Sentenze recenti Tribunale Agrigento

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI AGRIGENTO SEZIONE LAVORO In persona della Dott.ssa Tecla De Bono, in funzione di Giudice Onorario di Pace presso il Tribunale di Agrigento, Sezione Lavoro, all'udienza del 24 aprile 2023 ha pronunciato alle ore 15,01, la seguente SENTENZA ex art. 429 c.p.c. nelle causa in materia previdenziale iscritta al n. 3571 R.G. 2019 del Ruolo Lavoro Previdenza Assistenza promossa: da B.C. (C.F. (...)). avv. BALSAMO TERESA - opponente - contro I.N.P.S. Istituto Nazionale della Previdenza Sociale in persona del suo legale rappresentate pro tempore corrente in Roma, Via Ciro il Grande n. 21 I.N.P.S. Istituto Nazionale della Previdenza Sociale in persona del suo legale rappresentate pro tempore - cod. fisc. (...) con sede in Agrigento in Via (...) l'I.N.P.S. Istituto Nazionale della Previdenza Sociale in persona del suo legale rappresentate pro tempore sede di Canicattì via (...) avv. IL.GI. - opposto - OGGETTO: Iscrizione elenco lavoratori agricoli - disconoscimento giornate lavorative. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso depositato in data 18 novembre 2019 l' istante in epigrafe conveniva in giudizio l'I.N.P.S. - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale - in persona del legale rappresentante pro-tempore chiedendo di ritenere fondato nel merito il ricorso de quo e conseguentemente ordinare all'I.N.P.S. in persona del suo legale rappresentante pro-tempore di reinserire il ricorrente nell'elenco dei braccianti agricoli relativamente agli anni dal 2014 al 2017 avendo lo stesso, svolto attività lavorativa di bracciante agricolo presso la Ditta "(...)" con sede legale in C. di L. (A.) via M. n.21. A sostegno della domanda deduceva di avere lavorato per la Ditta "(...)" con sede legale in C. di L. (A.) come da documentazione in atti ; che l'I.N.P.S. di Agrigento gli aveva comunicato in data 22 gennaio 2019 che la domanda di disoccupazione agricola relative all'anno 2016 già accolta, d'ufficio è stata riesaminata il 9.1.2019 e respinta con la seguente motivazione: "REIEZIONE DOM.: NON RISULTA ISCRITTO NEGLI ELENCHI AGRICOLI"; che con successivo Provv. del 24 gennaio 2019, pervenuto il 28 febbraio 2019 l'I.N.P.S. di Agrigento gli aveva comunicato che l'indebito già versato per la suddetta causale per il periodo dal 01.01.2014 al 31.12.2017 era pari ad Euro 20.688,42 e di avere revocato conseguentemente gli assegni per il nucleo familiare, somma della quale chiedeva la restituzione; che Avverso detto provvedimento veniva proposti separati ricorsi al Comitato Provinciale I.N.P.S. in data 19 aprile 2019 ed in data 22 giugno 2019 ai quali non è stato dato alcun riscontro. Da qui la proposizione del presente giudizio. Eccepiva a sostegno della propria tesi la illegittimità del provvedimento di cancellazione dall'Elenco Agricoli per avere effettivamente svolto attività lavorative alle dipendenze della ditta (...), la illegittimità provvedimenti adottati dall'INPS/mancanza di motivazione. Concludeva, pertanto, chiedendo l'accoglimento del ricorso e delle conclusioni ivi rassegnate con vittoria di spese, competenze ed onorari da distrarre in favore del procuratore dichiaratosi antistatario. Instauratosi il contraddittorio, si costituiva in giudizio l'I.n.p.s. in persona del suo legale rappresentante pro-tempore che eccepiva, in via preliminare l'inammissibilità del ricorso per intervenuta decadenza ai sensi degli artt. 11 D.Lgs. n. 375 del 1993 e 22 D.I. n. 7 del 1970 e nè chiedeva nel merito il rigetto deducendone variamente l'infondatezza. Con vittoria di spese di lite. La causa veniva istruita documentalmente, ed autorizzato il deposito di note scritte sulla questione preliminare di decadenza sollevata dall'istituto , veniva rinviata per discussione decisione all'udienza del 30 marzo 2021 , poi a causa dell'emergenza epidemiologica da covid 19, ed infine per carico di lavoro del giudice. All'odierna udienza del 24 aprile 2023 viene decisa con sentenza emessa ai sensi dell'art. 429 c.p.c. che viene comunicata alle parti. MOTIVI DELLA DECISIONE La domanda è inammissibile per intervenuta decadenza ex L. n. 83 del 1970. Il diritto alle prestazioni previdenziali spettanti ai lavoratori operai agricoli a tempo determinato, è condizionato dall'esistenza di un fattispecie complessa che è costituita non solo dallo svolgimento di un'attività di lavoro subordinato a titolo oneroso per un numero minimo di giornate per ciascun anno di riferimento, ma altresì dall'iscrizione di tali giornate in appositi elenchi nominativi (cfr. per tutte Cass. n. 276/2008). Il sistema previdenziale per i lavoratori agricoli è gestito dall'I.n.p.s (subentrato allo SCAU - Servizio per i contributi agricoli unificati a far data dal 1 luglio 1995, a norma dell'art.19 della L. n. 724 del 1994) il quale, sulla base delle dichiarazioni trimestrali dei datori di lavoro, provvede a compilare gli elenchi in questione. Tuttavia, una volta avvenuta, l'iscrizione può essere oggetto di controlli e di cancellazione (artt. 8, 9, 16 e 19 del D.Lgs. n. 375 del 1993, recante Attuazione dell'art. 3, comma 1, lettera aa), della L. 23 ottobre 1992, n. 421, concernente razionalizzazione dei sistemi di accertamento dei lavoratori dell'agricoltura e dei relativi contributi) e in particolare, ove sulla base di accertamenti ispettivi verifichi l'inesistenza del rapporto, l'istituto emette un atto di disconoscimento della prestazione di lavoro ed adotta il conseguente atto di cancellazione (art. 9 D.Lgs. n. 375 del 1993 cit.). Tale possibilità per l'ente previdenziale permane anche a seguito dell'abolizione degli elenchi trimestrali, avvenuta ai sensi dell'art. 38, comma 6, D.L. n. 98 del 2011 convertito in L. n. 111 del 2011, potendo l'I.n.p.s. provvedere, in caso di riconoscimento o di disconoscimento di giornate lavorative intervenuti dopo la compilazione e pubblicazione dell'elenco annuale, alla notifica ai lavoratori interessati di appositi elenchi nominativi trimestrali di variazione. A tale potere di controllo e modifica unilaterale dell'I.n.p.s., si contrappone un doppio grado di gravame amministrativo. Ed invero, per la verifica della definitività del provvedimento occorre fare riferimento al procedimento disciplinato dall'art. 11 del D.Lgs. n. 375 del 1993 di attuazione dell'art. 3 comma 1 lett. a) della L. n. 421 del 1992, per il quale "contro i provvedimenti adottati in materia di accertamento degli operai agricoli a tempo determinato ed indeterminato e dei compartecipanti familiari e piccoli coloni e contro la non iscrizione è data facoltà agli interessati di proporre, entro il termine di trenta giorni, ricorso alla commissione provinciale per la manodopera agricola che decide entro novanta giorni. Decorso inutilmente tale termine il ricorso si intende respinto. Contro le decisioni della Commissione l'interessato e il dirigente della competente sede SCAU (ante riforma ex art. 19 della L. n. 724 del 194) possono proporre, entro trenta giorni, ricorso alla Commissione Centrale preposta al predetto Servizio che decide entro novanta giorni. Decorso inutilmente tale termine il ricorso si intende respinto". Inoltre, a norma dell'art. 22 del D.L. 3 febbraio 1970, n. 7, convertito nella L. 11 marzo 1970, n. 83, "contro i provvedimenti definitivi adottati in applicazione del presente decreto da cui derivi una lesione di diritti soggettivi, l'interessato può proporre azione giudiziaria davanti al pretore nel termine di 120 giorni dalla notifica o dal momento in cui ne abbia avuto conoscenza". Per costante orientamento della Corte di Cassazione, al quale va prestata adesione: In caso di avvenuta presentazione dei ricorsi amministrativi previsti dal D.Lgs. 11 agosto 1993, n. 375, art. 11, contro i provvedimenti di mancata iscrizione, totale o parziale, negli elenchi nominativi dei lavoratori agricoli, ovvero di cancellazione dagli elenchi medesimi, il termine di 120 giorni per l'esercizio dell'azione giudiziaria stabilito dall'art. 22 D.L. 3 febbraio 1970, n. 7, convertito dalla L. 11 marzo 1970, n. 83, decorre dalla definizione del procedimento amministrativo contenzioso, che coincide con la data di notifica all'interessato del provvedimento conclusivo espresso, se adottato nei termini previsti dall'art. 11 D.Lgs. n. 375 del 1993, cit., ovvero con la scadenza di questi stessi termini nel caso del loro inutile decorso, dovendosi equiparare l'inerzia della competente autorità a un provvedimento tacito di rigetto conosciuto ex lege dall'interessato al verificarsi della descritta evenienza. (Principio affermato ai sensi dell'art. 360 bis, comma 1, c.p.c.).( cfr. Cass. 27/12/2011 n. 29070). Ora, ai sensi dell'art. 38 comma 7 del D.L n. 98 del 2011 convertito in L. n. 111 del 2011 "A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono soppressi gli elenchi nominativi trimestrali di cui all'articolo 9-quinquies del D.L. 1 ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 novembre 1996, n. 608. In caso di riconoscimento o di disconoscimento di giornate lavorative intervenuti dopo la compilazione e la pubblicazione dell'elenco nominativo annuale, l'INPS provvede alla notifica ai lavoratori interessati mediante la pubblicazione, con le modalità telematiche previste dall'articolo 12-bis del R.D. 24 settembre 1940, n. 1949, di appositi elenchi nominativi trimestrali di variazione. Agli eventuali maggiori compiti previsti dal presente comma a carico dell'I.N.P.S. si provvede con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente". Se per un verso la pubblicazione telematica dell'elenco in variazione ha ormai valore di notifica, al lavoratore interessato, del disconoscimento e della cancellazione dall'elenco annuale, per altro verso, tuttavia, nel caso di specie appare equo fare decorrere il termine di trenta giorni per la proposizione del ricorso amministrativo previsto dall'art. 11 D.Lgs. n. 375 del 1993 cit. - termine trascorso il quale il disconoscimento e la cancellazione devono considerarsi definitivi - dalla data in cui il ricorrente allega di essere venuto a conoscenza del disconoscimento e della cancellazione. Risulta dalla documentazione prodotta in atti che la parte ricorrente è stata cancellata dagli elenchi dei lavoratori agricoli a seguito della pubblicazione nel sito internet dell'Inps del terzo e il quarto elenco nominativo trimestrale di variazione per l'anno 2018 per il comune di Campobello di Licata, pubblicati nel sito internet dell'Inps dal 15/12/2018 al 31/12/2018 e dal 10/03/2019 al 25/03/2019( circostanza questa mai contestata dalla parte ricorrente) , da cui risulta l'intervenuta variazione della posizione di parte ricorrente per l'intero periodo indicato in ricorso. (cfr. Produzione fascicolo telematico inps), che tale cancellazione gli è stata comunicata con raccomandata con avviso di ricevimento dall'I.N.P.S. (cfr. All. N. 1 fascicolo parte ricorrente) in data 28 gennaio 2019 per l'anno 2016 come peraltro ammesso dalla stessa parte ricorrente , che ha proposto ricorso al Comitato provinciale in data 22 giugno 2019 per l'anno 2016 (cfr. All. fascicolo ricorrente). Nel caso di specie, se per un verso la pubblicazione telematica (nel caso di specie avvenuta nel sito internet dell'Inps dal 15/12/2018 al 31/12/2018 e dal 10/03/2019 al 25/03/2019 dell'elenco di variazione, ai sensi dell'art. 38 comma 6 D.L. n. 98 del 2011, ha ormai valore di notifica, al lavoratore interessato, del disconoscimento e della cancellazione dall'elenco annuale, per altro verso, tuttavia, il ricorrente ha appreso dell'avvenuto disconoscimento delle giornate di lavoro e la conseguente cancellazione con la nota Inps del in data 28 gennaio 2019 per l'anno 2016 - e pertanto è da tale data che deve farsi decorrere il termine di trenta giorni per il ricorso amministrativo previsto dall'art. 11 D.Lgs. n. 375 del 1993 cit., trascorso il quale il provvedimento deve considerarsi definitivo. Ebbene, il ricorrente non solo non ha proposto tempestivamente i suddetti ricorsi amministrativi - in atti risulta depositato un ricorso al comitato provinciale inoltrato solo in data 22 giugno 2019 ( anno 2016) - ma non ha neppure provveduto, ad impugnare in via amministrativa l'elenco in variazione, la cui pubblicazione sul sito Inps, dal 15/12/2018 al 31/12/2018 e dal 10/03/2019 al 25/03/2019, che aveva come si è detto valore di notifica della cancellazione delle giornate lavorative iscritte per l'anno 2016. Ne deriva che, nel caso di specie, l'azione giudiziaria avrebbe dovuto essere proposta entro 150 giorni (30 per il ricorso amministrativo, decorsi i quali il provvedimento di disconoscimento è divenuto definitivo e lesivo + 120 per il ricorso giudiziale) decorrenti dal 28 gennaio 2019 per l'anno 2016 ( data di notifica del provvedimento inps di cancellazione) ovvero dal 15/12/2018 al 31/12/2018 e dal 10/03/2019 al 25/03/2019 data di pubblicazione telematica dell'elenco in variazione ex art. 38 comma 6 D.L. n. 98 del 2011 (conv. in L. n. 111 del 2011), e cioè nel primo caso entro il 27 giugno 2019, e nel secondo caso entro il 23 settembre 2019 avendo la relativa cancellazione acquistato definitività, consentendo il decorrere dei 120 giorni fissati a pena di decadenza dall'art. 22 D.L. 3 febbraio 1970, n. 7 cit. per la proposizione del ricorso giudiziale. Alla data del deposito del ricorso (18 novembre 2019 ), pertanto, il termine di decadenza di cui all' art. 22 D.L. n. 7 del 1970 era ormai irrimediabilmente spirato in entrambe le ipotesi sopra prospettate. Infine , si rileva che se per un verso sarebbe ammissibile l'accertamento incidentale circa la consistenza del numero di giornate e, quindi, del monte contributivo del lavoratore agricolo da parte del giudice adito per il pagamento della prestazione, sul quale non incide peraltro la mancata iscrizione (o la cancellazione) negli elenchi - atteso che la sussistenza di tale elemento costitutivo del diritto alla prestazione previdenziale può essere chiesta e dimostrata nel giudizio avente ad oggetto la stessa prestazione (in questo senso, sia pure in fattispecie parzialmente diversa cfr. Cass. 15.07.2005, n. 14994) - per altro verso nondimeno il relativo giudizio avrebbe dovuto essere intentato nel termine di decadenza previsto dalla legge per reagire avverso i provvedimenti di disconoscimento e cancellazione, ciò che come si è detto non è avvenuto nel caso di specie. Alla luce della ormai intervenuta incontestabilità del provvedimento di disconoscimento e di cancellazione delle giornate dall'elenco del 2016, nessun interesse appare residuare in capo al ricorrente in ordine all'accertamento delle giornate di lavoro agricolo svolto alle dipendenze della ditta (...), con sede legale in C. di L. nel suddetto anno, non potendone comunque discendere, in mancanza dell'indefettibile presupposto dell'iscrizione nel relativo elenco nominativo, il diritto all'indennità di disoccupazione agricola. Il ricorso è pertanto rigettato. Ritenuta la particolarità della questione trattata compensa tra le parti le spese di lite inerenti il presente giudizio P.Q.M. La Dott.ssa Tecla De Bono, in funzione di Giudice Onorario presso il Tribunale di Agrigento, Sezione Lavoro, ogni diversa istanza, eccezione o deduzione disattesa, definitivamente pronunciando nel contraddittorio delle parti nella causa iscritta al n. 3571/2019 R.G.; rigetta il ricorso. compensa tra le parti le spese di lite. Così deciso in Agrigento il 24 aprile 2023. Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI AGRIGENTO SEZIONE SPECIALIZZATA AGRARIA così composto: 1. Marco Salvatori - Presidente 2. Vincenza Bennici - Giudice 3. G. Claudia Ragusa - Giudice rel. 4. Giuseppe Pistone - Esperto 5. Gaetano Ritacco - Esperto nel procedimento n. 197/2022 R.G., promosso DA (...) elettivamente domiciliata presso lo studio dell'avv. (...) che la rappresenta e difende, unitamente all'avv. (...) giusta procura allegata al ricorso introduttivo -ricorrente - CONTRO (...) elettivamente domiciliata presso lo studio dell'avv. (...) giusta procura in calce alla memoria di costituzione; (...) elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv. (...) giusta procura in calce alla memoria di costituzione; resistenti e ricorrenti in via riconvenzionale OGGETTO: Azione di condanna al rilascio di fondo; condanna al pagamento di indennizzo per migliorie in via riconvenzionale; RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO Con ricorso, depositato il 24 gennaio 2022, (...) premettendo di essere comproprietaria di un fondo rustico, sito in A., in località C., identificato in catasto al foglio (...) particelle n. (...) esteso circa 2, 1 ettari, giusta successione ereditaria di (...) e allegando una occupazione sine titulo da parte di (...) e di (...) ha chiesto l'immediato rilascio del fondo libero da persone e da cose. La medesima ricorrente ha chiesto, in subordine, qualora nel corso del giudizio fosse emersa l'esistenza di un contratto, la cessazione dello stesso per intervenuta disdetta notificata in data 14 luglio 2021 o ancora la risoluzione del medesimo rapporto contrattuale per inadempimento dei resistenti nella conduzione del fondo, domandando, infine e in ogni caso, la condanna di questi ultimi al risarcimento del danno da liquidarsi in via equitativa per occupazione sine titulo, con vittoria di spese del giudizio. Instaurato il contraddittorio, con memorie depositate il 17 marzo 2022 si sono costituiti (...) e (...) i quali hanno resistito alla domanda di rilascio, eccependo, in via riconvenzionale, il loro acquisto per usucapione del fondo per cui è causa, domandando, in subordine e in via riconvenzionale, nel caso di mancato accoglimento della predetta eccezione la condanna della ricorrente al pagamento in loro favore delle spese sostenute per le migliorie apportate sul fondo pari a Euro 50.000,00, opponendosi, infine, alla richiesta di risarcimento del danno. Differita la prima udienza alla luce della proposizione della domanda riconvenzionale, le parti sono state autorizzate al deposito di note. La ricorrente ha contestato l'eccezione di usucapione e la domanda riconvenzionale, eccependo, in via preliminare, l'improcedibilità delle stesse per il mancato esperimento, rispettivamente, del tentativo di mediazione e di conciliazione, nel merito, ha contestato le avverse difese, producendo un contratto di mezzadria sottoscritto dai rispettivi dante causa nel 2004. I resistenti hanno disconosciuto la scrittura privata suddetta e hanno insistito nelle proprie difese, chiedendo eventualmente l'assegnazione di un termine per la proposizione del tentativo di conciliazione e/o di mediazione. La causa, a seguito di rinuncia della ricorrente alla verificazione della scrittura privata, è stata istruita con produzione documentale e all'udienza del 29 marzo 2023 è stata discussa e decisa con il deposito del dispositivo di sentenza. Cosi sinteticamente delineato l'oggetto del contendere, seguendo un ordine di pregiudizialità logica e giuridica, va, innanzitutto, affermata la proponibilità della domanda di rilascio, essendo stata preceduta dalla comunicazione stragiudiziale notificata, alle controparti, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento del 26 luglio 2021, nonché dal preventivo esperimento del tentativo di conciliazione presso il competente Ispettorato provinciale dell'Agricoltura ai sensi dell'art. 46, comma primo della L. 3 maggio 1982, n. 203, concluso con esito negativo ( cfr. all. 5-7 Ricorso). A questo punto, va esaminata l'eccezione preliminare di usucapione sollevata dai resistenti. Va, innanzitutto, affermata l'ammissibilità della stessa, atteso che, trattandosi di un'eccezione e non di una domanda, non era necessario il preventivo tentativo di mediazione, previsto, invece, a pena di improcedibilità, in presenza di domande (proposte in via principale o in via riconvenzionale) in materia di diritti reali. Nel merito, l'eccezione è infondata e va disattesa. Invero, in disparte ogni valutazione sulla assenza di specificità nella indicazione del fondo asseritamente posseduto con riferimento all'estensione superficiaria e ai confini dello stesso (cfr. sulla indispensabilità delle indicazioni Cass. n. 4332/2013), si ritiene come non siano stati dimostrati i presupposti di cui all'art. 1158 c.c., ossia il possesso in senso tecnico da parte di chi non è titolare del diritto corrispondente e la durata dello stesso per il tempo richiesto dalla legge, accompagnati dall'animus rem sibi habendi. Nella specie, i resistenti hanno allegato di aver coltivato il fondo per oltre vent'anni, comportandosi come unici proprietari con segni visibili all'esterno (messa a dimora di piante, alberi di ulivo, di limoni, di colture e opere di varia natura). Tuttavia, si ritiene come i medesimi resistenti non abbiano fornito adeguata prova del possesso uti dominus, stante l'irrilevanza, ai fini del decidere, delle prove testimoniali articolate, che, quand'anche ammesse, avrebbero dimostrato la mera coltivazione del fondo da parte dei resistenti e non già un possesso utile ai fini del perfezionamento della fattispecie acquisitiva. A tal proposito, va richiamato l'orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in relazione alla domanda di accertamento dell'intervenuta usucapione della proprietà di un fondo destinato ad uso agricolo, non è sufficiente, ai fini della prova del possesso "uti dominus" del bene, la sua mera coltivazione, poiché tale attività è pienamente compatibile con una relazione materiale fondata su un titolo convenzionale, o sulla mera tolleranza del proprietario, e non esprime comunque un'attività idonea a realizzare l'esclusione dei terzi dal godimento del bene, che costituisce l'espressione tipica del diritto di proprietà. A tal fine, per conseguire la prova dell'esercizio del possesso "uti dominus" del bene, colui che invochi l'accertamento dell'intervenuta usucapione del fondo agricolo deve fornire la prova dell'intervenuta recinzione del fondo, che costituisce, in concreto, la più rilevante dimostrazione dell'intenzione del possessore di esercitare sul bene immobile una relazione materiale configurabile in termini di ius excludendi alios, e, dunque, di possederlo come proprietario, escludendo i terzi da qualsiasi relazione di godimento con il cespite predetto ( cfr. Cass n. 8176/2022). Applicando i summenzionati principi al caso di specie, si osserva come non sia stata fornita la prova del possesso da parte dei resistenti teso a escludere l'altrui godimento, stante la mancata formulazione di capitoli di prova orale relativi all'avvenuta recinzione del fondo per un periodo di tempo sufficiente a opera dei resistenti, i quali, invece, si sono limitati ad allegare che l'accesso al fondo in questione sarebbe stato chiuso da un cancelletto, le cui chiavi sarebbero state possedute dai medesimi ( cfr. note autorizzate del 14 maggio 2022). Tale lacuna probatoria non avrebbe potuto essere colmata dalle eventuali dichiarazioni rese in sede di interrogatorio libero (e non formale) chiesto da ciascun resistente nei confronti dell'altro, stante l'assenza di una valenza confessoria delle stesse. A conclusioni diverse non può giungersi neppure valorizzando la produzione documentale allegata alle suddette note autorizzate, dal momento che le foto prodotte non dimostrano inequivocabilmente che il fondo per cui è causa sia chiuso da un cancello, le cui chiavi siano detenute esclusivamente dai resistenti. Ne consegue il rigetto dell'eccezione, stante la carenza di prova dei presupposti richiesti dall'art. 1158 c.c.. Venendo, adesso, alla domanda di rilascio si osserva quanto segue. Innanzitutto, non è contestato che la parte ricorrente sia comproprietaria del fondo rustico indicato in ricorso, per averlo ereditato dal de cuius (...) (cfr. documentazione in atti). Di contro, i resistenti, che non hanno, si ribadisce, dimostrato di aver acquistato per usucapione il fondo in questione, non hanno neppure provato di detenerlo in virtù di un titolo contrattuale. Ne discende che questi ultimi detengono senza titolo il fondo in questione, e per l'effetto, vanno condannati al rilascio, al termine dell'annata agraria in corso, del fondo suddetto, e di quanto su di esso insiste e relative pertinenze, libero da persone e cose. Parimenti, merita accoglimento la domanda della ricorrente di ottenere la condanna dei resistenti al risarcimento del danno per mancato godimento dell'immobile. In tali ipotesi, il danno subito dal proprietario per l'indisponibilità del medesimo va inteso quale pregiudizio all'impossibilità stessa di disporre del bene, senza comunque far venir meno l'onere per lo stesso di allegare e di provare, anche con l'ausilio delle presunzioni, il fatto da cui discende il lamentato pregiudizio, ossia che se egli avesse immediatamente recuperato la disponibilità dell'immobile, l'avrebbe subito impiegato per finalità produttive, quali il godimento diretto o la locazione (Cass. ord. 21835/2020). Nella specie, si ritiene dimostrato il pregiudizio subito, ravvisabile nella dichiarata impossibilità di ricavare un reddito dal fondo, che è comprovato dall'invito della ricorrente rivolto nel 2020 (prima dell'instaurazione del giudizio) ai resistenti di stipulare un contratto di affitto di fondo rustico ( cfr. all. 2 Note autorizzate della ricorrente del 5 maggio 2022). Ebbene, ai fini della determinazione di tale importo, tenuto conto della estensione e della natura del fondo e prendendo come base di riferimento l'importo di Euro 1000,00 annuo (a partire dalla richiesta stragiudiziale di rilascio del 2021), va prevista la condanna dei resistenti al pagamento di Euro 3000,00 complessivi, tenuto conto del numero di annualità trascorse ( 1000 x 3), oltre interessi legali decorrenti dal deposito della sentenza sino al soddisfo. Tanto chiarito, resta, a questo punto, da esaminare la domanda riconvenzionale proposta dai resistenti di ottenere un indennizzo per i miglioramenti apportati sul fondo per cui è causa. Tale domandava dichiarata improponibile, stante il mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, che andava proposto necessariamente prima della instaurazione del giudizio. Infatti, nelle controversie agrarie, la domanda riconvenzionale, al pari di quella proposta dal ricorrente, deve essere preceduta dal tentativo di conciliazione di cui all'art. 46 della L. 3 maggio 1982, n. 203 e, in mancanza, deve essere dichiarata improponibile, tuttavia, non sussiste la necessità di tale preventivo tentativo, qualora il resistente abbia già dedotto le relative richieste nella procedura di conciliazione sperimentata dal ricorrente (cfr. Cassazione n. 23816/2017). Come anticipato, nel caso di specie, i resistenti non solo non hanno esperito il tentativo di conciliazione, ma neppure hanno partecipato al tentativo di conciliazione promosso alla ricorrente, nel corso del quale si sarebbe potuto interloquire sulla domanda riconvenzionale dinanzi ai medesimi organi deputati alla conciliazione. In ogni caso e per incidens va osservato che i medesimi resistenti non hanno neppure dimostrato di aver rispettato le rigide prescrizioni dettate dagli artt. 16 e seguenti della L. n. 203 del 1982, ispirate all'intento di assicurare un costante contraddittorio tra il locatore ed affittuario ed il proprietario, in tema di possibilità di esecuzione di nuove opere attinenti il fondo, anche di tipo migliorativo ( quali, l'esecuzione nel rispetto dei programmi regionali di sviluppo, la comunicazione preventiva alla controparte e all'Istituto provinciale dell'agricoltura con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, corredata da progetto sulla natura, sulle caratteristiche e finalità delle opere di cui si chiede l'esecuzione, la convocazione da parte dell'IPA, delle parti, ai fini della conciliazione e la pronuncia dell'IPA comunicata ad entrambe le parti). Pertanto, sulla scorta delle superiori considerazioni, (...) e (...) vanno condannati al rilascio del fondo per cui è causa libero da persone e cose entro la fine dell'annata agraria in corso, nonché al pagamento della somma complessiva di Euro 3000,00 a titolo di risarcimento del danno per occupazione sine titulo, oltre interessi legali decorrenti dalla pubblicazione della sentenza sino al soddisfo. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo tra i valori minimi e medi delle fasi processuali espletate dello scaglione di riferimento di cui al D.M. n. 147 del 2022, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, disattesa ogni altra istanza, eccezione e difesa: 1. in accoglimento del ricorso, condanna i resistenti (...) e (...) al rilascio, al termine dell'annata agraria in corso, del fondo per cui è causa, meglio indicato in ricorso, e di quanto su di esso insiste e relative pertinenze, libero da persone o cose; 2. dichiara improponibile la domanda riconvenzionale in ordine alle migliorie proposta dai resistenti; 3. condanna i resistenti, (...) e (...) al pagamento in favore della ricorrente, per occupazione sine titolo del fondo, dell'importo complessivo di Euro 3000,00, oltre interessi legali dalla data di deposito della presente sentenza sino al soddisfo; 4. condanna i resistenti, in solido, al pagamento delle spese di lite in favore della parte ricorrente, che liquida in Euro 1500,00, per compensi, oltre Euro 284,00 per spese, oltre IVA e accessori di legge e rimborso spese forfettarie. Così deciso in Agrigento il 29 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 7 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AGRIGENTO SEZIONE LAVORO Il giudice del Tribunale di Agrigento, dott.ssa Valentina Di Salvo, in funzione di Giudice del Lavoro, in seguito all'udienza del 13 settembre 2022 tenuta ai sensi dell'art. 83, comma 7, lett. h), del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 convertito con modificazioni in L. 24 aprile 2020, n. 27, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. R.G.N.R. 1133 / 2020 promossa da (...), C.F. (...), rappresentato e difeso dall'avv. PI.MA., giusta procura in atti, -ricorrente- Contro INPS, in persona del suo rappresentante legale pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. VI.CA., giusta procura in atti -resistente- Oggetto: impugnazione di avviso di addebito. MOTIVI DELLA DECISIONE In fatto e in diritto Con ricorso depositato il 06.05.2020, il ricorrente ha impugnato l'avviso di addebito n. (...) del 23.11.2019 col quale l'Inps di Agrigento gli ha intimato il pagamento della somma di Euro 2.052,06 a titolo di contributi I.V.S. per i periodi ottobre-dicembre 2018 e gennaio-marzo 2019; in particolare, ha dedotto l'illegittimità della pretesa contributiva per insussistenza dei requisiti richiesti dall'art. 1, comma 203, L. n. 662 del 1996 ai fini della iscrizione alla Gestione Commercianti, avendo costituito nel marzo 2016 una società a responsabilità limitata di cui egli è solo socio unico e amministratore. Concludeva, pertanto, chiedendo "Preliminarmente sospendere, con decreto inaudita altera parte, gli effetti dell'atto impugnato. Nel merito annullare lo stesso e dichiarare non dovute le somme pretese dall'Inps a titolo di contributi I.V.S. con l'avviso di addebito impugnato. Con vittoria di spese e compensi.". L'INPS si è costituito in giudizio eccependo, in via preliminare, l'inammissibilità del ricorso per tardività dell'opposizione, argomentandone nel merito variamente l'infondatezza. Mutato il Giudicante, all'odierna udienza, tenuta ai sensi dell'art. 83, comma 7, lett. h), del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 convertito con modificazioni in L. 24 aprile 2020, n. 27, in esito al deposito telematico di note scritte, la causa veniva decisa con adozione fuori udienza della sentenza. Preliminarmente, va rigettata l'eccezione di inammissibilità dell'opposizione per tardività del ricorso sollevata dall'ente previdenziale. Invero, alla luce della sospensione straordinaria, dovuta all'insorgere della pandemia da Covid 19, di tutti i termini processuali dal 9 marzo 2020 all'11 maggio 2020 (art. 83 D.L. n. 418 del 2020; art. 36, comma 1, D.L. n. 23 del 2020) la scadenza del termine di 40 giorni decorrente dalla notifica dell'avviso di addebito impugnato, avvenuta in data 12.02.2020, era da individuarsi nel 26.05.2020; essendo stato il ricorso depositato il 6.05.2020, l'opposizione proposta è da ritenersi tempestiva. Nel merito, va evidenziato che la disciplina relativa alla gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali è stata modificata dall'art. 1, comma 203, della L. n. 662 del 1996 il quale, nel riformulare l'art. 29, comma 1, della L. n. 160 del 1975, ha previsto che l'obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti delle attività commerciali sussiste per i soggetti che siano in possesso dei seguenti requisiti: a) siano titolari o gestori in proprio di imprese che, a prescindere dal numero dei dipendenti, siano organizzate e/o dirette prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia, ivi compresi i parenti e gli affini entro il terzo grado, ovvero siano familiari coadiutori preposti al punto vendita; b) abbiano la piena responsabilità dell'impresa e assumano tutti gli oneri ed i rischi relativi alla sua gestione (ancorché tale requisito non sia richiesto per i familiari coadiutori preposti al punto vendita nonché per i soci di società a responsabilità limitata); c) partecipino personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza; d) siano in possesso, ove previsto da leggi o regolamenti, di licenze o autorizzazioni e/o siano iscritti in albi, registri o ruoli. Parte ricorrente ritiene che, nel caso di specie, difetti il chiesto requisito della partecipazione personale del socio amministratore al lavoro aziendale, con carattere di abitualità e prevalenza. Orbene, giova sul punto ricordare che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 3240/2010, hanno precisato che l'assicurazione obbligatoria "è posta a protezione, fin dalla sua iniziale introduzione, non già dell'elemento imprenditoriale del lavoratore autonomo, sia esso commerciante, coltivatore diretto o artigiano, ma per il fatto che tutti costoro sono accomunati ai lavoratori dipendenti dall'espletamento di attività lavorativa abituale, nel suo momento esecutivo, connotandosi detto impegno personale come elemento prevalente (rispetto agli altri fattori produttivi) all'interno dell'impresa". Inoltre, è da ritenere che il requisito di cui alla lett. c) non può discendere automaticamente dalla qualità di amministratore, poiché, come ritenuto da Cass. n. 23360/16 a proposito dei soci accomandatari (con poteri di amministrazione) nelle società in accomandita semplice, "vanno tenuti distinti i due piani del funzionamento della società, con i connessi poteri di amministrazione, e della gestione dell'attività commerciale, che ben può essere affidata a soggetti estranei alla compagine sociale o ad altri soci che non siano anche amministratori della società". Difatti, qualora il socio amministratore di una società partecipi al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza ha l'obbligo di iscrizione alla Gestione Commercianti mentre, qualora si limiti ad esercitare l'attività di amministratore, dovrà essere iscritto alla sola gestione separata, operando le due attività su piani giuridici differenti, in quanto la prima è diretta alla concreta realizzazione dello scopo sociale, attraverso il concorso dell'opera prestata dai soci e dagli altri lavoratori, e la seconda alla esecuzione del contratto di società sulla base di una relazione di immedesimazione organica volta, a seconda della concreta delega, alla partecipazione alle attività di gestione, di impulso e di rappresentanza (ex multiis Cass. sent. n. 18281 del 2018; Cass. sent. n.23782 del 2019; Cass. sent. n. 3637/2020; Cass. sent. n. 3829/2020). Con riguardo al riparto dell'onere probatorio, va rilevato che nei giudizi di opposizione ad avviso di addebito l'opposto, benché convenuto in senso formale, è attore sostanziale del procedimento per opposizione e, incombe, pertanto, su quest'ultimo l'onere di provare le ragioni del proprio credito (cfr. Cass. sent. n. 4286/1994 e n. 3175/1974); in particolare, l'onere della prova dei predetti caratteri di abitualità e prevalenza nel senso ora chiarito, secondo un consolidato principio di diritto, è a carico dell'Istituto assicuratore titolare della pretesa contributiva (cfr. Cass. sent. n. 3835/2016). Nel caso di specie, l'Istituto convenuto - che ne aveva l'onere - non ha offerto in giudizio elementi di prova atti a dimostrare che il ricorrente abbia svolto lavoro personale in via prevalente ed abituale all'interno dell'impresa; invero, quanto riferito in merito all'attività svolta dai dipendenti è rimasto al rango di mera allegazione. Viene così a mancare uno dei presupposti da cui la legge fa dipendere l'iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali, vale a dire che si tratti di soggetti che, ai sensi dell'art. 1, comma 203, lett. c) della L. n. 662 del 1996, al di là della qualifica di socio o di amministratore in seno all'impresa, "partecipino al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza", nel senso più sopra chiarito. Pertanto, va dichiarata illegittima la pretesa contributiva azionata dall'Inps in relazione all'attività di amministratore svolta dal ricorrente presso la (...) srl. In senso inverso, tuttavia, deve argomentarsi con riferimento alla debenza dei contributi richiesti per l'espletamento di attività nei mesi ottobre-dicembre 2018. Invero, il ricorrente era titolare della ditta individuale "(...) di (...)" sino al 21.12.2018, data in cui la stessa è stata cancellata. Sul punto, è pacifico che l'iscrizione in questa Gestione dell'INPS è obbligatoria sia per gli artigiani che esercitano in forma individuale (elettricisti, muratori, falegnami, estetiste, etc.) che per i commercianti che acquistano e rivendono beni di consumo quali abbigliamento, mobili, e-commerce oppure svolgono attività di servizi per le quali è necessaria l'iscrizione al Registro delle Imprese. Alla luce di tali osservazioni, i contributi pretesi non sono dovuti con riferimento al periodo gennaio-marzo 2019, essendo l'iscrizione del ricorrente alla Gestione Commercianti viziata con riferimento al periodo indicato in quanto effettuata in mancanza dei necessari presupposti di legge; viceversa, va affermata la legittimità della pretesa contributiva con riferimento al periodo ottobre-dicembre 2018, in relazione allo svolgimento di attività in seno alla ditta individuale "(...) di (...)". Per le suesposte ragioni, l'opposizione risulta solo parzialmente meritevole di accoglimento. Avuto riguardo all'esito della lite, le spese vanno compensate. P.Q.M. Il Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe indicata, accoglie parzialmente il ricorso dichiarando sussistenti i presupposti per l'iscrizione di (...) alla Gestione Commercianti solo per il periodo ottobre-dicembre 2018 e, per l'effetto, conferma l'avviso di addebito n. (...) limitatamente alle somme ingiunte con riferimento a tale periodo; dichiara per il resto non dovuti i contributi derivanti dall'erronea iscrizione per il periodo gennaio-marzo 2019; compensa integralmente le spese di lite tra le parti. Così deciso in Agrigento il 13 settembre 2022. Depositata in Cancelleria il 13 settembre 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AGRIGENTO SEZIONE LAVORO Il giudice del Tribunale di Agrigento Alfonso Pinto, in funzione di Giudice del Lavoro, in seguito all'udienza del 1 dicembre 2021 tenuta ai sensi dell'art. 83, comma 7, lett. h), del D.L. 17 marzo 2020 n. 18 convertito con modificazioni in legge 24 aprile 2020 n. 27, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. R.G.N.R. 381/2019 promossa da (...), nato (...), rappresentato e difeso dagli avv.ti Sa.Va. e Ma.Ac., giusta procura in atti, - ricorrente - Contro ENTE DI SVILUPPO AGRICOLO, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Palermo, - resistente - Oggetto: contratti a termine e risarcimento del danno MOTIVI DELLA DECISIONE In fatto e in diritto Con ricorso depositato il 5.02.2019, l'odierno ricorrente - premesso di aver svolto, a far data dal 1988, attività di lavoro subordinato alle dipendenze e in favore dell'Ente di Sviluppo Agricolo in forza di reiterati contratti a tempo determinato aventi a oggetto attività di meccanizzazione agricola - chiedeva dichiararsi l'illegittimità dei suddetti contratti sotto il profilo della violazione del limite temporale e, per l'effetto, condannarsi l'Ente convenuto al risarcimento del danno previsto dal d. lgs. 81/2015, in misura pari a 21.221,00 Euro, ossia equivalente a n. 14 mensilità, riferita all'ultima retribuzione media globale di fatto da lui percepita o alla diversa somma ritenuta di giustizia, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data della decisione al soddisfo. Si costituiva in giudizio l'Ente di Sviluppo Agricolo, eccependo, preliminarmente, l'inammissibilità del ricorso per intervenuta decadenza e l'intervenuta prescrizione delle pretese retributive formulate dal ricorrente e, contestando, nel merito, la fondatezza delle domande delle quali ha chiesto il rigetto. All'odierna udienza, tenuta ai sensi dell'art. 83, comma 7, lett. h), del D.L. 17 marzo 2020 n. 18 convertito con modificazioni in legge 24 aprile 2020 n. 27, in esito al deposito telematico di note scritte, la causa veniva decisa con adozione fuori udienza della sentenza. Così brevemente tratteggiato l'oggetto del contendere, va preliminarmente, rilevato che l'eccezione di decadenza formulata dall'Ente resistente non risulta meritevole di accoglimento. Sul punto, si osserva che l'art. 32 della legge n. 183/2010 prevede che la disciplina delle impugnazioni indicate dal nuovo art. 6 della legge n. 604/1966 si applichi anche "all'azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo". Segnatamente, dal dato letterale di tale disposizione si evince che il suindicato art. 6 si applica esclusivamente alle azioni di nullità del termine che sia apposto al contratto ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del d. lgs. n. 368/2001 e, dunque, soltanto alle azioni volte all'accertamento della carenza delle ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive legittimanti, in via generale, il ricorso a tale tipologia contrattuale, ovvero dirette a contestare la ricorrenza delle specifiche condizioni tipizzate per i settori del trasporto aereo e dei servizi postali, oppure rivolte a sanzionare l'insussistenza delle condizioni che consentono la proroga del contratto. L'art. 32 non contiene, invece, alcun richiamo alla fattispecie disciplinata dall'art. 5, comma 4-bis, del d. lgs. n. 368/2001, secondo il quale "ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti e fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro, il rapporto di lavoro si considera indeterminato ai sensi del comma 2". Ne consegue che alle azioni fondate sulla violazione dei limiti alle successioni dei contratti a termine - qual è quella contenuta nel ricorso introduttivo del presente giudizio, in cui il ricorrente non ha impugnato il termine apposto al contratto, ma ha chiesto esclusivamente la condanna dell'Ente al risarcimento del danno, in ragione del superamento del periodo di trentasei mesi di lavoro a tempo determinato - non si applica l'onere di impugnazione previsto dall'art. 32 della legge n. 183/2010 e pertanto alcuna decadenza può validamente contestarsi, nel caso di specie, al ricorrente. Parimenti, con riguardo alla prescrizione eccepita da parte resistente, va evidenziato che essa fa riferimento a differenze retributive che invero non sono state richieste in ricorso, nel quale è stato chiesto, come già detto, esclusivamente il pagamento dell'indennità risarcitoria prevista dall'art. 32 della legge n. 183/2010. Tanto premesso, il ricorso è fondato e va accolto per le ragioni che seguono. In primo luogo, contrariamente a quanto sostenuto dall'Ente resistente, non può riconoscersi natura stagionale ai contratti a termine stipulati tra le parti e, conseguentemente, non può escludersi l'applicazione del d. lgs. n. 368/2001 e della stessa normativa comunitaria. Segnatamente, i contratti versati in atti riportano tutti come mansioni di assunzione quelle di effettuazione di lavori meccanici in agricoltura, senza fare riferimento a una determinata cadenza stagionale; nei medesimi contratti, inoltre, le specifiche mansioni sono quelle di conduttore di macchine semplici e complesse, lavori di officina, lavori di riparazione e manutenzione dei mezzi in dotazione, di collaborazione con il Servizio di Meccanizzazione Agricola, nonché quelle di cui all'art. 1, comma 2, della L. .. n. 16/1998 nell'ambito del territorio della Regione Siciliana, le quali non appaiono peraltro legate a una singola lavorazione a carattere stagionale, bensì alle esigenze più svariate determinate dal Centro di Meccanizzazione Agricola dell'Ente resistente. A ciò si aggiunga che l'Ente non ha allegato in giudizio le precise attività alle quali negli anni è stato adibito il ricorrente, sicché non appare possibile verificare la fondatezza dell'eccepita natura stagionale dei contratti né condividersi l'applicazione di una disciplina speciale, derogatoria rispetto a quella prevista dall'art. 5, comma 4-bis, del d. lgs. n. 368/2001 e dalla normativa successiva in materia. Esclusa la natura stagionale dell'attività svolta, i contratti a termine stipulati tra le parti oggi in causa sono, dunque, soggetti alla disciplina generale, con la precisazione che, come peraltro dedotto dallo stesso ricorrente, stante la natura pubblica dell'Ente resistente, è possibile procedere esclusivamente alla liquidazione del danno ex art. 36, comma 5, del d. lgs. 165/2001, e non alla conversione del contratto, dovendosi ritenere che il divieto di conversione opera in relazione alla natura giuridica del datore di lavoro, che è pacificamente di tipo pubblico (cfr. Cass. 1163/2008). Sul punto, va ricordato che, secondo i principi affermati nella sentenza delle SS.UU. n. 5072/2016, nei casi di abusiva reiterazione di contratti a tempo determinato oltre il limite massimo di durata dei trentasei mesi, bisognerà fare riferimento, per la liquidazione del danno ex art. 36, comma 5, del D.Lgs. 165/2001, al criterio determinativo offerto dall'art. 32, comma 5, della L. 183/2010, la quale prevede - per l'ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato - che "il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604". Le Sezioni Unite del 2016 hanno altresì chiarito che il danno di cui all'art. 36, comma 5, del D.Lgs. 165/2001 non è riferibile alla mancata conversione del rapporto a termine in un rapporto a tempo indeterminato, visto che nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni il lavoratore - stante il divieto di conversione legislativamente previsto - non può reclamare un tale diritto, trattandosi piuttosto del danno per la perdita della chance di conseguire, con percorso alternativo, l'assunzione mediante concorso nel pubblico impiego o la costituzione di un ordinario rapporto di lavoro privatistico a tempo indeterminato, risarcibile "nella misura in cui l'illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro stabile", e hanno precisato che entro i limiti di cui all'art. 32, comma 5, della L. 183/2010 il danno è presunto con conseguente esonero del lavoratore dall'onere della prova e ferma restando la possibilità per il lavoratore che assuma di aver subito un danno in misura superiore rispetto a quella risultante dall'applicazione della suddetta indennità forfetizzata di offrire la prova del maggior danno. Orbene, nel caso di specie, si osserva che la parte ricorrente non ha fornito prova concreta del danno sofferto per l'illegittima reiterazione dei contratti a termine, sicché quest'ultimo - giusti i principi testé ricordati - deve presumersi sussistere entro i limiti dell'indennità forfetizzata di cui all'art. 32, comma 5, della L. 183/2010, che, in applicazione dei criteri di cui all'art. 8 della L. 604/1966, tenuto conto in particolare della durata complessiva (oltre venti anni) del rapporto di lavoro intrattenuto dal ricorrente con l'Ente resistente in esecuzione dei contratti a termine, delle dimensioni dell'ente e dell'entità della violazione in rapporto al numero consistente dei rinnovi (criterio del comportamento delle parti), pare adeguato determinare nella misura di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, rispetto alle quali, trattandosi di rapporto di pubblico impiego, vanno liquidati solo gli interessi legali e non anche la rivalutazione monetaria (si veda, sul punto, Consiglio di Stato 11 febbraio 2013 n. 748). Per le suesposte ragioni, il ricorso va, quindi, accolto. Il peso delle spese segue la soccombenza, con distrazione dei compensi in favore dei difensori dichiaratisi antistatari. P.Q.M. Il Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe indicata, accoglie il ricorso e, per l'effetto, condanna l'Ente di Sviluppo Agricolo, in persona del legale rappresentante pro tempore, alla corresponsione, in favore del ricorrente, a titolo di risarcimento del danno da abusiva reiterazione dei contratti a termine intercorsi tra le parti, di un'indennità pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi legali dalla data della presente condanna al soddisfo; condanna altresì l'Ente di Sviluppo Agricolo al pagamento, in favore del ricorrente, delle spese processuali che si liquidano - tenuto conto della natura rutinaria della causa - in complessivi 1.300,00 Euro per compensi, oltre IVA, CPA e spese forfettarie al 15% come per legge, con distrazione in favore dei procuratori antistatari. Così deciso in Agrigento l'1 dicembre 2021. Depositata in Cancelleria l'1 dicembre 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AGRIGENTO Il giudice del lavoro del Tribunale di Agrigento dott. Alfonso Pinto, dando pubblica lettura del dispositivo e dell'esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, all'udienza del 6 aprile 2021, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. R.G.N.R. 3612/2017 promossa da (...) - il Sindacato dei Medici, in persona del suo segretario regionale dott. (...), nonché dal segretario di Azienda (...), rappresentato e difeso dagli avv.ti Gi.Fa. e Lo.Ma., giusta procura in atti, - ricorrente - contro (...) DI (...), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv.to An.No., giusta procura in atti - resistente - Oggetto: opposizione ex art. 28 della L. n. 300 del 1970 RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso, depositato il 17 novembre 2017, la (...) ha proposto opposizione ex art. 28 della L. n. 300 del 1970 avverso il decreto del 6 novembre 2017 emesso dal Tribunale di Agrigento, in funzione di Giudice del Lavoro, con cui era stata rigettata la richiesta volta a dichiarare la natura antisindacale di alcuni comportamenti posti in essere dall'(...) di (...). Riproponendo dunque le argomentazioni svolte in prima fase e censurando le argomentazioni contenute nel provvedimento impugnato, ha dunque chiesto condannarsi la (...) convenuta: (i) a revocare il trasferimento della dr.ssa (...), rappresentante sindacale, con suo ritorno alla unità operativa di pregressa appartenenza, in quanto disposto senza il previo nulla osta dell'organizzazione sindacale di appartenenza; (ii) a riconoscere il ruolo di RSL (responsabile per la sicurezza del lavoro) della dr.ssa (...) siccome così designata dalla organizzazione sindacale ricorrente; (iii) ad ordinare alla (...) di dare attuazione a corrette relazioni sindacali a proposito dei contenuti della deliberazione n. 744 del 19 maggio 2017 nelle materia elencate nel relativo capo di narrativa, sospendendo - fino ad esaurimento delle stesse - l'applicazione della suddetta deliberazione. Si è costituita in giudizio l'(...), chiedendo il rigetto dell'opposizione nonché infondata in fatto e in diritto. La causa è stata istruita con la produzione documentale delle parti. Nel merito, l'opposizione è infondata e deve essere rigettata. Il (...) - Il Sindacato dei Medici, organizzazione sindacale rappresentativa nell'ambito dell'area negoziale della dirigenza (sanitaria) medico veterinaria, lamenta la condotta antisindacale serbata dalla (...) di (...) in relazione, anzitutto, al trasferimento della propria rappresentante sindacale, dr. (...), dal Dipartimento di Prevenzione Laboratorio di Sanità Pubblica al Dipartimento di Salute Mentale presso il Sert di Agrigento, senza aver preventivamente acquisito il nulla osta della organizzazione sindacale di appartenenza. Mette conto premettere che, alla stregua di quanto previsto dall'art. 22, comma 1, della L. n. 300 del 1970, "Il trasferimento dall'unità produttiva dei dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali di cui al precedente art. 19, dei candidati e dei membri di commissione interna può essere disposto solo previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza". In materia di pubblico impiego la disciplina va integrata con quanto espressamente previsto dall'art. 42 co. 2 D.Lgs. n. 165 del 2001, che, per quel che in questa sede rileva, così dispone: "comma 2. In ciascuna amministrazione, ente o struttura amministrativa di cui al comma 8, le organizzazioni sindacali che, in base ai criteri dell'articolo 43, siano ammesse alle trattative per la sottoscrizione dei contratti collettivi, possono costituire rappresentanze sindacali aziendali ai sensi dell'articolo 19 e seguenti della L. 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni. Ad esse spettano, in proporzione alla rappresentatività, le garanzie previste dagli articoli 23, 24 e 30 della medesima L. n. 300 del 1970, e le migliori condizioni derivanti dai contratti collettivi... Comma 6. I componenti della rappresentanza unitaria del personale sono equiparati ai dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali ai fini della L. 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, e del presente decreto". Il chiaro dettato normativo in questione consente agevolmente di distinguere, anzitutto, i rappresentanti sindacali aziendali dai componenti della rappresentanza unitaria del personale. E consente ancora di inferire che ai rappresentanti sindacali aziendali competano, delle "garanzie" previste dallo Statuto dei lavoratori, solo quelle previste da citati artt. 23, 24 e 30 (permessi retribuiti, permessi non retribuiti, permessi per i dirigenti provinciali), oltre alle migliori "condizioni" previste dai contratti collettivi. E' dunque evidente che la giustapposizione tra "garanzie" (previste dallo "Statuto") e "condizioni" impone di escludere che possa essere applicata analogicamente o comunque estesa a favore di una categoria non prevista una garanzia così pregnante quale quella relativa alle guarentigie nel trasferimento dei dirigente. Come correttamente rilevato nel decreto del G.L. - della cui opposizione si tratta - è vero che l'art. 42 D.Lgs. n. 165 del 2001 non sembra escludere la contemporanea presenza, in una stessa unità produttiva, oltre che della RSU anche di una o più RSA. Nondimeno, è la stessa legge a prevedere la costituzione della RSU in luogo della RSA nel pubblico impiego. Difatti l'art. 42 del D.Lgs. n. 165 del 2001 dispone che "i componenti della rappresentanza unitaria del personale sono equiparati ai dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300". Ed ancora dalla lettura sistematica dei commi 2, 3 e 6 della suddetta norma emerge che, mentre ai componenti delle RSU compete tutta la gamma di diritti, permessi, libertà e tutele sindacali già spettanti ai dirigenti delle RSA ai sensi del titolo III della L. n. 300 del 1970 -il comma 6 invero testualmente prevede che "i componenti della rappresentanza unitaria del personale sono equiparati ai dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali ai fini della L. 20 maggio 1970, n. 300" -a questi ultimi (dirigenti delle RSA), invece, nelle amministrazioni ormai per legge dotate di RSU, il comma 2 prevede che spettino esclusivamente "le garanzie previste dagli articoli 23, 24 e 30 della medesima L. n. 300 del 1970" e non anche quella di cui all'art. 22. Alla stregua di quanto poi previsto dall' Acc. Interconfederale del 20 dicembre 1993, a proposito di diritti, permessi, libertà sindacali, tutele e modalità di esercizio "I componenti delle r.s.u. subentrano ai dirigenti delle r.s.a. nella titolarità di diritti, permessi, libertà sindacali e tutele già loro spettanti; per effetto delle disposizioni di cui al titolo 3 della L. n. 300 del 1970"- Privo di pregio è allora quanto sostenuto da (...) che ha dedotto, nei propri confronti, l'inapplicabilità dell'accordo interconfederale del 20 dicembre 1993 in materia di costituzione di RSU, sostenendo che lo stesso sarebbe stato sottoscritto soltanto da Confindustria, CGIL, CISL, UIL e non già da alcuna delle organizzazioni sindacali rappresentanti l'area della dirigenza dell'ex pubblico impiego ed invocando, in proprio favore, l'applicabilità del CCNQ in data 7 agosto 1998. A fronte della chiara regolamentazione operata dal citato art. 42 del D.Lgs. n. 165 del 2001 è certamente destinato a recedere quanto eventualmente previsto da diversi contratti collettivi non idonei certamente a derogare alla disciplina legislativa, oltre tutto sopravvenuta temporalmente. Alla luce di questi principi, pacifico essendo che presso l'(...) di (...) la presenza del sindacato nel luogo di lavoro sia garantita anche alle RSU (rappresentanze sindacali unitarie) eletta dai lavoratori a suffragio universale è solo a questi ultimi che deve essere riservata la specifica garanzia dell'art. 22 dello Statuto dei lavoratori. Pertanto nel caso di specie il trasferimento della dr.ssa (...) non postulava il preventivo nulla osta dell'organizzazione sindacale ricorrente. Con la seconda doglianza, (...) deduce che, a torto, l'(...) di (...) non avrebbe riconosciuto la designazione della (...) quale rappresentante per la sicurezza dei lavoratori e ciò perché del tutto infondata sarebbe l'incompatibilità paventata dalla resistente. In realtà della produzione documentale dell'(...) risulta, anzitutto, che con Delib. n. 80761 del 7 maggio 2016 il direttore generale dell'(...) - quale datore di lavoro ex art. 2 D.Lgs. n. 81 del 2008 - ha conferito delega ex art. 16 al dr. (...). Quest'ultimo, con nota prot. n. (...) del 17 gennaio 2017, ha designato la dr.ssa (...) quale "dirigente" ai sensi dell'art. 18 del D.Lgs. n. 81 del 2008. Ora, a mente della citata delega, la dr.ssa (...) era titolare di molteplici incombenze connesse alla tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, al pari del datore di lavoro (si rinvia, all'uopo, al comma 1 dell'art. 18 lettere da a) a bb). Anche se non espressamente prevista appare logico che il lavoratore, già investito di questa funzione da parte datoriale, non possa parimenti svolgere la diversa funzione di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza ex art. 47 D.Lgs. n. 81 del 2008. Sul punto (...) ha sostenuto che detta determinazione non sarebbe stata mai notificata alla dr.ssa (...) che avrebbe anche disconosciuto la propria sottoscrizione nell'ambito di un esposto presentato alla Procura della Repubblica. E' evidente però che alcun "disconoscimento" rituale è stato fatto nell'ambito di questo giudizio né tanto meno alcuna querela di falso sicchè - non essendo nemmeno note le sorti dell'esposto presentato dalla dr.ssa (...) - non vi sono certo elementi per dubitare della autenticità della sottoscrizione della dr.ssa (...) in calce ad un provvedimento di cui non pare possibile, sulla scorta degli elementi offerti, predicare l'inesistenza o l'inefficacia. Parimenti infondata è la terza doglianza sollevata dalla (...) che si è lamentata del fatto che, nell'ambito degli istituti che governano le relazioni sindacali dell'area della dirigenza interessata, non sarebbe stata consultata prima dell'adozione della deliberazione n. 744 del 19.5.2017 di rideterminazione della dotazione organica aziendale a seguito del D.A. n. 629/17. Invero dal verbale della riunione sindacale del 19 maggio 2017 risulta anzitutto che tutte le organizzazioni sindacali erano state convocate il 15 maggio 2017 e che la dr.ssa (...), quale rappresentante della (...), ha attivamente partecipato alla detta riunione sindacale, avente ad oggetto lo "adeguamento dotazione organica nuova rete ospedaliera", svolgendo pienamente il ruolo e le prerogative connesse e ottenendo pure la verbalizzazione di alcune osservazioni. Ciò posto la (...) lamenta che, in questo modo, l'(...) di (...) avrebbe sacrificato il diritto alla "concertazione" previsto dal CCNL 3 novembre 2005. In realtà, l'ordine del giorno del 19 maggio 2017 - "adeguamento dotazione organica nuova rete ospedaliera" - non rientra tra le materie per cui, a mente dell'art. 6 del ccnl 3 novembre 2005, è prevista la "concertazione" sindacale. In ogni caso, non risulta che ricevuta l'informativa della riunione, la (...) abbia chiesto la formale concertazione. Se ne trae, quindi, che siano stati in ogni caso rispettati i diritti sindacali della (...) riguardo alla "informazione" ed alla "consultazione". Per le suesposte ragioni, il ricorso non risulta, quindi, meritevole di accoglimento. Il peso delle spese segue la soccombenza. P.Q.M. Il Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando, rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali della resistente che si liquidano in complessivi Euro 2000,00 per compensi, oltre accessori come per legge. Così deciso in Agrigento il 6 aprile 2021. Depositata in Cancelleria il 6 aprile 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AGRIGENTO Sezione Civile - in composizione monocratica - in persona del Giudice dott. Beatrice Ragusa ha pronunciato la seguente sentenza nella causa iscritta al n. 3176 del Ruolo Generale degli Affari civili contenziosi dell'anno 2017 vertente tra RI. S.p.A. (già SE. S.p.A.), Agente della Riscossione per la Provincia di AGRIGENTO, in persona del Direttore Generale f.f., rappresentato e difeso dall'Avv. Vi.DA. - appellante - contro RU.GI. (...) rappresentato e difeso dall'Avv. Ga.Di.; - convenuto - Oggetto: appello avverso la sentenza del GdP di Agrigento n. 637/17 MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto di appello notificato in data 23.10.2017 Ri. S.p.A. conveniva dinanzi all'intestato Tribunale Ru.Gi. per la riforma integrale della sentenza n. 637/2017 emessa dal Giudice di Pace di Agrigento, depositata in Cancelleria il 10/07/2017 a definizione del procedimento n. 308/2017 con la quale il Giudice di prime cure dichiarava prescritto il credito riportato nell'intimazione di pagamento n. (...), relativa alla cartella di pagamento n. (...) avente ad oggetto contravvenzioni al codice della strada emesse dalla Prefettura di Caltanissetta nell'anno 2010. Riproponeva le medesime doglienze già esposte in primo grado, ossia:1) l'inammissibilità dell'opposizione avversaria per vizio di forma poiché proposta con atto di citazione, anziché con ricorso; 2) inammissibilità dell'opposizione in quanto tardiva, perché depositata in data 31.1.2017, essendo decorsi 30 giorni dalla notifica dell'atto impugnato avvenuta in data 19.12.2016; 3) nel merito, contestava la ritenuta prescrizione del credito vista la notifica della cartella di pagamento in data 7.11.2011, considerato che tra la stessa e la successiva notifica dell'intimazione di pagamento impugnata in data 31.1.2017 era intervenuta - quale atto interruttivo - la procedura di fermo amministrativo di bene mobile registrata avviata in data 9.10.2012. Parte appellata, costituendosi in giudizio, contestava integralmente quanto dedotto nella domanda, contestava l'ammissibilità della documentazione nuova prodotta relativa al preavviso di fermo amministrativo depositata solo nel presente grado di giudizio e chiedeva il rigetto dell'appello proposto con conseguente conferma della sentenza di primo grado, con vittoria di spese, da distrarsi in favore del procuratore. Mutato il giudicante, la causa veniva istruita in via meramente documentale e all'udienza del 2/12/2020, sulle conclusioni delle parti, veniva posta in decisione, con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c., per il deposito delle comparse conclusionali. L'appello è infondato e deve, pertanto, confermarsi la sentenza di prime cure. In linea generale, quanto agli strumenti impugnatori, è appena il caso di precisare che secondo la costante giurisprudenza "Avverso la cartella esattoriale emessa ai fini della riscossione di sanzioni amministrative pecuniarie per violazioni del codice della strada sono ammissibili: a) l'opposizione ai sensi della legge n. 689 del 1981, allorché sia mancata la notificazione dell'ordinanza-ingiunzione o del verbale di accertamento di violazione al codice della strada, al fine di consentire all'interessato di recuperare il mezzo di tutela previsto dalla legge riguardo agli atti sanzionatoti; b) l'opposizione all'esecuzione ex artt. 615 cod. proc. civ., allorché si contesti la legittimità dell'iscrizione a ruolo per omessa notifica della stessa cartella, e quindi per la mancanza di un titolo legittimante l'iscrizione a ruolo, o si adducano fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo; c) l'opposizione agli atti esecutivi ex artt. 617 cod. proc. civ., qualora si deducano vizi formali della cartella esattoriale o del successivo avviso di mora. Mentre nel primo caso, ove non sia stato possibile proporre opposizione nelle forme e nei tempi previsti dall'art. 204 codice della strada, il ricorso deve essere proposto nel termine di trenta giorni dalla notifica della cartella, determinandosi altrimenti la decadenza dal potere di impugnare, nel caso di contestazione di vizi propri della cartella esattoriale l'opposizione - all'esecuzione o agli atti esecutivi - va proposta nelle forme ordinarie previste dagli artt. 615 e ss. cod. proc. civ., e non è soggetta alla speciale disciplina dell'opposizione a sanzione amministrativa dettata dalla legge n. 689 del 1981 (in termini, ex multis, Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9180 del 20/04/2006; da ultimo, Cass. 18256/2020). Alla luce di tale ricostruzione, dunque, il mezzo di impugnazione corretto per l'unica doglianza avanzata dal Russotto, ossia la prescrizione del credito, è l'opposizione ex art. 615 c.p.c. poiché rientrante tra i fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo e non già l'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.. Sul punto, si rileva preliminarmente l'ammissibilità della dedotta prescrizione in seno al presente giudizio di opposizione all'esecuzione, per la quale, prima dell'inizio dell'esecuzione, giudice competente deve ritenersi, in applicazione del criterio dettato dall'art. 615, primo comma, cod. proc. civ., quello ritenuto idoneo dal legislatore a conoscere della sanzione, cioè quello stesso indicato dalla legge come competente per l'opposizione al provvedimento (cfr. Cass. Sez. 3 n. 16024 del 02/08/2016 "In tema di esecuzione esattoriale per la riscossione di sanzioni amministrative pecuniarie, la prescrizione del credito successiva alla formazione del titolo, per mancata notifica della cartella, può essere dedotta con opposizione all'esecuzione, contro l'atto di pignoramento, senza doversi opporre tempestivamente, ex art. 22 della L. n. 689 del 1981, al primo atto successivo all'eccepita estinzione prescrizionale (nella specie, costituito dall'intimazione di pagamento"). E' inconsistente il primo motivo di appello relativo all'inammissibilità dell'opposizione, poiché come noto i vizi di forma dell'atto introduttivo e l'irregolarità della vocatio, non determinano la nullità dell'atto se lo stesso ha raggiunto lo scopo. Destituita di fondamento è altresì la doglianza relativa alla tardività dell'opposizione, osservato che - trattandosi di opposizione all'esecuzione ex art. 615 cpc - stessa è proponibile in qualsiasi momento, svincolata quindi da qualsivoglia termine decadenziale (v. Cass. 30094/2019). Ciò detto, nel merito, si osserva che il primo valido atto interruttivo della pretesa deve individuarsi nella cartella di pagamento n. (...) del 7.11.2011 cui ha fatto seguito in data 31.1.2017 la notifica dell'intimazione di pagamento n. (...). Correttamente il giudice di prime cure non ha riscontrato validi atti interruttivi della prescrizione della pretesa nel periodo intercorrente tra la notifica della cartella di pagamento e la notifica dell'intimazione di pagamento, con conseguente decorso del termine di prescrizione quinquennale. Infatti, l'Agente della riscossione solo in seno al presente giudizio di appello ha prodotto la documentazione afferente la procedura di fermo amministrativo di bene mobile registrata già avviata in data 9.10.2012 (doc. 3, 4). A mente dell'art. 345 c.p.c. nel giudizio di appello non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile, circostanza non verificatasi nel caso di specie. Pertanto, la succitata documentazione è inammissibile. Si tenga conto, inoltre, che trattasi di documentazione interna all'ufficio (cd. "interrogazioni documenti"), che - essendo atto di parte e dalla valenza meramente interna - non è idonea allo scopo. Di contro, Ri. S.p.A. avrebbe dovuto (nel primo grado di giudizio) depositare gli atti integrali della procedura di fermo con le relate di notifica dalle quali evincere chiaramente la riferibilità agli elementi identificativi essenziali delle cartelle in esame e la regolare notificazione all'appellato. Pertanto, ai sensi dell'art. 28 della L. 689/81, il credito azionato con l'indicazione di pagamento oggetto del giudizio si è prescritto per decorso del termine breve di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione, nel caso di specie contestata nel 2011 (rilevando, incidentalmente, che "Il diritto alla riscossione di un'imposta azionato mediante emissione e notifica di cartella di pagamento non opposto è soggetto a prescrizione quinquennale, non essendovi, in tale ipotesi, un accertamento giurisdizionale che conduca all'applicazione del termine decennale dell'"actio iudicati", di cui all'art. 2953 c.c." Cfr. Cass. SU 23397/2016). Alla luce di quanto sopra, l'appello dunque deve essere rigettato. In base al principio della soccombenza, le spese del presente grado di giudizio vanno poste a carico di parte appellante Ri. S.p.A. e si liquidano nella misura indicata in dispositivo, tenuto conto del valore della controversia dell'assenza della fase istruttoria, della semplicità delle questioni trattate, alla luce dei parametri di cui al DMG 37/2018, in applicazione dei parametri minimi. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, disattesa ogni diversa domanda, eccezione o difesa, così provvede: - Rigetta l'appello proposto da Ri. S.p.A. avverso la sentenza del GdP di Agrigento n. 637/17 per l'effetto, conferma in ogni sua parte; - condanna Ri. S.p.A. al pagamento in favore di Ru.Gi. delle spese di lite del presente grado di giudizio che si liquidano in complessivi Euro 811,00 per compensi oltre spese forfettarie, IVA e CPA come per legge; Ai sensi degli artt. 13 comma 1 quater e 13 comma 1 bis del D.P.R. n. 115 del 2002 va dichiarata la sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico del reclamante dell'ulteriore importo per il contributo unificato pari a quello dovuto per l'appello. Così deciso in Agrigento il 30 marzo 2021. Depositata in Cancelleria il 30 marzo 2021.

  • TRIBUNALE DI AGRIGENTO REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Giudice dott. Gerlando Lo Presti Seminerio ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 3970/2019 R.G.A.C. TRA DE.GI. NATA (...) rapp. e dif. dall'Avv. Mo.Ma. ATTRICE CONTRO TA.MA. NATA (...) rapp. e dif. dall'Avv. Vi.Ca. CONVENUTA OGGETTO: risoluzione di contratto locatizio SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione del 23/10/2019 De.Gi. intimava a Ta.Ma. sfratto per morosità. Esponeva l'intimante a sostegno della domanda azionata di avere concesso alla convenuta in locazione in virtù di apposito contratto stipulato il 28/05/2017 registrato in pari data ad uso abitativo un immobile di sua proprietà sito in Agrigento nella locale Via (...) per un canone mensile di Euro 320,00. Deduceva quindi a sostegno dell'azione intrapresa che la convenuta nella veste di conduttrice s'era resa morosa nel pagamento dei canoni locatizi fin dal mese di agosto del 2019 per una somma complessiva pari ad Euro 960,00 nonché altresì inadempiente nell'obbligo di corrispondere i ratei relativi agli oneri accessori. Pertanto concludendo chiedeva la convalida dell'intimato sfratto. Costituendosi in giudizio con comparsa del 27/11/2019 Ta.Ma. contestava la domanda proposta nei suoi riguardi eccependo che il mancato pagamento dei canoni nella specie non comportava il connotarsi di una condotta inadempiente da parte sua in quanto alla luce del principio inademplenti non est adimplendum la sospensione del pagamento era dovuta al mancato adempimento da parte della locatrice dell'obbligo di eliminare determinati vizi che affliggevano l'immobile oggetto del rapporto locativo in argomento rendendolo inidoneo all'uso pattuito. Pertanto concludeva instando affinché la domanda di convalida dello sfratto inoltratale venisse respinta ed in via riconvenzionale l'attrice condannata alla ripetizione dei canini in eccesso versati da parte sua nel corso del rapporto locativo in argomento ed al risarcimento dei danni. Con apposito provvedimento riservato del 03/12/2019 il giudice disponeva il mutamento di rito del procedimento da ordinario a speciale conseguente all'opposizione della convenuta. Nel merito con apposita memoria integrativa De.Gi. formulava ulteriore domanda di risarcimento dei danni cagionati dalla convenuta all'immobile concessole in locazione. Celebrata l'attività istruttoria esclusivamente attraverso produzioni documentali all'udienza del 15/03/2021 la causa veniva infine decisa come da dispositivo in atti. MOTIVI DELLA DECISIONE La domanda di risoluzione contrattuale, nella quale si converte automaticamente la richiesta di convalida una volta disposto il mutamento di rito da sommario a speciale ai sensi degli artt. 667, 426 e 447 bis c.p.c., è fondata e va, pertanto, accolta. Invero, in base ad un costante orientamento giurisprudenziale al creditore che deduce la sussistenza di un inadempimento da parte del debitore spetta di dimostrare, secondo i criteri di distribuzione dell'onere della prova contenuti nell'art. 2697 c.c., il fatto costitutivo del credito, mentre al debitore spetta di provare il fatto estintivo dello stesso o di una sua parte. Pertanto, il primo è tenuto unicamente a fornire la prova dell'esistenza del rapporto o del titolo dal quale deriva il suo diritto, mentre, a fronte di tale prova, dovrà essere onere del debitore dimostrare di avere adempiuto alle proprie obbligazioni. Applicando questo principio di diritto al caso di specie e rilevando che la convenuta ha ammesso l'esistenza del rapporto contrattuale (peraltro provato documentalmente) che la lega all'attrice, deve ritenersi che ciò basta per considerare sussistente il credito allegato da De.Gi. nei confronti di Ta.Ma., relativo al mancato pagamento dei canoni e degli oneri accessori oggetto dell'intimazione. Alla luce, quindi, di quanto appena affermato deve presumersi, fino a prova contraria, la sussistenza di un oggettivo inadempimento delle obbligazioni pecuniarie di cui sopra. Peraltro, nel caso di specie il mancato pagamento dei canoni intimati risulta poi non contestato da parte convenuta. Deve a questo punto sottolinearsi che in base al disposto dell'art. 1218 c.c., una volta rilevata la sussistenza di un oggettivo inadempimento, si presume che lo stesso sia imputabile al debitore (anche questa volta la prova contraria è a carico di quest'ultimo e, nel caso di specie, non è stata fornita). Occorre a questo punto commentare in tal modo addentrandoci nel merito della vicenda giudizialmente fornita alla nostra attenzione il comportamento della conduttrice la quale non ha provveduto a pagare i canoni pur continuando a godere dell'immobile oggetto del rapporto locativo in argomento adducendo l'esistenza di vizi che non ne consentivano una piena fruizione e quindi l'uso per cui la locazione in parola s'era inaugurata. Al riguardo va ricordato in generale come in tema di locazione di immobili il pagamento del canone costituisca la principale e fondamentale obbligazione del conduttore al quale non è consentito astenersi dal versare il corrispettivo o di determinare unilateralmente il canone nel caso in cui si verifichi una riduzione o una diminuzione del godimento del bene anche quando si assuma che tale evento sia ricollegabile al fatto del locatore e ciò perché la sospensione totale o parziale dell'adempimento di detta obbligazione ai sensi dell'art. 1460 c.c. è legittima soltanto quando venga a mancare contemporaneamente la controprestazione dell'altro protagonista contrattuale. La suddetta eccezione postula la proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti da valutare non in rapporto alla rappresentazione soggettiva che le parti ne facciano ma in relazione alla oggettiva proporzione degli inadempimenti stessi considerata con riferimento all'intero equilibrio del contratto ed alla buona fede. Pertanto se nella vicenda che ci impegna la conduttrice ha in ogni caso continuato a godere dell'immobile per quanto lo stesso presentasse vizi e ha quindi ricevuto la prestazione dubbio alcuno può nutrirsi in riguardo al connotarsi in seguito a ciò di un comportamento gravemente inadempiente posto in essere da parte sua. La convenuta avendo sospeso l'intera sua prestazione pertanto ha fatto si che venisse a mancare la proporzionalità tra i due inadempimenti anche ammettendo l'ipotesi che l'immobile oggetto del rapporto locativo tra le parti fosse in effetti afflitto da vizi che ne limitavano l'uso. Di tali vizi peraltro non è stata fornita nessuna prova in giudizio tantomeno la eventuale misura della limitazione della possibilità di godimento dell'immobile nonché che essi siano insorti successivamente alla stipula del contratto ed infine l'eventuale imputabilità ad inadempimento della locatrice. Ancora infatti è da affermare al riguardo che nell'individuazione di questa proporzionalità da concretizzarsi nell'ambito dell'economia del contratto di locazione possono tenersi in conto per analogia i principi di cui all'art. 1584 c.c. per cui il fatto già che il conduttore abbia goduto dell'immobile seppur presupponendo una qualche limitazione in tale godimento nonostante i vizi della cosa locata imputabili o meno alla locatrice non sembra giustificabile a norma dell'art. 1460 comma 2 c.c. il rifiuto di prestazione dell'intero canone potendo giustificarsi eventualmente solo una riduzione dello stesso proporzionata all'entità del mancato godimento eventualmente da provare. In proposito va pure ricordato che per pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità, in caso di denuncia di inadempienze reciproche ai fini della pronuncia di risoluzione per inadempimento (e per la declaratoria della legittimità del recesso ex art. 1385 c.c.), per stabilire da quale parte sia l'inadempimento colpevole non basta la valutazione dell'inadempimento di un solo contraente ma occorre procedere ad una valutazione unitaria e comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto ed apprezzarne l'effettiva gravità ed efficienza causale rispetto alle finalità economiche del contratto. Ciò tenendo conto dei precetti generali sull'imputabilità e sull'importanza dell'inadempimento ed in modo da stabilire, per quanto riguarda le singole pattuizioni, quale dei due abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l'interesse dell'altro al mantenimento del contratto. Tale giudizio di comparazione deve tenere conto del comportamento complessivo di ciascuno dei contraenti, onde stabilire quale di essi, in relazione ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, possa legittimamente predicarsi come responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ai fini della alterazione funzionale del sinallagma. Occorre quindi procedere ad una valutazione unitaria e comparativa dei rispettivi comportamenti, che, al di là del pur necessario riferimento all'elemento cronologico degli stessi, li investa nel loro rapporto di dipendenza (sul piano causale) e di proporzionalità, nel quadro della funzione economico-sociale del contratto, in maniera da consentire di stabilire su quale dei contraenti debba ricadere l'inadempimento colpevole idoneo a giustificare quello dell'altro ed al fine di accertare la sussistenza degli inadempimenti reciprocamente dedotti e di apprezzarne la effettiva gravità ed efficienza causale. In altri termini, tale valutazione comparativa deve tener conto non solo dell'elemento cronologico, ma anche e soprattutto dei rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e dell'incidenza di queste sulla funzione economico-sociale del contratto. Quindi effettuando nel caso di specie una comparazione degli inadempimenti, deve ritenersi che all'inadempimento del conduttore (mancato pagamento dei canoni di locazione) non è corrisposto un inadempimento della locatrice tale da legittimare la sospensione totale del pagamento dei canoni. Infatti il conduttore ha continuato a godere dell'immobile ed un'eventuale riduzione di tale godimento comunque non l'avrebbe esentato dal pagamento dei canoni. Fondata è altresì la collegata domanda di pagamento dei canoni ed a tal proposito deve ricordarsi che in tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale per il risarcimento del danno ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa costituito dall'avvenuto adempimento ed eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto s'avvalga dell'eccezione d'inadempimento ex art. 1460 c.c. Quanto agli effetti della risoluzione deve ritenersi che la convenuta dovrà rilasciare l'immobile condotto in locazione in favore dell'attrice poichè ormai detenuto senza titolo alcuno e si vedrà altresì costretta a pagare i ratei di canone scaduti e non pagati oltre interessi dalle singole scadenze al saldo e da scadere sino alla data in cui rilascerà il cespite oggetto della locazione in parola. Occorre al riguardo ricordare infatti che la locazione ha natura di contratto ad esecuzione continuata o periodica, e quindi trovando applicazione l'art. 1458 c.c., i canoni di locazione devono essere corrisposti da parte del conduttore sino alla data del godimento dell'immobile. Per giurisprudenza costante, difatti ai fini dell'applicabilità della regola contenuta nella seconda parte del comma 1 dell'art. 1458 c.c. secondo cui gli effetti retroattivi della risoluzione non operano nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, per prestazioni già eseguite. Piace ricordare che sono contratti ad esecuzione continuata o periodica quelli che fanno sorgere obbligazioni di durata per entrambe le parti, ossia quelli in cui l'intera esecuzione del contratto avvenga attraverso una serie di prestazioni da realizzarsi contestualmente nel tempo. Pertanto, mentre non possono considerarsi compresi nella previsione normativa del citato art. 1458 c.c. quei contratti in cui ad una prestazione periodica o continuativa si contrappone una prestazione istantanea dell'altra parte, debbono esservi ricompresi quei contratti in cui ad una prestazione continuativa se ne contrappone un'altra periodica, poiché in tal caso la corrispettività si riflette su tutte le prestazioni attraverso le quali il contratto riceva esecuzione e ciò in applicazione del principio, che la locazione ha natura di contratto ad esecuzione continuata, che si concreta nella corresponsione del canone integrata dal godimento del bene protrattosi nel tempo. A brevissimo commento infine della domanda relativa al pagamento degli oneri accessori che erano senz'altro in ossequio all'art. 9 L. 392/78 interamente a carico della conduttrice piace ricordare che a seguito dell'entrata in vigore della disciplina delle locazioni degli immobili urbani di cui alla L. 392/78 l'obbligazione del conduttore concernente il pagamento degli oneri accessori ancorché in precedenza oggetto di diversa regolamentazione convenzionale autonoma rispetto a quella di pagamento del canone è divenuta parte integrante della struttura sinallagmatica del contratto. Le emergenze processuali appena descritte hanno l'effetto di assorbire e rendere ultroneo ogni commento sulle domande riconvenzionali avanzate dalla convenuta. La data dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 56 della legge 392/1978, avuto riguardo alle ragioni della decisione ed ai contrapposti interessi delle parti, può essere fissata nel termine di mesi due decorrente dalla notifica della presente sentenza. Per quanto riguarda la richiesta attorea di condanna della convenuta al risarcimento dei danni causati all'immobile, va rilevato che tale domanda, assente nell'atto di citazione e formulata soltanto nella memoria integrativa, è da considerare inammissibile. Al riguardo è noto che nell'ordinamento anteriore alla riforma del 1990 era affermazione ricorrente in giurisprudenza che l'opposizione dell'intimato, ai sensi dell'art. 665 c.p.c., determinava la conclusione del procedimento di convalida, a carattere sommario, e l'instaurazione di un nuovo ed autonomo processo con rito e cognizione ordinari. L'art. 667 c.p.c. nel regolare i problemi di competenza che sorgevano dal coordinamento fra la procedura speciale, di competenza per materia del pretore, e il giudizio ordinario di cognizione scaturito dall'opposizione dell'intimato prevedeva che, dopo la pronuncia (o il diniego) dei provvedimenti previsti nei due articoli precedenti (ordinanza non impugnabile di rilascio ovvero condanna al pagamento dei canoni non controversi), il giudizio proseguiva davanti al pretore, per la decisione di merito, soltanto se la causa era di sua competenza, dovendosi, nel caso contrario, rimettere le parti innanzi al giudice competente per valore. In questo sistema era normalmente ammesso che le parti potessero, dal momento dell'opposizione, che segnava il nascere di un novum iudicium, esercitare tutte le facoltà connesse alle rispettive posizioni, e segnatamente che potesse il locatore porre a fondamento della pretesa di rilascio dell'immobile una causa petendi diversa da quella assunta nell'atto di intimazione, e persino introdurre una domanda nuova. La giurisprudenza di legittimità formatasi sulla scorta delle norme processuali previgenti la novella del 1990-1995 ammetteva quindi liberamente la modificazione della domanda e delle eccezioni operata con la memoria prevista dall'art. 667 c.p.c. dopo la conclusione dell'udienza di convalida, sostenendo che con l'opposizione dell'intimato s'instaurava un nuovo ed autonomo processo a cognizione ordinaria soggetto al rito delle controversie individuali di lavoro e tutt'al più subordinando l'ammissibilità del mutamento all'avvenuta accettazione del contraddittorio. Il tradizionale orientamento della Suprema Corte consentiva quindi la proposizione di domande nuove a seguito della opposizione del convenuto, della chiusura della fase sommaria del giudizio e del conseguente inizio di un autonomo giudizio ordinario di cognizione. Siffatto orientamento era già, ad avviso di questo Giudice, in sé discutibile in considerazione sia della formulazione testuale dell'art. 667 c.p.c., laddove è prevista la prosecuzione del medesimo giudizio iniziato nella fase speciale con l'intimazione, sia della sola eventualità del deposito delle memorie integrative, nella cui mancanza il giudice deve comunque esaminare la domanda di risoluzione del contratto azionata con l'intimazione dello sfratto. Inoltre, non può non notarsi come nel caso in cui il giudice ravvisasse (e ravvisi) dei motivi ostativi alla pronuncia dell'ordinanza di convalida, pur in assenza dell'intimato o di sua opposizione ed adottasse (od adotti) la forma dell'ordinanza per il provvedimento di rigetto dell'istanza di convalida si ritiene pacificamente che il provvedimento sia impugnabile con l'appello perché dotato del contenuto definitorio proprio della sentenza, che statuisce però sulla domanda introdotta con l'intimazione. Ancor più non condivisibile è tale ricostruzione se confrontata con le disposizioni che regolano il processo civile dopo la riforma, in cui l'attività deduttiva delle parti deve avvenire con l'atto introduttivo e la comparsa di risposta depositata entro il termine di venti giorni prima dell'udienza di comparizione delle parti, o comunque entro i termini di preclusione dettati dall'art. 183 c.p.c. Inoltre, tale ultima disposizione non consente la proposizione della domanda nuova, ma la mera emendatio in quanto giustificata dalle deduzioni difensive della parte convenuta. Il ricordato orientamento giurisprudenziale si era infatti consolidato in data antecedente alla riforma introdotta con la legge n. 353/1990 entrata in vigore il 30/04/1995, allorquando il giudizio proseguiva davanti al Pretore ovvero davanti al Tribunale competente per valore secondo le forme del vigente rito ordinario, sostanzialmente privo di un sistema di rigide preclusioni per le parti. A seguito della entrata in vigore della "novella" al codice di procedura civile deve, invece, ritenersi preferibile una diversa interpretazione, più coerente con il sistema. Inoltre, dopo l'attribuzione al pretore, dal 30 aprile 1995, della competenza per materia nelle cause di locazione (e di comodato) di immobili urbani (art. 8 c.p.c., 2 comma, n. 3) e l'introduzione, dalla stessa data, in dette cause, del rito speciale del lavoro (art. 447-bis c.p.c.), per il combinato disposto degli artt. 667 e 426 c.p.c., pronunciati (o naturalmente denegati) i provvedimenti previsti dagli artt. 665 e 666 c.p.c., già ricordati, il giudizio "prosegue nelle forme del rito speciale", previa ordinanza di mutamento del rito, con la quale ultima le parti sono "facultate" all'integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria. Ciò significa che l'opposizione dell'intimato non coincide più adesso con l'instaurazione di un nuovo e autonomo giudizio di cognizione, ma produce soltanto un mutamento nella struttura del procedimento, che continua a svolgersi, necessariamente davanti al medesimo giudice, non ponendosi più questioni di competenza per valore, in una nuova fase, quella di merito (che si concluderà con la pronuncia di accoglimento o rigetto della domanda di condanna del conduttore al rilascio dell'immobile locato); ovvero, in altri termini, che "prosegue", con cognizione ordinaria ma con rito speciale, quell'unico procedimento, iniziatosi con l'esercizio, da parte del locatore, di un'azione di condanna nella forma speciale della citazione per convalida. Viste, quindi, la modifica dell'art. 667 c.p.c. nel senso che il giudizio prosegue davanti al medesimo giudice nelle forme del rito speciale previa ordinanza di mutamento di rito ai sensi dell'art. 426 c.p.c. e la necessità di un formale provvedimento di mutamento di rito per il passaggio dalla fase di convalida a quella ordinaria in rito speciale ex art. 447 bis c.p.c., è evidente la sottolineatura, da parte del legislatore, della sussistenza di una continuità volto (nelle intenzioni dell'intimante) Dtra il giudizio c.d. sommario ed il giudizio ordinario di Dall'emissione del provvedimento di convalida cognizione conseguente alla (eventuale) opposizione dell'intimato. In altri termini, a seguito del provvedimento ex art. 426 c.p.c. il giudizio prosegue nelle forme del rito speciale c.d. locatizio senza che tale ultimo procedimento possa essere considerato come nuovo e diverso rispetto all'originario procedimento introdotto con atto di citazione per convalida di licenza o sfratto. La corrente maggioritaria della dottrina e della giurisprudenza di merito escludono quindi che le parti possano introdurre nuove domande con la memoria depositata ai sensi dell'art. 667 c.p.c., che ha una funzione appunto d'integrazione, ossia di mero completamento ed approfondimento delle difese già svolte e ciò anche in considerazione del rigido regime di preclusioni operante per le controversie di lavoro, che all'art. 420 c.p.c. subordina anche la sola emendatio libelli alla formulazione di apposita istanza ed all'autorizzazione del giudice. Tale orientamento pare condivisibile anche perché coerente con gli esiti dell'applicazione dell'istituto previsto dall'art. 426 c.p.c., in riferimento al quale è sempre stato sostenuto che il mutamento del rito non determina la sanatoria di eventuali decadenze e preclusioni verificatesi a seguito dell'errata introduzione del giudizio con un atto a forma prevista per il processo ordinario. Infine, non pare decisivo nemmeno il rilievo della compressione delle facoltà difensive del locatore, per il quale l'esperimento del procedimento di sfratto è frutto di una scelta personale, non obbligata. L'attore non può dolersi del fatto che la limitazione della propria domanda originaria sia conseguenza della specialità del rito prescelto, che non gli consente di chiedere altro rispetto alla convalida (e, in caso di sfratto per morosità, all'ordinanza ingiunzione ex art. 664 c.p.c.). Basterà in proposito rilevare che il locatore non è obbligato a procedere nelle forme di cui agli artt. 657 ss., trattandosi di procedura alternativa al normale giudizio di cognizione cui avrebbe potuto ricorrere per introdurre, unitamente alla domanda di scioglimento o risoluzione del rapporto e di pagamento dei canoni di locazione insoluti, anche eventuali altre domande di merito inerenti al contratto. Una simile interpretazione del dettato normativo appare poi del tutto coerente: a) con la ratio che ha informato la "novella", la quale ha inteso introdurre rigide preclusioni per le parti (sia con riferimento alla formazione del thema decidendum che a quella del thema probandum), dovendo essere chiaro che queste hanno la disponibilità dei diritti in contesa, non già del processo e dei suoi tempi; b) con il rito processuale prescelto per la definizione delle cause di locazione, teso al raggiungimento di una decisione del merito secondo regole processuali informate alla massima speditezza, pur nel necessario rispetto del principio del contraddittorio (regole che, giova sottolinearlo, escludono qualsiasi possibilità di mutatio libelli nel corso del procedimento, ma solo di emendatio libelli dietro autorizzazione del giudice: cfr. art. 420 c.p.c.); c) con la recente modifica dell'art. 111 Cost., il quale, stabilendo al comma 2 che la legge deve assicurare la ragionevole durata del processo, impone al giudice di interpretare le norme in senso compatibile con l'attuazione concreta del dettato costituzionale (e non è dubbio che la proposizione di domande nuove, allargando l'oggetto del giudizio, finisce con l'incidere sui tempi di definizione della originaria controversia). Un ulteriore argomento favorevole alla tesi esposta può trarsi dal costante orientamento seguito dalla Corte di Cassazione in tema di mutamento di rito da ordinario a speciale ex art. 426 c.p.c., essendosi sempre ritenuto che tale provvedimento non fa venire meno le preclusioni già verificatesi per le parti a seguito della (erronea) introduzione del giudizio nelle forme ordinarie. Nel senso indicato da questo giudice sembra poi muoversi anche una pronuncia della Suprema Corte in materia di opposizione tardiva alla convalida di sfratto ex art. 668 c.p.c., laddove si afferma che il locatore convenuto (attore in senso sostanziale) non può proporre nel corso del giudizio di opposizione domande nuove rispetto a quelle originariamente proposte nel procedimento di convalida di licenza o sfratto ma può unicamente modificare le stesse nei limiti di quanto consentito dall'art. 420 c.p.c. In definitiva, pare a questo giudice che l'innesto della nuova disciplina del processo civile, come delineata dalla novella del 1990-1995, sul corpo di norme relative allo speciale procedimento di convalida dello sfratto, rimasto pressocchè immutato, comporti che all'adozione del provvedimento di mutamento del rito segua soltanto la trasformazione dello strumento processuale prescelto per ottenere la pronuncia giudiziale di risoluzione del contratto di locazione ed il rilascio del bene locato, non già l'instaurazione di un nuovo giudizio. Tant'è che non viene richiesta una nuova iscrizione a ruolo, la procura alle liti utilizzata dal patrocinatore resta la medesima, l'intimante conserva la sua qualità di attore, ossia di propositore della domanda giudiziale, che, a fronte di una linea difensiva dell'intimato limitata alla formulazione di eccezioni, resta l'unica da esaminare e definire nel merito. Ne discende l'inammissibilità della proposizione delle nuove domande ad opera delle parti. Tale conclusione, deve adesso considerarsi supportata anche dal recente orientamento assunto sul punto dalla Suprema Corte, la quale ha ritenuto soprattutto alla luce del fatto che l'opposizione dell'intimato non coincide più, con il nuovo regime processuale, con l'instaurazione di un nuovo e autonomo giudizio di cognizione, ma produce soltanto un mutamento nella struttura del procedimento e quindi del fatto che l'unico procedimento, iniziato con l'esercizio da parte del locatore di un'azione di condanna nella forma speciale della citazione per convalida, "prosegue" con cognizione ordinaria ma con rito speciale che "a partire dall'emissione dell'ordinanza di mutamento del rito scattano le preclusioni tipiche del processo del lavoro, anzitutto il divieto di proporre nuove domande nel corso del giudizio di primo grado, che, essendo funzionale ad esigenze di accelerazione del procedimento (artt. 414 e 416 c.p.c.), esorbita dalla tutela del privato interesse delle parti, sicché la tardività della nuova domanda non può essere sanata nemmeno dall'accettazione del contraddittorio sulla medesima ad opera della controparte ed è rilevabile anche d'ufficio dal giudice, persino in sede di appello, ove non rilevata, per qualsiasi motivo, dal giudice di primo grado, con il solo limite del giudicato formatosi in proposito. Conseguentemente considerato peraltro che costituisce ius receptum che le memorie integrative previste dall'art. 426 c.p.c., destinate soltanto a consentire alle parti di mettersi in regola con le prescrizioni introdotte dal nuovo processo del lavoro, non possono contenere domande nuove deve ritenersi consentita soltanto la modificazione della domanda (emendatio libelli), previa peraltro l'autorizzazione del giudice, giustificata da gravi motivi (art. 420 c.p.c., 1° comma). In conclusione, la domanda attorea di condanna della convenuta al risarcimento dei danni causati al cespite oggetto di lite avanzata da parte attrice per la prima volta nella memoria integrativa deve ritenersi nuova e, quindi, tardiva ed inammissibile. Le spese di lite liquidate come in dispositivo seguono la soccombenza. P.Q.M. definitivamente pronunciando; dichiara risolto il contratto di locazione stipulato tra le parti per inadempimento della conduttrice; dispone per l'effetto che parte convenuta provveda entro il termine di mesi due decorrente dalla notifica della presente sentenza a rilasciare in favore di parte attrice l'immobile oggetto del rapporto locativo in argomento; condanna parte convenuta al pagamento dei canoni e degli oneri accessori scaduti e non pagati oltre interessi dalle singole scadenze al saldo e da scadere fino al rilascio dell'immobile; rigetta la domanda attorea di condanna della convenuta al risarcimento dei danni causati all'immobile oggetto del rapporto locativo in argomento; rigetta le domande riconvenzionali avanzate da parte convenuta; condanna infine parte convenuta al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 2.000,00 oltre I.V.A. C.P.A. e spese generali. Così deciso in Agrigento il 15 marzo 2021. Depositata in Cancelleria il 29 marzo 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AGRIGENTO Il Giudice dott. Gerlando Lo Presti Seminerio ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 1828/2020 R.G.A.C. TRA (...) NATA A S. IL (...) rapp. e dif. dall'Avv. Pa.Ga. ATTRICE CONTRO (...) NATO A S. IL (...) rapp. e dif. dall'Avv. Sergio Airò Farulla CONVENUTO OGGETTO: risoluzione di contratto locatizio SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione del 20/05/2020 (...) intimava a (...) sfratto per morosità. Esponeva l'intimante a sostegno della domanda azionata di avere concesso al convenuto in locazione in virtù di apposito contratto stipulato in data 20/05/2016 e registrato il successivo 25/05/2016 ad uso abitativo un immobile sito in S. nella locale via P. n. 43/A per un canone mensile ammontante ad Euro 150,00. Deduceva quindi a sostegno dell'azione intrapresa che il convenuto nella veste di conduttore s'era reso moroso nel pagamento dei canoni locatizi sin dal mese di ottobre del 2017 per una complessiva somma di Euro 4.650,00. Pertanto concludendo chiedeva la convalida dell'intimato sfratto. Costituendosi in giudizio la (...) contestava la domanda proposta nei suoi riguardi eccependo che il mancato pagamento dei canoni nella specie non comportava il connotarsi di una condotta inadempiente da parte sua in quanto alla luce del principio inademplenti non est adimplendum la sospensione del pagamento era dovuta al mancato adempimento da parte della locatrice all'obbligo di eliminare determinati vizi che affliggevano l'immobile oggetto del rapporto locativo in argomento rendendolo inidoneo all'uso pattuito. Pertanto concludeva instando affinché la domanda di convalida di sfratto inoltratagli venisse respinta il contratto di locazione inter partes dichiarato risolto per inadempimento della locatrice e l'attrice condannata al risarcimento dei danni che dalla sua condotta erano scaturiti. Con provvedimento riservato del 21/07/2020 il giudice disponeva il mutamento di rito del procedimento da ordinario a speciale conseguente all'opposizione del convenuto. Celebrata nel merito l'attività istruttoria esclusivamente attraverso produzioni documentali all'udienza del 01/03/2020 la causa veniva infine decisa come da dispositivo in atti. MOTIVI DELLA DECISIONE La domanda di risoluzione contrattuale, nella quale si converte automaticamente la richiesta di convalida una volta disposto il mutamento di rito da sommario a speciale ai sensi degli artt. 667, 426 e 447 bis c.p.c., è fondata e va, pertanto, accolta. Invero, in base ad un costante orientamento giurisprudenziale al creditore che deduca la sussistenza di un inadempimento da parte del debitore spetta di dimostrare, secondo i criteri di distribuzione dell'onere della prova contenuti nell'art. 2697 c.c., il fatto costitutivo del credito, mentre al debitore spetta di provare il fatto estintivo dello stesso o di una sua parte. Pertanto, il primo è tenuto unicamente a fornire la prova dell'esistenza del rapporto o del titolo dal quale deriva il suo diritto, mentre, a fronte di tale prova, dovrà essere onere del debitore dimostrare di avere adempiuto alle proprie obbligazioni. Applicando questo principio di diritto al caso di specie e rilevando che il convenuto ha ammesso l'esistenza del rapporto contrattuale (peraltro provato documentalmente) che lo lega all'attrice, deve ritenersi che ciò basta per considerare sussistente il credito allegato da (...) nei confronti di (...), relativo al mancato pagamento dei canoni oggetto dell'intimazione. Alla luce, quindi, di quanto appena affermato deve presumersi, fino a prova contraria, la sussistenza di un oggettivo inadempimento delle obbligazioni pecuniarie di cui sopra. Peraltro, nel caso di specie il mancato pagamento dei canoni intimati risulta poi non contestato da parte convenuta. Deve a questo punto sottolinearsi che in base al disposto dell'art. 1218 c.c., una volta rilevata la sussistenza di un oggettivo inadempimento, si presume che lo stesso sia imputabile al debitore (anche questa volta la prova contraria è a carico di quest'ultimo e, nel caso di specie, non è stata fornita). Occorre a questo punto commentare il comportamento tenuto nell'occasione dal conduttore il quale non ha provveduto a pagare i canoni oggetto del rapporto locativo in argomento adducendo l'esistenza di vizi che non consentivano una piena fruizione dell'immobile locato e quindi l'uso per cui la locazione in parola s'era inaugurata. Al riguardo va ricordato in generale come in tema di locazione di immobili il pagamento del canone costituisca la principale e fondamentale obbligazione del conduttore al quale non è consentito astenersi dal versare il corrispettivo o di determinare unilateralmente il canone nel caso in cui si verifichi una riduzione o una diminuzione del godimento del bene anche quando si assuma che tale evento sia ricollegabile al fatto del locatore e ciò perché la sospensione totale o parziale dell'adempimento di detta obbligazione ai sensi dell'art. 1460 c.c. è legittima soltanto quando venga a mancare contemporaneamente la controprestazione dell'altro protagonista contrattuale. La suddetta eccezione postula la proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti da valutare non in rapporto alla rappresentazione soggettiva che le parti ne facciano ma in relazione alla oggettiva proporzione degli inadempimenti stessi considerata con riferimento all'intero equilibrio del contratto ed alla buona fede. Pertanto se il conduttore ha in ogni caso goduto dell'immobile per quanto lo stesso presentasse vizi e ha quindi ricevuto la prestazione dubbio alcuno può nutrirsi in riguardo al connotarsi in seguito a ciò di un comportamento gravemente inadempiente posto in essere da parte sua. Il convenuto avendo sospeso l'intera sua prestazione pertanto ha fatto sì che venisse a mancare la proporzionalità tra i due inadempimenti anche ammettendo l'ipotesi che l'immobile oggetto del rapporto locativo tra le parti fosse in effetti afflitto da vizi che ne limitavano l'uso. Di tali vizi peraltro non è stata fornita nessuna prova in giudizio in riguardo all'eventuale misura della limitazione della possibilità di godimento dell'immobile nonché che essi siano insorti successivamente alla stipula del contratto ed infine l'eventuale imputabilità ad inadempimento della locatrice. Ancora infatti è da affermare al riguardo che nell'individuazione di questa proporzionalità da concretizzarsi nell'ambito dell'economia del contratto di locazione possono tenersi in conto per analogia i principi di cui all'art. 1584 c.c. per cui il fatto già che il conduttore abbia goduto dell'immobile seppur presupponendo una qualche limitazione in tale godimento nonostante i vizi della cosa locata imputabili o meno alla locatrice non sembra giustificabile a norma dell'art. 1460 comma 2 c.c. il rifiuto di prestazione dell'intero canone potendo giustificarsi eventualmente solo una riduzione dello stesso proporzionata all'entità del mancato godimento eventualmente da provare. In proposito va pure ricordato che per pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità, in caso di denuncia di inadempienze reciproche ai fini della pronuncia di risoluzione per inadempimento (e per la declaratoria della legittimità del recesso ex art. 1385 c.c.), per stabilire da quale parte sia l'inadempimento colpevole non basta la valutazione dell'inadempimento di un solo contraente ma occorre procedere ad una valutazione unitaria e comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto ed apprezzarne l'effettiva gravità ed efficienza causale rispetto alle finalità economiche del contratto. Ciò tenendo conto dei precetti generali sull'imputabilità e sull'importanza dell'inadempimento ed in modo da stabilire, per quanto riguarda le singole pattuizioni, quale dei due abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l'interesse dell'altro al mantenimento del contratto. Tale giudizio di comparazione deve tenere conto del comportamento complessivo di ciascuno dei contraenti, onde stabilire quale di essi, in relazione ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, possa legittimamente predicarsi come responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ai fini della alterazione funzionale del sinallagma. Occorre quindi procedere ad una valutazione unitaria e comparativa dei rispettivi comportamenti, che, al di là del pur necessario riferimento all'elemento cronologico degli stessi, li investa nel loro rapporto di dipendenza (sul piano causale) e di proporzionalità, nel quadro della funzione economico-sociale del contratto, in maniera da consentire di stabilire su quale dei contraenti debba ricadere l'inadempimento colpevole idoneo a giustificare quello dell'altro ed al fine di accertare la sussistenza degli inadempimenti reciprocamente dedotti e di apprezzarne la effettiva gravità ed efficienza causale. In altri termini, tale valutazione comparativa deve tener conto non solo dell'elemento cronologico, ma anche e soprattutto dei rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e dell'incidenza di queste sulla funzione economico-sociale del contratto. Quindi effettuando nel caso di specie una comparazione degli inadempimenti, deve ritenersi che all'inadempimento del conduttore (mancato pagamento dei canoni di locazione) non è corrisposto un inadempimento della locatrice tale da legittimare la sospensione totale del pagamento dei canoni. Infatti il conduttore ha goduto dell'immobile ed un'eventuale riduzione di tale godimento comunque non l'avrebbe esentato dall'obbligo di pagare i canoni. Fondata è pertanto la domanda di pagamento dei canoni ed a tal proposito deve ricordarsi che in tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale per il risarcimento del danno ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa costituito dall'avvenuto adempimento ed eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto s'avvalga dell'eccezione d'inadempimento ex art. 1460 c.c. Quanto agli effetti della risoluzione deve ritenersi che il convenuto dovrà rilasciare l'immobile condotto in locazione in favore dell'attrice poiché ormai detenuto senza titolo alcuno e si vedrà altresì costretto a pagare i ratei di canone scaduti e non pagati oltre interessi dalle singole scadenze al saldo e da scadere sino alla data in cui rilascerà il cespite oggetto della locazione in parola. Occorre al riguardo ricordare infatti che la locazione ha natura di contratto ad esecuzione continuata o periodica, e quindi trovando applicazione l'art. 1458 c.c., i canoni di locazione devono essere corrisposti da parte del conduttore sino alla data del godimento dell'immobile. Per giurisprudenza costante, difatti ai fini dell'applicabilità della regola contenuta nella seconda parte del comma 1 dell'art. 1458 c.c. secondo cui gli effetti retroattivi della risoluzione non operano nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, per prestazioni già eseguite. Appare utile al riguardo ricordare che sono contratti ad esecuzione continuata o periodica quelli che fanno sorgere obbligazioni di durata per entrambe le parti, ossia quelli in cui l'intera esecuzione del contratto avvenga attraverso una serie di prestazioni da realizzarsi contestualmente nel tempo. Pertanto, mentre non possono considerarsi compresi nella previsione normativa del citato art. 1458 c.c. quei contratti in cui ad una prestazione periodica o continuativa si contrappone una prestazione istantanea dell'altra parte, debbono esservi ricompresi quei contratti in cui ad una prestazione continuativa se ne contrappone un'altra periodica, poiché in tal caso la corrispettività si riflette su tutte le prestazioni attraverso le quali il contratto riceva esecuzione e ciò in applicazione del principio, che la locazione ha natura di contratto ad esecuzione continuata, che si concreta nella corresponsione del canone integrata dal godimento del bene protrattosi nel tempo. Deve essere infine respinta la domanda di condanna del convenuto per responsabilità aggravata avanzata, ex art. 96 c.p.c., dall'attrice non ricorrendo i presupposti di cui alla richiamata norma, la quale nel disciplinare come figura di danno extracontrattuale la responsabilità processuale aggravata per mala fede o colpa grave della parte soccombente in un giudizio di cognizione non deroga al principio secondo il quale colui che intende ottenere il risarcimento dei danni deve dare la prova sia dell'an che del quantum, ed il giudice non può liquidare il danno, neppure equitativamente, se dagli atti non risultino elementi atti ad identificarne concretamente l'esistenza. Detta condanna, quale sanzione dell'inosservanza del dovere di lealtà e probità cui ciascuno è tenuto, non può derivare solo dal fatto della prospettazione di tesi giuridiche non condivise dal giudice, occorrendo che l'altra parte deduca e dimostri nell'indicato comportamento la ricorrenza del dolo o della colpa grave, nel senso della consapevolezza, o dell'ignoranza, derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza, dell'infondatezza delle suddette tesi. L'accoglibilità di detta domanda è quindi condizionata alla dimostrazione di specifici presupposti, individuabili nel dolo o nella colpa grave di controparte nonché nella dimostrazione dell'effettiva e concreta esistenza di un danno conseguenziale al comportamento di quest'ultima. Nel caso di specie, invece, la domanda di condanna ex art. 96 c.p.c. è sfornita di ogni elemento probatorio a sostegno, sia per quanto attiene all'elemento soggettivo (dolo o colpa grave) che oggettivo (entità del danno sofferto) e quindi non può essere accolta. Non è stata infatti raggiunta la prova né dell'esistenza di un danno risarcibile conseguente all'instaurazione del giudizio, naturalmente ulteriore rispetto alle spese processuali sostenute (ed al riguardo è noto che la prova sull'an incombe sempre sulla parte, potendo il giudice effettuare una valutazione equitativa solo sul quantum una volta che è stata fornita la prova circa la sussistenza del danno), né di una condotta dolosa o gravemente colposa del convenuto. Dalle emergenze processuali appena descritte rimane ovviamente assorbita la domanda riconvenzionale avanzata dal convenuto. La data del rilascio infine, ex art. 56 della L. n. 392 del 1978, può essere fissata in mesi due dal deposito della presente sentenza. Le spese di lite liquidate come in dispositivo seguono la soccombenza. P.Q.M. definitivamente pronunciando; dichiara risolto il contratto di locazione stipulato tra le parti per inadempimento del conduttore; dispone per l'effetto che parte convenuta provveda entro il termine di mesi due decorrente dalla notifica della presente sentenza a rilasciare in favore dell'attrice l'immobile oggetto del rapporto locativo in argomento; condanna parte convenuta al pagamento dei canoni scaduti e non pagati oltre interessi dalle singole scadenze al saldo e da scadere fino al rilascio dell'immobile; rigetta la domanda di condanna del convenuto per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. avanzata da parte attrice; rigetta la domanda riconvenzionale avanzata dal convenuto; condanna infine parte convenuta al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 2.500,00 oltre I.V.A. Così deciso in Agrigento l'1 marzo 2021. Depositata in Cancelleria il 16 marzo 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Agrigento, Sezione Civile, nella persona del Giudice Vincenza Bennici, ha pronunciato la presente SENTENZA nel procedimento di primo grado iscritto al n. 1764/2013 degli affari civili contenziosi TRA GU.RO., nata (...) (Avv. Ca.Du.) ATTORE E SI. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede legale in Agrigento via (...) (Avv. Cr.An.) CONVENUTA GE. S.P.A., in persona del legale rappresentante p.t., con sede legale in Mogliano Veneto, via (...) (Avv. Gi.Im.) TERZO CHIAMATO IN CAUSA CA.AL., nato (...) (Avv. Em.Va. e Ma.Ca.) TERZO CHIAMATO IN CAUSA CA.DA., nata (...) (Avv.ti An.Fa. e An.Ru.) TERZO CHIAMATO IN CAUSA Oggetto: azione di risarcimento danni da responsabilità professionale RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con atto di citazione introduttivo del giudizio, Gu.Ro. conveniva in giudizio Si. S.p.A. e deduceva che: - in data 05/11/09, essa attrice era stata sottoposta, presso la clinica ostetrica di Palermo, a isteroscopia; poiché aveva lamentato, immediatamente dopo, dolori e perdite di sangue dalla vagina, si era recata presso il consultorio di Agrigento, dove le veniva consigliato di eseguire degli accertamenti; - in data 12 novembre 2009, si era recata presso la Casa di cura Si., dove veniva visitata dalla dott.ssa Daniela Carmina, la quale, esaminato il "Pap Test" eseguito nel giugno 2009, la ricoverava in regime di DH, con diagnosi di "Iperplasia endocervicale in AGUS endocervicale"; - il giorno seguente, l'attrice veniva quindi sottoposta ad intervento chirurgico di "isteroscopia, dilatazione o raschiamento dell'utero, esame microscopico di campione di vie genitali femminili FE"; - subito dopo l'intervento, l'attrice, avvertiva dei forti dolori, ma soltanto dopo due ore e mezzo dall'intervento i sanitari effettuavano un'ecografia pelvica, che evidenziava un "piccolo versamento nel Douglas": - l'attrice veniva quindi sottoposta, a un nuovo intervento chirurgico e veniva riscontrato un versamento ematico; - a seguito di detti interventi, l'attrice riportava una "Perforazione uterina. Ematoma del legamento largo e della doccia parietocolica destra". Su questi presupposti, l'attrice chiedeva di dichiarare la responsabilità delle convenuta per i danni riportati a causa della condotta negligente, imprudente e imperita dei sanitari nell'esecuzione degli interventi posti in essere e la condanna della convenuta al risarcimento dei danni subiti. Si., costituitasi tardivamente il 12.5.2014, contestava le domande attoree e chiedeva, inoltre, il differimento della prima udienza per consentire la chiamata in manleva di Ge. S.p.A. dalla quale pretendeva di essere garantita, in virtù della polizza assicurativa avente ad oggetto i rischi derivanti dall'attività professionale dei propri dipendenti. Autorizzata la chiamata in causa ex art. 107 c.p.c., si costituiva in giudizio Ge. S.p.a. chiedendo il rigetto delle domande attoree; chiedeva inoltre di essere autorizzata a chiamare in causa Ca.Al. e Ca.Da., medici che avevano effettuato l'intervento. Autorizzata la chiamata in causa, si costituivano, con distinte comparse, Ca.Al. e Ca.Da., negando ogni addebito di responsabilità e chiedendo il rigetto della doman da attorea. La causa, istruita mediante la produzione di documenti, assunzione di prove orali ed espletamento di CTU medico-legale, con ordinanza del 9.3.2021, sulle conclusioni delle parti, veniva posta in decisione, con assegnazione dei termini di cui all'articolo 190 c.p.c.. Così brevemente delineata la res litigiosa, la domanda attorea è risultata priva di fondamento e va, pertanto, respinta. L'azione esperita da parte attrice impone un accertamento da condursi essenzialmente su due versanti: 1) quello della sussistenza di una condotta illecita (perché imperita o negligente) imputabile ai sanitari che effettuarono l'intervento; 2) quello della sussistenza di un nesso di causalità tra detta, eventuale, condotta illecita, e la patologia da cui è affetta l'attrice. E' allora opportuno, anzitutto, richiamare i principi comunemente ricevuti nella giurisprudenza di legittimità sui punti in questione. Anzitutto, per quanto attiene alla 'natura' della responsabilità invocata da parte attrice, è noto che quella della "struttura sanitaria", e del medico che ne sia dipendente, è responsabilità "contrattuale" (in proposito va osservato che i fatti risalgono al 2009, dunque ad epoca anteriore alla entrata in vigore della c.d. legge Gelli) rispettivamente riconnessa, per l'una (struttura sanitaria) e per l'altro (medico), ad un "contratto" (che si conclude con "l'accettazione del paziente in ospedale "), ed al "contatto sociale" che poi ne scaturisce (tra le tante, in materia, v. Cass. 21 giugno 2004 n. 11488, Cass. 28 maggio 2004 n. 10927 e Cass. 22 dicembre 1999 n. 589; nel senso, poi, che "l'ente ospedaliero risponde direttamente della negligenza ed imperizia dei propri dipendenti nell'ambito delle prestazioni effettuate al paziente", v. Cass. 4 marzo 2004 n. 4400). Qualificata dunque come contrattuale la responsabilità in esame, ne discende (come precipitato logico - giuridico) che, per ciò che riguarda la distribuzione dell'onere della prova, sul danneggiato incombe l'onere di allegare solo l'inesattezza dell'adempimento del medico o dei medici, e grava invece sulle parti di cui si deduca l'inesatto adempimento l'onere di allegare e di provare che la prestazione è stata, al contrario, esattamente eseguita (di provare, insomma, sullo sfondo della previsione dell'art. 1176 c.c., la "mancanza di colpa": Cass. 4 marzo 2004 n. 4400), ed anche di allegare e di provare, eventualmente, "la non qualificabilità della stessa" (colpa) "in termini di gravità, nel caso di cui all'art. 2236 c.c.)" (Cass. 21 giugno 2004 n. 11488) e, 'a monte', ancora, di provare "ch e il caso è di particolare difficoltà" (Cass. 28 maggio 2004 n. 10927 e tutta la giurisprudenza ivi citata). In secondo luogo, deve inoltre essere soffermata l'attenzione sugli autorevoli criteri ricognitivi della Suprema Corte in merito all'accertamento del nesso di causalità. Al riguardo va ricordato che già le Sezioni Unite penali della Cassazione hanno accreditato (con la pronuncia n. 30328 dell'11 settembre 2003) quello che è ormai noto - anche in dottrina - come il criterio della "probabilità logica". Tale indirizzo è stato fatto proprio anche dalla giurisprudenza della Suprema Corte civile, secondo cui "in materia di responsabilità professionale, al criterio della certezza degli effetti della condotta si può sostituire (...) quello della probabilità di tali effetti e dell'idoneità della condotta a produrli" (Cass. 4 marzo 2004, n. 4400). E, più in particolare, la Corte sostiene poi che, "con riguardo alla sussistenza del nesso di causalità fra l'evento dannoso e la condotta colpevole (omissiva o commissiva) del medico, ove il ricorso alle nozioni di patologia medica e medicina legale non possa fornire un grado di certezza assoluta, la ricorrenza del suddetto rapporto di causalità non può essere esclusa in base al mero rilievo di margini di relatività, a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, specie quando manchi la prova della preesistenza, concomitanza o sopravvenienza di altri fattori determinanti" (così anche Cass. 21 gennaio 2000 n. 632). La Suprema Corte ha altresì avuto cura di precisare che, poiché l'accertamento della sussistenza del nesso di causalità muove dell'elaborazione giurisprudenziale (prevalentemente penalistica) di cui agli artt. 40 e 41 c.p., "non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell'ipotesi dell'esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze di fatto e dell'evidenza disponibile, così che, all'esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l'esistenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissive o in ogni caso colpevole del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica". Ciò dunque premesso, il punto di riferimento essenziale - rispetto all'accertamento che qui è richiesto - è ovviamente costituito dalla relazione di C.T.U. in atti, a firma del dottor Angelo Montana - che si condivide in quanto esaustiva sia sotto il profilo tecnico che dal punto di vista logico e metodologico, per cui non v'è ragione di disattenderne le risultanze - che ha escluso la responsabilità dei sanitari convenuti per i danni riportati dall'attrice. Il consulente ha affermato che, alla luce delle condizioni cliniche di Gu.Ro., cui era stata diagnosticata "al PAP test una flogosi in AGUS endocervicale", la scelta di eseguire l'isteroscopia deve ritenersi corretta. Ciò avrebbe consentito di identificare l'eventuale presenza di lesioni precancerose o cancerose, nonché di alterazioni citologiche reattive benigne correlate a flogosi o distrofia o atrofia dell'endocervice e dell'endometrio. È bene riportare integralmente alcuni passaggi della relazione peritale al fine di meglio comprendere le conclusioni cui è giunto il consulente. Nella relazione si legge: "Sebbene l'incidenza di complicanze da isteroscopia sia variabile in relazione ai vari centri in cui viene eseguita e si mantenga piuttosto bassa, in un range compreso tra l'i ed il 2,7%, la perforazione uterina rappresenta un terzo delle complicanze intraoperatorie. Tale complicanza si verifica nel 2-3 % delle isteroscopie ed un fattore di rischio elevato di perforazione uterina in corso di isteroscopia è rappresentato dalla presenza di setti o aderenze uterine"; ancora: "La perforazione uterina durante l'esecuzione di una tecnica invasiva può causare, oltre che emorragie ed ematomi, anche lesioni intestinali ed al tratto urinario, che richiederanno la necessità di un intervento in laparoscopia o eventualmente in laparotomia per il trattamento. Ulteriori complicanze nella chirurgia ginecologica sono quelle post-operatorie precoci (0-72 ore dall'intervento) e tardive (oltre 72 ore dall'intervento). Nelle prime sono annoverate le emorragie e gli ematomi; nelle seconde sono comprese le complicanze urinarie, tra cui la stenosi ureterale. Per quanto concerne le emorragie, spesso derivate dalla lacerazione o incisione dei vasi sanguigni, è necessario ricordare che tra le più temibili rientra la comparsa di emoperitoneo, ovverosia la raccolta di materiale ematico in cavità addominale, il cui quadro sintomatologico si caratterizza, nelle prime fasi, per tensione e dolore addominale e stato anemico acuto. In questi casi, è necessario eseguire un'ecografia addomino-pelvica che conferma la presenza di falde liquide in addome ed intervenire per via laparoscopica o laparotomica al fine di impedire il procrastinarsi dell'evento emorragico. Altra complicanza dell'isteroscopia ed, in particolare, della fase di dilatazione della cervice uterina, è rappresentata dalla formazione di ematomi tra la compagine dei legamenti viciniori all'utero, come il legamento largo. In questa occasione e soprattutto nei casi di donne in età più avanzata con utero senile e presumibile presenza di sinechie uterine, la lacerazione di uno o più vasi uterini comporta la fuoriuscita di sangue e la conseguente raccolta ematica tra le compagini dei legamenti limitrofi all'organo. Infine, di particolare importanza sono anche le complicanze urinarie tardive, tra cui le stenosi ureterali e le conseguenze ad esse connesse. Le stenosi ureterali rappresentano un ostacolo al deflusso dell'urina che può essere anche di natura funzionale (da trauma, edema, denervazione, ridotta irrorazione, ridotta peristalsi). Tale quadro clinico, se il danno è localizzato, tende a regredire, se invece il danno è più esteso, l'ostacolo può persistere ed esitare in stenosi, necrosi e fistole, per infezione e fibrosi. Le stenosi ureterali più tardive sono, in genere, determinate dalla compressione da parte di ematomi o linfoceli, eccessiva mobilizzazione dell'uretere o da fibrosi secondaria a processi infiammatori. Allo studio urografico, l'uretere appare abnormemente dilatato, con perdita della peristalsi ed idronefrosi". Alla luce di tali premesse e del quadro clinico dell'attrice, il ctu ha chiarito come, nel caso in esame, le complicanze comparse, sia precocemente che tardivamente, a seguito dell'intervento di isteroscopia erano "prevedibili ma non prevenibili" specie se si consideri che l'utero "come quello della Sig.ra Gu., sia caratterizzato dalla presenza di alterazioni flogistiche, dunque presumibilmente associate a processi aderenziali uterini". Difatti, ha chiarito il ctu, essendo l'isteroscopia una metodica d'indagine invasiva, presuppone già di per sé la mancanza di esclusione di rischi, seppure l'esecuzione della procedura avvenga in maniera corretta e perita. L'ausiliaro ha inoltre accertato che i sanitari che ebbero in cura Gu. hanno agito secondo le raccomandazioni previste dalle linee guida e dalle buone pratiche diagnostico-terapeutiche. Ha precisato che, a distanza di due ore dal termine dell'intervento di isteroscopia (13 novembre 2009, ore 12:30), la sintomatologia algica in fossa iliaca destra richiedeva la necessità di eseguire un'ecografia pelvica, che venne effettuata; poiché l'ecografia permetteva di riscontrare un piccolo versamento nel Douglas, i sanitari, sospettando un emoperitoneo, alle ore 13:00 dello stesso giorno, intervenivano chirurgicamente, dapprima mediante isteroscopia, che evidenziava la lacerazione della parete uterina di destra, e successivamente mediante laparoscopia e, per la necessità di allargare la visuale del campo operatorio, mediante laparotomia. Durante quest'ultimo atto operatorio, veniva suturata la breccia uterina, si procedeva alla legatura della arteria uterina destra, si eseguiva annessiectomia destra, si procedeva allo svuotamento dell'ematoma ed all'emostasi, nonché al drenaggio della cavità addominale. Alla luce di ciò il ctu ha concluso che i sanitari hanno tempestivamente agito al fine di impedire il procrastinarsi dell'evento emorragico, mettendo in atto un intervento "salvavita" non differibile. Ed ha aggiunto che il periodo di ricovero successivo è stato caratterizzato da un costante e permanente monitoraggio clinico e terapeutico da parte dei sanitari, che hanno disposto le dimissioni solo al momento delle obiettivate buone condizioni di salute della paziente. Sulla scora di tale accertamento deve dunque affermarsi che la condotta tenuta dai sanitari è stata rispettosa dei canoni di diligenza, prudenza e perizia richiesta nell'esecuzione degli interventi medici. Quanto alla mancanza di consenso informato - di cui si è pure lamentata l'attrice - va rilevato che il c.t.u., con riferimento all'intervento di isteroscopia, ha dato atto che "Gu. era stata correttamente informata dell'eventualità della comparsa delle complicanze ivi rappresentate, a tal punto da sottoscrivere il relativo consenso informato al trattamento". Quanto al secondo intervento operatorio, come detto, il ctu ha accertato il carattere della urgenza e indifferibilità ("la lacerazione dell'utero unitamente all'emorragia costituiscono una situazione di emergenza che comportano un rapido peggioramento dei parametri vitali sino al decesso e pertanto corretta risulta la scelta dei sanitari di intervenire con un intervento salvavita senza acquisire il consenso informato...Dalla disamina della descrizione dell'intervento chirurgico, appare chiaro che i Sanitari abbiano tempestivamente agito al fine di impedire il procrastinarsi dell'evento emorragico, mettendo in atto un intervento "salvavita" non differibile"). Va ora osservato che "In materia di responsabilità sanitaria, l'inadempimento dell'obbligo di acquisire il consenso informato del paziente assume diversa rilevanza causale a seconda che sia dedotta la violazione del diritto all'autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute posto che, se, nel primo caso, l'omessa o insufficiente informazione preventiva evidenzia "ex se" una relazione causale diretta con la compromissione dell'interesse all'autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del trattamento sanitario, nel secondo, invece, l'incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato pregiudizievole dell'atto terapeutico correttamente eseguito dipende dall'opzione che il paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato ed è configurabile soltanto in caso di presunto di assenso, con la conseguenza che l'allegazione dei fatti dimostrativi di tale scelta costituisce parte integrante dell'onere della prova - gravante sul danneggiato - del nesso eziologico tra inadempimento ed evento dannoso (Cass. 24471/2020). Essendo la seconda tipologia di danno (diversamente dalla seconda) ancorata alla correlazione sotto il profilo eziologico tra violazione degli obblighi informativi e scelta della vittima di sottoporsi all'intervento, deve accertarsi, alla stregua di un giudizio di tipo controfattuale, che in presenza di un consenso informato il paziente non si sarebbe sottoposto all'operazione; accertamento da compiersi facendo uso della regola probatoria del probabilità relativa o del "più probabile che non" e attraverso il ricorso a presunzioni ex art. 2729cc, così da risalire attraverso circostanze note alla volontà della vittima dell'illecito. Ebbene, nella specie, alla luce urgenza dell'intervento e della non indifferibilità è da ritenere che l'attrice, anche ove informata, avrebbe prestato il consenso, specie se si consideri che la stessa non ha allegato alcuna circostanza che faccia giungere a una diversa conclusione. Stando così le cose, la dedotta violazione del consenso informato è del tutto infondata. Alla luce di tali emergenze deve ritenersi che i danni riportati dall'attrice non siano affatto riconducibili a una condotta colposa da parte dei sanitari della struttura sanitaria convenuta, con conseguente reiezione della domanda attorea e statuizione secondo soccombenza delle spese di lite nel rapporto tra l'attrice e Casa di Cura Si.; le spese di lite sostenute dalla compagnia Ge. devono essere invece poste in capo alla Casa di Cura Si., tenuto conto che la domanda di manleva da questa formulata nei confronti di Ge. è inammissibile perché tardiva e che la convenuta è dunque soccombente nel rapporto con tale compagnia (cfr. Cassazione civile sez. VI, 21/11/2019, n. 30393); stessa regolamentazione seguono le spese sostenute dai terzi chiamati in causa da Ge., tenuto conto che tale chiamata in causa è stata giustificata dalla domanda di manleva rivolta alla compagnia e dunque provocata dalla condotta processuale della Casa di Cura Si.. Le spese di ctu vanno poste a carico dell'attrice. P.Q.M. Il Tribunale di Agrigento, definitivamente pronunciando, uditi i procuratori delle parti costituite, ogni altra domanda ed eccezione disattesa così provvede: a) rigetta la domanda attorea; b) condanna l'attrice a rimborsare a Casa di Cura Si. le spese di lite, che si liquidano in Euro 5.635,00, oltre accessori di legge; c) condanna Casa di Cura Si. a rimborsare le spese sostenute da Ge. S.p.A. Ca.Al. e Ca.Da. che si liquidano, per ciascuno, in Euro 5.635,00. d) pone definitivamente a carico dell'attrice le spese di C.T.U., liquidate con sperato decreto. Così deciso in Agrigento il 9 marzo 2021. Depositata in Cancelleria il 9 marzo 2021.

  • TRIBUNALE DI AGRIGENTO SEZIONE CIVILE - SETTORE LAVORO VERBALE DI UDIENZA Il giorno 2 febbraio 2021, innanzi al Giudice del lavoro dott. Alfonso Pinto, viene chiamata la causa R.G. n. 245 dell'anno 2018 promossa da TU. (TR.) S.r.l. CONTRO GI.TR. Si dà atto che sono presenti l'avv. Co.Pa., in sostituzione dell'avv. SC.RO. Nonché l'avv. RA.AL., oltre al resistente I procuratori discutono oralmente la causa, riportandosi a tutti gli scritti. L'avv. Ra., in particolare, deduce l'applicabilità delle disposizioni di cui al r.d. 148 del 1931 giusta quanto previsto dalla legge 1054 del 1960, artt. 1 e 4 e insiste, ove occorra, nelle istanze istruttorie; L'avv. Pa. chiede di produrre copia di cortesia di richiesta di rinvio a giudizio del 25 gennaio 2021 nonché di verbali di udienze istruttorie presso la Corte di Appello di Palermo del 24 novembre 2020 e 12 gennaio 2021. Rappresenta di averli già depositati telematicamente; insiste ove occorra nell'ammissione dei mezzi istruttori; L'avv. Ra. si oppone alla produzione, evidenziando che., con riguardo ai verbali, si tratta di cause riguardanti altri lavoratori e che in ogni caso dimostrano il contrario di quello che sostiene la TUA, in quanto il lavoratore non era al di fuori della sosta consentita. Il giudice Stante la sopravvenienza dei documenti rispetto alla data dell'ultima udienza., ammette la produzione e si ritira in camera di consiglio per la decisione All'esito, alle ore 11,32, dando atto che nessuna delle parti è presente, dà lettura della sentenza con contestuale motivazione REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano TRIBUNALE DI AGRIGENTO Il giudice del Tribunale di Agrigento dott. Al.Pi., in funzione di Giudice del Lavoro, all'udienza del 2 febbraio 2021, all'esito della discussione delle parti, ha pronunciato e pubblicato, dando lettura del dispositivo e della contestuale motivazione, la seguente SENTENZA nelle cause iscritte al n. R.G.N.R. 245/2018 e al n. R.G.N.R. 2873/2018 promosse da TU. (Tr.) s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, P.I. (...), rappresentata e difesa dagli avv.ti Ca.Bo., Va.Sc. e Ro.Sc., giusta procura in atti, - ricorrente - contro Tr.Gi., rappresentato e difeso dall'avv. Alessandro Ra., giusta procura in atti, resistente e ricorrente in via riconvenzionale-Oggetto: impugnativa di licenziamento MOTIVI DELLA DECISIONE In fatto e in diritto Con ricorso ex art. 1, comma 48, della legge 92/2012 depositato il 22 gennaio 2018, l'odierna ricorrente chiedeva dichiararsi legittimo il licenziamento per giusta causa intimato a Tr.Gi. in data 17.11.2017; in subordine, chiede dichiararsi legittimo il predetto licenziamento in quanto irrogato per giustificato motivo soggettivo. Con condanna alle spese. Con ricorso ex art. 1, comma 51, della legge 92/2012 depositato il 24 agosto 2018, l'odierna ricorrente proponeva opposizione all'ordinanza con cui, in data 26 luglio 2018, il giudice del lavoro di questo Tribunale aveva annullato il licenziamento comminato al Tr. ed aveva condannato la società resistente a reintegrare quest'ultimo nel suo posto di lavoro, nonché a corrispondere in favore dello stesso l'indennità risarcitoria spettantegli. Si costituiva in giudizio Tr.Gi., chiedendo il rigetto dei ricorsi in quanto infondati in fatto e in diritto; in via riconvenzionale, chiedeva dichiararsi nullo il licenziamento impugnato per violazione dell'art. 53 R.D. n. 148/1931; chiedeva, quindi, condannarsi il datore di lavoro alla sua reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento, in suo favore, di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione in misura non inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria; chiedeva, altresì, accertarsi l'insussistenza degli estremi della giusta causa addotti dal datore di lavoro per insussistenza del fatto contestato o dichiararsi, in ogni caso, che la condotta rientrava tra quelle punibili con sanzione conservativa e, conseguentemente, disporsi l'annullamento del predetto licenziamento e condannarsi il datore di lavoro alla sua reintegrazione in servizio e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria; in subordine, chiedeva condannarsi il datore di lavoro al pagamento, in suo favore, di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva da determinare nella misura di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto ovvero nella diversa misura ritenuta di giustizia. Con condanna alle spese. Disposta la riunione dei procedimenti, stante la sussistenza di ragioni di connessione soggettiva e oggettiva, superflua ritenuta l'istruttoria orale sollecitata dalle parti, all'odierna udienza, in esito alla discussione delle parti, la causa veniva decisa. I ricorsi sono infondati e non risultano meritevoli di accoglimento. La lettera di licenziamento del 17 novembre 2017 faceva rinvio, quanto alla motivazione del recesso, ad una precedente lettera, datata 25 ottobre 2017 (prot. n. 222/17/DG), con cui la società aveva contestato al lavoratore di avere sostato in data 19.07.2017, alle ore 15,00, per circa trenta minuti, privo di passeggeri e all'ombra di un albero, in via (...), parlando al telefono cellulare e, al termine della sosta, di essersi rimesso in marcia continuando a tenere il telefono cellulare appoggiato all'orecchio, procedendo lentamente così da rallentare la circolazione e producendo ulteriori ritardi. Ciò detto, va ricordato che l'art. 2119 c.c. qualifica la "giusta causa" come causa "che non consente la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro". Segnatamente, la giusta causa di licenziamento ricorre quando il lavoratore commette fatti di una tale gravità da configurare una grave ed irrimediabile negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, di quello fiduciario; in ogni caso, la gravità delle ragioni poste a fondamento del licenziamento per giusta causa legittima l'interruzione immediata del rapporto di lavoro, non gravando sul datore di lavoro l'onere di concedere al lavoratore un termine di preavviso. Sul punto, va altresì rilevato che per giurisprudenza pacifica (ex multis, Cassazione n. 6869/2015), "per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità dell'elemento intenzionale; dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare". Nella specie, l'arrivo ad una fermata con trenta minuti di ritardo e l'avere parlato al cellulare durante la guida per un breve periodo non sono idonei, neppure cumulativamente considerati, a giustificare un provvedimento espulsivo. Ed invero i fatti contestati non rientrano in alcuna delle condotte indicate dall'art. 66 invocato dall'odierna ricorrente nella lettera di licenziamento (a norma del quale "sono passivi di licenziamento senza preavviso i lavoratori colpevoli di: a) minacce o ingiurie gravi verso i superiori o altre mancanze congeneri; b) appropriazione, furti, danneggiamenti o guasti volontari al materiale o oggetti dell'azienda ad essi affidati, riscossione di somme indebite a carico del pubblico, alterazione o falsificazione o soppressione di biglietti di viaggio o di altri documenti di trasporto (anche se allo stato di tentativo o sia avvenuta la restituzione o il risarcimento), complicità anche non necessaria nelle suddette mancanze; c) aver provocato risse sul lavoro o in servizio; d) mancanze da cui siano derivate gravi irregolarità nel servizio o gravi danni alle persone o alle cose; e) sia già stato punito due volte con la sospensione a norma del presente comma e incorra entro due anni nuovamente in una delle mancanze punite con la sospensione; f) ubriachezza in servizio; g) non aver osservato le norme sulla viabilità con la conseguenza che ne siano sorti incidenti e danni rilevanti per l'azienda; h) assenza senza giustificato motivo per oltre tre giorni consecutivi; i) omissione di immediato rapporto alla direzione dell'azienda di incidenti di qualsiasi natura che si siano verificati sulla linea e dei quali sia venuto a conoscenza; l) mancanza in genere di gravità consimili"), atteso che la società ricorrente, sulla quale, come detto, gravava il relativo onere probatorio, non ha dimostrato in giudizio - né ha chiesto di farlo - le condotte che, alla stregua delle lett. b) e l), sarebbero state poste in essere dal dipendente. La società ricorrente non ha chiesto di dimostrare in giudizio il grave pregiudizio che avrebbe eventualmente subito da tale condotta, la quale è rimasta comunque sprovvista di qualsivoglia riscontro probatorio. Mette, peraltro, conto osservare che la disposizione contrattuale richiamata nella lettera accomuna le "gravi irregolarità nel servizio" alle fattispecie in cui il lavoratore abbia causato "gravi danni alle persone o alle cose": da ciò si evince che l'irregolarità nel servizio, che giustifica il licenziamento, deve essere particolarmente grave, produttiva perciò di conseguenze dannose al servizio complessivamente considerato, ciò che - per l'episodicità del fatto - non può certo essere sostenuto. Invero i fatti attribuiti al lavoratore appaiono piuttosto riconducibili alle condotte punibili con sanzioni conservative tanto alla luce delle norme del CCNL di categoria (infatti, se l'art. 66, n. 2, lett. g) del contratto collettivo sanziona con la multa colui che "in genere trasgredisca in misura non grave alle disposizioni del presente contratto di lavoro o dei regolamenti di servizio", l'art. 66, n. 3, lett. c) sanziona con la sospensione dal servizio fino a quattro giorni chi "commetta mancanze da cui siano derivate irregolarità nel servizio o possano derivarne danni rilevanti alla sicurezza del servizio") quanto alla stregua delle norme disciplinari di cui al Regolamento sullo stato giuridico del personale autoferrotranviere di cui al già citato allegato A del R.D. n. 148/1931. In particolare, l'art. 41 n. 2) del Regolamento punisce con la sanzione della multa le "irregolarità di servizio, abusi e negligenze, quando non abbiano carattere di gravità o non dipendano da proposito deliberato", mentre l'art. 42 al n. 9) e 10), commina la medesima sanzione conservativa della sospensione, rispettivamente, "per irregolarità nei viaggi o trasporti in genere, quando non rivestono carattere di frode" e "per volontario inadempimento dei doveri di ufficio o per negligenza, la quale abbia apportato danni al servizio o agli interessi dell'azienda". Va adesso rilevato che non rilevano nella fattispecie in esame i fatti che hanno dato luogo al procedimento penale n. 2844/2018 per i quali all'odierna udienza, la difesa della ricorrente ha depositato richiesta di rinvio a giudizio per truffa per il resistente ed altri lavoratori. In dispare il rilievo - che pure è decisivo - per cui non può certo dirsi che i fatti siano accertati giudizialmente, per lo stato embrionale in cui versano, in ogni caso si rileva che il procedimento penale riguarda anche ulteriori condotte - nella specie di concorso nel delitto di truffa aggravata - non contestate al lavoratore nel licenziamento di che trattasi. Per altre ragioni priva di rilevanza è l'istruttoria espletata, in grado di appello, per il licenziamento comminato ad altro dipendente, non essendo nota la contestazione disciplinare mossa a quest'ultimo e non essendo comunque possibile dalla stessa ricavare la storicità dei fatti contestati in questa sede al TR.. Alla luce di tali considerazioni, stante la riconducibilità delle condotte poste in essere nell'alveo di quelle punibili con una sanzione conservativa, va quindi dichiarata l'illegittimità del licenziamento intimato al TR., con conseguente applicazione dell'art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970 a norma del quale se si accerta "che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili" il licenziamento deve essere annullato con condanna del datore di lavoro a reintegrare il lavoratore nonché a risarcirgli il danno versandogli un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, comunque non superiore a dodici mensilità, nonché al versamento, per il medesimo periodo, dei contributi previdenziali e assistenziali, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione. L'accertamento, compiuto in questa sede giudiziaria, dell'illegittimità del licenziamento ai sensi dell'art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970 è profilo assorbente rispetto alla ulteriore questione della illegittimità procedurale del licenziamento impugnato per la asserita inosservanza dell'art. 53 R.D. n. 148/1931, sulla quale non occorre quindi pronunciarsi nel merito. Per le suesposte ragioni, i ricorsi vanno, quindi, rigettati. Il peso delle spese segue la soccombenza. P.Q.M. Il Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe indicata, rigetta il ricorso e, a conferma dell'ordinanza del 26 luglio 2018, annulla il licenziamento intimato a Tr.Gi. e condanna la TU. S.r.l. alla reintegrazione di quest'ultimo nel suo posto di lavoro, nonché alla corresponsione, in favore dello stesso, di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, comunque non superiore a dodici mensilità, nonché al versamento, per il medesimo periodo, dei contributi previdenziali e assistenziali, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione; condanna altresì la TU. S.r.l. al pagamento, in favore di Tr.Gi., delle spese processuali che si liquidano in complessivi 2.500,00 Euro per compensi, oltre IVA, CPA e spese forfettarie al 15% come per legge. Così deciso in Agrigento il 2 febbraio 2021. Depositata in Cancelleria il 2 febbraio 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Agrigento, Sezione Civile, nella persona del Giudice Vincenza Bennici, ha pronunciato la presente SENTENZA nel procedimento di primo grado iscritto al n. 874/2017 degli affari civili contenziosi TRA Su. S.r.l. IN LIQUIDAZIONE, in persona del legale rappresentante pro tempore, C.F.: (...), Ip.Sa., nato (...), Ip.Lu. nato (...), Ca.Ga., nata (...), Fa.Ca. nata a Canicattì il 01/08/1957 (Avv. Gi.Sc.) opponenti - attori in riconvenzionale E BA.MO. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, C.F. (...) (Avv. Ba.Ni.) opposta Oggetto: opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 62/2017 Conclusioni: cfr. note depositate dalle parti il 26-27 ottobre 2020 RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con atto di citazione ritualmente notificato, gli opponenti in epigrafe indicati interponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 62/2017 con il quale questo Tribunale aveva ad essi ingiunto - a Suprema in Liquidazione S.r.l. quale debitore principale e agli altri opponenti quali garanti - il pagamento di Euro 126.442,59 quale saldo debitorio del c/c n. (...) Deducevano, a sostegno dell'opposizione, l'applicazione di interessi superanti il tasso soglia, la nullità della clausola relativa alla capitalizzazione trimestrale, l'applicazione di commissioni e spese non pattuite e l'applicazione di valute illegittime. In considerazione dell'insussistenza, per le ragioni sopra esposte, del credito fatto valere in sede monitoria, hanno chiesto la revoca del DI.; Suprema S.r.l. in Liquidazione chiedeva inoltre, in via riconvenzionale, in relazione al rapporto di conto corrente n.11094.14 intrattenuto con la banca opposta, di accertare che il saldo finale di tale conto era a credito per il correntista per la somma di Euro 46.995,63 e, per l'effetto, chiedeva di compensare detto credito con l'eventuale debito risultante in relazione al conto n. 631020.21 a seguito del ricalcolo effettuato alla luce delle dedotte nullità. Radicatasi la lite, si è costituita Banca MP. S.p.A. contestando integralmente il contenuto dell'atto di citazione e chiedendo l'integrale rigetto dell'opposizione e, per l'effetto, la conferma del DI opposto; con riguardo alla domanda riconvenzionale eccepiva la prescrizione del diritto azionato. Una volta espletata la ctu contabile, con ordinanza del 3.11.2020 la causa è stata posta in decisione. Così riassunto l'oggetto del giudizio, deve passarsi innanzitutto all'esame delle pretese monitorie avanzate da Banca MP. S.p.A. nei confronti della debitrice Suprema in Liquidazione e dei garanti della stessa in relazione agli importi di cui al c/c 631020.21. Va innanzitutto osservato che il ctu, dott. Lu.Ca., ha accertato, con riferimento al predetto conto, che il TAEG è pari al 22,829% ed è quindi oltre la soglia usura del periodo considerato pari al 14,595%. Ha inoltre accertato che, anche ove si escludesse dal calcolo la c.m.s., il taeg sarebbe pari a 14,86%, dunque anche in questo caso superiore al tasso soglia. L'ausiliario ha quindi rettamente espunto dal calcolo il tasso di interesse e ogni forma di remumerazione. Ciò rende dunque superfluo l'esame delle altre contestazioni spiegate dagli opponenti in relazione a tale conto. Va chiarito che la doglianza secondo cui il ctu non avrebbe dovuto verificare il superamento del tasso soglia in assenza della produzione da parte degli opponenti dei decreti ministeriali è infondata. Pur non ignorando che una parte della giurisprudenza qualifica tali provvedimenti come atti amministrativi, con la conseguenza che gli stessi dovrebbero essere prodotti da chi assume la violazione della normativa antiusura, si ritiene maggiormente condivisibile un contrapposto orientamento che riconosce natura normativa a tali provvedimenti (tra tutte, Tribunale Rimini, 03/03/2016, (ud. 03/03/2016, dep. 03/03/2016), n. 309) in quanto la legge compie un esplicito e necessario richiamo al fine di integrare i precetti, civili e penali, in tema di usura. D'altra parte risulterebbe alquanto singolare che il giudice civile, deputato alla verifica del rispetto dei precetti di ordine pubblico in materia usuraria, laddove dai documenti contrattuali emergano elementi in tale ambito rilevanti, non possa procedere alla propria verifica officiosa, poiché "monco' della conoscenza della soglia usuraria per la determinazione della quale la legge rinvia ad una fonte integrativa secondaria di tipo tecnico. Dunque, non è tanto alla veste giuridica del decreto ministeriale che deve aversi riguardo per decidere circa la conoscibilità dei D.M. ma alla natura normativa o amministrativa degli stessi. Siccome la natura di norme (previsioni che disciplinano in astratto determinati tipi di rapporti giuridici mediante precetti aventi i caratteri della generalità e dell'astrattezza, e, dunque riferibili ad un numero indeterminato di persone) di tali D.M. é evidente (risultando del, pari evidente che per mezzo di tali D.M. il Ministero non "amministra" alcunché), non può che applicarsi il principio iura novit curia. Per un analogo, esemplare e conforme precedente in materia bancaria v. Cass. n. 14470/2005 secondo la quale "L'art. 3 comma terzo, della legge n. 154 del 1992, (recante norme per la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari) nella parte in cui stabilisce con previsione successivamente confermata dall'art. 117 t.u.I.b. - che la Banca d'Italia, su conforme delibera del CICR (ovvero, su conforme decreto del Ministro del tesoro emanato in via d'urgenza, ex art. 6 del d.lg CPS n. 691 del 1947), può dettare modalità particolari, anche concernenti: la forma, dei contratti bancari relativi a determinate categorie di operazioni o servizi, attribuisce a dette istituzioni il potere di emanare disposizioni che integrano la legge e, nei limiti dalla stessa consentiti, possono derogarvi e che, per perciò costituiscono norme di rango secondario, con la conseguenza che per esse opera il principio iura novit curia che eleva a dovere del giudice la ricerca del diritto (Fattispecie: concernente le disposizioni contenute nel decreto del Ministero del Tesoro del 24 aprite 1992 e nella circolare delta Banca d'Italia del 24 maggio 1992, recanti disposizioni emanate in forza dell'art. 3 Cit.). Ciò debitamente premesso, va ora osservato che il ctu ha accertato che, a fronte di un saldo debitorio del conto n. 631020.21 risultante dagli estratti conto pari a Euro 158.373,68, il saldo ricalcolato è pari ad Euro 4.729,41, a debito per il correntista. Si deve precisare che, con riferimento al conto in esame, non è stato affidato al ctu il compito di espungere le rimesse solutorie prescritte in quanto l'eccezione di prescrizione è stata formulata dalla banca solo con riguardo al rapporto oggetto della domanda riconvenzionale; mentre sarebbe stato onere della banca, a seguito delle eccezioni formulata dagli opponenti con l'atto di opposizione, eccepire a sua volta - ma ciò non è avvenuto neppure in modo generico - il carattere solutorio di alcune rimesse. E bene inoltre chiarire, in ordine all'eccezione della banca secondo cui i fideiussori, avendo stipulato un contratto autonomo di garanzia, non avrebbero la facoltà di sollevare le stesse eccezioni del debitore principale, quanto segue. In tema di contratto autonomo di garanzia, l'assunzione da parte del garante dell'impegno di effettuare il pagamento a semplice richiesta del beneficiario della garanzia comporta la rinunzia ad opporre le eccezioni inerenti al rapporto principale, ivi comprese quelle relative all'invalidità del contratto da cui tale rapporto deriva, con il duplice limite. Una prima eccezione è costituita dall'escussione fraudolenta o abusiva, a fronte della quale il garante può e deve opporre la exceptio doli (Cass. n. 5997 del 2007; n. 6757 del 2001; n. 10864 del 1999). Una seconda deroga è costituita dal caso in cui l'eccezione sia fondata sulla nullità del contratto principale per contrarietà a norme imperative o per illiceità della causa. In quest'ultima ipotesi in cui, attraverso il secondo contratto si tende ad assicurare il risultato che l'ordinamento vieta, l'invalidità del contratto "presupposto" si comunica infatti al contratto di garanzia, rendendo la sua causa illecita (Cass. n. 5997 del 2006; n. 3326 del 2002, Cassazione civile sez. I, 14/12/2007, n. 26262). Ebbene, è appunto questa l'ipotesi espressamente prospettata dagli opponenti, in quanto essi hanno dedotto la sussistenza di tassi usurari. Questa deduzione va valutata alla luce delle seguenti norme: l'art. 644 c.p., che prevede quale reato il caso in cui una parte, si faccia dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sè o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari, disponendo che la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari; il D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, convertito nella L. n. 24 del 2001, il quale stabilisce che, "ai fini dell'applicazione dell'art. 644 cod. pen., e dell'art. 1815 c.c., comma 2, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento"; la L. n. 108 del 1996, art. 2, che dispone che il limite oltre il quale gli interessi sono considerati usurari è stabilito con D.M.; l'art. 1815 c.c., comma 2, il quale dispone che "se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi". Nel quadro di queste norme, risulta dunque palese che, avendo gli opponenti evocato la nullità della clausola concernente la disciplina degli interessi per contrarietà con una norma penale, ai sensi dell'art. 1418 c.c., è astrattamente sussistente la seconda delle due eccezioni sopra indicate. Deve adesso passarsi all'esame della domanda riconvenzionale spiegata da Suprema, in relazione al rapporto n. 11094.14, estinto il 7.9.2016. Va innanzitutto osservato che non è applicabile al caso in esame il principio secondo cui l'attore che agisca con l'azione di ripetizione o accertamento negativo ha l'onere di produrre il contratto; ciò in quanto l'opponente, con riferimento al suddetto conto, ha dedotto che nessun contratto è stato sottoscritto dalla parti; di talché nessun onere poteva esigersi in capo all'opponente (si veda Tribunale, Napoli, sez. II, 22/07/2020, n. 5222, secondo cui "Nell'azione di accertamento negativo e ripetizione di indebito, solitamente affiancata da una azione di accertamento della illegittimità degli oneri addebitati per mancanza o nullità delle varie pattuizioni, il correntista può certamente limitarsi ad allegare la inesistenza o nullità del contratto di conto corrente senza ovviamente aver alcun onere di produrre il contratto medesimo - che peraltro assume, in alcuni casi, essere inesistente. In tale caso sarà la banca ad avere l'onere - anche se non abbia proposto domanda riconvenzionale - di produrre il contratto per dimostrare la fonte negoziale del proprio diritto di credito che viene posto in discussione"). Ebbene, Suprema ha chiesto, con riferimento a tale conto di applicare il tasso legale per il periodo anteriore al luglio 1992 e il tasso sostitutivo ex art. 117 Tub per il periodo successivo. Sulla scorta di tali criteri e tenuto conto del termine decennale di prescrizione (essendo stata tale eccezione sollevata riguardo al conto in esame) il ctu ha accertato che a fronte del saldo negativo pari a Euro 105.419,04 figurante negli estratti conto, il saldo è di Euro 35.198,94 a credito per il correntista. Avuto riguardo alle contestazioni mosse dalla banca è bene osservare che, vertendosi in materia di accertamento negativo, rettamente il ctu ha espletato l'indagine partendo dal saldo figurante nel primo estratto conto agli atti (1 gennaio 1992) - e non considerando gli addebiti relativi al periodo precedente - sino al 30 giugno 2016. Ne consegue, effettuando una compensazione tra i crediti nascenti dai due rapporti, che Suprema vanta un credito verso la banca opposta pari a Euro 30.469,53. Da ciò consegue, in primo luogo, la revoca del decreto ingiuntivo opposto; consegue inoltre la condanna della banca a corrispondere a Suprema S.r.l. in Liquidazione la somma di Euro 30.469,53, oltre interessi dalla domanda al soddisfo. Le spese di lite seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo e quelle di ctu vanno poste definitivamente a carico della banca opposta P.Q.M. Il Tribunale di Agrigento, Sezione Civile, definitivamente pronunciando, così provvede: revoca il DI opposto; condanna l'opposta a pagare a Suprema S.r.l. in Liquidazione la somma di Euro 30.469,53 oltre interessi dalla domanda al soddisfo; condanna l'opposta a pagare agli opponenti le spese di lite, che si liquidano in Euro 7.206,00 di cui 6.800,00 per compenso di avvocato e Euro 406,00 per spese; pone le spese di ctu, liquidate con separato decreto, a carico della b anca opposta. Così deciso in Agrigento l'1 febbraio 2021. Depositata in Cancelleria l'1 febbraio 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AGRIGENTO Il Giudice dott. Gerlando Lo Presti Seminerio ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 1680/2019 R.G.A.C. PROMOSSA DA (...) NATO A P. IL (...) rapp. e dif. dall'Avv. Ri.Pi. ATTORE CONTRO (...) S.P.A. IN PERSONA DELL'INSTITORE PRO TEMPORE AVV. (...) rapp. e dif. dall'Avv. Gi.Tr. CONVENUTA OGGETTO: condannatorio SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione del 08/05/2019 (...) conveniva dinanzi a questo Tribunale la (...) s.p.a. deducendo che in data 28/12/2017 viaggiava sul treno della convenuta sulla tratta Palermo - Cammarata. Proseguiva affermando che il treno giunto nei pressi della stazione di Cammarata subiva un brusco sobbalzo che causava la caduta di esso attore provocandogli gravi lesioni personali. Chiedeva, pertanto, la condanna della convenuta al risarcimento dei danni subiti. La (...) s.p.a. costituendosi in giudizio eccepiva nel rito la prescrizione del diritto attoreo al risarcimento e nel merito deduceva l'infondatezza delle avverse domande e ne chiedeva il rigetto. Istruita la causa soltanto con produzioni documentali, all'udienza del 28/10/2020, sulle conclusioni rassegnate dalle parti, la causa veniva posta in decisione previa assegnazione dei termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica. MOTIVI DELLA DECISIONE Le domande attoree meritano accoglimento. Occorre in primo luogo a commento dell'eccezione nel rito sollevata dalla convenuta ricordare come a mente dell'art. 2951 c.c. i diritti derivanti dal contratto di spedizione e di trasporto si prescrivono in un anno dal giorno del sinistro. Nel caso che ci occupa l'incidente occorso all'attore s'è verificato in data 28/12/2017 e la diffida da quest'ultimo inviata alla convenuta valida quale atto interruttivo della prescrizione è stata inoltrata il 16/02/2018 e ricevuta dalla convenuta il 22/02/2018 e quindi entro il limite del connotarsi dell'invocata fattispecie estintiva. Nel merito è all'esito dell'attività istruttoria documentalmente espletata emerso che (...) il 28/12/2017 stava viaggiando a bordo del Treno di (...) s.p.a. quando in prossimità della stazione di Cammarata è caduto dal piano sollevato della cabina al piano di uscita in conseguenza dell'anomalo movimento del Treno (circostanze tutte non contestate). E' pacifico in dottrina e giurisprudenza che la causa civilistica del contratto di trasporto va individuata, giusta l'art. 1678 c.c., nel trasferimento, verso corrispettivo, di persone o cose da un luogo all'altro. Piace ricordare in aggiunta, come sia unanimemente ammesso che il contratto de quo rientri tra quelli consensuali ed a prestazioni corrispettive. Ancora, esso è comunemente annoverato tra i contratti cd. di risultato non già tra quelli di mezzi, essendo pattuito dalle parti con riguardo all'esito conclusivo, che è, effettivamente, quello del trasferimento di cose o persone da uno ad altro luogo. Per ciò che concerne i profili di responsabilità civile connessa al trasporto, utili al tema trattato sono altresì le disposizioni, generali, di cui agli artt. 1681, comma 1, c.c., e quelle, speciali, di cui agli artt. 396 e ss. c. nav. Dispone l'art. 1681 c.c. "Salva la responsabilità per il ritardo e per l'inadempimento nell'esecuzione del trasporto, il vettore risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno". La migliore dottrina ravvisa nella norma de qua un'ipotesi di responsabilità contrattuale cumulabile per espresso disposto normativo con quella per ritardo ed inadempimento nell'esecuzione del trasporto. Dottrina e giurisprudenza hanno, poi, concordemente individuato nel sistema normativo del contratto di trasporto di persone un obbligo di vigilanza e protezione dell'incolumità del passeggero in capo al vettore: "Obbligazione di carattere essenziale, intrinsecamente ed indissolubilmente connessa all'obbligo fondamentale di trasportare è quella di trasferire incolume a destinazione l'oggetto trasportato: nel trasporto di persone essa si caratterizza come obbligo di vigilanza e di protezione dell'incolumità del passeggero". In aggiunta, prosegue il citato unanime orientamento, a mente dell'art. 1681 c.c. il vettore sarebbe responsabile di tutti gli eventi dannosi riferibili non solo all'attività di trasporto in quanto tale, ma altresì alla complessiva attività organizzativo funzionale allo stesso, e perciò riferibile, di volta in volta, alla azione ed omissione di lui e dei suoi ausiliari, che pertanto assumono rilievo civilistico. In sostanza, la normativa sul trasporto costituisce il vettore quale garante dell'incolumità del trasportato. Dall'istruttoria espletata è scaturita con estrema chiarezza la fondatezza dell'assunto attoreo con particolare riferimento alla dedotta responsabilità della (...) s.p.a. convenuta nella causazione dei danni occorsi a (...). Giova ancora rimarcare che, in base all'art. 1 L. n. 754 del 1977 che sul punto ha modificato la diversa disciplina in precedenza dettata dal R.D. 11 ottobre 1934, n. 1948 conv. nella L. n. 911 del 1935 in base alla quale il viaggiatore doveva provare l'anormalità del servizio, la responsabilità dell'amministrazione ferroviaria per il danno alla persona del viaggiatore viene meno soltanto ove la stessa amministrazione fornisca la prova che l'incidente è avvenuto per causa ad essa non imputabile. Pertanto, incombe al viaggiatore unicamente la prova del nesso eziologico tra il servizio ferroviario ed il danno subito, dal quale fatto discende una presunzione di colpa a carico dell'amministrazione ferroviaria, superabile come detto dall'ascrivibilità del fatto a caso fortuito o forza maggiore, ovvero alla colpa esclusiva del danneggiato o di un terzo. Venendo ora alla fattispecie in esame, occorre rilevare come la dinamica fattuale del sinistro come ricostruita dall'indagine documentalmente espletata non permette di escludere la responsabilità della società ferroviaria per due ordini di motivi. In primo luogo la (...) s.p.a. non ha in alcun modo provato che il sinistro in esame si è verificato per l'esclusiva colpa di (...). Quanto alla sussistenza del nesso causale tra l'incidente ferroviario ed il danno subito dall'attore vanno richiamate perché condivise dal Tribunale in quanto frutto di corretto metodo di indagine e di puntuale adempimento dell'incarico conferito le conclusioni raggiunte dalla CTP medico-legale le cui resultanze non appaiono oggetto di contestazione da parte della convenuta. Il dott. (...) riferisce sul punto che la lesività patita dall'attore ben si accorda con le modalità traumatiche dichiarate e che da esse traggono unicamente la loro eziologia. Dalle considerazioni sin qui esposte discende, in definitiva, l'accertamento della responsabilità della (...) s.p.a. per i danni subiti dall'attore in seguito ai fatti verificatisi in data 28/12/2017 nei pressi della stazione di Cammarata. L'attore ha richiesto il risarcimento di tutti i danni subiti a seguito del sinistro, danni che vengono riconosciuti nei termini che seguono. Quanto al danno biologico definito dagli artt. 138 e 139 del D.Lgs. n. 209 del 2005 quale "lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente dalle eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito", questo Giudice aderisce al più recente arresto della Suprema Corte, a termini del quale l'area del danno risarcibile va anzitutto ricondotta nell'ambito delle due sole categorie del danno patrimoniale (artt. 2043-1218 c.c.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), ambito, quest'ultimo, nel quale deve ora ritenersi collocato il danno biologico. Invero, deve ritenersi superata alla luce di una lettura dell'art. 2059 c.c. in chiave costituzionalmente orientata la tesi (cfr. Corte Cost., 14 luglio 1986, n. 184) che ammetteva il risarcimento del danno biologico sulla base del collegamento tra l'art. 2043 c.c. (nel quale si faceva rientrare tale voce di danno) e l'art. 32 Cost. Operazione ermeneutica, quest'ultima, che veniva effettuata al fine di sfuggire alla altrimenti non risarcibilità del danno non patrimoniale, in una lettura riduttiva dell'art. 2059 c.c., ancorata unicamente alla sussistenza di specifiche previsioni legislative che ne ammettevano la risarcibilità (art. 185 c.p.; L. n. 117 del 1987, ecc.). Viceversa, all'esito di un condiviso iter logico-argomentativo, le SS.UU. hanno affermato il principio secondo il quale "il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l'ingiustizia del danno di cui all'art. 2043 c.c. la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante, mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perché tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona". Il danno non patrimoniale, alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., costituisce difatti una categoria ampia, comprensiva non solo del cosiddetto danno morale, ovverossia della sofferenza contingente e del turbamento d'animo transeunte, determinati da un fatto illecito integrante un reato, ma anche di ogni ipotesi in cui si verifichi un'ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, alla quale consegua un pregiudizio non suscettibile di valutazione economica, senza soggezione al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p. Ebbene, va rilevato come dalla CTP sia emerso con motivazione immune da vizi logici e sulla scorta di condivisibili argomentazioni un danno biologico permanente comprensivo del danno alla capacità lavorativa pari a 9 punti percentuali, nonché una invalidità temporanea totale pari a 35 giorni e una invalidità temporanea parziale di 20 giorni al tasso del 50%. Per la liquidazione del danno le voci da considerare vanno distinte secondo la natura dell'interesse leso (danno biologico danno patrimoniale e danno morale). Riguardo al risarcimento del danno spettante all'infortunato per la menomazione dell'integrità personale patita devesi rammentare che all'esito di un percorso storico-concettuale ben noto il principio dell'autonoma risarcibilità del danno alla salute o come altri preferisce definire danno biologico ha trovato indiscusso riconoscimento in giurisprudenza. Nell'interpretazione di una parte sempre crescente di giudici di merito deve a tal proposito distinguersi nell'ambito del cosiddetto danno alla salute un aspetto statico corrispondente alla lesione dell'integrità psico-fisica in sé considerata ed un aspetto dinamico consistente nel peggioramento della qualità della vita da tale lesione scaturito. Sicché nel valutare il danno alla salute il giudizio equitativo del giudice dovrà ponderare il grado di menomazione del soggetto danneggiato in tutte le funzioni che egli esplica nel suo ambiente di vita aventi rilevanza sociale culturale ed estetica. Una valutazione di tal specie appare quindi poco compatibile con il criterio tabellare applicato al triplo della pensione sociale che parte della giurisprudenza è favorevole ad adottare sulla base dell'art. 4 terzo comma L. n. 39 del 1977 nella liquidazione del danno biologico. Appare invece più conforme adottare come parametro nella valutazione equitativa del danno alla salute il cosiddetto "criterio equitativo differenziato del valore di punto" che individuato da taluni giudici di merito sulla scorta di un ampio studio statistico in materia di liquidazione di danni da piccola invalidità permanente (tradizionalmente liquidati senza alcun riferimento al reddito) è stato rapidamente recepito da ampi settori della giurisprudenza. Tale indagine statistica ha permesso di quantificare con riguardo ad una casistica giurisprudenziale un valore monetario medio per punto d'invalidità che cresce d'importo con l'aggravarsi della lesione e che diminuisce all'aumentare dell'età del danneggiato per il grado percentuale d'invalidità. Avuto riguardo al tipo di lesioni ed all'età dell'infortunato e considerato che in epoca moderna il progressivo infittirsi della rete di relazioni sociali nonché il tendente costante moltiplicarsi delle occasioni di relazione offerte a ciascun individuo in ambito sociale si riflettono in un'accresciuta gravità dell'impatto che la menomazione psico-fisica ha sulla potenzialità della persona tale valore può essere oggi fissato nella misura equa di Euro 1.500,00 suscettibile di un aumento massimo predeterminato del 50% salvo casi particolari in modo d'adeguare la valutazione alla peculiarità della concreta fattispecie. I vantaggi offerti da un simile criterio sono evidenti: esso consente di pervenire ad una liquidazione equitativa del danno alla salute mediante parametri in certo qual modo obbiettivi e permette di commisurare con notevole duttilità l'ammontare del risarcimento alla gravità del danno attraverso l'attribuzione di una somma base in rapporto al titolo ed alla serietà della menomazione psicofisica. La somma pertanto spettante alla parte lesa a titolo di risarcimento del danno biologico in relazione all'età dell'odierno danneggiato al tipo di postumi accertati nella misura del 9% al valore d'adottare equitativamente per ciascun punto ammonta appunto ad Euro 13.500,00. Con riguardo al danno patrimoniale patito dall'infortunato è sempre all'esito dell'indagine peritale risultata un'invalidità temporanea totale di gg 35 e parziale al 50% di gg 20. Il danno anche in questo caso va liquidato con criterio equitativo ed alla stregua della consolidata giurisprudenza di questo giudicante si ritiene di determinare in Euro 40,00 il valore relativo all'invalidità temporanea totale ed in Euro 20,00 quello relativo all'invalidità parziale al 50% per cui la somma dovuta all'odierno danneggiato sarà dunque come appare emergere da agevole calcolo pari a complessivi Euro 1.800,00 (Euro 40,00 x gg 35 = Euro 1.400,00) (Euro 20,00 x gg 20 = Euro 400,00). Considerato, poi, che il comportamento posto in essere da (...) s.p.a. integrò, nei suoi estremi oggettivi e soggettivi, il delitto di lesioni personali colpose, come disposto dall'art. 2059 c.c. deve altresì riconoscersi a (...), quale pretium doloris, il cosiddetto danno morale, liquidato in Euro 4.500,00, pari ad un terzo del danno biologico appena quantificato. Sommando gli importi anzidetti, (...) s.p.a., deve essere condannata al pagamento, in favore di (...), a titolo di risarcimento del danno (biologico e morale) alla persona patito dall'attore, dell'importo complessivo di Euro 19.800,00, con la rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat per le famiglie di operai e impiegati dalla data di verificazione del sinistro alla data di pubblicazione della presente sentenza e con gli interessi al tasso legale, da calcolarsi anno per anno sulla somma di anno in anno rivalutata, dal suddetto giorno al pagamento. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. definitivamente pronunciando; dichiara l'esclusiva responsabilità della (...) s.p.a. nel verificarsi dell'evento dannoso di cui è rimasto vittima (...); condanna (...) s.p.a. al pagamento in favore di (...) della complessiva somma di Euro 19.800,00 oltre interessi e rivalutazione dal dì dell'incidente e fino al soddisfo a titolo di risarcimento dei danni da quest'ultimo subiti all'esito del sinistro in argomento; condanna la (...) s.p.a. al pagamento delle spese processuali in favore dell'attore che liquida in Euro 3.000,00 oltre I.V.A. C.P.A. e spese generali. Così deciso in Agrigento il 26 gennaio 2021. Depositata in Cancelleria il 26 gennaio 2021.

  • TRIBUNALE DI AGRIGENTO REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Giudice dott. Gerlando Lo Presti Seminerio ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 1886/2018 R.G.A.C. PROMOSSA DA LA.FR. NATO (...) rapp. e dif. dall'Avv. Ma.La. ATTORE CONTRO SP.AN. NATA (...) rapp. e dif. dall'Avv. Sa.Cu. CONVENUTA CONDOMINIO "(...)" IN PERSONA DELL'AMMINISTRATORE E RAPPRESENTANTE LEGALE PRO TEMPORE DOTT. CA.SA. rapp. e dif. dall'Avv. Al.Am. CONVENUTO OGGETTO: condannatorio SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con citazione del 02/03/2018 La.Fr. conveniva in giudizio Sp.An. ed il Condominio "(...)". Narrava l'attore in tal modo premettendo alle istanze giudizialmente dedotte di essere proprietario di un appartamento posto al piano terrano di un edificio condominiale sito in Agrigento nella Via (...) n. 56. Assumeva quindi a sostegno dell'azione intrapresa che l'immobile di sua proprietà era stato gravemente danneggiato da fenomeni umidiferi causati da infiltrazioni d'acqua derivanti dal lastrico solare di proprietà esclusiva della convenuta Sp.An. e d'avere più volte invitato, inutilmente, quest'ultima nonché il Condominio convenuto, ad ovviare al denunciato fenomeno. Tanto premesso, chiedeva la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni causati dalle infiltrazioni all'immobile di sua proprietà. Sp.An. costituitasi con comparsa del 27/09/2018 contestava il fondamento delle avverse pretese meritevoli di reiezione. Nel costituirsi in giudizio, con comparsa depositata il 19/10/2018 il Condominio "(...)" preliminarmente e nel rito eccepiva la nullità dell'atto introduttivo del giudizio nonché il proprio difetto di legittimazione passiva nell'odierna controversia e nel merito contestava il fondamento dell'avverso rimedio. Esaurita l'istruzione probatoria celebrata attraverso produzioni documentali e consulenza tecnica d'ufficio all'udienza del 21/10/2020, sulle conclusioni rassegnate dalle parti, la causa veniva assunta in decisione previa assegnazione dei termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica. MOTIVI DELLA DECISIONE Nel rito occorre brevemente affrontare le eccezioni preliminari sollevate dal convenuto Condominio "(...)" a commento della prima delle quali va osservato come l'eventuale nullità dell'atto introduttivo del giudizio per totale omissione ovvero in conseguenza dell'assoluta incertezza dell'oggetto della domanda a sensi dell'art. 164 c.p.c. non ricorra allorquando il petitum e la causa petendi siano comunque individuabili attraverso un esame complessivo dell'atto medesimo. Orbene all'interno dell'atto introduttivo del giudizio che ci occupa è stata richiesta la condanna dei convenuti (petitum) con riferimento alla condotta dagli stessi posta in essere dalla quale erano scaturiti i danni e quindi all'art. 2043 c.c. (causa petendi) per cui vizio alcuno appare affliggere l'atto introduttivo del giudizio che ci occupa. Va brevemente commentata anche l'ulteriore eccezione preliminarmente sollevata dal convenuto di difetto di legittimazione passiva nell'odierna controversia. A tal proposito piace ricordare come il terrazzo di copertura anche se di uso esclusivo di un condomino svolga la medesima funzione di copertura del lastrico solare e di conseguenza devono ritenersi tenuti alla buona manutenzione di esso sia il condominio che il proprietario esclusivo. Pertanto dubbio alcuno può nutrirsi che in caso di un'azione giudiziale intrapresa dal condomino proprietario dell'appartamento sottostante il terrazzo stesso per il risarcimento dei danni subiti scaturenti dall'omessa o cattiva manutenzione di esso la legittimazione passiva spetta tanto al condominio che al proprietario del terrazzo. Peraltro giova ancora osservare che in conseguenza della funzione cui assolve il terrazzo e cioè come già cennato quella di copertura dei piani sottostanti l'onere della sua manutenzione incombe sia sul proprietario esclusivo del terrazzo quanto sul condominio e le relative spese vengano ripartite fra quest'ultimo e il proprietario esclusivo nella proporzione prevista dall'art. 1126 c.c. Tuttavia tale concorso non osta a che il proprietario dell'abitazione sottostante danneggiata dalle infiltrazioni d'acqua causate dalla mancata manutenzione della soprastante terrazza possa agire per effetto della posizione di terzo che egli assume nei confronti anche di uno solo di tali obbligati rilevando detta ripartizione esclusivamente nei rapporti interni tra condomini. Pertanto appare certa nella vicenda che ci occupa la legittimazione passiva del Condominio "(...)" di cui fa parte il cespite di proprietà dell'odierno attore. Ciò posto, reputa il decidente che nel merito le domande attoree, siano fondate e debbano essere accolte. Piace a tal riguardo ricordare infatti come la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia prevista dall'art. 2051 cod. civ. abbia carattere oggettivo e, perché possa configurarsi in concreto, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l'osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia non presuppone né implica uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositario, e, d'altro canto, la funzione della predetta norma è quella di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa. Deve pertanto considerarsi custode chi di fatto ne controlla le modalità d'uso e di conservazione, e non necessariamente il proprietario o chi si trova con essa in relazione diretta. Scaturisce dalle emergenze peritali che i danni subiti dall'immobile attoreo sono derivanti da infiltrazioni d'acqua conseguenti allo sfondellamento del solaio dovuto al perpetuarsi ed accumularsi di acqua piovana sul lastrico solare di proprietà della convenuta Sp.An. come oculatamente rilevato dal CTU Ing. (...). Dal che discende che la responsabilità per i danni, ritenute le conclusioni cui è giunto lo stesso perito d'ufficio, è attribuibile alla predetta convenuta proprietaria della terrazza nel senso dettato dalla prevalente giurisprudenza. Quanto sopra da valere in correlazione all'assunto stabilito dalla Suprema Corte secondo cui il condomino del piano sottostante che agisce nei confronti del condomino del piano di sopra per il risarcimento di danni al suo solaio deve dimostrare, ai sensi dell'art. 2043, che essi dipendono da fatti imputabili a quest'ultimo, altrimenti dovendosi ripartire in parti uguali le spese per la riparazione di esso, ai sensi dell'art. 1125, per la presunzione assoluta di comunione tra loro del solaio, da cui deriva altresì l'inapplicabilità dell'art. 2051, diretto a tutelare i terzi danneggiati dalle cose che altri hanno in custodia, e non i comunisti tra loro. Da ciò deriva come avvenuto nella specie la responsabilità del proprietario esclusivo della terrazza. Infatti, in sede di riparto delle spese di manutenzione del tetto di copertura, quel che veramente rileva non è tanto l'appartenenza del tetto medesimo ad alcuni o a tutti i condomini, quanto la funzione di copertura degli appartamenti, senza che con ciò peraltro si possa dire che solo i proprietari dei vani posti nella verticale sottostante alla zona da riparare siano tenuti alla relativa spesa, poiché non può, almeno in linea generale, ammettersi una ripartizione per "zone" di un medesimo tetto e quindi nemmeno per "zone" di un medesimo lastrico solare o terrazzo a livello di appartamento Difatti, la consulenza tecnica d'ufficio redatta dall'Ing. (...), sul punto non contraddetta da confliggenti risultanze istruttorie, ha inequivocabilmente dimostrato, in esito a indagine immune da censure, che i danni sofferti dall'immobile attoreo, sono interamente ascrivibili, sul piano eziologico, allo stato di precarietà del terrazzo soprastante il cespite suddetto. L'indagine peritale ha altresì confermato l'entità dei danni subìti dal cespite attoreo in tal caso riportandosi alla conclusioni raggiunte dal CTP da ritenere ad avviso del consulente tecnico d'ufficio condivisibili. Per tutte le ragioni esposte, quindi Sp.An. sarà obbligata così come richiesto al risarcimento dei danni causati all'immobile attoreo congruamente individuati nella perizia di parte che ammontano a complessivi Euro 10.616,03. Su tale somma dovranno calcolarsi la rivalutazione monetaria (trattandosi di debito di natura risarcitoria e dunque di valore), in base agli indici Istat per le famiglie di operai e impiegati, dalla data di instaurazione del presente giudizio, a quella di pubblicazione della presente sentenza (pubblicazione comportante la trasformazione del debito di valore in debito di valuta), e gli interessi al tasso legale dalla suddetta data fino al giorno del pagamento. Tali interessi, però, dovranno essere calcolati anno per anno sulla somma di anno in anno rivalutata. Le spese di lite liquidate come in dispositivo seguono la soccombenza. P.Q.M. definitivamente pronunciando; dichiara Sp.An. responsabile dei danni cagionati all'immobile di proprietà di La.Fr.; condanna per l'effetto la suddetta convenuta al pagamento in favore dell'attore della complessiva somma di Euro 10.616,03 oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla domanda al soddisfo a titolo di risarcimento dei danni causati all'immobile di proprietà di quest'ultimo; condanna infine la convenuta al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 2.000,00 oltre I.V.A. C.P.A. e spese generali; dichiara compensate le spese di lite tra l'attore ed il Condominio convenuto; pone definitivamente a carico della convenuta le spese relative alla consulenza tecnica d'ufficio. Così deciso in Agrigento il 20 gennaio 2021. Depositata in Cancelleria il 20 gennaio 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI AGRIGENTO SEZIONE UNICA CIVILE in persona del Giudice, dott.ssa Maria Margiotta, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella controversia iscritta al n. 3244 del registro generale affari civili dell'anno 2015 TRA GA.SA. (CF: (...)), nato (...), elettivamente domiciliato ad Agrigento, via (...), presso lo studio dell'avv. Gi.Le., che lo rappresenta e difende, congiuntamente e disgiuntamente all'avv. Si.Br., in forza di procura alle liti in calce all'atto di citazione, ATTORE E COMUNE DI LAMPEDUSA E LINOSA (CF: (...)), in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Si.Ci., giusta procura allegata alla comparsa di costituzione e risposta, presso il cui indirizzo pec è elettivamente domiciliato CONVENUTO avente ad oggetto: risarcimento del danno extracontrattuale (art. 2051 cc); conclusioni delle parti: come da verbale di udienza del 16.9.2020 (cui si rinvia); RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con atto di citazione ritualmente notificato Ga.Sa. conveniva in giudizio il Comune di Lampedusa e Linosa, in persona del legale rappresentante pro tempore, al fine di ottenere il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale patito a causa del sinistro occorso a Lampedusa il 18.7.2010 quando, nel percorrere la discesa di via Depositi alla guida del ciclomotore di proprietà del padre, "all'altezza del civico n. 81, a causa di un dosso artificiale ivi posto dall'amministrazione convenuta, non fissato adeguatamente al manto stradale, perdeva il controllo del mezzo finendo con l'impattare fisicamente sul pilastro in cemento dell'abitazione ubicata al civico 75". Deduceva che, prestati i primi soccorsi presso il Poliambulatorio dell'isola - dove veniva condotto in autoambulanza in stato di incoscienza -, veniva intubato e trasferito con elisoccorso presso l'Ospedale Civico - (...) di Palermo ove veniva ricoverato con prognosi riservata e sottoposto ad intervento di chirurgia plastica - neuroraffia piccolo ramo nervoso naso buccale con sutura della parete -, rimanendo in terapia intensiva sino al 20.7.2010 a causa di un versamento addominale per essere poi sottoposto ad ulteriori accertamenti - dai quali emergeva, tra l'altro, una sofferenza emorragica congiuntivale - e dimesso il 24.7.2010. Sulla scorta di tali allegazioni, invocava la responsabilità dell'ente comunale convenuto ex art. 2051 c.c., il quale non aveva garantito la buona manutenzione del tratto stradale omettendo di segnalare il pericolo presente sulla carreggiata - richiamando in subordine l'art. 2043 c.c. - e domandava dunque il risarcimento dei danni patrimoniali (comprensivi delle spese necessarie per l'intervento di chirurgia plastica di ricostruzione facciale) e non patrimoniali patiti, per un totale di Euro 83.004,10. Regolarmente costituitosi in giudizio il Comune di Lampedusa e Linosa deduceva innanzitutto la nullità dell'atto di citazione non contenente l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda. Contestava ad ogni modo la presenza di un dosso all'altezza del civico 81 di via Depositi, richiamando il verbale di accertamento a firma della Polizia Municipale nel quale si dava atto che i tra il predetto civico e il n. 75 vi era una distanza di 236 metri e che il relativo tratto di strada non era rettilineo, presentando una curva sulla destra. Simili allegazioni, secondo la prospettazione del convenuto, rendevano inverosimile la ricostruzione dei fatti fornita dall'attore, il quale "probabilmente" percorreva la strada ad una velocità "elevata, non rispettosa del limite consentito (tale da far perdere l'aderenza al terreno in un tratto in discesa)", utilizzando un casco non omologato. Negava quindi ogni responsabilità dell'ente comunale sostenendo che il sinistro fosse addebitabile alla condotta imperita della controparte, che non aveva prestato la diligenza adeguata alla situazione concreta, stante la perfetta visibilità dei dossi, tutti regolarmente segnalati; escludeva la sussistenza dei presupposti dell'art. 2051 c.c. così come della norma generale contenuta nell'art. 2043 c.c.. Chiedeva il rigetto delle domande attoree e, in subordine, l'accertamento del suo concorso di colpa nella causazione del sinistro, contestando in ogni caso il quantum debeatur. Nella memoria ex art. 183, co. 6, n. 1 c.p.c. l'attore contestava le difese avversarie e, segnatamente, la propria responsabilità nella verificazione dell'occorso, precisando che il dosso posto all'altezza del civico n. 75 - risultante dalle immagini fotografiche prodotte - era stato "rimosso dall'Amministrazione comunale poco tempo dopo i fatti che ci occupano (la stessa Amministrazione rappresenta oggi nel suo scritto che il dosso non risulta più ivi posto)" e che prima lo stesso "risultava collocato orizzontalmente, tagliando entrambe le corsie di marcia, poco prima del civico 79 di via (...) in relazione alla corsia di marcia del ciclomotore". Puntualizzava che la distanza tra il civico 75 e il punto di impatto non era superiore a 2030 metri. La causa è stata istruita mediante prove testimoniali; con ordinanza riservata il Giudice già assegnatario del fascicolo ha disposto consulenza tecnica medico-legale d'ufficio sulla persona dell'attore. Così brevemente delineati i fatti di causa, va preliminarmente disattesa l'eccezione di nullità dell'atto di citazione per omessa indicazione degli elementi di cui all'art. 163 n. 4 c.p.c., atteso che dalla lettura dell'atto introduttivo emerge come lo stesso presenti sia la determinazione della cosa oggetto della domanda che l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della stessa con le relative conclusioni. Venendo al merito, l'attore imputa al Comune di Lampedusa e Linosa la responsabilità dell'evento dannoso occorsogli in data 18.7.2020, da porre, a suo avviso, in relazione causale con l'insidia presente nel manto stradale di via Depositi - ossia un "dosso artificiale ivi posto dall'amministrazione convenuta, non fissato adeguatamente al manto stradale" -, invocando l'applicazione della più favorevole disciplina contenuta nell'art. 2051 c.c. sul presupposto che all'ente locale sia demandata la custodia e la manutenzione della strada in questione. A tale riguardo deve osservarsi che è ormai consolidato il principio che l'art. 2051 c.c., secondo cui ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia salvo che provi il caso fortuito, si applica anche alle strade pubbliche a meno che non sia accertata in concreto l'impossibilità dell'effettiva custodia del bene, sicché detta responsabilità non rimane esclusa in modo automatico dall'estensione della rete viaria e dall'uso da parte della generalità, che eventualmente possono costituire meri indici di detta impossibilità (Cass. 9546/10; 17377/07); ed anzi, in tempi più recenti, si è sottolineata la particolare intensità del dovere di custodia gravante sull'amministrazione titolare del bene, a tutela dell'affidamento che nella sua sicurezza legittimamente i consociati ripongono (Cass. 11785/17). Ebbene, l'art. 14 C.d.S., impone agli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, di provvedere: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi; b) al controllo tecnico dell'efficienza delle strade e relative pertinenze; c) all'apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta. Rispetto a tali soggetti è dunque configurabile la responsabilità per cosa in custodia ex art. 2051 c.c., in ragione del particolare rapporto con la cosa che ai medesimi deriva dalla disponibilità e dai poteri di effettivo controllo sulla medesima (cfr. Cass. n. 24419/2009; Cass. n. 7763/2007; Cass. n. 298/2003). Si tratta, invero, di principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui dei danni conseguenti ad omessa o insufficiente manutenzione stradale "il proprietario o il custode (tale essendo anche il possessore, il detentore e il concessionario) risponde ex art. 2051 c.c., salvo che dalla responsabilità presunta a suo carico si liberi dando la prova del fortuito. In altri termini, il danneggiato che domanda il risarcimento del pregiudizio sofferto in conseguenza dell'omessa o insufficiente manutenzione della cosa in custodia, o di sue pertinenze, invocando la responsabilità del custode è tenuto, secondo le regole generali in tema di responsabilità civile, a dare la prova che i danni subiti derivano dalla cosa, in relazione alle circostanze del caso concreto (cfr. Cass. 20/2/2006, n. 3651). Tale prova consiste nella dimostrazione del verificarsi dell'evento dannoso e della relativa derivazione dalla cosa in custodia, e può essere data anche con presunzioni, giacché la prova del danno è di per sè indice della sussistenza di un risultato "anomalo", e cioè dell'obiettiva deviazione dal modello di condotta improntato ad adeguata diligenza che normalmente evita il danno (cfr. Cass. 20/2/2006, n. 3651)" (così, da ultimo, Cass. n. 11096/2020). In ossequio all'interpretazione ormai consolidata, deve affermarsi che la norma in esame delinea un'ipotesi di responsabilità oggettiva e non di colpa presunta, dovendo colui che la invoca provare soltanto il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi in alcun modo la condotta del custode e l'osservanza di un obbligo di vigilanza da parte dello stesso (cfr. ex multis Cass. ord. n. 1765/2016). Quanto alla prova liberatoria gravante sul custode, questi andrà esente da responsabilità solo dimostrando la sussistenza del caso fortuito, da intendere quale fattore eccezionale, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo a interrompere il nesso causale tra la res e il danno concretamente verificatosi. Ebbene, gli elementi probatori acquisiti consentono di ritenere raggiunta la prova non soltanto in ordine all'esistenza dell'insidia sulla superficie stradale, ma anche con riguardo alla riferibilità eziologica dell'"infortunio" in cui è rimasto coinvolto l'attore a causa di siffatta anomalia della sede stradale, tale da generare una situazione di pericolo per l'utente medio. Infatti, in assenza della prova liberatoria da parte del Comune di Lampedusa e Linosa, la ricostruzione fornita nell'atto introduttivo, come precisata nella memoria ex art. 183, co. 6, n. 1 c.p.c., ha trovato pieno riscontro nelle dichiarazioni rese dai testimoni Si.Gi. e Ma.Ta.. Invero, la prima, avendo assistito al sinistro ad una distanza di 100 metri, ha confermato i capitoli di prova contenuti nella memoria ex art. 183, co. 6, n. 2 c.p.c. di parte attrice - e dunque la circostanza secondo cui l'attore "oltrepassando il dosso artificiale ivi posto 20/30 metri prima circa del civico 75, perdeva il controllo del mezzo finendo con l'impattare sul pilastro e sul cancello del suddetto civico" -; ha poi affermato che "il dosso era malmesso e vi era una parte mancante" in quanto "prima del sinistro si era staccato un pezzo dello stesso verso la parte centrale del dosso, verso l'estremità destra (guardando verso nord)", precisando che il ciclomotore è transitato in corrispondenza della "parte mancante del dosso ad una velocità assai bassa" avendo in seguito "sbandato (...) dopo aver sobbalzato" e "urtato contro il pilastro del primo cancello lì presente dopo il dosso"; "non ricordo che ci fosse prima del sinistro alcuna segnaletica stradale che avvertiva della presenza del dosso" (cfr. verbale di udienza del 10.10.2017). La circostanza che parte del dosso fosse mancante già prima del sinistro ha trovato conferma altresì nelle dichiarazioni della testimone Maria Roberta Taranto che, pur non avendo assistito personalmente al sinistro, ha escluso la presenza sui luoghi di segnali indicanti il pericolo ovvero di "segnaletica concernente il limite di velocità" (cfr. verbale di udienza in pari data). Entrambe le testimoni poi - sulla cui attendibilità non vi è ragione di dubitare - hanno riconosciuto lo stato dei luoghi ritratto nelle immagini fotografiche loro mostrate. Va precisato che, ad avviso di chi giudica, non colgono nel segno i rilievi mossi dal Comune convenuto in ordine alla contraddittorietà delle dichiarazioni rese da Si.Gi., la quale ha affermato di aver assistito al sinistro da una distanza di 100 metri - che, tenuto conto delle condizioni della strada risultanti dalla documentazione fotografica in atti, le ha consentito di vedere l'attore perdere il controllo del mezzo una volta oltrepassato il dosso - non avendo subito, per tale ragione, riconosciuto il soggetto coinvolto. La prova dell'an non è scalfita dalle contestazioni mosse dal Comune di Lampedusa e Linosa facendo leva sulle incongruenze sussistenti tra quanto allegato nell'atto introduttivo (e quanto dichiarato dall'attore in sede di sommarie informazioni rese in data 3.8.2010) e il verbale redatto dai Carabinieri intervenuti - secondo cui tra il numero civico 75 e il numero civico 81 di via Depositi intercorre una distanza di 236 metri -, anche avuto riguardo alle concrete modalità di verificazione del sinistro. Tale documento, unitamente alla copiosa produzione fotografica prodotta dall'attore, non fa che confermare la dinamica prospettata dal medesimo, dando atto che il dosso si presentava danneggiato; né, d'altra parte, il convenuto ha fornito alcun elemento concreto idoneo ad inficiare la valenza probatoria del rapporto di polizia, che "fa piena prova fino a querela di falso delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti come avvenuti in sua presenza, mentre per quanto riguarda le altre circostanze di fatto che egli segnali di aver accertato nel corso dell'indagine, per averle apprese da terzi o in seguito ad altri accertamenti, il verbale, per la sua natura di atto pubblico, ha pur sempre un'attendibilità intrinseca che può essere infirmata solo da una specifica prova contraria" (così Cass. n. 22662/2008, richiamata da Cass. ord. n. 23977 del 22.10.2013). Ne, d altra parte, può attribuirsi rilevanza alla circostanza che nel corso delle sommarie informazioni rese da Ga.Sa. in data 3.8.2009 e dunque poche settimane dopo il sinistro, lo stesso, da poco dimesso dall'ospedale, abbia affermato di non avere testi da indicare, ben potendo l'individuazione dei testimoni escussi all'udienza del 10.10.2017 essere avvenuta in un momento successivo. Parimenti inidonee a confutare la ricostruzione attorea risultano le dichiarazioni rese dalla testimone Ma.Ma. (cfr. verbale di udienza del 13.2.2018) considerato che né la presenza di apposito cartello volto a segnalare la presenza del dosso - né tanto meno il fatto che lo stesso fosse danneggiato -, né la presenza di segnaletica che fissava il limite di velocità di 20 km orari sul tratto di strada interessato hanno trovato adeguato riscontro nelle altre risultanze istruttorie e, soprattutto, nei rilievi fotografici eseguiti dai Carabinieri intervenuti. Nessuna rilievanza infine può attribuirsi alle immagini fotografiche prodotte dal Comune di Lampedusa e Linosa, nelle quali viene ritratto un cartello indicante il limite di velocità di 20 km orari, non potendosi risalire al momento in cui le stesse sono state scattate, tenuto conto peraltro delle contestazioni mosse sul punto dall'attore, secondo il quale tali foto risalgono al 2016. Venendo adesso al profilo del concorso di colpa invocato dal Comune di Lampedusa e Linosa, astrattamente compatibile con le ipotesi di responsabilità oggettiva in cui difetta un coefficiente soggettivo di imputazione dei danni (cfr. Cass. n. 8478/2020; Cass. n. 5031/1998), va detto che ne la circostanza che l'attore al momento del fatto calzasse delle infradito, ne l'utilizzo da parte del medesimo di casco non omologato consentono di ravvisare l'addebitabilità dell'evento alla condotta attorea. Quanto al primo profilo, deve osservarsi che nessuna norma di legge impone di utilizzare scarpe chiuse mentre si è alla guida e che in concreto, una volta perso il controllo del mezzo, lo specifico tipo di scarpe calzate non avrebbe potuto, ad avviso di chi giudica, evitare la caduta e l'impatto contro il pilastro ovvero mitigarne gli effetti, considerato che nessun elemento ha fornito il Comune per sostenere come "guida imprudente e calzature non adatte" abbiano "assorbito in modo esclusivo la causalità dell'evento". Rispetto al secondo profilo, va detto che la modifica normativa dell'art. 171 c.d.s., che ha vietato l'uso del casco con omologazione d.g.m., anche detto "a scodella", introdotta con L. n. 120 del 29.7.2010, è successiva ai fatti di causa. Deve, d'altra parte, osservarsi che le favorevoli condizioni atmosferiche e la buona visibilità - risultante anche dal verbale dei Carabinieri e non contestata dall'attore -, unitamente alla moderata velocità dal medesimo tenuta alla guida del ciclomotore nel percorrere la strada, costituiscono elementi da tenere necessariamente in considerazione nel valutare la diligenza osservata da Ga.Sa. e dunque nell'accertare la concreta possibilità di quest'ultimo di evitare il sinistro ovvero ridurne le conseguenze dannose. A tale riguardo va richiamato il principio di diritto enunciato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui "la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento dannoso, in applicazione, anche ufficiosa, dell'art. 1227 c.c., comma 1, richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'art. 2 Cost.. Ne consegue che, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un'evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l'esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro. E' stato anche chiarito nelle menzionate pronunce che l'espressione "fatto colposo" che compare nell'art. 1227 c.c. non va intesa come riferita all'elemento psicologico della colpa, che ha rilevanza esclusivamente ai fini di una affermazione di responsabilità, la quale presuppone l'imputabilità, ma deve intendersi come sinonimo di comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta, stabilita da norme positive e/o dettata dalla comune prudenza (così da ultimo Cass. n. 19716/2020). Sulla scorta delle considerazioni che precedono chi giudica ritiene addebitabile all'attore - che prestando maggiore attenzione avrebbe potuto verosimilmente evitare il dosso ovvero frenare in corrispondenza dello stesso, riducendo i postumi dannosi patiti - una corresponsabilità nella causazione del sinistro nella percentuale del 30%. Per quanto attiene alla quantificazione dei danni risarcibili, va osservato - in punto di danno non patrimoniale - che dalle lesioni refertate al danneggiato nell'immediatezza del sinistro dai sanitari dell'ospedale Civico di Palermo - dove il paziente è stato condotto intubato tramite elisoccorso e, segnatamente, "politrauma con alterazione dei parametri vitali - traumi maggiori" (tra cui frattura seno mascellare destro, frattura osso zigomo destro nella branca temporale, frattura dita destra nella parete esterna, ematoma parti molli del massicccio facciale destro e della regione frontoparietale destra e ampia e profonda ferita lineare che si estende dalla regione media della guancia destra alla tempia omolaterale), cui è seguito un ricovero nel reparto di anestesia e rianimazione, sono residuati postumi, giudicati compatibili con le modalità del trauma, che hanno determinato una riduzione dell'integrità psico-fisica quantificata dal CTU - all'esito della disamina della documentazione sanitaria e degli accertamenti diretti sulla persona del danneggiato - nella misura del 13 %, di cui il 9% riconducibile al danno estetico per la cicatrice al volto e il 4% riconducibile agli esiti del trauma cranico con sindrome post traumatica da stress. Ad avviso di chi giudica la quantificazione operata dal consulente va in parte rivista, avuto riguardo alle conseguenze pregiudizievoli consistenti nella sindrome post traumatica da stress, sottesa al trauma cranico subito a seguito dell'impatto. A tale proposito deve evidenziarsi che "Le valutazioni espresse dal consulente tecnico d'ufficio non hanno efficacia vincolante per il giudice e, tuttavia, egli può legittimamente disattenderle soltanto attraverso una valutazione critica, che sia ancorata alle risultanze processuali e risulti congruamente e logicamente motivata, dovendo il giudice indicare gli elementi di cui si è avvalso per ritenere erronei gli argomenti sui quali il consulente si è basato, ovvero gli elementi probatori, i criteri di valutazione e gli argomenti logico-giuridici per addivenire alla decisione contrastante con il parere del c.t.u." (così Cass. n. 5148/2011; Cfr. inoltre Cass. n. 17757/2014). E' dunque compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore persona si siano verificate; del resto è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo, avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni. Invero, nella fattispecie, se è indubitabile che gli eventi patiti dall'attore e, soprattutto la grande cicatrice al volto, abbiano determinato una modifica peggiorativa delle proprie abitudini e dello stile di vita, non può sottacersi che la documentazione medica in atti non fa alcun riferimento al disturbo post traumatico da stress, né si ravvisano prescrizioni di farmaci (o terapie farmacologiche seguite) volti a curare simile patologia, né significativi indici in tal senso si rinvengono nella relazione di consulenza tecnica di parte, dove si fa unicamente menzione del danno biologico derivante da trauma cranico commotivo con perdita di coscienza e successiva intubazione, del quale sfuggono tuttavia i postumi permanenti. Alla luce delle circostanze che precedono appare quindi congruo contenere la richiamata voce di danno biologico nella misura onnicomprensiva del 9%. Appare, d'altra parte, corretta - in mancanza di rilievi critici di parte - la determinazione rispettivamente in 12 e 25 giorni della durata dei periodi di inabilità temporanea assoluta e di inabilità temporanea parziale al 50 %. Ciò premesso, per la liquidazione, necessariamente equitativa (in considerazione della natura squisitamente non patrimoniale dei beni attinti e dei pregiudizi conseguitine), del danno come sopra riconosciuto a Ga.Sa., in considerazione dei postumi stabilizzati implicanti un danno biologico di lieve entità, non rientrante nell'ambito applicativo dell'art. 139 d. Lgs 209/05, si adotteranno i parametri ed i valori indicati nelle Tabelle già in uso presso il Tribunale di Milano cui i giudici di legittimità hanno riconosciuto una "vocazione" nazionale, indicandoli come parametri equi, cioè idonei a garantire la parità di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti peculiarità che suggeriscano di incrementarne o ridurne l'entità (cfr. Cass. n. 24161/2018, Cass. n. 10263/2015, Cass. n. 14402 /2011). I valori tabellari in questione tengono, infatti, conto dei principi espressi dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nelle pronunce di San Martino del 2008, fatti propri dalla giurisprudenza successiva, al fine di assicurare una liquidazione unitaria del danno non patrimoniale comprensiva della componente relativa alla lesione dell'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale e del danno conseguente alle medesime lesioni in termini di dolore e sofferenza soggettiva, da ritenersi provato in via presuntiva con riferimento al tipo di lesione patita, al grado della menomazione permanente, alla durata del periodo di malattia, ai trattamenti chirurgici e alle terapie praticate, alle ripercussioni degli uni e degli altri sulle normali abitudini di vita della persona. In applicazione degli espressi criteri e avuto riguardo ai valori riportati nelle tabelle milanesi aggiornate - edizione 2018 -, con riferimento al periodo di inabilità temporanea assoluta e relativa, così come accertato dal C.T.U., va equitativamente liquidata la somma di Euro 98,00 al giorno (da ridurre per i giorni di invalidità relativa in proporzione alla percentuale di inabilità accertata dall'ausiliario) per un totale di Euro 2.401,00. Quanto al danno biologico, tenuto conto dell'età della parte lesa al momento del sinistro (23 anni), del grado di invalidità permanente (9%) e del valore base ( Euro 2.586,51) per punto di danno non patrimoniale (omnicomprensivo nel senso sopra chiarito), va liquidata la somma pari ad Euro 21.649,00. Ne discende che il risarcimento del danno non patrimoniale complessivamente spettante all'attore ascende a complessivi Euro 24.050,00. A tale importo dovrebbe aggiungersi quello da liquidare a titolo di danno patrimoniale, sub specie di rimborso spese mediche documentate, somma che occorre rivalutare all'attualità per porre al riparo la somma dal fenomeno inflattivo, previa detrazione dell'acconto già percepito. Tali importi, espressi in valori attuali, non comprendono tuttavia l'ulteriore e diverso danno rappresentato dalla mancata disponibilità del denaro nel tempo intercorso tra la lesione e la sua liquidazione per equivalente monetario, danno derivante dal ritardo con cui viene liquidato al creditore danneggiato l'equivalente monetario del bene leso. Pertanto, nei debiti di valore, come quelli di risarcimento da fatto illecito, indipendentemente dalla prova - affatto necessaria - richiesta dall'art. 1224 ult. co. c.c. per i debiti di valuta, vanno corrisposti interessi (ad un tasso corrispondente a quello legale, in mancanza di allegazioni circa i più proficui impieghi cui la somma sarebbe stata destinata ove conseguita tempestivamente), in modo da rimpiazzare il mancato godimento del denaro dovuto. Secondo un indirizzo ormai consolidato, tali interessi, cosiddetti compensativi, vanno calcolati non sulla somma rivalutata in un'unica soluzione alla data della sentenza, ma sulla somma capitale (determinata nel giorno dell'insorgenza del credito) via via rivalutata, conformemente all'insegnamento espresso nella nota pronuncia a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 1712/95 (conformi, tra le tante, Cass. nn. 3666/96, 8459/96, 2745/97, 492/01; 18445/05). Nell'effettuare il relativo calcolo, bisogna tener presente che è necessaria una devalutazione nominale delle voci di danno liquidate in valuta attuale si da rapportarle all'equivalente alla data di insorgenza del danno medesimo e procedere poi alla successiva rivalutazione delle stesse e delle voci espresse in valuta del tempo di insorgenza; gli interessi vanno applicati sulle somme che progressivamente si incrementano per effetto della rivalutazione, con cadenza mensile alla stregua della variazione mensile degli indici ISTAT; gli interessi così ottenuti vanno accantonati e cumulati tra loro senza rivalutazione. Inoltre, la decorrenza degli interessi va conteggiata nel seguente modo: sugli esborsi dalla data dell'effettiva spesa; sul danno da invalidità permanente dalla data di cessazione della temporanea; sulla temporanea dal di del fatto. Il danno da lucro cessante andrà quindi calcolato nel caso di specie applicando un saggio di interessi pari a quello legale (in considerazione del fatto che l'attore non ha neppure dedotto, com'era suo onere, quale impiego alternativo e più remunerativo avrebbe impresso al credito, se fosse stato tempestivamente adempiuto; Cass. n. 3173/2016) sull'intero credito risarcitorio devalutato alla data dell'illecito e mensilmente rivalutato. Applicando, dunque, i criteri da ultimo indicati, la somma complessivamente dovuta a Ga.Sa. ammonta ad Euro 26.378,57 (di cui Euro 2.328,57 per interessi). Con riferimento alle spese mediche, l'importo da corrispondere è pari ad Euro 1.184,5 che occorrerà rivalutare all'attualità dalla data dell'esborso (prendendo come data di riferimento il 10.11.2020 quale "data media", registrandosi esborsi tra il 13.8.2010 e l'23.12.2010), giungendo all'importo di Euro 1.288,74. Nell'ambito di tali esborsi sono ricompresi anche quelli corrisposti per le consulenze tecniche di parte depositate (cfr. Cass. n. 84/2013 "Le spese sostenute per la consulenza tecnica di parte, la quale ha natura di allegazione difensiva tecnica, rientrano tra quelle che la parte vittoriosa ha diritto di vedersi rimborsate, a meno che il giudice non si avvalga, ai sensi dell'art. 92, primo comma, cod. proc. civ., della facoltà di escluderle dalla ripetizione, ritenendole eccessive o superflue"; conforme Cass. n. 3380/2015). Applicando i suesposti criteri, la somma complessivamente dovuta all'attore è pari ad Euro 27.667,31, da cui andrà detratto la percentuale corrispondente al concorso di colpa dell'attore, giungendo alla somma di Euro 19.367,12. Sull'ammontare della prestazione risarcitoria decorreranno interessi al saggio legale dalla decisione al saldo. Il risarcimento del danno va posto a carico del Comune di Lampedusa e Linosa, cui non potrà tuttavia addossarsi la somma di Euro 8.500,00 domandata dall'attore a titolo di danno patrimoniale, considerato che, da una parte, si tratta di importo non sborsato e, dall'altra, che Ga.Sa. non ha fornito alcuna allegazione in ordine alla possibilità - verosimilmente consentita - di effettuare l'intervento chirurgico di ricostruzione facciale presso strutture del Sistema Sanitario Nazionale. Venendo alla regolamentazione delle spese di lite, le stesse si liquidano in dispositivo disponendone la compensazione nella misura di 1/3 e applicando, per la restante parte, la regola della soccombenza in ossequio ai parametri del d.m. n. 55/2014 per tutte le fasi del giudizio, valori compresi tra i minimi e i medi, avuto riguardo al risarcimento riconosciuto. Le spese per la consulenze tecnica d'ufficio espletata - liquidate in separato decreto -vanno poste a carico dell'attore nella misura di un terzo e del convenuto nella misura di due terzi. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, nel contraddittorio tra le parti costituite, disattesa ogni altra domanda, eccezione e difesa: condanna il Comune di Lampedusa e Linosa, in persona del legale rappresentante pro tempore, a rifondere a Ga.Sa. la somma di Euro 19.367,12, oltre interessi legali dalla data della presente decisione sino al soddisfo; dispone la compensazione delle spese di lite nella misura di un terzo e condanna, per la restante parte, il Comune di Lampedusa e Linosa, in persona del legale rappresentante pro tempore, a rifondere a Ga.Sa. le spese di lite e le liquida in Euro 2.000,00, oltre iva Cpa e rimborso forfettario come per legge; pone le spese per l'occorsa ctu, liquidate in separato decreto, a carico dell'attore nella misura di un terzo e a carico del convenuto per la restante parte. Così deciso in Agrigento l'11 gennaio 2021. Depositata in Cancelleria l'11 gennaio 2021.

  • Repubblica Italiana In Nome Del Popolo Italiano Il Tribunale di Agrigento, Sezione civile in composizione monocratica, in persona del giudice Giovanna Claudia Ragusa ha pronunciato la seguente SENTENZA nel procedimento iscritto al n. 379/2017 del registro generale degli affari civili contenziosi promosso da (...), tutti elettivamente domiciliati presso lo studio dell'avv. (...), dal quale sono rappresentati e difesi, giusta procura in calce all'atto di citazione e giusta procura allegata alla comparsa di costituzione del 27.12.2018. ATTORI CONTRO (...) s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso lo studio dell'avv. (...), che la rappresentata e difesa, giusta procura allegata alla comparsa di costituzione e risposta; (...), elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv. (...), dal quale è rappresentato e difeso, giusta procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta; CONVENUTI E NEI CONFRONTI DI (...) s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso lo studio dell'avv. (...), che la rappresenta e difende in forza della procura generale alle liti in notaio dott. (...) rep. n. 186905 racc. n. 30367 del 18 dicembre 2014. TERZA CHIAMATA IN CAUSA OGGETTO DELLA CONTROVERSIA: responsabilità professionale per attività sanitaria e risarcimento danni Conclusioni: cfr. verbale dell'udienza cartolare del 10 luglio 2020. RAGIONI DELLA DECISIONE Con atto di citazione, notificato il 4-9 febbraio 2017, (...), in proprio e nella qualità di eredi di (...) hanno convenuto in giudizio la (...) s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, e il dott. (...), al fine di ottenere l'accertamento della responsabilità della struttura sanitaria e del medico, in essa operante, per il decesso della loro congiunta, (...), asseritamente causato da una condotta colposa del sanitario ed il risarcimento dei danni, a vario titolo, patiti, con vittoria delle spese di lite, da distrarsi in favore del procuratore dichiaratosi antistatario. In particolare, gli attori, a sostegno della loro domanda, hanno rappresentato che: (...), paziente oncologica già sottoposta a trattamenti chemioterapici, in data 10 luglio 2013 presso la (...) veniva sottoposta a un intervento di port a cath in vena succlavia sinistra, eseguito dal dott. (...); subito dopo l'intervento, a causa di dolori addominali e nausea, venivano eseguiti degli esami diagnostici (ecografia addominale e Tac senza mezzo di contrasto), dai quali emergeva uno shock emorragico da torace, che veniva trattato con terapia infusionale, emotrasfusioni, flebogradia e drenaggio toracico; intorno alle ore 18.00 del 10 luglio 2013 la paziente veniva trasferita presso il reparto di Chirurgia Toracica dell'(...) tramite elisoccorso, dove veniva sottoposta a intervento alla cassa toracica e successivamente a diverse trasfusioni; infine, in stato di coma, veniva condotta nel reparto di Rianimazione, dove è rimasta fino al decesso, avvenuto il 13 luglio 2013. Ancora, gli attori hanno aggiunto che, a seguito di tali eventi, erano state avviate delle indagini preliminari per il reato di omicidio colposo nei confronti del dott. (...), nell'ambito delle quali veniva disposto un accertamento tecnico irripetibile. Il Collegio dei Periti nominati dal pubblico ministero inquirente aveva concluso per la riconducibilità della morte celebrale di (...) a un severo shock emorragico da duplice lesione interna vasale, causate durante il posizionamento del port a cath. Sulla base di tali premesse, gli attori hanno chiesto, previo accertamento della responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e del medico in essa operante e della concorrente responsabilità extracontrattuale, il risarcimento del danno non patrimoniale, subito iure proprio, conseguente alla fattispecie di reato, nonché il risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dalla de cuius e trasmessi iure hereditatis agli eredi, chiedendo, infine, gli interessi e la rivalutazione monetaria. Infine, (...), coniuge della (...), ha chiesto il risarcimento del danno patrimoniale, derivante dalla perdita subita dal mancato apporto economico della moglie al nucleo familiare e le spese sostenute in seguito alla morte della congiunta (spese funebri e spese ctp), oltre interessi e rivalutazione monetaria. Costituitasi in giudizio tempestivamente, la (...) s.p.a. (d'ora in avanti Casa di Cura), in persona del legale rappresentante, ha contestato le domande attoree, chiedendone il rigetto, eccependo, in via preliminare, l'improcedibilità della domanda per il mancato esperimento del tentativo di mediazione, stante la volontà degli istanti di non voler proseguire il procedimento e la rinuncia all'azione; nel merito, evidenziando che l'intervento, al quale la (...) aveva prestato il consenso, sarebbe stato eseguito dal dott. (...) nel rispetto delle leges artis e con la diligenza qualificata e che la lesione dell'arteria mammaria, causa del decesso, non sarebbe imputabile al sanitario, negando, quindi, la sussistenza di un nesso di causalità tra l'intervento eseguito dal dott. (...) e la lesione arteriosa; infine, la convenuta, in subordine, ha chiesto di essere autorizzata a chiamare in causa la propria compagnia assicuratrice, la (...) s.p.a., al fine di essere manlevata dalla stessa dei danni eventualmente riconosciuti, compresi interessi e spese, a prescindere dal massimale. Ha chiesto, inoltre, nel caso in cui la polizza assicurativa non coprisse l'intero danno, di essere manlevata dal sanitario convenuto. Con comparsa di costituzione e risposta, depositata il 9 giugno 2017 si è costituito (...), il quale, in via preliminare, ha eccepito l'improcedibilità della domanda, per il mancato esperimento del tentativo di mediazione, stante la volontà degli istanti di non voler proseguire e per rinuncia all'azione, nel merito, ha chiesto il rigetto della domanda, stante l'assenza di un nesso di causalità tra il decesso della (...), consapevole dei rischi dell'intervento e caratterizzata da una "fragilità" vascolare, in quanto paziente sottoposta a terapia chemioterapica, e la condotta posta in essere dal (...), peraltro, non "illecita", ai sensi dell'art. 2043 c.c.. Autorizzata la chiamata in causa del terzo e disposto il differimento della prima udienza, con comparsa di costituzione e risposta, depositata il 22 settembre 2017, si è costituita la (...) s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, la quale, in via preliminare, ha eccepito la improcedibilità della domanda, per il mancato esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione, nel merito, non ha contestato l'operatività della polizza assicurativa stipulata dalla Casa di Cura convenuta, seppur nei limiti di massimale e con la franchigia espressamente previsti dalle condizioni contrattuali, ha chiesto il rigetto della domanda attorea, stante l'insussistenza dei presupposti per il riconoscimento di una responsabilità in capo alla struttura sanitaria e al medesimo sanitario, contestando, in ogni caso, la quantificazione dei danni asseritamente subiti e in subordine, ha chiesto di essere manlevata e tenuta indenne da (...), chiedendo in via surrogatoria, ai sensi dell'art. 1916 c.c., la condanna di quest'ultimo al pagamento delle somme che la compagnia dovesse essere tenuta a corrispondere a titolo di garanzia della Casa di Cura, in caso di responsabilità esclusiva o sulla base della quota di responsabilità. La causa, istruita con l'espletamento della CTU medico legale, è stata trattenuta in decisione all'udienza cartolare del 10 luglio 2020, con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. Così brevemente tratteggiato l'oggetto del contendere, in via preliminare, va esaminata l'eccezione sollevata dai convenuti e dalla terza chiamata in causa di improcedibilità della domanda, stante la volontà di non conciliarsi manifestata dagli attori per mezzo del procuratore al primo incontro di mediazione. L'eccezione va disattesa. Sul punto, vale la pena osservare che l'art. 5 del D. L. vo n. 28/2010 stabilisce che per le materie tassativamente indicate, tra le quali è compresa quella relativa al risarcimento del danno derivante da responsabilità medica, è necessario che la domanda giudiziale venga preceduta dal tentativo di mediazione. Ebbene, dal tenore letterale delle disposizioni dettate dal già citato D.L. vo n. 28/2010, la condizione di procedibilità si ritiene avverata anche nel caso in cui al primo incontro la parte dichiari di non voler proseguire con la mediazione. Tale interpretazione può ritenersi confermata dall'art. 8 del citato D. L. vo n. 28/2010, secondo cui: "Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso di esito positivo, procede con lo svolgimento". Appare evidente come la mancata accettazione, già espressa al primo incontro, non determina alcuna improcedibilità della successiva domanda giudiziale, considerato, peraltro, che dalla mancata partecipazione il giudice al più potrebbe desumere argomenti di prova ex art. 116 c.p.c. e condannare la parte al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una somma pari al contributo unificato, solo se la mancata partecipazione avvenga senza giustificato motivo. Parimenti, non può ritenersi sussistente, nel caso di specie, alcuna rinuncia all'azione da parte degli attori, né alcuna rinuncia agli atti, da desumere dalla volontà manifestata di non proseguire nel procedimento di mediazione; si osserva che i predetti istituti, peraltro diversi tra loro, operano in presenza di presupposti e nel rispetto di determinate formalità, certamente non ricorrenti nel caso di specie. Inoltre, pare opportuno evidenziare, sin da subito, come non meriti accoglimento la richiesta di sospensione del presente giudizio, avanzata dalle convenute e dal terzo chiamato in causa nelle note di trattazione scritta, sulla scorta della pendenza del giudizio per cassazione promosso dalla parte civile solo ai fini civili della sentenza resa dalla Corte di Appello di Palermo n. 4677/2019, che ha confermato l'assoluzione di (...) in primo grado, atteso che tale evenienza non rientra tra le cause di sospensione necessaria di cui all'art. 295 c.p.c. e considerato che l'art. 75, comma 2, c.p.p. statuisce, quale principio fondamentale nei rapporti tra giudizio civile e penale, quello della separazione. In particolare, è prevista la possibilità che il giudizio civile prosegua nella sua sede naturale anche in pendenza dell'accertamento penale: ciò sia nel caso in cui il danneggiato non abbia deciso di trasferire l'azione civile nel giudizio penale, sia nel caso in cui tale traslazione non sia più possibile. L'autonomia dei giudizi implica necessariamente da un lato, lo svolgimento parallelo delle due diverse azioni, dall'altro, che il giudizio civile debba procedere secondo le norme ad esso proprie con un conseguente indipendente ed autonomo accertamento dei fatti e delle responsabilità Nel caso di specie, infatti, gli odierni attori avevano dapprima esercitato l'azione civile in sede penale, ma in seguito allo ius poenitendi ex art. 82 c.p.p., avevano trasferito l'azione risarcitoria in sede civile. Disattese le eccezioni preliminari, è possibile entrare nel merito della domanda. Prima di passare all'esame della fattispecie oggetto di controversia, appare opportuno premettere che la presente controversia è sottratta all'applicazione della Legge n. 24 dell'8 marzo 2017 (c.d. Legge Gelli Bianco), ciò in conformità a quanto affermato dalla Corte di Cassazione civile (cfr. sentenza n. 28994 dell'n.11.2019), che, nell'affrontare la natura e il regime della responsabilità medico - sanitaria successiva alla riforma del 2017, avuto particolare riguardo al diritto intertemporale, aderisce all'indirizzo interpretativo espresso dai giudici di merito, affermando il principio di diritto per cui le norme sostanziali contenute nella Legge n. 24/2017, non hanno portata retroattiva e non possono applicarsi ai fatti avvenuti in epoca antecedente alla loro entrata in vigore. Ciò detto, secondo l'ormai consolidato orientamento della giurisprudenza, in ipotesi di danni riportati a seguito di intervento chirurgico, il titolo della responsabilità ascrivibile alla struttura sanitaria sia pubblica, che privata, (nonché al medico operante) è di natura contrattuale. In particolare, la responsabilità della struttura sanitaria ha natura contrattuale, potendo discendere sia dall'art. 1218 c.c., dall'inadempimento del contratto atipico di spedalità, che si instaura tra paziente e struttura al momento dell'accettazione, da cui insorgono obbligazioni di natura mista (di tipo alberghiero e di assistenza sanitaria), sia dall'art. 1228 c.c., dall'inadempimento della prestazione svolta direttamente dal medico, quale ausiliario necessario. Negli stessi termini, va qualificata la responsabilità del sanitario che opera nella struttura ospedaliera, stante, come già anticipato, l'irretroattività dell'art. 7 della citata L. 24/2017, che qualifica espressamente come extracontrattuale tale responsabilità. Ciò vale anche quando ad agire siano gli eredi della paziente, atteso il rapporto contrattuale, che si instaura tra la struttura sanitaria e il paziente, riverbera i suoi effetti protettivi anche a vantaggio dei terzi (cfr. Cassazione n. 10812/2019). Ne consegue, quindi, l'applicazione di una disciplina uniforme in materia di riparto dell'onere della prova. A tal proposito, come noto, a partire dalla sentenza n. 13533/2001 delle sezioni unite della Corte di Cassazione, è ormai pacifico che spetta al paziente provare l'esistenza del contratto di spedalità e l'evento dannoso, consistente nell'aggravamento della preesistente patologia oppure nell'insorgenza di una nuova condizione patologica quale effetto dell'intervento, mentre a carico della struttura è lasciato l'onere di provare che la prestazione professionale sia stata eseguita secondo la migliore scienza ed esperienza medica e che l'evento infausto sia stato determinato da un evento imprevisto e imprevedibile (cfr. Cass. civ. n. 975/2009), ovvero causalmente estraneo all'operato del personale medico (e/o paramedico), ovvero che l'inadempimento, ove pur esistente, non sia stato la causa dell'evento dedotto, o comunque non sia imputabile alla struttura medesima (cfr. Cass. civ. n. 6102/2015). In altri termini, l'attore deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia e allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato etiologicamente rilevante (così Cass. civ., sez. un., n. 577/2008; nello stesso senso, cfr. Cass. civ. n. 24073/2017 e n. 4764/2016). È bene precisare che, dal punto di vista dell'allocazione dell'onere della prova, non è rilevante una valutazione sulla difficoltà della prestazione, la quale assurge a mero parametro di valutazione della diligenza nell'adempimento (così Cass. civ. n. 18307/2015), fermo restando che la limitazione della responsabilità di responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave prevista dall'art. 2236 c.c. attiene alle sole ipotesi di imperizia, che possano essere giustificate dalla particolare complessità o novità dell'opera richiesta, e non si estende alle ipotesi in cui la prestazione sia stata viziata da negligenza o imprudenza, cioè una violazione della diligenza professionale media esigibile ex art. 1176, secondo comma, c.c., rispetto a cui rileva anche la colpa lieve (cfr. Cass. civ. n. 5506/2014). In base al principio di riferibilità o vicinanza della prova, spetta comunque al debitore provare che il caso è stato di particolare difficoltà (cfr. Cass. civ. n. 23918/2006). Inoltre, affinché possa configurarsi una responsabilità della struttura sanitaria e del medico, è necessario che il paziente danneggiato provi la relazione causale che intercorre tra l'evento di danno (aggravamento della patologia ovvero insorgenza di una nuova patologia) e l'azione o l'omissione, alla stregua del criterio desumibile dagli artt. 40 e 41 c.p, secondo cui un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché del criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano -a una valutazione ex ante - del tutto inverosimili, ferma restando la regola applicabile della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non". Fatte queste premesse e passando all'esame del caso concreto, pacifica e incontestata - oltre che provata per tabulas.- è risultata l'instaurazione del rapporto contrattuale con la struttura sanitaria convenuta, a seguito del ricovero in regime di day service il 9 luglio 2013 presso la (...), ove (...), già paziente oncologica, trattata con chemioterapia, è stata sottoposta a intervento di port a cath eseguito il 10 luglio 2013 in anestesia locale dal dott. (...). Per ciò che concerne l'evento dannoso, va evidenziato che (...) è deceduta il 13 luglio 2013, presso il reparto di Rianimazione dell'(...), a causa di uno shock emorragico da lesione arteriosa. Lo shock emorragico viene definito clinicamente come una riduzione acuta e durevole della pressione arteriosa sistolica (c.d. PAS) a valori inferiori a 90 mmHg (o inferiori del 30% ai valori di PAS abituali del paziente) in relazione a una perdita rapida e importante di sangue per una lesione vascolare, accompagnata da segni clinici di ipoperfusione, di disfunzione o di insufficienza d'organo (cute marmorizzata, oliguria, disfunzione cerebrale ecc.). Orbene, in riferimento alla sussistenza di un rapporto di causa-effetto tra il decesso della (...) e e il compimento da parte del sanitario della struttura convenuta, di una o più condotte caratterizzate da negligenza, imprudenza e/o imperizia, occorre ripercorrere le varie fasi dell'intervento e le fasi successive allo stesso, richiamando le risultanze cui è pervenuto il ctu, compendiate nella relazione depositata il 7 ottobre 2018. Come già anticipato, nel luglio del 2013, (...), paziente oncologica (adenocarcinoma ovarico) già trattata chirurgicamente (isteroannessiectomia totale e linfoadenectomia in videolaparoscopia), sottoposta a chemioterapia e necessitante di un'ulteriore terapia audivante, per l'assenza di accessi venosi periferici, veniva sottoposta a intervento di posizionamento di port-a cath in vena succlavia sinistra, eseguito il 10 luglio 2013, dopo aver effettuato gli esami di routine (in data 9 luglio 2013) e aver sottoscritto il consenso informato. L'intervento, durato circa 20 minuti, è stato eseguito previo controllo radiologico del posizionamento del dispositivo intravascolare. Dopo circa un'ora dall'intervento veniva eseguito un controllo radiografico del torace post operatorio, che evidenziava una "lieve accentuazione del disegno polmonare e un versamento pleurico basale sn" (ossia un accumulo di liquido all'interno della cavità pleurica). Intorno alle ore 12:30 la paziente iniziava a lamentare un dolore acuto all'epigastrio e malessere generale, in presenza di parametri cardiocircolatori nella norma, veniva effettuato l'esame del torace, mediante Tac senza mezzo di contrasto, che evidenziava la presenza di un cospicuo versamento pleurico sinistro da emotorace, con atelettasia polmonare. L'emotorace (ossia l'accumulo di sangue nel cavo pleurico conseguente ad una lesione traumatica chiusa o penetrante della parete toracica) veniva confermato da una puntura esplorativa. Successivamente, sulla scorta di un'alterazione dei parametri vitali e delle risultanze degli esami emocromo-citometrici, la paziente veniva sottoposta a una terapia trasfusionale e a flebografia selettiva (h 16:30 ca) della vena succlavia sinistra. Dal successivo controllo mediante Tac del torace e dell'addome inferiore e superiore emergeva un modesto spandimento del mezzo di contrasto e un incremento dell'emotorace sinistro e con incremento dello spostamento controlaterale del mediastino e della caudalizzazione dell'emidiaframma. Per tali ragioni, i sanitari procedevano al posizionamento di drenaggio, guidato dalla Tac, nello sfondato costo frenico anteriore e continuavano la terapia infusionale, procedendo, inoltre, a revisione del sito chirurgico in assenza di rilievo di fonte emorragipara. Stante la precarietà del quadro clinico e non essendo presente nella struttura stessa e nè nei nosocomi più vicini il reparto di chirurgia toracica i sanitari, previo contatto con il 118, programmavano il trasferimento della paziente all'(...), a mezzo di elisoccorso, che giungeva intorno alle ore 19.15. Prima del trasferimento i sanitari effettuavano plurime trasfusioni e monitoravano i parametri vitali. Durante il viaggio in elisoccorso e in particolare, al momento dell'atterraggio, veniva segnalato un arresto cardiocircolatorio della paziente con necessità di rianimazione cardio polmonare ed intubazione. Giunta presso il nosocomio palermitano la (...) veniva sottoposta ad intervento chirurgico per emotorace massivo (inizio intervento ore 20:20 e fine intervento alle ore 22:00) e nel corso dello stesso i sanitari procedevano a sintesi della anonima e dell'arteria mammaria. Concluso l'intervento chirurgico la paziente veniva trasferita presso il reparto di rianimazione, dove è rimasta fino al decesso, avvenuto il 13 luglio 2013, dopo accertamento della morte cerebrale. Così sintetizzato il quadro clinico della (...), è necessario a questo punto verificare la condotta dei sanitari, richiamando ancora una volta l'accertamento tecnico eseguito dal ctu. Il punto di partenza è dato da una breve disamina del tipo di intervento eseguito di posizionamento del port-a-cath. La procedura di posizionamento del port-a-cath, dispositivo che rientra nel novero dei cateteri venosi centrali (c.d. CVC), si esegue in sala operatoria e ha una durata di circa 30 minuti, viene eseguita in anestesia locale e prevede il ricorso all'uso di un l'ecografo per reperire il vaso da pungere. Le vene, che vengono impiegate per l'introduzione di un CVC, sono generalmente: la vena succlavia, la giugulare interna (raramente esterna), basilica o cefalica, brachiale o la femorale (usata al CRO solo per raccolta cellule staminali). Tra le complicanze dell'intervento di posizionamento del CVC, distinte in immediate e tardive, rientrano, tra le altre, le lesioni vascolari, gli ematomi, l'emotorace, che, se massivo - quale conseguenza di un'importante lesione polmonare o di una lesione di un vaso toracico di grosso calibro - può dare luogo shock emorragico, ossia uno shock ipovolemico caratterizzato da una perdita extravascolare importante e rapida di sangue, che induce una riduzione del volume ematico circolante. Passando adesso a esaminare nel dettaglio l'operato dei sanitari, va, innanzitutto, detto che è stata corretta l'indicazione diagnostica del posizionamento di un port a cath della vena succlavia sinistra, stante la necessità per la paziente di sottoporsi a trattamenti chemioterapici. Parimenti, la condotta del sanitario nella gestione dell'emotorace è stata rispondente alle linee guida più accreditate. Diversamente, non può dirsi corretta la condotta dei sanitari relativa alla metodica di posizionamento del catetere venoso, che ha determinato plurime lesioni pleuriche, mediastiniche e vascolari, come evidenziato in sede di intervento chirurgico presso la UO di Chirurgia toracica del PO (...), nel quale veniva segnalato una lesione della anonima e della mammaria interna e successivamente confermato in sede autoptica. In particolare, il ctu ha evidenziato che se, da un lato, una lesione rappresenta una complicanza prevedibile di un trattamento di posizionamento di port-a-cath, e non prevenibile, in quanto influenzata da variabili non dipendenti dall'operato del sanitario, dall'altro lato, la presenza di plurime lesioni pleuriche, mediastiniche e vascolari rappresenta una complicanza prevedibile e prevenibile di un trattamento di posizionamento di port-a-cath. Peraltro, è stato escluso che l'intervento in questione presentasse problemi di particolare difficoltà e di gestione da affrontare da parte dei sanitari della (...) intervenuti. Infine, è possibile affermare che l'accertamento peritale non è stato smentito dalle osservazioni sollevate dalle parti, dal momento che il ctu ha fornito una valutazione esaustiva alle stesse, confermando le conclusioni cui era giunto. In particolare, il ctu, sulla scorta della documentazione medica prodotta, ritiene che sia altamente probabile che le lesioni causate dall'intervento, ossia da una non idonea metodica di posizionamento del dispositivo, a seguito di ripetuti tentativi di incannulamento - che sono state poi la causa dell'emotorace - abbiano avuto a oggetto vasi arteriosi e non venosi; infatti, in quest'ultimo caso la emorragia sarebbe stata più modesta e con flusso lento, eccetto il caso di una grossa lacerazione vasale, non rilevata nel caso di specie. Tale conclusione - che sarebbe stata inequivocabilmente accertata con un angio Tac o un angio RM (non effettuata dal sanitario) o con una Tac con mezzo di contrasto (non effettuata, come rilevato dalla perizia esperita nel procedimento penale)- è, comunque, desumibile da numerosi fattori ricorrenti nel caso di specie, ossia l'immediata comparsa dell'emotorace; la notevole perdita di sangue in un tempo breve e il trattamento dello stesso (trasfusioni e drenaggio di 2500 cc di sangue), che hanno delineato un quadro incompatibile con una lesione di natura venosa. Ancora, il ctu ha evidenziato che l'iniziale assenza di pnemotorace non è dirimente, al fine di sconfessare le proprie conclusioni, dal momento che lo stesso può insorgere anche successivamente (dopo 24-48 ore) dal posizionamento del dispositivo. Infine, il ctu ha opportunatamente esaminato ulteriori cause o condotte, escludendo che eventuali e ipotetiche condotte dei sanitari presenti a bordo dell'eliambulanza o che i micro-traumatismi interni determinati dagli inevitabili sobbalzi determinati dallo spostamento in elicottero (evidenziando che sebbene il relativo compenso emodinamico della paziente, garantito da plurime trasfusioni, nella fase antecedente il trasferimento, sia stato alterato dalle variazioni pressorie indotte dal volo, si trattava pur sempre di quadro vascolare già precario) o che la preesistente meiopragia vasale e flebite acuta abbiano potuto determinare da sole il decesso della (...). Non meritano accoglimento le eccezioni di nullità della ctu sollevate dalle convenute, atteso che, in primo luogo, una ctu non espletata da un collegio peritale in un'epoca in cui, come già detto, non era applicabile la L. 24/2017, può ritenersi validamente espletata; in secondo luogo, il ctu ha esaustivamente risposto a tutte le osservazioni sollevate dalle parti, esaminando tutta la documentazione medica prodotta nel presente giudizio, pur non essendo vincolato in alcun modo ai risultati cui giunge la perizia espltata nel corso del giudizio penale, trattandosi di una prova atipica liberamente valutabile dal giudice civile. Peraltro, pare opportuno sottolineare che anche dalla disamina della perizia affidata ai dott.ri (...),(...) e (...), nel corso del giudizio penale di primo grado (cfr. doc. 14 Memoria istruttoria Casa di Cura) emerge che il decesso della (...) è stato determinato dalla morte celebrale secondaria a danno ipossico-ischemico celebrale prodotto da severo shock emorragico, avente quale fonte di sanguinamento lesioni iatrogene dell'arteria mammaria interna e della vena anonima sinistra, prodotte in corso di posizionamento di port a cath in vena succlavia sinistra, che - come accertato nel corso dell'intervento chirurgico toracico praticato all'(...), prima, e dall'esame autoptico, poi - era rifornito da un sanguinamento avente origine da diverse soluzioni di continuo della vena anonima e dell'arteria mammaria interna. Inoltre, per inciso, si osserva che i medesimi periti hanno censurato la condotta del (...) sotto altri profili (cfr. pag. 70 " in sintesi, pertanto, la condotta del posta in essere dal dott. (...), dal momento in cui si ebbe contezza dell'evento avverso, risulta censurabile per non aver disposto tempestivamente le indagini strumentali volte all'individuazione delle lesioni artero-venose e non aver attuato un conso monitoraggio clinico-laboristico della ecografia " doc 14 memoria istruttoria Casa di Cura). A questo punto, è opportuno verificare, sulla scorta delle emergenze istruttorie, se tra la condotta dei sanitari e il decesso della (...) vi sia un nesso di causalità materiale. A tal proposito, vanno richiamati i principi giurisprudenziali dettati in materia della causalità materiale e, in particolare, in materia di regola probatoria da utilizzare nel processo civile, che, come noto, diverge da quella utilizzata nel processo penale, stante la diversità - morfologica e funzionale - dei due sistemi di responsabilità, con i quali il giudice si confronta. Infatti, nella ricostruzione del nesso causale ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti (così, in particolare, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. n. 576 del 2008; in senso conforme, cfr. Cass. Sez. 3, ord. 27 settembre 2018, n. 23197). Confermata, quindi, l'operatività nel giudizio civile della regola probatoria del "più probabile che non", occorre illustrarne le modalità di applicazione. La regola della "preponderanza dell'evidenza" costituisce, in realtà, la combinazione di due regole: la regola del "più probabile che non" e la regola della "prevalenza relativa della probabilità". Invero, la regola del "più probabile che non" implica che rispetto ad ogni enunciato si consideri l'eventualità che esso possa essere vero o falso, ossia che sul medesimo fatto vi siano un'ipotesi positiva ed una complementare ipotesi negativa, sicchè, tra queste due ipotesi alternative, il giudice deve scegliere quella che, in base alle prove disponibili, ha un grado di conferma logica superiore all'altra. Invece, la regola della "prevalenza relativa" della probabilità, rileva -quanto al nesso causale, nel caso di cd. "multifattorialità" nella produzione di un evento dannoso (ovvero quando all'ipotesi, formulata dall'attore, in ordine all'eziologia dell'evento stesso, possano affiancarsene altre) - allorché sullo stesso fatto esistano diverse ipotesi, ossia diversi enunciati che narrano il fatto in modi diversi, e che queste ipotesi abbiano ricevuto qualche conferma positiva dalle prove acquisite al giudizio, dovendo, invero, essere prese in considerazione solo le ipotesi che sono risultate "più probabili che non", poiché le ipotesi negative prevalenti non rilevano (cfr. Cassazione n. 13872/2020). Sulla scorta di tali regole viene a delinearsi un modello di "certezza probabilistica", nel quale il procedimento logico-giuridico da seguire, ai fini della ricostruzione del nesso causale, implica che l'ipotesi formulata vada verificata "riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana)", nel senso, cioè, che in tale "schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l'attendibilità dell'ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni)"(cfr. Cassazione n. 13872/2020 citata). Facendo applicazione dei summenzionati principi e procedendo, quindi, all'accertamento del nesso di causalità materiale secondo il criterio - consono alla morfologia e alla funzione del sistema della responsabilità civile - del "più probabile che non" (o meglio, della "preponderanza dell'evidenza"), nel duplice significato, di cui si è detto, risulta provato, sulla scorta delle evidenze probatorie acquisite, che il posizionamento del a cath abbia causato plurime lesioni arteriose, che hanno determinato l'emotorace massivo e conseguentemente lo shock emorragico, che ha condotto la (...) al decesso. Tale ipotesi, secondo il criterio della prevalenza relativa della probabilità, trova maggiore riscontri in termini di conferma rispetto ad altrettante, differenti, ipotesi sulla eziologia tanto dell'emotorace, quanto del decesso della paziente. Ne consegue la dimostrazione nel presente giudizio della condotta colposa dei sanitari e del nesso causale tra la stessa e il decesso della (...). Pertanto, va affermata la responsabilità professionale del sanitario (...) e la responsabilità della Casa di Cura, sia ai sensi dell'art. 1218 c.c., che ai sensi dell'art. 1228 c.c., sussistendo - come detto - il presupposto della condotta colposa del personale di cui si è avvalso l'ente, causa dell'evento lesivo (cfr. Cass. n. 12326/2006; Cass. n. 6386/2001). Pare opportuno precisare sin d'ora che la responsabilità della struttura sanitaria ex art. 1228 c.c., a differenza della responsabilità ex art. 2049 c.c., è una responsabilità per fatto proprio, non per fatto altrui, in quanto l'attività sanitaria rivolta all'adempimento del contratto è stata svolta da persone inserite nell'organizzazione dello stesso ente gestore e delle quali quest'ultimo si è avvalso per fornire la prestazione dovuta (cfr. Cass. n. 13066/2004). Chiarito ciò, occorre individuare quali siano i pregiudizi risarcibili nel caso di specie. Giova premettere, in punto di diritto, che in conseguenza della morte di un congiunto è possibile chiedere iure proprio il risarcimento del danno subito per la definitiva perdita del rapporto parentale, facendo valere quell'interesse all'intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia e alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell'ambito della famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost.. In particolare, per tale danno, occorre accertare, con onere della prova a carico dei familiari della persona deceduta, se, a seguito del fatto lesivo, anche mediante presunzioni, si sia determinato nei superstiti uno sconvolgimento delle normali abitudini tale da imporre scelte di vita radicalmente diverse (cfr. Cass., n. 19402/13), essendo da escludere l'ipotesi di un danno in re ipsa. Ciò in quanto "In caso di perdita definitiva del rapporto matrimoniale e parentale, ognuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione inclusiva di tutto il danno non patrimoniale subito, in proporzione alla durata ed intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all'età della vittima ed a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ad ogni altra circostanza del caso concreto, da allegare e dimostrare (anche presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza) da parte di chi agisce in giudizio" (cfr. Cassazione n14655/2017). E' opportuno evidenziare che costituisce una componente di tale unico pregiudizio, non risarcibile autonomamente, il danno esistenziale, inteso come la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita. Per quanto riguarda, invece, il danno non patrimoniale risarcibile iure hereditatis, è necessario premettere che, secondo l'orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, cui questo giudice ritiene di aderire, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità iure hereditatis di tale pregiudizio, in ragione - nel primo caso - dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero - nel secondo - della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo. Viceversa, nel caso in cui tra la lesione e la morte si interponga un apprezzabile lasso di tempo, tale periodo giustifica il riconoscimento, in favore del danneggiato, del cosiddetto "danno biologico terminale", cioè il danno biologico stricto sensu (ovvero danno al bene salute), al quale, nell'unitarietà del genus del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie (danno morale terminale), ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall'avvertita imminenza dell'exitus, se nel tempo che si dispiega tra la lesione e il decesso la persona si trovi in una condizione di lucidità agonica, in quanto in grado di percepire la sua situazione e, in particolare, l'imminenza della morte, essendo, quindi, irrilevante, a fini risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale e il decesso nel caso in cui la persona sia rimasta manifestamente lucida (cfr. da ultimo Cassazione n. 28989/2019). Infine, proseguendo nella panoramica dei danni risarcibili, ai prossimi congiunti di un soggetto, deceduto in conseguenza del fatto illecito addebitabile a un terzo, è astrattamente riconoscibile anche un diritto al risarcimento del danno patrimoniale, purché sia accertato in concreto che i medesimi siano stati privati di utilità economiche di cui già beneficiavano e di cui, presumibilmente, avrebbero continuato a beneficiare in futuro" (cfr. Cass. civ. n. 4980/2006; cfr. anche Cass. civ. n. 11097/1992, secondo cui "con riguardo al risarcimento del danno futuro sofferto dai familiari per la morte di un congiunto ed in particolare alla privazione della legittima aspettativa dei genitori ad un contributo economico da parte del figlio prematuramente scomparso, è necessario che le circostanze del caso permettano di ritenere probabile, e non soltanto come possibile, l'anzidetto danno futuro, sicché il risarcimento deve di regola escludersi in rapporto ai futuri risparmi che il defunto avrebbe realizzato, dovendo ritenersi probabile che il medesimo si sarebbe formato una famiglia i cui membri avrebbero avuto esclusivamente diritto sui risparmi del loro genitore e marito'"). Ebbene, fatta questa premessa ed entrando nel merito delle domande avanzate dagli attori, la richiesta di ristoro del danno non patrimoniale subito dagli attori può trovare accoglimento solo sul versante della lesione del rapporto parentale tra gli stessi e la vittima. Alla luce delle allegazioni degli attori, si ritiene provato il grave turbamento, cui va ricondotta anche la sofferenza esistenziale, per la perdita del rapporto con (...), subito dal coniuge, (...), dai figli (...),(...), dei genitori (...) e (...)e dei germani, (...) e (...), tenuto conto della prossimità del legale parentale, per alcuni di loro, della convivenza e dell'età della vittima (anni 48) e dei congiunti, da lasciare presumere secondo una regola di comune esperienza, che - tra la vittima e gli stessi - vi fosse una normale relazione familiare, caratterizzata dell'intensità tipica del vincolo tra appartenenti allo stesso nucleo. Va evidenziato che il danno per la perdita del rapporto parentale già comprende lo sconvolgimento dell'esistenza, che ne costituisce una componente intrinseca: ciò in quanto la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita altro non sono che diversi aspetti del complesso e unico pregiudizio e che, quindi, in assenza di specifiche peculiarità del caso di specie, adeguatamente dimostrate, non è possibile risarcire autonomamente e distintamente il danno da perdita del congiunto e quello conseguente alla negativa alterazione esistenziale e relazionale. Fatte queste precisazioni, occorre procedere alla liquidazione del danno subito da (...) e (...) e (...), tenendo conto dei parametri equitativi suggeriti dalle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano (cfr. Corte d'Appello dell'Aquila n. 2214/2018: " In tema di liquidazione del danno non patrimoniale da perdita parentale, questa risponde a criteri equitativi, ancorati ad un parametro di orientamento e di controllo che la giurisprudenza del tutto prevalente individua nelle tabelle predisposte dall'Osservatorio per la Giustizia costituito presso il Tribunale di Milano (alle quali la Suprema Corte di Cassazione ha sinora riconosciuto, in applicazione dell'art. 3 della Costituzione , la valenza di generale parametro di conformazione della valutazione equitativa del danno non patrimoniale").Tali tabelle individuano anche la forbice monetaria di ristoro per ciascuna tipologia di congiunto per le lesioni da perdita del rapporto parentale; entro tale forbice va poi individuata in via equitativa la somma da liquidare a ciascun parente, tenendo conto delle particolarità del caso concreto. Sicché, effettuando tale operazione nei confronti di ciascuno degli attori, in ragione dell'intensità del vincolo parentale che li legava alla vittima e dell'età di quest'ultima, si riconoscono a ciascuno le seguenti poste risarcitorie, modulate nel senso detto e oscillanti all'interno della forcella sopra indicata: a (...) e (...) va riconosciuta, in via equitativa, una somma più elevata, pari ad Euro 210.000,00 per ciascuno, giacché si reputa che il loro legame affettivo con la vittima sia stato quello che ha subìto una maggiore compromissione, per il nucleo familiare primario, nel quale è venuta a mancare la moglie casalinga e la madre di 48 anni, di due figli ancora in giovane età; ai genitori (...) e (...) va attribuita la somma Euro 170.000,00 ciascuno, tenuto conto dell'intensità del rapporto genitori-figli, che non viene meno dalla circostanza che la figlia abbia creato un proprio nucleo familiare, che si ritiene provato per presunzioni; ai germani (...) e (...) va attribuita la somma di Euro 40.000,00 ciascuno, tenuto conto del presumibile rapporto tra fratelli. In assenza di specifiche dimostrazioni delle peculiarità del caso di specie, non si ritiene possibile operare alcuna personalizzazione del danno, ritenendo che le allegazioni circa gli ulteriori pregiudizi non patrimoniali patiti dagli attori rientrino in quello che viene definito come danno da perdita del rapporto parentale omnicomprensivo. La suddetta complessiva somma capitale dovuta a titolo di risarcimento va, infine, maggiorata - costituendo oggetto di debito di valore - degli interessi legali e della rivalutazione monetaria, al fine di realizzare l'effettivo ristoro del ritardato pagamento, secondo il criterio stabilito dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 1712/1995. Vanno, quindi, riconosciuti gli interessi legali calcolati sulla complessiva somma capitale, devalutata alla data (13 luglio 2013) dell'evento lesivo, rispettivamente, (Euro 206.084,40) e (Euro 166.830,23) e (Euro 39.254,17) e via via rivalutata (anno per anno) in base agli indici I.S.T.A.T. relativi all'aumento dei prezzi al consumo per famiglie di operai ed impiegati (cfr. Cass. SS.UU. n. 1712/1995 cit.), con decorrenza dalla predetta data dell'evento lesivo fino al 30 novembre 2020, data di ultima rilevazione ISTAT, ottenendo la somma di Euro 218.550,89 per (...),(...) e (...); Euro 176.922,12 per (...) e (...); Euro 41.628,74 per (...) e (...). Al pagamento del dovuto risarcimento vanno condannati la struttura sanitaria convenuta e (...). Per quanto riguarda le ulteriori domande risarcitorie, si osserva quanto segue. Non merita accoglimento la richiesta di ottenere l'accertamento del diritto iure hereditatis al risarcimento del danno da perdita della vita, atteso che nel corso del giudizio non è stato dimostrato che nel breve lasso di tempo in cui si sono verificati i fatti (10-13 luglio 2013) (...) sia stata in quella condizione definita come di " lucida agonia" e pertanto, non essendoci prova che quest'ultima abbia percepito alcuna lesione al bene salute-vita, si ritiene che non sia stato trasmesso alcun diritto al risarcimento ai propri eredi. Per ciò che concerne, invece, la domanda formulata da (...) di ottenere il risarcimento del danno patrimoniale, asseritamente legato alla perdita di un'utilità economica fornita dalla vittima alla famiglia, si osserva che, stante la mancata allegazione e prova, sia delle utilità economiche che la (...) avrebbe apportato alla famiglia, che di altri elementi, cui poter ancorare le utilità che avrebbe continuato ad apportare, la relativa domanda va disattesa. Va accolta, invece, la domanda di risarcimento del danno patrimoniale legato alle spese sostenute a causa del decesso, così come documentate: spese funerarie Euro 2500,00 Euro e spese per ctp Euro 2440,00 (cfr. all. 14-15 Atto di citazione), valutate congrue e pertinenti, che si rivalutano in attuali Euro 2600,61 ed Euro 2.475,00. Al pagamento della complessiva somma di euro 442.177,36, oltre interessi legali decorrenti dalla pubblicazione della presente sentenza sino al soddisfo, vanno condannati la (...) e (...) in solido tra loro. A questo punto, va esaminata la domanda di manleva proposto dalla struttura sanitaria nei confronti della compagnia assicurativa, (...) s.p.a., chiamata in causa. È documentalmente provato che tra la Casa di Cura e la (...) s.p.a. era stata stipulata la polizza n. 321260055, avente a oggetto la responsabilità civile verso terzi e prestatori di lavori per un massimale di Euro 2.000.000,00, entro il limite di Euro 750.000,00 a persona, con la previsione di una franchigia assoluta di Euro 10.000,00 per danni per ciascuna persona. Pertanto, va accolta la domanda di manleva richiesta in via riconvenzionale dalla Casa di Cura nei confronti della (...) s.p.a. a essere tenuta indenne di quanto sarà tenuta a corrispondere in virtù di questa sentenza, ferma l'operatività della franchigia di Euro 10.000 per i danni per ciascuna persona, come espressamente eccepito dalla medesima compagnia. In ordine, invece, alla domanda di rivalsa nei confronti di (...), proposta sia dalla Casa di Cura, ma fatta propria in via surrogatoria ex art. 1916 c.c. dalla (...) s.p.a., si osserva quanto segue. Pare opportuno, ai fini della corretta identificazione del contenuto e dei limiti dell'azione di rivalsa esercitata dalla struttura sanitaria nei confronti del medico in epoca antecedente all'entrata in vigore della L. n. 24 del 2017, qualificare tale azione nel diritto delle obbligazioni e dell'illecito in campo sanitario, per poi individuarne i limiti quantitativi. La rivalsa - a differenza del diritto di regresso, che propriamente presuppone la nascita di una obbligazione, avente il medesimo titolo, in capo ai condebitori solidali a seguito dell'integrale adempimento dell'obbligazione da parte di uno di essi - viene comunemente, sebbene non correttamente, ricondotta al presupposto di un'attribuzione ovvero ripartizione della responsabilità per inadempimento, imputata al debitore e al suo ausiliario, in via solidale. L'analisi dell'istituto prescinde, naturalmente, dalle ipotesi in cui sia ravvisabile, nel singolo caso di specie, una responsabilità autonoma e indipendente della struttura rispetto alla condotta colpevole del sanitario (come accade, per fare un esempio, nell'ipotesi di infezioni nosocomiali contratte nel corso del ricovero dal paziente). Ebbene, sulla scorta dell'orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di responsabilità medica, al fine di identificare i limiti quantitativi dell'azione di rivalsa, cui questo giudice ritiene di aderire, il danno da "malpratice" viene ripartito in pari misura tra struttura e sanitario, anche in ipotesi di colpa esclusiva di quest'ultimo, salvo i casi, del tutto eccezionali, di inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile devianza da quel programma condiviso di tutela della salute (cfr. Cassazione n. 28987/2019). Si ritiene, infatti, che nel caso in cui il medico operi nel contesto dei servizi resi dalla struttura presso cui svolge l'attività, che sia stabile o saltuaria, la sua condotta negligente non può essere agevolmente "isolata" dal più ampio complesso delle scelte organizzative, di politica sanitaria e di razionalizzazione dei propri servizi operate dalla struttura, di cui il medico stesso è parte integrante; pertanto, la struttura sanitaria, ai sensi del già citato art. 1228 c.c., se si avvale della "collaborazione" dei sanitari persone fisiche (utilità) si trova del pari a dover rispondere dei pregiudizi da costoro eventualmente cagionati (danno): infatti, la responsabilità di chi si avvale dell'esplicazione dell'attività del terzo per l'adempimento della propria obbligazione contrattuale trova radice non già in una colpa "in eligendo" degli ausiliari o "in vigilando" circa il loro operato, bensì nel rischio connaturato all'utilizzazione dei terzi nell'adempimento dell'obbligazione (Cass., 27/03/2015, n. 6243), realizzandosi, e non potendo obliterarsi, l'avvalimento dell'attività altrui per l'adempimento della propria obbligazione, comportante l'assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino (cfr. Cass., 06/06/ 2014, n. 12833). Pertanto, sulla scorta delle superiori premesse, considerato che la misura del regresso varia a seconda della gravità della rispettiva colpa e dell'entità delle conseguenze che ne sono derivate, in mancanza di specifica prova, va affermata la pari responsabilità del medico e della struttura sanitaria, applicando analogicamente l'art. 2055 c.c., il cui comma 3 detta una presunzione iuris tantum di pari contribuzione al danno da parte dei condebitori solidali, che impone al solvens di provare la diversa misura delle colpe e della derivazione causale del sinistro e l'art. 1298 c.c., che detta la regola secondo la quale l'obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori in parti che si presumono eguali, "se non risulti diversamente". Applicando i summenzionati principi al caso di specie, va escluso un diritto di rivalsa integrale della struttura sanitaria nei confronti del medico, in quanto da parte della Casa di Cura non è stata dimostrata né la responsabilità esclusiva del dott. (...), né la derivazione causale del decesso della (...) da una condotta del primo del tutto dissonante e imprevedibile rispetto al piano dell'ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, in un'ottica di ragionevole bilanciamento del peso delle rispettive responsabilità sul piano dei rapporti interni, Ne consegue l'accoglimento della domanda di rivalsa nei confronti di (...) limitatamente a quanto la (...) sarà tenuta a pagare in forza della presente sentenza oltre il 50 % di quanto dovuto a titolo di responsabilità propria. Le spese di lite sostenute dagli attori, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza, disponendo la distrazione in favore del procuratore dichiaratosi antistatario; le spese di lite, sostenute dalla Casa di Cura e dalla (...) s.p.a. in relazione alla domanda di rivalsa nei confronti di (...), tenuto conto dell'esiguità dll'attività difensiva svolta in relazione a tale domanda, vanno interamente compensate tra la Casa di Cura, (...) s.p.a. e (...). Le spese di CTU, liquidate con separato decreto, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Tribunale, in composizione monocratica, ogni altra istanza ed eccezione disattesa, uditi i procuratori delle parti, così definitivamente provvede: condanna la (...), in persona del legale rappresentante pro tempore, e (...), in solido tra di loro, al pagamento in favore degli attori, per i titoli di cui in motivazione, della somma complessiva di Euro 442.177,36, oltre interessi al tasso legale dalla data di questa decisione al saldo; condanna (...) a pagare alla (...) la somma che quest'ultima corrisponderà agli attori oltre il 50% di quanto dovuto a titolo di responsabilità propria; condanna la (...) s.p.a. a tenere indenne, ferma la franchigia pattuita, di tutto quanto la (...) dovrà pagare in forza della presente sentenza; condanna (...) a pagare alla (...) s.p.a. di quanto la stessa dovrà tenere indenne la (...) oltre al 50% della somma dovuta da quest'ultima in proprio in forza della presente sentenza; condanna (...) e la (...), in solido, a rifondere le spese di lite sostenute dagli attori, liquidate in complessivi Euro 16.159,50, di cui euro 1.713,00 per spese, oltre iva e cpa, se dovute come per legge, e rimborso spese forfettarie, da distrarsi in favore del procuratore dichiaratosi antistatario; condanna la (...) s.p.a. a pagare le spese di lite sostenute dalla (...), che si liquidano in complessivi Euro 8.927,00, di cui Euro 1.686,00 per spese, oltre iva e cpa, se dovute come per legge e rimborso spese forfettarie. compensa le spese di lite sostenute dalla (...) e da (...) s.p.a. e (...) in relazione alla domanda di rivalsa; pone definitivamente a carico di (...), della (...) e della (...) s.p.a, in solido tra di loro, le spese di CTU, liquidate come da separato decreto. Così deciso in Agrigento, in data 28 dicembre 2020. Depositata in Cancelleria il 28 dicembre 2020.

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