIBUNALE DI AGRIGENTO Il giudice del Tribunale di Agrigento dott. Al.Pi., in funzione di Giudice del Lavoro, all'udienza del 2 febbraio 2021, all'esito della discussione delle parti, ha pronunciato e pubblicato, dando lettura del dispositivo e della contestuale motivazione, la seguente SENTENZA nelle cause iscritte al n. R.G.N.R. 245/2018 e al n. R.G.N.R. 2873/2018 promosse da TU. (Tr.) s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, P.I. (...), rappresentata e difesa dagli avv.ti Ca.Bo., Va.Sc. e Ro.Sc., giusta procura in atti, - ricorrente - contro Tr.Gi., rappresentato e difeso dall'avv. Alessandro Ra., giusta procura in atti, resistente e ricorrente in via riconvenzionale-Oggetto: impugnativa di licenziamento MOTIVI DELLA DECISIONE In fatto e in diritto Con ricorso ex art. 1, comma 48, della legge 92/2012 depositato il 22 gennaio 2018, l'odierna ricorrente chiedeva dichiararsi legittimo il licenziamento per giusta causa intimato a Tr.Gi. in data 17.11.2017; in subordine, chiede dichiararsi legittimo il predetto licenziamento in quanto irrogato per giustificato motivo soggettivo. Con condanna alle spese. Con ricorso ex art. 1, comma 51, della legge 92/2012 depositato il 24 agosto 2018, l'odierna ricorrente proponeva opposizione all'ordinanza con cui, in data 26 luglio 2018, il giudice del lavoro di questo Tribunale aveva annullato il licenziamento comminato al Tr. ed aveva condannato la società resistente a reintegrare quest'ultimo nel suo posto di lavoro, nonché a corrispondere in favore dello stesso l'indennità risarcitoria spettantegli. Si costituiva in giudizio Tr.Gi., chiedendo il rigetto dei ricorsi in quanto infondati in fatto e in diritto; in via riconvenzionale, chiedeva dichiararsi nullo il licenziamento impugnato per violazione dell'art. 53 R.D. n. 148/1931; chiedeva, quindi, condannarsi il datore di lavoro alla sua reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento, in suo favore, di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione in misura non inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria; chiedeva, altresì, accertarsi l'insussistenza degli estremi della giusta causa addotti dal datore di lavoro per insussistenza del fatto contestato o dichiararsi, in ogni caso, che la condotta rientrava tra quelle punibili con sanzione conservativa e, conseguentemente, disporsi l'annullamento del predetto licenziamento e condannarsi il datore di lavoro alla sua reintegrazione in servizio e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria; in subordine, chiedeva condannarsi il datore di lavoro al pagamento, in suo favore, di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva da determinare nella misura di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto ovvero nella diversa misura ritenuta di giustizia. Con condanna alle spese. Disposta la riunione dei procedimenti, stante la sussistenza di ragioni di connessione soggettiva e oggettiva, superflua ritenuta l'istruttoria orale sollecitata dalle parti, all'odierna udienza, in esito alla discussione delle parti, la causa veniva decisa. I ricorsi sono infondati e non risultano meritevoli di accoglimento. La lettera di licenziamento del 17 novembre 2017 faceva rinvio, quanto alla motivazione del recesso, ad una precedente lettera, datata 25 ottobre 2017 (prot. n. 222/17/DG), con cui la società aveva contestato al lavoratore di avere sostato in data 19.07.2017, alle ore 15,00, per circa trenta minuti, privo di passeggeri e all'ombra di un albero, in via (...), parlando al telefono cellulare e, al termine della sosta, di essersi rimesso in marcia continuando a tenere il telefono cellulare appoggiato all'orecchio, procedendo lentamente così da rallentare la circolazione e producendo ulteriori ritardi. Ciò detto, va ricordato che l'art. 2119 c.c. qualifica la "giusta causa" come causa "che non consente la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro". Segnatamente, la giusta causa di licenziamento ricorre quando il lavoratore commette fatti di una tale gravità da configurare una grave ed irrimediabile negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, di quello fiduciario; in ogni caso, la gravità delle ragioni poste a fondamento del licenziamento per giusta causa legittima l'interruzione immediata del rapporto di lavoro, non gravando sul datore di lavoro l'onere di concedere al lavoratore un termine di preavviso. Sul punto, va altresì rilevato che per giurisprudenza pacifica (ex multis, Cassazione n. 6869/2015), "per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità dell'elemento intenzionale; dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare". Nella specie, l'arrivo ad una fermata con trenta minuti di ritardo e l'avere parlato al cellulare durante la guida per un breve periodo non sono idonei, neppure cumulativamente considerati, a giustificare un provvedimento espulsivo. Ed invero i fatti contestati non rientrano in alcuna delle condotte indicate dall'art. 66 invocato dall'odierna ricorrente nella lettera di licenziamento (a norma del quale "sono passivi di licenziamento senza preavviso i lavoratori colpevoli di: a) minacce o ingiurie gravi verso i superiori o altre mancanze congeneri; b) appropriazione, furti, danneggiamenti o guasti volontari al materiale o oggetti dell'azienda ad essi affidati, riscossione di somme indebite a carico del pubblico, alterazione o falsificazione o soppressione di biglietti di viaggio o di altri documenti di trasporto (anche se allo stato di tentativo o sia avvenuta la restituzione o il risarcimento), complicità anche non necessaria nelle suddette mancanze; c) aver provocato risse sul lavoro o in servizio; d) mancanze da cui siano derivate gravi irregolarità nel servizio o gravi danni alle persone o alle cose; e) sia già stato punito due volte con la sospensione a norma del presente comma e incorra entro due anni nuovamente in una delle mancanze punite con la sospensione; f) ubriachezza in servizio; g) non aver osservato le norme sulla viabilità con la conseguenza che ne siano sorti incidenti e danni rilevanti per l'azienda; h) assenza senza giustificato motivo per oltre tre giorni consecutivi; i) omissione di immediato rapporto alla direzione dell'azienda di incidenti di qualsiasi natura che si siano verificati sulla linea e dei quali sia venuto a conoscenza; l) mancanza in genere di gravità consimili"), atteso che la società ricorrente, sulla quale, come detto, gravava il relativo onere probatorio, non ha dimostrato in giudizio - né ha chiesto di farlo - le condotte che, alla stregua delle lett. b) e l), sarebbero state poste in essere dal dipendente. La società ricorrente non ha chiesto di dimostrare in giudizio il grave pregiudizio che avrebbe eventualmente subito da tale condotta, la quale è rimasta comunque sprovvista di qualsivoglia riscontro probatorio. Mette, peraltro, conto osservare che la disposizione contrattuale richiamata nella lettera accomuna le "gravi irregolarità nel servizio" alle fattispecie in cui il lavoratore abbia causato "gravi danni alle persone o alle cose": da ciò si evince che l'irregolarità nel servizio, che giustifica il licenziamento, deve essere particolarmente grave, produttiva perciò di conseguenze dannose al servizio complessivamente considerato, ciò che - per l'episodicità del fatto - non può certo essere sostenuto. Invero i fatti attribuiti al lavoratore appaiono piuttosto riconducibili alle condotte punibili con sanzioni conservative tanto alla luce delle norme del CCNL di categoria (infatti, se l'art. 66, n. 2, lett. g) del contratto collettivo sanziona con la multa colui che "in genere trasgredisca in misura non grave alle disposizioni del presente contratto di lavoro o dei regolamenti di servizio", l'art. 66, n. 3, lett. c) sanziona con la sospensione dal servizio fino a quattro giorni chi "commetta mancanze da cui siano derivate irregolarità nel servizio o possano derivarne danni rilevanti alla sicurezza del servizio") quanto alla stregua delle norme disciplinari di cui al Regolamento sullo stato giuridico del personale autoferrotranviere di cui al già citato allegato A del R.D. n. 148/1931. In particolare, l'art. 41 n. 2) del Regolamento punisce con la sanzione della multa le "irregolarità di servizio, abusi e negligenze, quando non abbiano carattere di gravità o non dipendano da proposito deliberato", mentre l'art. 42 al n. 9) e 10), commina la medesima sanzione conservativa della sospensione, rispettivamente, "per irregolarità nei viaggi o trasporti in genere, quando non rivestono carattere di frode" e "per volontario inadempimento dei doveri di ufficio o per negligenza, la quale abbia apportato danni al servizio o agli interessi dell'azienda". Va adesso rilevato che non rilevano nella fattispecie in esame i fatti che hanno dato luogo al procedimento penale n. 2844/2018 per i quali all'odierna udienza, la difesa della ricorrente ha depositato richiesta di rinvio a giudizio per truffa per il resistente ed altri lavoratori. In dispare il rilievo - che pure è decisivo - per cui non può certo dirsi che i fatti siano accertati giudizialmente, per lo stato embrionale in cui versano, in ogni caso si rileva che il procedimento penale riguarda anche ulteriori condotte - nella specie di concorso nel delitto di truffa aggravata - non contestate al lavoratore nel licenziamento di che trattasi. Per altre ragioni priva di rilevanza è l'istruttoria espletata, in grado di appello, per il licenziamento comminato ad altro dipendente, non essendo nota la contestazione disciplinare mossa a quest'ultimo e non essendo comunque possibile dalla stessa ricavare la storicità dei fatti contestati in questa sede al TR.. Alla luce di tali considerazioni, stante la riconducibilità delle condotte poste in essere nell'alveo di quelle punibili con una sanzione conservativa, va quindi dichiarata l'illegittimità del licenziamento intimato al TR., con conseguente applicazione dell'art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970 a norma del quale se si accerta "che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili" il licenziamento deve essere annullato con condanna del datore di lavoro a reintegrare il lavoratore nonché a risarcirgli il danno versandogli un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, comunque non superiore a dodici mensilità, nonché al versamento, per il medesimo periodo, dei contributi previdenziali e assistenziali, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione. L'accertamento, compiuto in questa sede giudiziaria, dell'illegittimità del licenziamento ai sensi dell'art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970 è profilo assorbente rispetto alla ulteriore questione della illegittimità procedurale del licenziamento impugnato per la asserita inosservanza dell'art. 53 R.D. n. 148/1931, sulla quale non occorre quindi pronunciarsi nel merito. Per le suesposte ragioni, i ricorsi vanno, quindi, rigettati. Il peso delle spese segue la soccombenza. P.Q.M. Il Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe indicata, rigetta il ricorso e, a conferma dell'ordinanza del 26 luglio 2018, annulla il licenziamento intimato a Tr.Gi. e condanna la TU. S.r.l. alla reintegrazione di quest'ultimo nel suo posto di lavoro, nonché alla corresponsione, in favore dello stesso, di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, comunque non superiore a dodici mensilità, nonché al versamento, per il medesimo periodo, dei contributi previdenziali e assistenziali, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione; condanna altresì la TU. S.r.l. al pagamento, in favore di Tr.Gi., delle spese processuali che si liquidano in complessivi 2.500,00 Euro per compensi, oltre IVA, CPA e spese forfettarie al 15% come per legge. Così deciso in Agrigento il 2 febbraio 2021. Depositata in Cancelleria il 2 febbraio 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Agrigento, Sezione Civile, nella persona del Giudice Vincenza Bennici, ha pronunciato la presente SENTENZA nel procedimento di primo grado iscritto al n. 874/2017 degli affari civili contenziosi TRA Su. S.r.l. IN LIQUIDAZIONE, in persona del legale rappresentante pro tempore, C.F.: (...), Ip.Sa., nato (...), Ip.Lu. nato (...), Ca.Ga., nata (...), Fa.Ca. nata a Canicattì il 01/08/1957 (Avv. Gi.Sc.) opponenti - attori in riconvenzionale E BA.MO. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, C.F. (...) (Avv. Ba.Ni.) opposta Oggetto: opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 62/2017 Conclusioni: cfr. note depositate dalle parti il 26-27 ottobre 2020 RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con atto di citazione ritualmente notificato, gli opponenti in epigrafe indicati interponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 62/2017 con il quale questo Tribunale aveva ad essi ingiunto - a Suprema in Liquidazione S.r.l. quale debitore principale e agli altri opponenti quali garanti - il pagamento di Euro 126.442,59 quale saldo debitorio del c/c n. (...) Deducevano, a sostegno dell'opposizione, l'applicazione di interessi superanti il tasso soglia, la nullità della clausola relativa alla capitalizzazione trimestrale, l'applicazione di commissioni e spese non pattuite e l'applicazione di valute illegittime. In considerazione dell'insussistenza, per le ragioni sopra esposte, del credito fatto valere in sede monitoria, hanno chiesto la revoca del DI.; Suprema S.r.l. in Liquidazione chiedeva inoltre, in via riconvenzionale, in relazione al rapporto di conto corrente n.11094.14 intrattenuto con la banca opposta, di accertare che il saldo finale di tale conto era a credito per il correntista per la somma di Euro 46.995,63 e, per l'effetto, chiedeva di compensare detto credito con l'eventuale debito risultante in relazione al conto n. 631020.21 a seguito del ricalcolo effettuato alla luce delle dedotte nullità. Radicatasi la lite, si è costituita Banca MP. S.p.A. contestando integralmente il contenuto dell'atto di citazione e chiedendo l'integrale rigetto dell'opposizione e, per l'effetto, la conferma del DI opposto; con riguardo alla domanda riconvenzionale eccepiva la prescrizione del diritto azionato. Una volta espletata la ctu contabile, con ordinanza del 3.11.2020 la causa è stata posta in decisione. Così riassunto l'oggetto del giudizio, deve passarsi innanzitutto all'esame delle pretese monitorie avanzate da Banca MP. S.p.A. nei confronti della debitrice Suprema in Liquidazione e dei garanti della stessa in relazione agli importi di cui al c/c 631020.21. Va innanzitutto osservato che il ctu, dott. Lu.Ca., ha accertato, con riferimento al predetto conto, che il TAEG è pari al 22,829% ed è quindi oltre la soglia usura del periodo considerato pari al 14,595%. Ha inoltre accertato che, anche ove si escludesse dal calcolo la c.m.s., il taeg sarebbe pari a 14,86%, dunque anche in questo caso superiore al tasso soglia. L'ausiliario ha quindi rettamente espunto dal calcolo il tasso di interesse e ogni forma di remumerazione. Ciò rende dunque superfluo l'esame delle altre contestazioni spiegate dagli opponenti in relazione a tale conto. Va chiarito che la doglianza secondo cui il ctu non avrebbe dovuto verificare il superamento del tasso soglia in assenza della produzione da parte degli opponenti dei decreti ministeriali è infondata. Pur non ignorando che una parte della giurisprudenza qualifica tali provvedimenti come atti amministrativi, con la conseguenza che gli stessi dovrebbero essere prodotti da chi assume la violazione della normativa antiusura, si ritiene maggiormente condivisibile un contrapposto orientamento che riconosce natura normativa a tali provvedimenti (tra tutte, Tribunale Rimini, 03/03/2016, (ud. 03/03/2016, dep. 03/03/2016), n. 309) in quanto la legge compie un esplicito e necessario richiamo al fine di integrare i precetti, civili e penali, in tema di usura. D'altra parte risulterebbe alquanto singolare che il giudice civile, deputato alla verifica del rispetto dei precetti di ordine pubblico in materia usuraria, laddove dai documenti contrattuali emergano elementi in tale ambito rilevanti, non possa procedere alla propria verifica officiosa, poiché "monco' della conoscenza della soglia usuraria per la determinazione della quale la legge rinvia ad una fonte integrativa secondaria di tipo tecnico. Dunque, non è tanto alla veste giuridica del decreto ministeriale che deve aversi riguardo per decidere circa la conoscibilità dei D.M. ma alla natura normativa o amministrativa degli stessi. Siccome la natura di norme (previsioni che disciplinano in astratto determinati tipi di rapporti giuridici mediante precetti aventi i caratteri della generalità e dell'astrattezza, e, dunque riferibili ad un numero indeterminato di persone) di tali D.M. é evidente (risultando del, pari evidente che per mezzo di tali D.M. il Ministero non "amministra" alcunché), non può che applicarsi il principio iura novit curia. Per un analogo, esemplare e conforme precedente in materia bancaria v. Cass. n. 14470/2005 secondo la quale "L'art. 3 comma terzo, della legge n. 154 del 1992, (recante norme per la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari) nella parte in cui stabilisce con previsione successivamente confermata dall'art. 117 t.u.I.b. - che la Banca d'Italia, su conforme delibera del CICR (ovvero, su conforme decreto del Ministro del tesoro emanato in via d'urgenza, ex art. 6 del d.lg CPS n. 691 del 1947), può dettare modalità particolari, anche concernenti: la forma, dei contratti bancari relativi a determinate categorie di operazioni o servizi, attribuisce a dette istituzioni il potere di emanare disposizioni che integrano la legge e, nei limiti dalla stessa consentiti, possono derogarvi e che, per perciò costituiscono norme di rango secondario, con la conseguenza che per esse opera il principio iura novit curia che eleva a dovere del giudice la ricerca del diritto (Fattispecie: concernente le disposizioni contenute nel decreto del Ministero del Tesoro del 24 aprite 1992 e nella circolare delta Banca d'Italia del 24 maggio 1992, recanti disposizioni emanate in forza dell'art. 3 Cit.). Ciò debitamente premesso, va ora osservato che il ctu ha accertato che, a fronte di un saldo debitorio del conto n. 631020.21 risultante dagli estratti conto pari a Euro 158.373,68, il saldo ricalcolato è pari ad Euro 4.729,41, a debito per il correntista. Si deve precisare che, con riferimento al conto in esame, non è stato affidato al ctu il compito di espungere le rimesse solutorie prescritte in quanto l'eccezione di prescrizione è stata formulata dalla banca solo con riguardo al rapporto oggetto della domanda riconvenzionale; mentre sarebbe stato onere della banca, a seguito delle eccezioni formulata dagli opponenti con l'atto di opposizione, eccepire a sua volta - ma ciò non è avvenuto neppure in modo generico - il carattere solutorio di alcune rimesse. E bene inoltre chiarire, in ordine all'eccezione della banca secondo cui i fideiussori, avendo stipulato un contratto autonomo di garanzia, non avrebbero la facoltà di sollevare le stesse eccezioni del debitore principale, quanto segue. In tema di contratto autonomo di garanzia, l'assunzione da parte del garante dell'impegno di effettuare il pagamento a semplice richiesta del beneficiario della garanzia comporta la rinunzia ad opporre le eccezioni inerenti al rapporto principale, ivi comprese quelle relative all'invalidità del contratto da cui tale rapporto deriva, con il duplice limite. Una prima eccezione è costituita dall'escussione fraudolenta o abusiva, a fronte della quale il garante può e deve opporre la exceptio doli (Cass. n. 5997 del 2007; n. 6757 del 2001; n. 10864 del 1999). Una seconda deroga è costituita dal caso in cui l'eccezione sia fondata sulla nullità del contratto principale per contrarietà a norme imperative o per illiceità della causa. In quest'ultima ipotesi in cui, attraverso il secondo contratto si tende ad assicurare il risultato che l'ordinamento vieta, l'invalidità del contratto "presupposto" si comunica infatti al contratto di garanzia, rendendo la sua causa illecita (Cass. n. 5997 del 2006; n. 3326 del 2002, Cassazione civile sez. I, 14/12/2007, n. 26262). Ebbene, è appunto questa l'ipotesi espressamente prospettata dagli opponenti, in quanto essi hanno dedotto la sussistenza di tassi usurari. Questa deduzione va valutata alla luce delle seguenti norme: l'art. 644 c.p., che prevede quale reato il caso in cui una parte, si faccia dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sè o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari, disponendo che la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari; il D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, convertito nella L. n. 24 del 2001, il quale stabilisce che, "ai fini dell'applicazione dell'art. 644 cod. pen., e dell'art. 1815 c.c., comma 2, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento"; la L. n. 108 del 1996, art. 2, che dispone che il limite oltre il quale gli interessi sono considerati usurari è stabilito con D.M.; l'art. 1815 c.c., comma 2, il quale dispone che "se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi". Nel quadro di queste norme, risulta dunque palese che, avendo gli opponenti evocato la nullità della clausola concernente la disciplina degli interessi per contrarietà con una norma penale, ai sensi dell'art. 1418 c.c., è astrattamente sussistente la seconda delle due eccezioni sopra indicate. Deve adesso passarsi all'esame della domanda riconvenzionale spiegata da Suprema, in relazione al rapporto n. 11094.14, estinto il 7.9.2016. Va innanzitutto osservato che non è applicabile al caso in esame il principio secondo cui l'attore che agisca con l'azione di ripetizione o accertamento negativo ha l'onere di produrre il contratto; ciò in quanto l'opponente, con riferimento al suddetto conto, ha dedotto che nessun contratto è stato sottoscritto dalla parti; di talché nessun onere poteva esigersi in capo all'opponente (si veda Tribunale, Napoli, sez. II, 22/07/2020, n. 5222, secondo cui "Nell'azione di accertamento negativo e ripetizione di indebito, solitamente affiancata da una azione di accertamento della illegittimità degli oneri addebitati per mancanza o nullità delle varie pattuizioni, il correntista può certamente limitarsi ad allegare la inesistenza o nullità del contratto di conto corrente senza ovviamente aver alcun onere di produrre il contratto medesimo - che peraltro assume, in alcuni casi, essere inesistente. In tale caso sarà la banca ad avere l'onere - anche se non abbia proposto domanda riconvenzionale - di produrre il contratto per dimostrare la fonte negoziale del proprio diritto di credito che viene posto in discussione"). Ebbene, Suprema ha chiesto, con riferimento a tale conto di applicare il tasso legale per il periodo anteriore al luglio 1992 e il tasso sostitutivo ex art. 117 Tub per il periodo successivo. Sulla scorta di tali criteri e tenuto conto del termine decennale di prescrizione (essendo stata tale eccezione sollevata riguardo al conto in esame) il ctu ha accertato che a fronte del saldo negativo pari a Euro 105.419,04 figurante negli estratti conto, il saldo è di Euro 35.198,94 a credito per il correntista. Avuto riguardo alle contestazioni mosse dalla banca è bene osservare che, vertendosi in materia di accertamento negativo, rettamente il ctu ha espletato l'indagine partendo dal saldo figurante nel primo estratto conto agli atti (1 gennaio 1992) - e non considerando gli addebiti relativi al periodo precedente - sino al 30 giugno 2016. Ne consegue, effettuando una compensazione tra i crediti nascenti dai due rapporti, che Suprema vanta un credito verso la banca opposta pari a Euro 30.469,53. Da ciò consegue, in primo luogo, la revoca del decreto ingiuntivo opposto; consegue inoltre la condanna della banca a corrispondere a Suprema S.r.l. in Liquidazione la somma di Euro 30.469,53, oltre interessi dalla domanda al soddisfo. Le spese di lite seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo e quelle di ctu vanno poste definitivamente a carico della banca opposta P.Q.M. Il Tribunale di Agrigento, Sezione Civile, definitivamente pronunciando, così provvede: revoca il DI opposto; condanna l'opposta a pagare a Suprema S.r.l. in Liquidazione la somma di Euro 30.469,53 oltre interessi dalla domanda al soddisfo; condanna l'opposta a pagare agli opponenti le spese di lite, che si liquidano in Euro 7.206,00 di cui 6.800,00 per compenso di avvocato e Euro 406,00 per spese; pone le spese di ctu, liquidate con separato decreto, a carico della b anca opposta. Così deciso in Agrigento l'1 febbraio 2021. Depositata in Cancelleria l'1 febbraio 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AGRIGENTO Il Giudice dott. Gerlando Lo Presti Seminerio ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 1680/2019 R.G.A.C. PROMOSSA DA (...) NATO A P. IL (...) rapp. e dif. dall'Avv. Ri.Pi. ATTORE CONTRO (...) S.P.A. IN PERSONA DELL'INSTITORE PRO TEMPORE AVV. (...) rapp. e dif. dall'Avv. Gi.Tr. CONVENUTA OGGETTO: condannatorio SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione del 08/05/2019 (...) conveniva dinanzi a questo Tribunale la (...) s.p.a. deducendo che in data 28/12/2017 viaggiava sul treno della convenuta sulla tratta Palermo - Cammarata. Proseguiva affermando che il treno giunto nei pressi della stazione di Cammarata subiva un brusco sobbalzo che causava la caduta di esso attore provocandogli gravi lesioni personali. Chiedeva, pertanto, la condanna della convenuta al risarcimento dei danni subiti. La (...) s.p.a. costituendosi in giudizio eccepiva nel rito la prescrizione del diritto attoreo al risarcimento e nel merito deduceva l'infondatezza delle avverse domande e ne chiedeva il rigetto. Istruita la causa soltanto con produzioni documentali, all'udienza del 28/10/2020, sulle conclusioni rassegnate dalle parti, la causa veniva posta in decisione previa assegnazione dei termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica. MOTIVI DELLA DECISIONE Le domande attoree meritano accoglimento. Occorre in primo luogo a commento dell'eccezione nel rito sollevata dalla convenuta ricordare come a mente dell'art. 2951 c.c. i diritti derivanti dal contratto di spedizione e di trasporto si prescrivono in un anno dal giorno del sinistro. Nel caso che ci occupa l'incidente occorso all'attore s'è verificato in data 28/12/2017 e la diffida da quest'ultimo inviata alla convenuta valida quale atto interruttivo della prescrizione è stata inoltrata il 16/02/2018 e ricevuta dalla convenuta il 22/02/2018 e quindi entro il limite del connotarsi dell'invocata fattispecie estintiva. Nel merito è all'esito dell'attività istruttoria documentalmente espletata emerso che (...) il 28/12/2017 stava viaggiando a bordo del Treno di (...) s.p.a. quando in prossimità della stazione di Cammarata è caduto dal piano sollevato della cabina al piano di uscita in conseguenza dell'anomalo movimento del Treno (circostanze tutte non contestate). E' pacifico in dottrina e giurisprudenza che la causa civilistica del contratto di trasporto va individuata, giusta l'art. 1678 c.c., nel trasferimento, verso corrispettivo, di persone o cose da un luogo all'altro. Piace ricordare in aggiunta, come sia unanimemente ammesso che il contratto de quo rientri tra quelli consensuali ed a prestazioni corrispettive. Ancora, esso è comunemente annoverato tra i contratti cd. di risultato non già tra quelli di mezzi, essendo pattuito dalle parti con riguardo all'esito conclusivo, che è, effettivamente, quello del trasferimento di cose o persone da uno ad altro luogo. Per ciò che concerne i profili di responsabilità civile connessa al trasporto, utili al tema trattato sono altresì le disposizioni, generali, di cui agli artt. 1681, comma 1, c.c., e quelle, speciali, di cui agli artt. 396 e ss. c. nav. Dispone l'art. 1681 c.c. "Salva la responsabilità per il ritardo e per l'inadempimento nell'esecuzione del trasporto, il vettore risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno". La migliore dottrina ravvisa nella norma de qua un'ipotesi di responsabilità contrattuale cumulabile per espresso disposto normativo con quella per ritardo ed inadempimento nell'esecuzione del trasporto. Dottrina e giurisprudenza hanno, poi, concordemente individuato nel sistema normativo del contratto di trasporto di persone un obbligo di vigilanza e protezione dell'incolumità del passeggero in capo al vettore: "Obbligazione di carattere essenziale, intrinsecamente ed indissolubilmente connessa all'obbligo fondamentale di trasportare è quella di trasferire incolume a destinazione l'oggetto trasportato: nel trasporto di persone essa si caratterizza come obbligo di vigilanza e di protezione dell'incolumità del passeggero". In aggiunta, prosegue il citato unanime orientamento, a mente dell'art. 1681 c.c. il vettore sarebbe responsabile di tutti gli eventi dannosi riferibili non solo all'attività di trasporto in quanto tale, ma altresì alla complessiva attività organizzativo funzionale allo stesso, e perciò riferibile, di volta in volta, alla azione ed omissione di lui e dei suoi ausiliari, che pertanto assumono rilievo civilistico. In sostanza, la normativa sul trasporto costituisce il vettore quale garante dell'incolumità del trasportato. Dall'istruttoria espletata è scaturita con estrema chiarezza la fondatezza dell'assunto attoreo con particolare riferimento alla dedotta responsabilità della (...) s.p.a. convenuta nella causazione dei danni occorsi a (...). Giova ancora rimarcare che, in base all'art. 1 L. n. 754 del 1977 che sul punto ha modificato la diversa disciplina in precedenza dettata dal R.D. 11 ottobre 1934, n. 1948 conv. nella L. n. 911 del 1935 in base alla quale il viaggiatore doveva provare l'anormalità del servizio, la responsabilità dell'amministrazione ferroviaria per il danno alla persona del viaggiatore viene meno soltanto ove la stessa amministrazione fornisca la prova che l'incidente è avvenuto per causa ad essa non imputabile. Pertanto, incombe al viaggiatore unicamente la prova del nesso eziologico tra il servizio ferroviario ed il danno subito, dal quale fatto discende una presunzione di colpa a carico dell'amministrazione ferroviaria, superabile come detto dall'ascrivibilità del fatto a caso fortuito o forza maggiore, ovvero alla colpa esclusiva del danneggiato o di un terzo. Venendo ora alla fattispecie in esame, occorre rilevare come la dinamica fattuale del sinistro come ricostruita dall'indagine documentalmente espletata non permette di escludere la responsabilità della società ferroviaria per due ordini di motivi. In primo luogo la (...) s.p.a. non ha in alcun modo provato che il sinistro in esame si è verificato per l'esclusiva colpa di (...). Quanto alla sussistenza del nesso causale tra l'incidente ferroviario ed il danno subito dall'attore vanno richiamate perché condivise dal Tribunale in quanto frutto di corretto metodo di indagine e di puntuale adempimento dell'incarico conferito le conclusioni raggiunte dalla CTP medico-legale le cui resultanze non appaiono oggetto di contestazione da parte della convenuta. Il dott. (...) riferisce sul punto che la lesività patita dall'attore ben si accorda con le modalità traumatiche dichiarate e che da esse traggono unicamente la loro eziologia. Dalle considerazioni sin qui esposte discende, in definitiva, l'accertamento della responsabilità della (...) s.p.a. per i danni subiti dall'attore in seguito ai fatti verificatisi in data 28/12/2017 nei pressi della stazione di Cammarata. L'attore ha richiesto il risarcimento di tutti i danni subiti a seguito del sinistro, danni che vengono riconosciuti nei termini che seguono. Quanto al danno biologico definito dagli artt. 138 e 139 del D.Lgs. n. 209 del 2005 quale "lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente dalle eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito", questo Giudice aderisce al più recente arresto della Suprema Corte, a termini del quale l'area del danno risarcibile va anzitutto ricondotta nell'ambito delle due sole categorie del danno patrimoniale (artt. 2043-1218 c.c.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), ambito, quest'ultimo, nel quale deve ora ritenersi collocato il danno biologico. Invero, deve ritenersi superata alla luce di una lettura dell'art. 2059 c.c. in chiave costituzionalmente orientata la tesi (cfr. Corte Cost., 14 luglio 1986, n. 184) che ammetteva il risarcimento del danno biologico sulla base del collegamento tra l'art. 2043 c.c. (nel quale si faceva rientrare tale voce di danno) e l'art. 32 Cost. Operazione ermeneutica, quest'ultima, che veniva effettuata al fine di sfuggire alla altrimenti non risarcibilità del danno non patrimoniale, in una lettura riduttiva dell'art. 2059 c.c., ancorata unicamente alla sussistenza di specifiche previsioni legislative che ne ammettevano la risarcibilità (art. 185 c.p.; L. n. 117 del 1987, ecc.). Viceversa, all'esito di un condiviso iter logico-argomentativo, le SS.UU. hanno affermato il principio secondo il quale "il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l'ingiustizia del danno di cui all'art. 2043 c.c. la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante, mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perché tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona". Il danno non patrimoniale, alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., costituisce difatti una categoria ampia, comprensiva non solo del cosiddetto danno morale, ovverossia della sofferenza contingente e del turbamento d'animo transeunte, determinati da un fatto illecito integrante un reato, ma anche di ogni ipotesi in cui si verifichi un'ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, alla quale consegua un pregiudizio non suscettibile di valutazione economica, senza soggezione al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p. Ebbene, va rilevato come dalla CTP sia emerso con motivazione immune da vizi logici e sulla scorta di condivisibili argomentazioni un danno biologico permanente comprensivo del danno alla capacità lavorativa pari a 9 punti percentuali, nonché una invalidità temporanea totale pari a 35 giorni e una invalidità temporanea parziale di 20 giorni al tasso del 50%. Per la liquidazione del danno le voci da considerare vanno distinte secondo la natura dell'interesse leso (danno biologico danno patrimoniale e danno morale). Riguardo al risarcimento del danno spettante all'infortunato per la menomazione dell'integrità personale patita devesi rammentare che all'esito di un percorso storico-concettuale ben noto il principio dell'autonoma risarcibilità del danno alla salute o come altri preferisce definire danno biologico ha trovato indiscusso riconoscimento in giurisprudenza. Nell'interpretazione di una parte sempre crescente di giudici di merito deve a tal proposito distinguersi nell'ambito del cosiddetto danno alla salute un aspetto statico corrispondente alla lesione dell'integrità psico-fisica in sé considerata ed un aspetto dinamico consistente nel peggioramento della qualità della vita da tale lesione scaturito. Sicché nel valutare il danno alla salute il giudizio equitativo del giudice dovrà ponderare il grado di menomazione del soggetto danneggiato in tutte le funzioni che egli esplica nel suo ambiente di vita aventi rilevanza sociale culturale ed estetica. Una valutazione di tal specie appare quindi poco compatibile con il criterio tabellare applicato al triplo della pensione sociale che parte della giurisprudenza è favorevole ad adottare sulla base dell'art. 4 terzo comma L. n. 39 del 1977 nella liquidazione del danno biologico. Appare invece più conforme adottare come parametro nella valutazione equitativa del danno alla salute il cosiddetto "criterio equitativo differenziato del valore di punto" che individuato da taluni giudici di merito sulla scorta di un ampio studio statistico in materia di liquidazione di danni da piccola invalidità permanente (tradizionalmente liquidati senza alcun riferimento al reddito) è stato rapidamente recepito da ampi settori della giurisprudenza. Tale indagine statistica ha permesso di quantificare con riguardo ad una casistica giurisprudenziale un valore monetario medio per punto d'invalidità che cresce d'importo con l'aggravarsi della lesione e che diminuisce all'aumentare dell'età del danneggiato per il grado percentuale d'invalidità. Avuto riguardo al tipo di lesioni ed all'età dell'infortunato e considerato che in epoca moderna il progressivo infittirsi della rete di relazioni sociali nonché il tendente costante moltiplicarsi delle occasioni di relazione offerte a ciascun individuo in ambito sociale si riflettono in un'accresciuta gravità dell'impatto che la menomazione psico-fisica ha sulla potenzialità della persona tale valore può essere oggi fissato nella misura equa di Euro 1.500,00 suscettibile di un aumento massimo predeterminato del 50% salvo casi particolari in modo d'adeguare la valutazione alla peculiarità della concreta fattispecie. I vantaggi offerti da un simile criterio sono evidenti: esso consente di pervenire ad una liquidazione equitativa del danno alla salute mediante parametri in certo qual modo obbiettivi e permette di commisurare con notevole duttilità l'ammontare del risarcimento alla gravità del danno attraverso l'attribuzione di una somma base in rapporto al titolo ed alla serietà della menomazione psicofisica. La somma pertanto spettante alla parte lesa a titolo di risarcimento del danno biologico in relazione all'età dell'odierno danneggiato al tipo di postumi accertati nella misura del 9% al valore d'adottare equitativamente per ciascun punto ammonta appunto ad Euro 13.500,00. Con riguardo al danno patrimoniale patito dall'infortunato è sempre all'esito dell'indagine peritale risultata un'invalidità temporanea totale di gg 35 e parziale al 50% di gg 20. Il danno anche in questo caso va liquidato con criterio equitativo ed alla stregua della consolidata giurisprudenza di questo giudicante si ritiene di determinare in Euro 40,00 il valore relativo all'invalidità temporanea totale ed in Euro 20,00 quello relativo all'invalidità parziale al 50% per cui la somma dovuta all'odierno danneggiato sarà dunque come appare emergere da agevole calcolo pari a complessivi Euro 1.800,00 (Euro 40,00 x gg 35 = Euro 1.400,00) (Euro 20,00 x gg 20 = Euro 400,00). Considerato, poi, che il comportamento posto in essere da (...) s.p.a. integrò, nei suoi estremi oggettivi e soggettivi, il delitto di lesioni personali colpose, come disposto dall'art. 2059 c.c. deve altresì riconoscersi a (...), quale pretium doloris, il cosiddetto danno morale, liquidato in Euro 4.500,00, pari ad un terzo del danno biologico appena quantificato. Sommando gli importi anzidetti, (...) s.p.a., deve essere condannata al pagamento, in favore di (...), a titolo di risarcimento del danno (biologico e morale) alla persona patito dall'attore, dell'importo complessivo di Euro 19.800,00, con la rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat per le famiglie di operai e impiegati dalla data di verificazione del sinistro alla data di pubblicazione della presente sentenza e con gli interessi al tasso legale, da calcolarsi anno per anno sulla somma di anno in anno rivalutata, dal suddetto giorno al pagamento. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. definitivamente pronunciando; dichiara l'esclusiva responsabilità della (...) s.p.a. nel verificarsi dell'evento dannoso di cui è rimasto vittima (...); condanna (...) s.p.a. al pagamento in favore di (...) della complessiva somma di Euro 19.800,00 oltre interessi e rivalutazione dal dì dell'incidente e fino al soddisfo a titolo di risarcimento dei danni da quest'ultimo subiti all'esito del sinistro in argomento; condanna la (...) s.p.a. al pagamento delle spese processuali in favore dell'attore che liquida in Euro 3.000,00 oltre I.V.A. C.P.A. e spese generali. Così deciso in Agrigento il 26 gennaio 2021. Depositata in Cancelleria il 26 gennaio 2021.

  • TRIBUNALE DI AGRIGENTO REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Giudice dott. Gerlando Lo Presti Seminerio ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 1886/2018 R.G.A.C. PROMOSSA DA LA.FR. NATO (...) rapp. e dif. dall'Avv. Ma.La. ATTORE CONTRO SP.AN. NATA (...) rapp. e dif. dall'Avv. Sa.Cu. CONVENUTA CONDOMINIO "(...)" IN PERSONA DELL'AMMINISTRATORE E RAPPRESENTANTE LEGALE PRO TEMPORE DOTT. CA.SA. rapp. e dif. dall'Avv. Al.Am. CONVENUTO OGGETTO: condannatorio SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con citazione del 02/03/2018 La.Fr. conveniva in giudizio Sp.An. ed il Condominio "(...)". Narrava l'attore in tal modo premettendo alle istanze giudizialmente dedotte di essere proprietario di un appartamento posto al piano terrano di un edificio condominiale sito in Agrigento nella Via (...) n. 56. Assumeva quindi a sostegno dell'azione intrapresa che l'immobile di sua proprietà era stato gravemente danneggiato da fenomeni umidiferi causati da infiltrazioni d'acqua derivanti dal lastrico solare di proprietà esclusiva della convenuta Sp.An. e d'avere più volte invitato, inutilmente, quest'ultima nonché il Condominio convenuto, ad ovviare al denunciato fenomeno. Tanto premesso, chiedeva la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni causati dalle infiltrazioni all'immobile di sua proprietà. Sp.An. costituitasi con comparsa del 27/09/2018 contestava il fondamento delle avverse pretese meritevoli di reiezione. Nel costituirsi in giudizio, con comparsa depositata il 19/10/2018 il Condominio "(...)" preliminarmente e nel rito eccepiva la nullità dell'atto introduttivo del giudizio nonché il proprio difetto di legittimazione passiva nell'odierna controversia e nel merito contestava il fondamento dell'avverso rimedio. Esaurita l'istruzione probatoria celebrata attraverso produzioni documentali e consulenza tecnica d'ufficio all'udienza del 21/10/2020, sulle conclusioni rassegnate dalle parti, la causa veniva assunta in decisione previa assegnazione dei termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica. MOTIVI DELLA DECISIONE Nel rito occorre brevemente affrontare le eccezioni preliminari sollevate dal convenuto Condominio "(...)" a commento della prima delle quali va osservato come l'eventuale nullità dell'atto introduttivo del giudizio per totale omissione ovvero in conseguenza dell'assoluta incertezza dell'oggetto della domanda a sensi dell'art. 164 c.p.c. non ricorra allorquando il petitum e la causa petendi siano comunque individuabili attraverso un esame complessivo dell'atto medesimo. Orbene all'interno dell'atto introduttivo del giudizio che ci occupa è stata richiesta la condanna dei convenuti (petitum) con riferimento alla condotta dagli stessi posta in essere dalla quale erano scaturiti i danni e quindi all'art. 2043 c.c. (causa petendi) per cui vizio alcuno appare affliggere l'atto introduttivo del giudizio che ci occupa. Va brevemente commentata anche l'ulteriore eccezione preliminarmente sollevata dal convenuto di difetto di legittimazione passiva nell'odierna controversia. A tal proposito piace ricordare come il terrazzo di copertura anche se di uso esclusivo di un condomino svolga la medesima funzione di copertura del lastrico solare e di conseguenza devono ritenersi tenuti alla buona manutenzione di esso sia il condominio che il proprietario esclusivo. Pertanto dubbio alcuno può nutrirsi che in caso di un'azione giudiziale intrapresa dal condomino proprietario dell'appartamento sottostante il terrazzo stesso per il risarcimento dei danni subiti scaturenti dall'omessa o cattiva manutenzione di esso la legittimazione passiva spetta tanto al condominio che al proprietario del terrazzo. Peraltro giova ancora osservare che in conseguenza della funzione cui assolve il terrazzo e cioè come già cennato quella di copertura dei piani sottostanti l'onere della sua manutenzione incombe sia sul proprietario esclusivo del terrazzo quanto sul condominio e le relative spese vengano ripartite fra quest'ultimo e il proprietario esclusivo nella proporzione prevista dall'art. 1126 c.c. Tuttavia tale concorso non osta a che il proprietario dell'abitazione sottostante danneggiata dalle infiltrazioni d'acqua causate dalla mancata manutenzione della soprastante terrazza possa agire per effetto della posizione di terzo che egli assume nei confronti anche di uno solo di tali obbligati rilevando detta ripartizione esclusivamente nei rapporti interni tra condomini. Pertanto appare certa nella vicenda che ci occupa la legittimazione passiva del Condominio "(...)" di cui fa parte il cespite di proprietà dell'odierno attore. Ciò posto, reputa il decidente che nel merito le domande attoree, siano fondate e debbano essere accolte. Piace a tal riguardo ricordare infatti come la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia prevista dall'art. 2051 cod. civ. abbia carattere oggettivo e, perché possa configurarsi in concreto, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l'osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia non presuppone né implica uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositario, e, d'altro canto, la funzione della predetta norma è quella di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa. Deve pertanto considerarsi custode chi di fatto ne controlla le modalità d'uso e di conservazione, e non necessariamente il proprietario o chi si trova con essa in relazione diretta. Scaturisce dalle emergenze peritali che i danni subiti dall'immobile attoreo sono derivanti da infiltrazioni d'acqua conseguenti allo sfondellamento del solaio dovuto al perpetuarsi ed accumularsi di acqua piovana sul lastrico solare di proprietà della convenuta Sp.An. come oculatamente rilevato dal CTU Ing. (...). Dal che discende che la responsabilità per i danni, ritenute le conclusioni cui è giunto lo stesso perito d'ufficio, è attribuibile alla predetta convenuta proprietaria della terrazza nel senso dettato dalla prevalente giurisprudenza. Quanto sopra da valere in correlazione all'assunto stabilito dalla Suprema Corte secondo cui il condomino del piano sottostante che agisce nei confronti del condomino del piano di sopra per il risarcimento di danni al suo solaio deve dimostrare, ai sensi dell'art. 2043, che essi dipendono da fatti imputabili a quest'ultimo, altrimenti dovendosi ripartire in parti uguali le spese per la riparazione di esso, ai sensi dell'art. 1125, per la presunzione assoluta di comunione tra loro del solaio, da cui deriva altresì l'inapplicabilità dell'art. 2051, diretto a tutelare i terzi danneggiati dalle cose che altri hanno in custodia, e non i comunisti tra loro. Da ciò deriva come avvenuto nella specie la responsabilità del proprietario esclusivo della terrazza. Infatti, in sede di riparto delle spese di manutenzione del tetto di copertura, quel che veramente rileva non è tanto l'appartenenza del tetto medesimo ad alcuni o a tutti i condomini, quanto la funzione di copertura degli appartamenti, senza che con ciò peraltro si possa dire che solo i proprietari dei vani posti nella verticale sottostante alla zona da riparare siano tenuti alla relativa spesa, poiché non può, almeno in linea generale, ammettersi una ripartizione per "zone" di un medesimo tetto e quindi nemmeno per "zone" di un medesimo lastrico solare o terrazzo a livello di appartamento Difatti, la consulenza tecnica d'ufficio redatta dall'Ing. (...), sul punto non contraddetta da confliggenti risultanze istruttorie, ha inequivocabilmente dimostrato, in esito a indagine immune da censure, che i danni sofferti dall'immobile attoreo, sono interamente ascrivibili, sul piano eziologico, allo stato di precarietà del terrazzo soprastante il cespite suddetto. L'indagine peritale ha altresì confermato l'entità dei danni subìti dal cespite attoreo in tal caso riportandosi alla conclusioni raggiunte dal CTP da ritenere ad avviso del consulente tecnico d'ufficio condivisibili. Per tutte le ragioni esposte, quindi Sp.An. sarà obbligata così come richiesto al risarcimento dei danni causati all'immobile attoreo congruamente individuati nella perizia di parte che ammontano a complessivi Euro 10.616,03. Su tale somma dovranno calcolarsi la rivalutazione monetaria (trattandosi di debito di natura risarcitoria e dunque di valore), in base agli indici Istat per le famiglie di operai e impiegati, dalla data di instaurazione del presente giudizio, a quella di pubblicazione della presente sentenza (pubblicazione comportante la trasformazione del debito di valore in debito di valuta), e gli interessi al tasso legale dalla suddetta data fino al giorno del pagamento. Tali interessi, però, dovranno essere calcolati anno per anno sulla somma di anno in anno rivalutata. Le spese di lite liquidate come in dispositivo seguono la soccombenza. P.Q.M. definitivamente pronunciando; dichiara Sp.An. responsabile dei danni cagionati all'immobile di proprietà di La.Fr.; condanna per l'effetto la suddetta convenuta al pagamento in favore dell'attore della complessiva somma di Euro 10.616,03 oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla domanda al soddisfo a titolo di risarcimento dei danni causati all'immobile di proprietà di quest'ultimo; condanna infine la convenuta al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 2.000,00 oltre I.V.A. C.P.A. e spese generali; dichiara compensate le spese di lite tra l'attore ed il Condominio convenuto; pone definitivamente a carico della convenuta le spese relative alla consulenza tecnica d'ufficio. Così deciso in Agrigento il 20 gennaio 2021. Depositata in Cancelleria il 20 gennaio 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI AGRIGENTO SEZIONE UNICA CIVILE in persona del Giudice, dott.ssa Maria Margiotta, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella controversia iscritta al n. 3244 del registro generale affari civili dell'anno 2015 TRA GA.SA. (CF: (...)), nato (...), elettivamente domiciliato ad Agrigento, via (...), presso lo studio dell'avv. Gi.Le., che lo rappresenta e difende, congiuntamente e disgiuntamente all'avv. Si.Br., in forza di procura alle liti in calce all'atto di citazione, ATTORE E COMUNE DI LAMPEDUSA E LINOSA (CF: (...)), in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Si.Ci., giusta procura allegata alla comparsa di costituzione e risposta, presso il cui indirizzo pec è elettivamente domiciliato CONVENUTO avente ad oggetto: risarcimento del danno extracontrattuale (art. 2051 cc); conclusioni delle parti: come da verbale di udienza del 16.9.2020 (cui si rinvia); RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con atto di citazione ritualmente notificato Ga.Sa. conveniva in giudizio il Comune di Lampedusa e Linosa, in persona del legale rappresentante pro tempore, al fine di ottenere il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale patito a causa del sinistro occorso a Lampedusa il 18.7.2010 quando, nel percorrere la discesa di via Depositi alla guida del ciclomotore di proprietà del padre, "all'altezza del civico n. 81, a causa di un dosso artificiale ivi posto dall'amministrazione convenuta, non fissato adeguatamente al manto stradale, perdeva il controllo del mezzo finendo con l'impattare fisicamente sul pilastro in cemento dell'abitazione ubicata al civico 75". Deduceva che, prestati i primi soccorsi presso il Poliambulatorio dell'isola - dove veniva condotto in autoambulanza in stato di incoscienza -, veniva intubato e trasferito con elisoccorso presso l'Ospedale Civico - (...) di Palermo ove veniva ricoverato con prognosi riservata e sottoposto ad intervento di chirurgia plastica - neuroraffia piccolo ramo nervoso naso buccale con sutura della parete -, rimanendo in terapia intensiva sino al 20.7.2010 a causa di un versamento addominale per essere poi sottoposto ad ulteriori accertamenti - dai quali emergeva, tra l'altro, una sofferenza emorragica congiuntivale - e dimesso il 24.7.2010. Sulla scorta di tali allegazioni, invocava la responsabilità dell'ente comunale convenuto ex art. 2051 c.c., il quale non aveva garantito la buona manutenzione del tratto stradale omettendo di segnalare il pericolo presente sulla carreggiata - richiamando in subordine l'art. 2043 c.c. - e domandava dunque il risarcimento dei danni patrimoniali (comprensivi delle spese necessarie per l'intervento di chirurgia plastica di ricostruzione facciale) e non patrimoniali patiti, per un totale di Euro 83.004,10. Regolarmente costituitosi in giudizio il Comune di Lampedusa e Linosa deduceva innanzitutto la nullità dell'atto di citazione non contenente l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda. Contestava ad ogni modo la presenza di un dosso all'altezza del civico 81 di via Depositi, richiamando il verbale di accertamento a firma della Polizia Municipale nel quale si dava atto che i tra il predetto civico e il n. 75 vi era una distanza di 236 metri e che il relativo tratto di strada non era rettilineo, presentando una curva sulla destra. Simili allegazioni, secondo la prospettazione del convenuto, rendevano inverosimile la ricostruzione dei fatti fornita dall'attore, il quale "probabilmente" percorreva la strada ad una velocità "elevata, non rispettosa del limite consentito (tale da far perdere l'aderenza al terreno in un tratto in discesa)", utilizzando un casco non omologato. Negava quindi ogni responsabilità dell'ente comunale sostenendo che il sinistro fosse addebitabile alla condotta imperita della controparte, che non aveva prestato la diligenza adeguata alla situazione concreta, stante la perfetta visibilità dei dossi, tutti regolarmente segnalati; escludeva la sussistenza dei presupposti dell'art. 2051 c.c. così come della norma generale contenuta nell'art. 2043 c.c.. Chiedeva il rigetto delle domande attoree e, in subordine, l'accertamento del suo concorso di colpa nella causazione del sinistro, contestando in ogni caso il quantum debeatur. Nella memoria ex art. 183, co. 6, n. 1 c.p.c. l'attore contestava le difese avversarie e, segnatamente, la propria responsabilità nella verificazione dell'occorso, precisando che il dosso posto all'altezza del civico n. 75 - risultante dalle immagini fotografiche prodotte - era stato "rimosso dall'Amministrazione comunale poco tempo dopo i fatti che ci occupano (la stessa Amministrazione rappresenta oggi nel suo scritto che il dosso non risulta più ivi posto)" e che prima lo stesso "risultava collocato orizzontalmente, tagliando entrambe le corsie di marcia, poco prima del civico 79 di via (...) in relazione alla corsia di marcia del ciclomotore". Puntualizzava che la distanza tra il civico 75 e il punto di impatto non era superiore a 2030 metri. La causa è stata istruita mediante prove testimoniali; con ordinanza riservata il Giudice già assegnatario del fascicolo ha disposto consulenza tecnica medico-legale d'ufficio sulla persona dell'attore. Così brevemente delineati i fatti di causa, va preliminarmente disattesa l'eccezione di nullità dell'atto di citazione per omessa indicazione degli elementi di cui all'art. 163 n. 4 c.p.c., atteso che dalla lettura dell'atto introduttivo emerge come lo stesso presenti sia la determinazione della cosa oggetto della domanda che l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della stessa con le relative conclusioni. Venendo al merito, l'attore imputa al Comune di Lampedusa e Linosa la responsabilità dell'evento dannoso occorsogli in data 18.7.2020, da porre, a suo avviso, in relazione causale con l'insidia presente nel manto stradale di via Depositi - ossia un "dosso artificiale ivi posto dall'amministrazione convenuta, non fissato adeguatamente al manto stradale" -, invocando l'applicazione della più favorevole disciplina contenuta nell'art. 2051 c.c. sul presupposto che all'ente locale sia demandata la custodia e la manutenzione della strada in questione. A tale riguardo deve osservarsi che è ormai consolidato il principio che l'art. 2051 c.c., secondo cui ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia salvo che provi il caso fortuito, si applica anche alle strade pubbliche a meno che non sia accertata in concreto l'impossibilità dell'effettiva custodia del bene, sicché detta responsabilità non rimane esclusa in modo automatico dall'estensione della rete viaria e dall'uso da parte della generalità, che eventualmente possono costituire meri indici di detta impossibilità (Cass. 9546/10; 17377/07); ed anzi, in tempi più recenti, si è sottolineata la particolare intensità del dovere di custodia gravante sull'amministrazione titolare del bene, a tutela dell'affidamento che nella sua sicurezza legittimamente i consociati ripongono (Cass. 11785/17). Ebbene, l'art. 14 C.d.S., impone agli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, di provvedere: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi; b) al controllo tecnico dell'efficienza delle strade e relative pertinenze; c) all'apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta. Rispetto a tali soggetti è dunque configurabile la responsabilità per cosa in custodia ex art. 2051 c.c., in ragione del particolare rapporto con la cosa che ai medesimi deriva dalla disponibilità e dai poteri di effettivo controllo sulla medesima (cfr. Cass. n. 24419/2009; Cass. n. 7763/2007; Cass. n. 298/2003). Si tratta, invero, di principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui dei danni conseguenti ad omessa o insufficiente manutenzione stradale "il proprietario o il custode (tale essendo anche il possessore, il detentore e il concessionario) risponde ex art. 2051 c.c., salvo che dalla responsabilità presunta a suo carico si liberi dando la prova del fortuito. In altri termini, il danneggiato che domanda il risarcimento del pregiudizio sofferto in conseguenza dell'omessa o insufficiente manutenzione della cosa in custodia, o di sue pertinenze, invocando la responsabilità del custode è tenuto, secondo le regole generali in tema di responsabilità civile, a dare la prova che i danni subiti derivano dalla cosa, in relazione alle circostanze del caso concreto (cfr. Cass. 20/2/2006, n. 3651). Tale prova consiste nella dimostrazione del verificarsi dell'evento dannoso e della relativa derivazione dalla cosa in custodia, e può essere data anche con presunzioni, giacché la prova del danno è di per sè indice della sussistenza di un risultato "anomalo", e cioè dell'obiettiva deviazione dal modello di condotta improntato ad adeguata diligenza che normalmente evita il danno (cfr. Cass. 20/2/2006, n. 3651)" (così, da ultimo, Cass. n. 11096/2020). In ossequio all'interpretazione ormai consolidata, deve affermarsi che la norma in esame delinea un'ipotesi di responsabilità oggettiva e non di colpa presunta, dovendo colui che la invoca provare soltanto il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi in alcun modo la condotta del custode e l'osservanza di un obbligo di vigilanza da parte dello stesso (cfr. ex multis Cass. ord. n. 1765/2016). Quanto alla prova liberatoria gravante sul custode, questi andrà esente da responsabilità solo dimostrando la sussistenza del caso fortuito, da intendere quale fattore eccezionale, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo a interrompere il nesso causale tra la res e il danno concretamente verificatosi. Ebbene, gli elementi probatori acquisiti consentono di ritenere raggiunta la prova non soltanto in ordine all'esistenza dell'insidia sulla superficie stradale, ma anche con riguardo alla riferibilità eziologica dell'"infortunio" in cui è rimasto coinvolto l'attore a causa di siffatta anomalia della sede stradale, tale da generare una situazione di pericolo per l'utente medio. Infatti, in assenza della prova liberatoria da parte del Comune di Lampedusa e Linosa, la ricostruzione fornita nell'atto introduttivo, come precisata nella memoria ex art. 183, co. 6, n. 1 c.p.c., ha trovato pieno riscontro nelle dichiarazioni rese dai testimoni Si.Gi. e Ma.Ta.. Invero, la prima, avendo assistito al sinistro ad una distanza di 100 metri, ha confermato i capitoli di prova contenuti nella memoria ex art. 183, co. 6, n. 2 c.p.c. di parte attrice - e dunque la circostanza secondo cui l'attore "oltrepassando il dosso artificiale ivi posto 20/30 metri prima circa del civico 75, perdeva il controllo del mezzo finendo con l'impattare sul pilastro e sul cancello del suddetto civico" -; ha poi affermato che "il dosso era malmesso e vi era una parte mancante" in quanto "prima del sinistro si era staccato un pezzo dello stesso verso la parte centrale del dosso, verso l'estremità destra (guardando verso nord)", precisando che il ciclomotore è transitato in corrispondenza della "parte mancante del dosso ad una velocità assai bassa" avendo in seguito "sbandato (...) dopo aver sobbalzato" e "urtato contro il pilastro del primo cancello lì presente dopo il dosso"; "non ricordo che ci fosse prima del sinistro alcuna segnaletica stradale che avvertiva della presenza del dosso" (cfr. verbale di udienza del 10.10.2017). La circostanza che parte del dosso fosse mancante già prima del sinistro ha trovato conferma altresì nelle dichiarazioni della testimone Maria Roberta Taranto che, pur non avendo assistito personalmente al sinistro, ha escluso la presenza sui luoghi di segnali indicanti il pericolo ovvero di "segnaletica concernente il limite di velocità" (cfr. verbale di udienza in pari data). Entrambe le testimoni poi - sulla cui attendibilità non vi è ragione di dubitare - hanno riconosciuto lo stato dei luoghi ritratto nelle immagini fotografiche loro mostrate. Va precisato che, ad avviso di chi giudica, non colgono nel segno i rilievi mossi dal Comune convenuto in ordine alla contraddittorietà delle dichiarazioni rese da Si.Gi., la quale ha affermato di aver assistito al sinistro da una distanza di 100 metri - che, tenuto conto delle condizioni della strada risultanti dalla documentazione fotografica in atti, le ha consentito di vedere l'attore perdere il controllo del mezzo una volta oltrepassato il dosso - non avendo subito, per tale ragione, riconosciuto il soggetto coinvolto. La prova dell'an non è scalfita dalle contestazioni mosse dal Comune di Lampedusa e Linosa facendo leva sulle incongruenze sussistenti tra quanto allegato nell'atto introduttivo (e quanto dichiarato dall'attore in sede di sommarie informazioni rese in data 3.8.2010) e il verbale redatto dai Carabinieri intervenuti - secondo cui tra il numero civico 75 e il numero civico 81 di via Depositi intercorre una distanza di 236 metri -, anche avuto riguardo alle concrete modalità di verificazione del sinistro. Tale documento, unitamente alla copiosa produzione fotografica prodotta dall'attore, non fa che confermare la dinamica prospettata dal medesimo, dando atto che il dosso si presentava danneggiato; né, d'altra parte, il convenuto ha fornito alcun elemento concreto idoneo ad inficiare la valenza probatoria del rapporto di polizia, che "fa piena prova fino a querela di falso delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti come avvenuti in sua presenza, mentre per quanto riguarda le altre circostanze di fatto che egli segnali di aver accertato nel corso dell'indagine, per averle apprese da terzi o in seguito ad altri accertamenti, il verbale, per la sua natura di atto pubblico, ha pur sempre un'attendibilità intrinseca che può essere infirmata solo da una specifica prova contraria" (così Cass. n. 22662/2008, richiamata da Cass. ord. n. 23977 del 22.10.2013). Ne, d altra parte, può attribuirsi rilevanza alla circostanza che nel corso delle sommarie informazioni rese da Ga.Sa. in data 3.8.2009 e dunque poche settimane dopo il sinistro, lo stesso, da poco dimesso dall'ospedale, abbia affermato di non avere testi da indicare, ben potendo l'individuazione dei testimoni escussi all'udienza del 10.10.2017 essere avvenuta in un momento successivo. Parimenti inidonee a confutare la ricostruzione attorea risultano le dichiarazioni rese dalla testimone Ma.Ma. (cfr. verbale di udienza del 13.2.2018) considerato che né la presenza di apposito cartello volto a segnalare la presenza del dosso - né tanto meno il fatto che lo stesso fosse danneggiato -, né la presenza di segnaletica che fissava il limite di velocità di 20 km orari sul tratto di strada interessato hanno trovato adeguato riscontro nelle altre risultanze istruttorie e, soprattutto, nei rilievi fotografici eseguiti dai Carabinieri intervenuti. Nessuna rilievanza infine può attribuirsi alle immagini fotografiche prodotte dal Comune di Lampedusa e Linosa, nelle quali viene ritratto un cartello indicante il limite di velocità di 20 km orari, non potendosi risalire al momento in cui le stesse sono state scattate, tenuto conto peraltro delle contestazioni mosse sul punto dall'attore, secondo il quale tali foto risalgono al 2016. Venendo adesso al profilo del concorso di colpa invocato dal Comune di Lampedusa e Linosa, astrattamente compatibile con le ipotesi di responsabilità oggettiva in cui difetta un coefficiente soggettivo di imputazione dei danni (cfr. Cass. n. 8478/2020; Cass. n. 5031/1998), va detto che ne la circostanza che l'attore al momento del fatto calzasse delle infradito, ne l'utilizzo da parte del medesimo di casco non omologato consentono di ravvisare l'addebitabilità dell'evento alla condotta attorea. Quanto al primo profilo, deve osservarsi che nessuna norma di legge impone di utilizzare scarpe chiuse mentre si è alla guida e che in concreto, una volta perso il controllo del mezzo, lo specifico tipo di scarpe calzate non avrebbe potuto, ad avviso di chi giudica, evitare la caduta e l'impatto contro il pilastro ovvero mitigarne gli effetti, considerato che nessun elemento ha fornito il Comune per sostenere come "guida imprudente e calzature non adatte" abbiano "assorbito in modo esclusivo la causalità dell'evento". Rispetto al secondo profilo, va detto che la modifica normativa dell'art. 171 c.d.s., che ha vietato l'uso del casco con omologazione d.g.m., anche detto "a scodella", introdotta con L. n. 120 del 29.7.2010, è successiva ai fatti di causa. Deve, d'altra parte, osservarsi che le favorevoli condizioni atmosferiche e la buona visibilità - risultante anche dal verbale dei Carabinieri e non contestata dall'attore -, unitamente alla moderata velocità dal medesimo tenuta alla guida del ciclomotore nel percorrere la strada, costituiscono elementi da tenere necessariamente in considerazione nel valutare la diligenza osservata da Ga.Sa. e dunque nell'accertare la concreta possibilità di quest'ultimo di evitare il sinistro ovvero ridurne le conseguenze dannose. A tale riguardo va richiamato il principio di diritto enunciato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui "la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento dannoso, in applicazione, anche ufficiosa, dell'art. 1227 c.c., comma 1, richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'art. 2 Cost.. Ne consegue che, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un'evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l'esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro. E' stato anche chiarito nelle menzionate pronunce che l'espressione "fatto colposo" che compare nell'art. 1227 c.c. non va intesa come riferita all'elemento psicologico della colpa, che ha rilevanza esclusivamente ai fini di una affermazione di responsabilità, la quale presuppone l'imputabilità, ma deve intendersi come sinonimo di comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta, stabilita da norme positive e/o dettata dalla comune prudenza (così da ultimo Cass. n. 19716/2020). Sulla scorta delle considerazioni che precedono chi giudica ritiene addebitabile all'attore - che prestando maggiore attenzione avrebbe potuto verosimilmente evitare il dosso ovvero frenare in corrispondenza dello stesso, riducendo i postumi dannosi patiti - una corresponsabilità nella causazione del sinistro nella percentuale del 30%. Per quanto attiene alla quantificazione dei danni risarcibili, va osservato - in punto di danno non patrimoniale - che dalle lesioni refertate al danneggiato nell'immediatezza del sinistro dai sanitari dell'ospedale Civico di Palermo - dove il paziente è stato condotto intubato tramite elisoccorso e, segnatamente, "politrauma con alterazione dei parametri vitali - traumi maggiori" (tra cui frattura seno mascellare destro, frattura osso zigomo destro nella branca temporale, frattura dita destra nella parete esterna, ematoma parti molli del massicccio facciale destro e della regione frontoparietale destra e ampia e profonda ferita lineare che si estende dalla regione media della guancia destra alla tempia omolaterale), cui è seguito un ricovero nel reparto di anestesia e rianimazione, sono residuati postumi, giudicati compatibili con le modalità del trauma, che hanno determinato una riduzione dell'integrità psico-fisica quantificata dal CTU - all'esito della disamina della documentazione sanitaria e degli accertamenti diretti sulla persona del danneggiato - nella misura del 13 %, di cui il 9% riconducibile al danno estetico per la cicatrice al volto e il 4% riconducibile agli esiti del trauma cranico con sindrome post traumatica da stress. Ad avviso di chi giudica la quantificazione operata dal consulente va in parte rivista, avuto riguardo alle conseguenze pregiudizievoli consistenti nella sindrome post traumatica da stress, sottesa al trauma cranico subito a seguito dell'impatto. A tale proposito deve evidenziarsi che "Le valutazioni espresse dal consulente tecnico d'ufficio non hanno efficacia vincolante per il giudice e, tuttavia, egli può legittimamente disattenderle soltanto attraverso una valutazione critica, che sia ancorata alle risultanze processuali e risulti congruamente e logicamente motivata, dovendo il giudice indicare gli elementi di cui si è avvalso per ritenere erronei gli argomenti sui quali il consulente si è basato, ovvero gli elementi probatori, i criteri di valutazione e gli argomenti logico-giuridici per addivenire alla decisione contrastante con il parere del c.t.u." (così Cass. n. 5148/2011; Cfr. inoltre Cass. n. 17757/2014). E' dunque compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore persona si siano verificate; del resto è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo, avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni. Invero, nella fattispecie, se è indubitabile che gli eventi patiti dall'attore e, soprattutto la grande cicatrice al volto, abbiano determinato una modifica peggiorativa delle proprie abitudini e dello stile di vita, non può sottacersi che la documentazione medica in atti non fa alcun riferimento al disturbo post traumatico da stress, né si ravvisano prescrizioni di farmaci (o terapie farmacologiche seguite) volti a curare simile patologia, né significativi indici in tal senso si rinvengono nella relazione di consulenza tecnica di parte, dove si fa unicamente menzione del danno biologico derivante da trauma cranico commotivo con perdita di coscienza e successiva intubazione, del quale sfuggono tuttavia i postumi permanenti. Alla luce delle circostanze che precedono appare quindi congruo contenere la richiamata voce di danno biologico nella misura onnicomprensiva del 9%. Appare, d'altra parte, corretta - in mancanza di rilievi critici di parte - la determinazione rispettivamente in 12 e 25 giorni della durata dei periodi di inabilità temporanea assoluta e di inabilità temporanea parziale al 50 %. Ciò premesso, per la liquidazione, necessariamente equitativa (in considerazione della natura squisitamente non patrimoniale dei beni attinti e dei pregiudizi conseguitine), del danno come sopra riconosciuto a Ga.Sa., in considerazione dei postumi stabilizzati implicanti un danno biologico di lieve entità, non rientrante nell'ambito applicativo dell'art. 139 d. Lgs 209/05, si adotteranno i parametri ed i valori indicati nelle Tabelle già in uso presso il Tribunale di Milano cui i giudici di legittimità hanno riconosciuto una "vocazione" nazionale, indicandoli come parametri equi, cioè idonei a garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti peculiarità che suggeriscano di incrementarne o ridurne l'entità (cfr. Cass. n. 24161/2018, Cass. n. 10263/2015, Cass. n. 14402 /2011). I valori tabellari in questione tengono, infatti, conto dei principi espressi dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nelle pronunce di San Martino del 2008, fatti propri dalla giurisprudenza successiva, al fine di assicurare una liquidazione unitaria del danno non patrimoniale comprensiva della componente relativa alla lesione dell'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale e del danno conseguente alle medesime lesioni in termini di dolore e sofferenza soggettiva, da ritenersi provato in via presuntiva con riferimento al tipo di lesione patita, al grado della menomazione permanente, alla durata del periodo di malattia, ai trattamenti chirurgici e alle terapie praticate, alle ripercussioni degli uni e degli altri sulle normali abitudini di vita della persona. In applicazione degli espressi criteri e avuto riguardo ai valori riportati nelle tabelle milanesi aggiornate - edizione 2018 -, con riferimento al periodo di inabilità temporanea assoluta e relativa, così come accertato dal C.T.U., va equitativamente liquidata la somma di Euro 98,00 al giorno (da ridurre per i giorni di invalidità relativa in proporzione alla percentuale di inabilità accertata dall'ausiliario) per un totale di Euro 2.401,00. Quanto al danno biologico, tenuto conto dell'età della parte lesa al momento del sinistro (23 anni), del grado di invalidità permanente (9%) e del valore base ( Euro 2.586,51) per punto di danno non patrimoniale (omnicomprensivo nel senso sopra chiarito), va liquidata la somma pari ad Euro 21.649,00. Ne discende che il risarcimento del danno non patrimoniale complessivamente spettante all'attore ascende a complessivi Euro 24.050,00. A tale importo dovrebbe aggiungersi quello da liquidare a titolo di danno patrimoniale, sub specie di rimborso spese mediche documentate, somma che occorre rivalutare all'attualità per porre al riparo la somma dal fenomeno inflattivo, previa detrazione dell'acconto già percepito. Tali importi, espressi in valori attuali, non comprendono tuttavia l'ulteriore e diverso danno rappresentato dalla mancata disponibilità del denaro nel tempo intercorso tra la lesione e la sua liquidazione per equivalente monetario, danno derivante dal ritardo con cui viene liquidato al creditore danneggiato l'equivalente monetario del bene leso. Pertanto, nei debiti di valore, come quelli di risarcimento da fatto illecito, indipendentemente dalla prova - affatto necessaria - richiesta dall'art. 1224 ult. co. c.c. per i debiti di valuta, vanno corrisposti interessi (ad un tasso corrispondente a quello legale, in mancanza di allegazioni circa i più proficui impieghi cui la somma sarebbe stata destinata ove conseguita tempestivamente), in modo da rimpiazzare il mancato godimento del denaro dovuto. Secondo un indirizzo ormai consolidato, tali interessi, cosiddetti compensativi, vanno calcolati non sulla somma rivalutata in un'unica soluzione alla data della sentenza, ma sulla somma capitale (determinata nel giorno dell'insorgenza del credito) via via rivalutata, conformemente all'insegnamento espresso nella nota pronuncia a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 1712/95 (conformi, tra le tante, Cass. nn. 3666/96, 8459/96, 2745/97, 492/01; 18445/05). Nell'effettuare il relativo calcolo, bisogna tener presente che è necessaria una devalutazione nominale delle voci di danno liquidate in valuta attuale si da rapportarle all'equivalente alla data di insorgenza del danno medesimo e procedere poi alla successiva rivalutazione delle stesse e delle voci espresse in valuta del tempo di insorgenza; gli interessi vanno applicati sulle somme che progressivamente si incrementano per effetto della rivalutazione, con cadenza mensile alla stregua della variazione mensile degli indici ISTAT; gli interessi così ottenuti vanno accantonati e cumulati tra loro senza rivalutazione. Inoltre, la decorrenza degli interessi va conteggiata nel seguente modo: sugli esborsi dalla data dell'effettiva spesa; sul danno da invalidità permanente dalla data di cessazione della temporanea; sulla temporanea dal di del fatto. Il danno da lucro cessante andrà quindi calcolato nel caso di specie applicando un saggio di interessi pari a quello legale (in considerazione del fatto che l'attore non ha neppure dedotto, com'era suo onere, quale impiego alternativo e più remunerativo avrebbe impresso al credito, se fosse stato tempestivamente adempiuto; Cass. n. 3173/2016) sull'intero credito risarcitorio devalutato alla data dell'illecito e mensilmente rivalutato. Applicando, dunque, i criteri da ultimo indicati, la somma complessivamente dovuta a Ga.Sa. ammonta ad Euro 26.378,57 (di cui Euro 2.328,57 per interessi). Con riferimento alle spese mediche, l'importo da corrispondere è pari ad Euro 1.184,5 che occorrerà rivalutare all'attualità dalla data dell'esborso (prendendo come data di riferimento il 10.11.2020 quale "data media", registrandosi esborsi tra il 13.8.2010 e l'23.12.2010), giungendo all'importo di Euro 1.288,74. Nell'ambito di tali esborsi sono ricompresi anche quelli corrisposti per le consulenze tecniche di parte depositate (cfr. Cass. n. 84/2013 "Le spese sostenute per la consulenza tecnica di parte, la quale ha natura di allegazione difensiva tecnica, rientrano tra quelle che la parte vittoriosa ha diritto di vedersi rimborsate, a meno che il giudice non si avvalga, ai sensi dell'art. 92, primo comma, cod. proc. civ., della facoltà di escluderle dalla ripetizione, ritenendole eccessive o superflue"; conforme Cass. n. 3380/2015). Applicando i suesposti criteri, la somma complessivamente dovuta all'attore è pari ad Euro 27.667,31, da cui andrà detratto la percentuale corrispondente al concorso di colpa dell'attore, giungendo alla somma di Euro 19.367,12. Sull'ammontare della prestazione risarcitoria decorreranno interessi al saggio legale dalla decisione al saldo. Il risarcimento del danno va posto a carico del Comune di Lampedusa e Linosa, cui non potrà tuttavia addossarsi la somma di Euro 8.500,00 domandata dall'attore a titolo di danno patrimoniale, considerato che, da una parte, si tratta di importo non sborsato e, dall'altra, che Ga.Sa. non ha fornito alcuna allegazione in ordine alla possibilità - verosimilmente consentita - di effettuare l'intervento chirurgico di ricostruzione facciale presso strutture del Sistema Sanitario Nazionale. Venendo alla regolamentazione delle spese di lite, le stesse si liquidano in dispositivo disponendone la compensazione nella misura di 1/3 e applicando, per la restante parte, la regola della soccombenza in ossequio ai parametri del d.m. n. 55/2014 per tutte le fasi del giudizio, valori compresi tra i minimi e i medi, avuto riguardo al risarcimento riconosciuto. Le spese per la consulenze tecnica d'ufficio espletata - liquidate in separato decreto -vanno poste a carico dell'attore nella misura di un terzo e del convenuto nella misura di due terzi. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, nel contraddittorio tra le parti costituite, disattesa ogni altra domanda, eccezione e difesa: condanna il Comune di Lampedusa e Linosa, in persona del legale rappresentante pro tempore, a rifondere a Ga.Sa. la somma di Euro 19.367,12, oltre interessi legali dalla data della presente decisione sino al soddisfo; dispone la compensazione delle spese di lite nella misura di un terzo e condanna, per la restante parte, il Comune di Lampedusa e Linosa, in persona del legale rappresentante pro tempore, a rifondere a Ga.Sa. le spese di lite e le liquida in Euro 2.000,00, oltre iva Cpa e rimborso forfettario come per legge; pone le spese per l'occorsa ctu, liquidate in separato decreto, a carico dell'attore nella misura di un terzo e a carico del convenuto per la restante parte. Così deciso in Agrigento l'11 gennaio 2021. Depositata in Cancelleria l'11 gennaio 2021.

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