Sentenze recenti Tribunale Avezzano

Ricerca semantica

Risultati di ricerca:

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI AVEZZANO Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Antonio Stanislao Fiduccia ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile d'appello iscritta al n. r.g. 561/2020 promossa da: (...), con il patrocinio degli avv.ti (...) APPELLANTE contro (...), con il patrocinio dell'avv. (...) APPELLATA CONCLUSIONI All'udienza dell'8.11.2022, le parti hanno precisato le conclusioni come da verbale d'udienza ed, al termine, la causa è stata trattenuta per la decisione con assegnazione di termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica. Svolgimento del processo Con atto di citazione (...), in proprio e nella sua qualità di rappresentante p.t. della società (...) S.N.C., conveniva dinnanzi al Giudice di Pace di Pescina (...) per ivi sentirlo condannare al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, cagionati "all'attore nella sua duplice qualità uti singulis e come rpt della società attrice' dalle condotte poste in essere dal convenuto ed integranti, secondo l'attore, i reati di molestie (art. 660 c.p.) ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 393 c.p.). Esponeva, in particolare, lo (...) che, da circa 6 anni, egli ed i suoi familiari subivano comportamenti molesti, intimidatori, prevaricatori e minacciosi da parte del (...), il quale, assumendo di essere proprietario della strada adiacente il locale ove si svolge l'attività commerciale (supermercato) di titolarità dell'attore, aggrediva sistematicamente i clienti di quest'ultimo; che, più specificamente, in data 7.1.2017 alle ore 11,00/12,00, il (...), passando alla guida della propria autovettura davanti al supermercato, ove il cliente (...) aveva parcheggiato la sua auto, inveiva contro quest'ultimo, avvertendolo con fare minaccioso che lì non poteva stare in quanto la strada era sua; nello stesso frangente, allarmato dagli strilli, si affacciava lo (...) che a sua volta veniva verbalmente aggredito dal (...) con le espressioni: "Un giorno te la farò pagare, che ti guardi... guarda sto cazzo"; che il convenuto, sceso dalla propria auto, si avvicinava poi al (...) sempre strillando; quest'ultimo quindi si allontanava per non alimentare la discussione; che, in data 30.6.2017 e 3.7.2017, si ripetevano nuovi episodi di molestia da parte del (...) nei confronti degli avventori dello (...); che, in data 12.3.2018, alle ore 9,00, il convenuto importunava un fornitore, (...), dicendo che lo avrebbe ucciso. Si costituiva nel primo grado di giudizio (...) eccependo preliminarmente l'improcedibilità della domanda per mancato esperimento della negoziazione assistita, la carenza di legittimazione attiva e la nullità della procura, dalla quale non si evinceva il potere di rappresentanza della (...) in capo a (...). Nel merito deduceva l'insussistenza del danno non patrimoniale; domandava altresì la condanna dell'attore ex art. 96 c.p.c. Nel corso del giudizio di primo grado venivano assunte le prove orali ammesse. Con sentenza n. 15/2020, pronunciata il 16.4.2020 e depositata lo stesso giorno, il Giudice di Pace di Pescina accoglieva la domanda proposta dagli attori ((...) e (...) S.n.c.) e, per l'effetto, condannava (...) al pagamento della somma di Euro 500,00 per ogni attore, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale; al pagamento della sanzione civile pecuniaria di Euro 100,00; alla rifusione delle spese di lite. Avverso tale sentenza proponeva appello dinnanzi all'intestato Tribunale (...) deducendo la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato: sotto un primo profilo, in quanto il primo giudice aveva condannato l'appellante al risarcimento del danno anche in favore della società (...), nonostante il difetto di legittimazione attiva di quest'ultima e l'esercizio dell'azione da parte dello (...) in proprio, come evincibile anche dalla procura alle liti; sotto altro profilo, in quanto il primo giudice aveva condannato il (...) alla sanzione civile pecuniaria per il reato di ingiuria, nonostante alcuna domanda fosse stata formulata in tal senso fosse stata avanzata dallo (...). Con altro gruppo di censure, l'appellante deduceva "ingiustizia della sentenza impugnata per violazione degli artt. 111 Cost., 132 c.p.c., n. 4 c.p.c., in relazione agli artt. 2043, 2059 c.c. per carenza di istruttoria - erroneità nella valutazione delle prove testimoniali fornite su punti decisivi della controversia - omesso esame delle conclusioni - insussistenza degli illeciti e dei danni genericamente allegati ex adverso", lamentando l'erroneità della sentenza impugnata là ove il primo giudice aveva ritenuto accertato, essenzialmente sulla base delle dichiarazioni dei testi (...) e (...), che il (...) aveva posto in essere "comportamenti, che sono andati oltre il mero invito a spostare l'auto nei confronti di coloro che avevano parcheggiato sulla strada asseritamente di sua proprietà, pur avendo contezza della dubbia titolarità della stessa, ha avuto, inoltre, un comportamento che, attraverso le urla nei confronti dei proprietari dei veicoli e frasi di natura ingiuriosa nei confronti dello (...), hanno concretizzato la violazione di quel dovere di diligenza posta a fondamento del comportamento civile di coesistenza". L'appellante deduceva sul punto di essersi limitato a formulare reiterati e giustificati inviti nei confronti dei testimoni escussi, mai eccedendo in locuzioni minacciose e/o ingiuriose; d'altra parte, la presunta frase ingiuriosa del (...) (riportata dal teste (...)) era comunque rivolta a quest'ultimo e non già, come ritenuto dal giudice di prime cure, allo (...); per altro verso, il teste (...) aveva semplicemente asserito che il (...) gli aveva urlato contro chiedendogli di spostare l'auto e detta asserzione non costituiva condotta illecita e quindi risarcibile. Con ulteriore motivo di gravame, il (...) censurava l'appellata sentenza per non aver rilevato l'improcedibilità della domanda attorca per mancato esperimento della negoziazione assistita entro il termine perentorio di 15 giorni. Con ultimo gruppo di censure il (...) contestava la sussistenza dei danni non patrimoniali liquidati dal Giudice di Pace, comunque indimostrati. Si costituiva nel grado di appello (...), in proprio e quale legale rappresentante della (...) S.n.c., deducendo l'infondatezza del gravame ex adverso interposto e chiedendo la conferma integrale della sentenza di primo grado. Motivi della decisione Va preliminarmente disatteso il motivo di gravame relativo al mancato esperimento della procedura di negoziazione assistita ai sensi del D.L. n. 132/2014. L'art. 3, comma 1, D.L. n. 132/2014 onera chi intenda proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti Euro 50.000,00, fuori dai casi in cui è espressamente prevista la mediazione ex art. 5, comma 1-bis, D.Lgs. n. 28/2010, ad invitare l'altra parte alla stipulazione di una convenzione di negoziazione assistita. L'esperimento del procedimento di negoziazione assistita è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L'improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice quando rileva che la negoziazione assistita è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di tre mesi. Allo stesso modo provvede quando la negoziazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di 15 giorni per la comunicazione dell'invito. Il successivo comma 2, del medesimo art. 3 cit., prevede poi che, quando l'esperimento del procedimento di negoziazione assistita è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se l'invito non è seguito da adesione o è seguito da rifiuto entro trenta giorni dalla sua ricezione ovvero quando è decorso il periodo di tempo di cui all'art. 2, comma 2, lett. a). Le modalità di instaurazione del procedimento di negoziazione assistita, nelle ipotesi in cui il giudice ne rilevi in giudizio il mancato esperimento ed assegni alle parti termine all'uopo, sono del tutto analoghe a quelle previste in tema di mediazione dall'art. 5, D.Lgs. n. 28/2010, il cui comma 2, almeno fino alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 149/2022, prevedeva egualmente l'assegnazione di un termine di 15 giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Sul punto la giurisprudenza, dopo iniziali oscillazioni, si è consolidata nel senso di ritenere il predetto termine assegnato dal giudice non perentorio e la condizione di procedibilità soddisfatta se all'udienza fissata con lo stesso provvedimento che dispone la mediazione, tale procedimento si è comunque concluso, restando irrilevante in tal caso il mancato rispetto del termine di 15 giorni assegnato dal giudice per il suo inizio. Si è, in particolare, evidenziato che il legislatore ha inteso riconnettere la statuizione giudiziale sulla procedibilità della domanda al solo evento dell'esperimento del procedimento di mediazione e non al mancato rispetto del termine di presentazione della domanda di mediazione (ex pluribus Cass., Sez. II, 14.12.2021, n. 40035; C.App. Firenze, Sez. I, 13.1.2020; C.App. Milano, Sez. I, 28.6.2017; Trib. Vasto, ord. 15.5.2017). L'assunto della natura perentoria del termine di 15 giorni, d'altra parte, non ha il conforto dell'art. 152, comma 2, c.p.c., non essendovi indicazione legislativa in tal senso. L'attivazione della mediazione, d'altra parte, non costituisce attività giurisdizionale e, quindi, risulta effettivamente impropria l'applicazione di termini perentori in mancanza di espresse previsioni in tal senso. Ancora, la natura non perentoria trova conforto nella previsione che il giudice deve fissare una successiva udienza tenendo conto della scadenza del termine massimo della durata della procedura (tre mesi): la tesi della natura perentoria del termine finirebbe per giustificare il paradosso di non poter considerare utilmente esperite le mediazioni pur conclusesi (senza pregiudizio per il prosieguo del processo) sol perché tardivamente attivate, e così escludendo in un procedimento deformalizzato, qual è quello della mediazione, l'operatività del generale principio del raggiungimento dello scopo. Più coerente con la ratio deflattiva dell'istituto è invece ritenere che all'udienza successiva all'assegnazione del termine, il giudice debba verificare l'effettivo esperimento della mediazione: se a tale udienza risulta che il procedimento è iniziato e si è comunque concluso, il giudice deve accertare l'avveramento della condizione di procedibilità; mentre se a tale udienza viene verificato che il procedimento non è stato iniziato o comunque non si è concluso per una colpevole inerzia della parte, che ha ritardato la presentazione dell'invito, quest'ultima si espone al rischio che la sua domanda giudiziale sia dichiarata improcedibile, a causa del mancato esperimento della mediazione entro il termine di durata della procedura previsto per legge. I principi poc'anzi esposti, affermati dalla giurisprudenza in materia di mediazione, sono integralmente applicabili anche alla materia della negoziazione assistita. Di essi ha fatto corretta applicazione il Giudice di Pace di Pescina, il quale ha rilevato che l'invito alla negoziazione assistita è stato ricevuto dal (...) in data 25.3.2019, con assegnazione del termine di legge di 30 giorni per l'adesione del destinatario alla negoziazione assistita e che, alla successiva udienza, tenutasi il 13.5.2019, il predetto termine di 30 giorni era ampiamente spirato. Orbene, ai sensi dell'art. 3, comma 2, D.L. n. 132/2014, la condizione di procedibilità si considera avverata se l'invito non è seguito da adesione entro 30 giorni dalla sua ricezione. Ne discende che, non avendo il (...) aderito all'invito alla negoziazione assistita nel termine di 30 giorni dalla sua ricezione, comunque scaduto prima della successiva udienza, la condizione di procedibilità è stata correttamente ritenuta dal primo giudice avverata. Destituito di fondamento è anche il motivo di gravame con il quale il (...) deduce il vizio di extrapetizione della sentenza appellata con riguardo alla statuizione di condanna al risarcimento del danno anche in favore della (...) S.N.C., ribadendo quanto eccepito in primo grado circa il difetto di legittimazione attiva di tale società, mancando la valida spendita del nome in capo allo (...). Va al riguardo osservato che, sin dall'atto introduttivo del giudizio di primo grado, (...) ha espressamente dichiarato di agire "in proprio e nella qualità di rpt della società" (...) S.n.c. formulando domanda risarcitoria estesa a "tutti i danni ravvisabili nel caso di specie, morali, patrimoniali, esistenziali, prodotti all'attore nella sua duplice qualità uti singulus e come rpt della società attrice... ". (...), espressamente indicando di agire in nome e per conto della (...) S.n.c., ha pertanto validamente proposto domanda di risarcimento anche dei danni subiti dalla predetta società. D'altra parte, l'appellante non ha neppure contestato la qualità dello (...) di legale rappresentante della (...) S.n.c., lamentando, piuttosto, la carenza, nella procura alle liti, di un conferimento del mandato al difensore esclusivamente quale persona fisica e non anche come legale rappresentante della società. Secondo la giurisprudenza di legittimità, tuttavia, la circostanza che la persona fisica titolare della rappresentanza della società che agisce in giudizio abbia, nel sottoscrivere la procura a margine della citazione, omesso di menzionare la sua qualità di rappresentante, non è causa d'invalidità della procura stessa, ove il potere rappresentativo risulti dall'intestazione o anche dal contesto dell'atto introduttivo cui inerisce, in considerazione del collegamento materiale dei due atti ed attesa la possibilità che nel conferimento della procura alle liti la spendita del nome assuma forme implicite (Cass., Sez. II, 19.12.2011, n. 27340; Cass., Sez. III, 5.8.2002, n. 11710). Nella procura alle liti rilasciata al difensore dallo (...), peraltro, pur non essendo espressamente indicato (a differenza che nell'originario atto di citazione del giudizio di primo grado) il conferimento anche nella qualità di legale rappresentante della (...) S.n.c., risulta, nondimeno, l'apposizione in calce di una duplice firma dello (...), la seconda delle quali in corrispondenza del timbro "(...) Snc". Anche le doglianze di merito, articolate sotto il "II motivo" di appello, devono ritenersi infondate. Nel corso del giudizio di primo grado il teste (...), con riferimento all'episodio del 7.1.2017, premesso di aver parcheggiato sul piazzale di fronte al supermercato, vicino alla porta di accesso a quest'ultimo, ha riferito: "All'improvviso, ho sentito suonare una Panda Rossa, vecchio tipo, con un Signore anziano dentro che urlava; mi sono avvicinato e ho chiesto una cortesia, anche perché il Signore poteva passare, invece lo stesso disse: "Non voglio sapere niente, la macchina la devi togliere, la strada è mia ". Poi sono andato dentro e ho chiamato (...), nello stesso tempo il Signore - che riconosco qui dentro - era uscito e in dialetto locale mi diceva "stronzo, anche tu mi dai fastidio, questa volta faccio un macello"". Lo stesso teste ha poi confermato che il (...) cominciò a minacciare (...) dicendo "...te la farò pagare" (cap. 2, articolato dall'attore nel verbale di udienza del 15.7.2019), precisando: "Tanto che poi ho detto a (...) che cosa io ci entrassi; erano problemi loro"; che il (...) "inveì con parolacce il sig. (...)". Il teste (...), a sua volta, ha riferito sull'altro episodio occorso in data 13.3.2018, dichiarando che il (...), quella mattina, verso le 9,15, "rivolgendosi verso la mia persona, urlava dicendomi che non mi potevo fermare dove stavo perché la strada era la sud". In quel frangente - riferisce ancora il teste - si erano affacciati anche (...) e il padre di quest'ultimo. E' pertanto, pienamente, condivisibile l'assunto del Giudice di Pace, là ove, valorizzando segnatamente le deposizioni dei testi (...) e (...), ha ritenuto "accertato che il (...) ha posto in essere in più occasioni comportamenti, che sono andati oltre il mero invito a spostare l'auto nei confronti di coloro che avevano parcheggiato sulla strada asseritamente di sua proprietà". Erra, tuttavia, il primo giudice - e sul punto merita di essere corretta la motivazione della sentenza appellata - nell'omettere l'inquadramento di tali fatti entro una fattispecie di reato, ritenendo poter far discendere il risarcimento dei danni non patrimoniali direttamente dalla qualificazione dei comportamenti tenuti dal (...) sic et simpliciter come "fatti illeciti, ex art. 2043 c.c.". Come chiarito sin dalla nota pronuncia delle Sezioni Unite di San Martino (Cass., SS.UU. 11.11.2008, n. 26972) la limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale "ai soli casi previsti dalla legge", prevista dall'art. 2059 c.c., consente di ristorare tali conseguenze pregiudizievoli in ipotesi tipiche ristrette a: 1) illeciti astrattamente configurabili come reato, in virtù dell'espressa previsione di legge di cui all'art. 185 c.p.; 2) illeciti, non qualificabili come reato, ma per i quali la risarcibilità dei danni non patrimoniali che ne conseguano è parimenti espressamente prevista dalla legge; 3) illeciti non bagatellari, che abbiano leso diritti inviolabili della persona, oggetto di tutela costituzionale. La risarcibilità delle conseguenze pregiudizievoli di natura non patrimoniale postula, pertanto, che esse siano conseguenza diretta ed immediata ex art. 1225 c.c. (danno-conseguenza) di particolari fatti illeciti lesivi di beni giuridici qualificati (danno-evento), protetti come tali o da specifiche norme di legge - che in considerazione di ciò prevedano espressamente la possibilità di ristorare anche il danno non patrimoniale - o da norme di rango costituzionale. Va, poi, osservato che, in tema di richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale, quando è prospettato un illecito astrattamente riconducibile a fattispecie penalmente rilevanti - per le quali, come detto, la risarcibilità del danno non patrimoniale è espressamente prevista dalla legge, ai sensi degli artt. 2059 c.c. e 159 c.p. - spetta al giudice civile accertare incidenter tantum e secondo la legge penale, la sussistenza degli elementi costitutivi del reato, indipendentemente dalla norma penale cui l'attore riconduce la fattispecie. Tale accertamento è logicamente preliminare all'indagine sull'esistenza del diritto leso di rilievo costituzionale, potendo quest'ultimo venire in rilievo solo dopo l'esclusione della configurabilità di un reato; entrambi gli accertamenti sono, poi, preliminari alle indagini in ordine alla sussistenza in concreto del pregiudizio patito dal titolare dell'interesse tutelato (Cass. n. 9445/2012). Orbene, nel caso che occupa, le condotte tenute dal (...) ed accertate, nella loro materialità, dal giudice di prime cure, devono ritenersi riconducibili alla fattispecie incriminatrice di cui all'art. 612 c.p. che punisce penalmente "chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno". La minaccia consiste nel prospettare - con qualsiasi modalità idonea (essendo la fattispecie di cui all'art. 612 c.p. a forma libera) - ad una persona un male, futuro o prossimo. L'indeterminatezza del male minacciato è irrilevante, purché lo stesso sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente (Cass. Pen., Sez. V, 14.10.201616.3.2017, n. 12756). La minaccia deva avere una effettiva potenzialità intimidatrice, dovendosi, tuttavia, precisare che non è necessario che la vittima versi concretamente in uno stato di intimidazione, essendo sufficiente che la condotta realizzata dall'agente, tenuto conto della situazione contingente, sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale (Cass. Pen., Sez. V, 22.11.2022-17.3.2023, n. 11473; Cass. Pen., Sez. V, 6.7.202023.7.2020, n. 22045; Cass. Pen., Sez. V, 11.10.2019-20.2.2020, n. 6756). La minaccia, poi, deve avere ad oggetto un danno (o meglio un male) ingiusto. Secondo la giurisprudenza di legittimità il danno deve configurarsi ingiusto non solo quando costituisce in sé un illecito, ma anche quando, sebbene in sé risulti lecito o indifferente, è minacciato per finalità diverse da quelle per cui è giuridicamente consentito (Cass. Pen., Sez. V, 26.1.2006-8.3.2006, n. 8251; Cass., Sez. V, 18.12.2003-6.2.2004, n. 4633). Nel caso di specie, risulta accertato che il (...), quanto meno in occasione dell'episodio occorso in data 7.1.2017, dapprima proferì, rivolgendosi a (...), le parole "...questa volta faccio un macello", poi cominciò a minacciare direttamente (...), dicendogli " ...te la farò pagare". Nonostante l'indeterminatezza del male minacciato, la lesione della libertà morale provocata dalle predette espressioni va apprezzata alla luce dello stato di agitazione del (...), da questi esternato attraverso urla, suonate di clacson e ingiurie (sia pur rivolte al cliente (...) e non già a (...)). Infondato è anche il motivo di appello con il quale il (...) censura l'appellata sentenza nella parte in cui ha accertato la sussistenza di un danno non patrimoniale, liquidandolo in favore distintamente di (...) e della (...) S.n.c. nella misura di Euro 500,00 per ciascun attore. E' ben vero che il danno non patrimoniale, in quanto danno-conseguenza, deve essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori, non potendo giammai considerarsi in re ipsa. E' altrettanto vero che il medesimo principio resta valido anche allorquando il danno non patrimoniale sia risarcito quale conseguenza di reato, dovendosi tenere logicamente distinte, da un lato, l'ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale che si ricava dall'individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela (nella specie l'art. 185 c.p.), dalla verifica giudiziale di tale pregiudizio, che deve compiersi attraverso gli ordinari criteri di accertamento dei fatti previsti dall'ordinamento giuridico, che richiedono la dimostrazione (ed, ancor prima, l'allegazione) dell'esistenza del danno, della sua derivazione causale, dall'evento lesivo della situazione giuridica tutelata, nonché della sua entità. La stessa giurisprudenza di legittimità ha, tuttavia, anche ribadito che il danno morale, costituendo un patema d'animo e quindi una sofferenza interna del soggetto, da una parte, non è accertabile con metodi scientifici, dall'altra, come per tutti i moti d'animo, solo quando assume connotazioni eclatanti può essere provato in modo diretto, dovendo il più delle volte essere accertato in base ad indizi e presunzioni che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità (Cass., Sez. III, 10.5.2018, n., 11269; v. anche Cass., Sez. III, 3.4.2008, n. 8546; Cass., Sez. III, 14.6.2006, n. 13754). Orbene, il ricorrente ha allegato, sin dall'originario atto di citazione dinnanzi al Giudice di Pace, il sentimento di ansia e preoccupazione ingenerato dalle condotte aggressive e moleste ripetutamente tenute dal (...) dinnanzi al supermercato anche nei confronti dei clienti di quest'ultimo. Dalle accertate modalità delle condotte in più occasioni poste in essere dall'odierno appellante è dato presumere un danno morale ad essi conseguito, consistente nella sofferenza interiore patita dallo (...) a fronte dei comportamenti aggressivi del (...), turbativi della tranquillità dell'appellato e della sua clientela nonché del regolare esercizio della propria attività commerciale, anche alimentata dalla ripetitività degli episodi e quindi dall'apprensione ad ogni transito dell'appellante di fronte al supermercato per raggiungere la propria abitazione. Corretto è, dunque, il riconoscimento da parte del primo giudice di tale posta risarcitoria in favore dello (...), avendo a tal riguardo valorizzato i patemi d'animo ingenerati in capo all'odierno appellato dal comportamento posto in essere in più occasioni dal (...), consistiti nel "disagio" (da intendere, tuttavia, come vera e propria esasperazione) a fronte delle esuberanti manifestazioni dell'appellante, nonché nel sentimento di "imbarazzo" nei confronti dei propri clienti e fornitori, costretti ad assistere a tali manifestazioni dell'appellante ed anzi in esse direttamente coinvolti. Sotto tale ultimo profilo, peraltro, può essere apprezzato, distintamente dal c.d. danno morale, anche il danno da lesione dell'immagine dell'attività di impresa degli appellati. Si tratta anche in tal caso di un danno di natura non patrimoniale, ascrivibile, sotto il profilo descrittivo, ad un pregiudizio di natura esistenziale, subito da entrambi gli appellati per la negativa rappresentazione che la clientela assume dell'esercizio commerciale in questione come luogo di spiacevole esperienza. Merita, invece, accoglimento il motivo di appello relativo al vizio di extrapetizione della sentenza impugnata, là ove ha statuito la condanna del (...) al pagamento della sanzione civile pecuniaria di Euro 100,00 ai sensi del D.Lgs. n. 7/2016. Il D.Lgs. n. 7/2016 ha depenalizzato alcuni reati, tra cui quello di ingiuria ex art. 594 c.p., prevedendo, per contro, una sanzione pecuniaria civile per i fatti previsti dall'art. 4 (tra i, quali, ai sensi della lett. a), "chi offende l'onore o il decoro di una persona presente, ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica o telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa", che soggiace alla sanzione civile pecuniaria da Euro 100,00 ad Euro 8.000,00). L'art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 7/2016, prevede che i fatti previsti dall'art. 4, "se dolosi, obbligano, oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno secondo le leggi civili, anche al pagamento della sanzione civile pecuniaria ivi stabilita". Ai sensi del successivo art. 8, le sanzioni civili sono applicate dal giudice competente a conoscere dell'azione di risarcimento del danno. Il giudice decide sull'applicazione della sanzione civile pecuniaria al termine del giudizio, qualora accolga la domanda di risarcimento proposta dalla persona offesa. Se, dunque, è vero che il giudice civile può anche d'ufficio condannare alle sanzioni pecuniarie civili previste dall'art. 4, D.Lgs. n. 7/2016, nondimeno tale statuizione deve inserirsi nel giudizio civile avente ad oggetto il risarcimento del danno derivante dallo specifico reato depenalizzato (rectius: da uno dei fatti puniti con sanzione civile pecuniaria ex art. 4 cit.) e disporsi nell'ipotesi in cui il giudice civile, al termine del processo, accolga la domanda risarcitoria. Nel caso di specie, la sentenza di primo grado ha disposto la condanna alla sanzione pecuniaria civile sul presupposto dell'accertamento di un fatto sussumibile nella fattispecie di cui all'art. 4, lett. a), D.Lgs. n. 7/2016: il Giudice di Pace ha, infatti, ritenuto accertato nell'istruttoria che "il (...) nell'episodio del 07/01/2017 ha proferito la frase nei confronti dello (...) "stronzo... ", con cui ha leso l'onore ed il decoro di quest'ultimo anche alla presenza di altre persone... ". Tuttavia, mentre, per un verso, la domanda originariamente formulata dagli odierni appellanti non contemplava come fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno l'ingiuria, che, d'altra parte, proprio alla luce del D.Lgs. n. 7/2016, non avrebbe neppure configurato un'azione di risarcimento di danni derivanti da reato, per altro verso, l'accertamento del fatto depenalizzato operato dal primo giudice risulta errato poiché dalla testimonianze del teste (...) è, invece, emerso che l'espressione "stronzo..." fu dal (...) rivolta proprio a quest'ultimo e non già allo (...): nel giudizio de quo non può dunque dirsi sussistente una statuizione di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dalla persona offesa, derivante da fatto riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 4, lett. a), D.Lgs. n. 7/2016, presupposto necessario per l'applicazione ex officio della sanzione civile pecuniaria. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, attesa la fondatezza dell'appello limitatamente al profilo da ultimo esaminato, vanno compensate nella misura di un quarto, seguendo per il resto la soccombenza dell'appellante. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: - parzialmente accogliendo l'appello proposto da (...), riforma la sentenza del Giudice di Pace di Pescina n. 15 del 16.4.2020, nella sola parte in cui ha condannato l'appellante al pagamento della sanzione civile pecuniaria di Euro 100,00; - conferma per il resto la sentenza appellata; - condanna (...) alla rifusione delle spese del presente grado di giudizio, nella misura di tre quarti, liquidata in complessivi Euro 957,00, tutti per compensi, oltre rimborso forfettario delle spese nella misura del 15% del compenso, IVA e CPA come per legge, in favore di (...) e (...) S.n.c., in solido tra loro; - compensa per il restante quarto le spese di lite. Avezzano, 9 giugno 2023. Depositata in Cancelleria il 15 giugno 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI AVEZZANO SEZIONE CIVILE in persona del giudice dott. Caterina Lauro, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 508 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell'anno 2019 del Tribunale di Avezzano, vertente TRA (...), rappresentato e difeso dall'avv. (...) del Foro di Trento ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell'Avv. (...), giusta procura allegata all'atto di citazione - attore E (...) S.R.L., rappresentato e difeso dall'avv. (...) ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in PESCARA C/O AVV. (...) C.SO (...), giusta procura allegata alla comparsa di costituzione e risposta - convenuto Oggetto: contratto di prestazione d'opera intellettuale Conclusioni delle parti: Per parte attrice: "In via principale: Dichiarare l'avvenuta risoluzione di diritto del contratto di data 20/10/2014 e per l'effetto condannare la società (...) s.r.l. al pagamento in favore dello (...) dell'importo di Euro 93.465,66 a titolo di capitale, Euro 10.406,69 a titolo di interessi moratori scaduti alla data di presentazione della domanda, oltre agli interessi maturandi sino al saldo effettivo. In via subordinata: dichiarare l'avvenuta risoluzione per inadempimento del contratto di data 20/01/2014, per le motivazioni tutte di cui al presente atto e per l'effetto condannare la società (...) s.r.l. al pagamento in favore dello (...) dell'importo di Euro 93.465,66 a titolo di capitale, Euro 10.406,69 a titolo di interessi moratori scaduti alla data di presentazione della domanda, oltre agli interessi maturandi sino al saldo effettivo. In ogni caso: con vittoria di spese, competenze legali, spese generali 15%, oltre accessori di legge. Per parte convenuta: "si riporta ai precedenti scritti difensivi ed insiste per l'accoglimento delle conclusioni rassegnate nella comparsa di costituzione e risposta (In via pregiudiziale di merito: dichiarare nulle le avverse domande per omessa e/o insufficiente determinazione della cosa oggetto della domanda (art. 163 n. 3 c.p.c.) ed omessa e/o insufficiente esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni (art. 163 n. 4 c.p.c.). Nel merito: rigettare le avverse domande perché manifestamente infondate in fatto ed in diritto per i motivi di cui in narrativa. Condannare parte attrice alle spese e competenze professionali del giudizio." RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Con atto di citazione ritualmente notificato lo (...) conveniva in giudizio la (...) s.r.l. premettendo di aver stipulato con la convenuta, in data 20.10.2014, un contratto di prestazione libero professionale; le relative prestazioni sarebbero state eseguite presso la Casa di cura indicata da parte della società contraente. Il pagamento del corrispettivo sarebbe avvenuto secondo le seguenti modalità: 50% entro i 60 giorni successivi al mese di riferimento, fermo il saldo della Casa di Cura per le prestazioni effettuate previa emissione di fattura per prestazioni professionali; il restante 50% a saldo Asl, fermo il saldo della Casa di Cura per le prestazioni effettuate previa emissione di fattura per prestazioni professionali. Riferiva di aver adempiuto alle proprie obbligazioni, eseguendo interventi di chirurgia vertebrale micro invasiva presso la casa di cura (...) di Potenza e di aver ricevuto, quale pagamento in acconto, la somma complessiva di euro 71.624,62, di aver successivamente trasmesso alla convenuta le fatture n. A04/2017 - A05/2017 - A06/2017 - A07/2017 - A08/2017 - A09/2017 - A10/2017 - A11/2017 - A12/2017, emesse il 17/03/2017 a saldo del pagamento delle prestazioni eseguite nel 2015 rimaste impagate; di aver, pertanto, trasmesso diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c. senza aver avuto riscontro, con eccezione di vaghe risposte relative al ritardo nei pagamenti da parte della clinica (...). Veniva così a conoscenza del fatto che la suddetta clinica, dove le prestazioni erano state eseguite, era stata coinvolta in un contenzioso con la ASL che aveva sospeso i pagamenti nei suoi confronti e che era stata avviata un'indagine a suo carico da parte della Procura della Repubblica che ipotizzava un'associazione a delinquere finalizzata alla truffa ai danni della ASL. Riferiva che il rifiuto della convenuta di corrispondere il dovuto le era stato giustificato sulla base di una condizione sospensiva presente nel contratto ripassato tra le parti in base al quale il pagamento del saldo era subordinato a quello da parte della struttura sanitaria presso la quale la prestazione era stata eseguita: in proposito, osservava che la convenuta nulla aveva fatto per attivarsi al fine di ottenere l'adempimento della clinica (...), violando così l'art. 1358 c.c.; chiedeva, quindi, accertarsi l'intervenuta risoluzione di diritto, per non aver controparte adempiuto in seguito all'intimazione indirizzatagli e, in subordine, pronunciare la risoluzione del contratto per inadempimento con condanna al risarcimento del danno parti ad euro 93.465,66, oltre interessi moratori sino al soddisfo. Si è costituita la convenuta deducendo l'infondatezza della pretesa attorea, contestando la versione dei fatti proposta da parte attrice e rappresentando che, diversamente da quanto sostenuto nell'atto introduttivo, aveva stipulato, sin dal 2015, con la clinica (...) una transazione avente ad oggetto il saldo delle competenze maturate nel periodo 1.7.2013 - 30.6.2015; contestava che fosse intervenuto un grave inadempimento tale da giustificare l'effetto risolutivo previsto dall'art. 1455 c.c. e che vi fosse stata la violazione dell'art. 1358 c.c., posto che la condizione sospensiva era a favore anche della stessa società che, parimenti, non aveva ricevuto il pagamento del dovuto dalla clinica (...). Deduceva, infine, l'indeterminatezza della pretesa risarcitoria. Chiedeva, quindi, il rigetto delle domande. Rigettate le richieste istruttorie formulate dalle parti, per essere la causa di natura documentale, l'udienza di precisazione delle conclusioni subiva reiterati rinvii dovuti all'emergenza sanitaria prima e alla modifica del magistrato assegnatario del fascicolo poi, e si svolgeva, mediante trattazione scritta, ai sensi dell'art. 221, co. 4, d.l. n. 34/2020 il 14.02.2023; la causa veniva quindi trattenuta in decisione con concessione dei termini ai sensi dell'art. 190 c.p.c. 2. Preliminarmente, l'eccezione di nullità della citazione sollevata da parte convenuta va rigettata in quanto infondata. Infatti, l'art. 164 co. 4, c.p.c. prevede la nullità della citazione qualora sia omessa o risulti assolutamente incerta la determinazione della cosa oggetto della domanda ovvero se manca l'esposizione dei fatti posti a fondamento della stessa. Nel caso di specie va evidenziato che la stessa individua correttamente il petitum e la causa petendi della domanda, consentendo alla odierna opponente di spiegare compiutamente le proprie difese anche nel merito. L'eccezione va quindi disattesa. 3. La domanda è fondata e merita accoglimento. Il contratto stipulato dalle parti il 20.10.2014 stabiliva all'art. 9 che il pagamento del 50% a saldo della prestazione eseguita dallo studio medico sarebbe dovuto avvenire "a saldo ASL, fermo il saldo della Casa di Cura per le prestazioni effettuate previa emissione di fattura per prestazioni professionali". Ebbene, la suddetta clausola, va interpretata, secondo la comune intenzione delle parti contraenti, come condizione sospensiva. Occorre premettere, al riguardo, che la domanda di risoluzione per inadempimento delle obbligazioni rispettivamente assunte dalle parti nel contratto a prestazioni corrispettive sottoposto a condizione sospensiva - salvo che la parte abbia violato l'obbligo ex art. 1358 c.c. di comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell'altra parte - deve essere rigettata nel caso in cui la condizione non si sia verificata. Si può parlare di inadempimento contrattuale, infatti, solo quando sussiste un contratto efficace: il mancato avveramento della condizione impedisce al contratto di produrre i propri effetti con conseguente impossibilità di parlare di inadempimento. Nel caso di specie è incontestato tra le parti che la condizione non si sia verificata, non essendo stato eseguito il pagamento del saldo da parte della clinica (...). A questo punto occorre quindi accertare se il comportamento della convenuta sia da reputarsi conforme all'obbligo su di lei ricadente, di comportarsi secondo buona fede. Va richiamato, sul punto, l'orientamento espresso dalla Suprema Corte secondo cui: "In caso di inadempimento dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede in pendenza della condizione sospensiva ai sensi dell'art. 1358 c.c., il momento dell'inadempimento - utile ai fini della determinazione del danno risarcibile e della sua decorrenza - va individuato in quello (ultimo) in cui risulta che la parte non si sia attivata per consentire il verificarsi della "condicio facti" (nella specie, l'ottenimento del mutuo agevolato, da parte del promissario acquirente, da perfezionarsi entro sette mesi dalla sottoscrizione del preliminare di vendita) e non già nel successivo momento della proposizione, ad opera della parte in mala fede, della domanda giudiziale di risoluzione del contratto (già inefficace per mancato avveramento della condizione). (Cassazione civile sez. II, 06/07/2022, n. 21427). Ciò posto, venendo all'esame dei fatti di causa, è incontestato tra le parti che la clinica (...) fosse inadempiente rispetto alle proprie obbligazioni sin dal 2015 (si veda in proposito all. 2 alla comparsa di costituzione) e che si sia resa inadempiente anche rispetto a tale accordo. Risulta documentato, inoltre, che solo nel dicembre 2019 e, quindi, dopo l'introduzione del presente giudizio, sia stata avviata un'iniziativa giudiziale nei confronti della suddetta clinica, culminata infine con l'apertura della procedura di liquidazione giudiziale (si veda documentazione depositata in allegato alle note di trattazione scritta di precisazione delle conclusioni). Deve, conseguentemente, ritenersi fondato l'assunto di parte attrice che ha lamentato l'inerzia della propria controparte contrattuale che nulla ha fatto, nonostante il conclamato inadempimento della clinica, per ottenere il pagamento del corrispettivo dovuto. L'inadempimento deve ritenersi di non scarsa importanza, posto che ha riguardato il pagamento del 50% del corrispettivo pattuito a fronte dell'integrale esecuzione della controprestazione eseguito dallo studio medico attore, mai contestato. Risulta, quindi, accertata la sussistenza del presupposto per la risoluzione del contratto costituito dal grave inadempimento della società. 4. Ciò detto, deve trovare accoglimento la domanda, formulata in via principale, di accertamento della risoluzione di diritto ex art. 1454 c.c., in conseguenza della diffida ad adempiere entro il termine di quindici giorni comunicata in data 19.04.2017 a mezzo pec. Tale lettera presenta gli elementi richiesti dalla norma citata per l'operatività della fattispecie risolutiva stragiudiziale, in quanto emessa sulla base di un inadempimento di non scarsa importanza, come detto, e contiene l'intimazione ad adempiere entro un congruo termine, con l'avvertimento che in mancanza il contratto si intenderà senz'altro risolto. Pertanto, il contratto di appalto di cui è causa deve intendersi risolto a far data dal 19.04.2017. 5. Deve quindi passarsi all'esame della domanda risarcitoria. La stessa deve più correttamente qualificarsi come domanda volta ad ottenere il pagamento del corrispettivo dell'esecuzione dell'opera prestata. Ciò posto, nel contratto di prestazione d'opera professionale, deve ritenersi che la risoluzione del contratto non osti a che la parte abbia diritto al riconoscimento del compenso per le opere già effettuate e delle quali, comunque, il committente stesso si sia giovato, in applicazione di quanto previsto dall'art. 1458 c.c.. Secondo l'orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui gli effetti retroattivi della risoluzione non operano per le prestazioni già eseguite riguarda i contratti ad esecuzione continuata o periodica, ossia soltanto quelli in cui le obbligazioni di durata sorgono per entrambe le parti e l'intera esecuzione del contratto avviene attraverso coppie di prestazioni da realizzarsi contestualmente nel tempo (Cass. n. 22521/2011). Per prestazioni già eseguite si intende quelle con le quali il debitore abbia pienamente soddisfatto le ragioni del creditore (Cass. n. 26862/2019). Ebbene, è incontestato tra le parti che lo studio medico abbia eseguito le prestazioni richieste e che abbia ricevuto qual corrispettivo il pagamento del solo acconto del 50%. Risultano emesse le fatture per il pagamento del saldo A04/2017 - A05/2017 -A06/2017 - A07/2017 - A08/2017 - A09/2017 - A10/2017 - A11/2017 - A12/2017, emesse il 17/03/2017. Risultano allegate anche le fatture nn. A08/17 e A/09/17, (cfr. doc. nn. 7 e 8 allegati alla comparsa di costituzione) mentre l'allegato 2 è ininfluente ai fini del decidere. Le deduzioni di parte convenuta, infatti, non fanno riferimento all'esecuzione della prestazione da parte dello studio medico ma alla necessità di un "riconteggio" dei corrispettivi che, a ben vedere, riguardano il suo contenzioso con la clinica (...) e non il fatto che, effettivamente, le attività di cui lo studio medico chiede il pagamento siano state compiute. Deve pertanto condannarsi parte convenuta al pagamento della somma di euro 93.465,66, oltre interessi come da domanda sino al saldo. 6. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, in applicazione dei parametri di cui al d.m. n. 55/14, come modificato dal d.m. n. 147/22, tenuto conto dei parametri medi relativi allo scaglione di riferimento, della qualità e della quantità dell'attività difensiva espletata, con dimidiazione di quanto riconosciuto per la fase istruttoria. P.Q.M. Il Tribunale di Avezzano, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando sulle domande proposte da (...) nei confronti di (...) S.R.L., ogni altra difesa, eccezione ed istanza disattesa, così provvede: - accoglie la domanda e per l'effetto accerta la risoluzione del contratto del 20.10.2014 a far data dal 19.04.2017; - condanna (...) S.R.L. al pagamento a favore di (...) della somma di euro 93.465,66, oltre interessi come da domanda sino al saldo. - condanna (...) S.R.L. al pagamento a favore di (...) al pagamento delle spese di lite che si liquidano d'ufficio in euro 11.200,00 oltre spese generali i.v.a. e c.p.a. come per legge. Si comunichi a cura della Cancelleria. Avezzano, 16 maggio 2023. Depositata in Cancelleria il 17 maggio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AVEZZANO Il Tribunale Avezzano in persona della giudice, dott.ssa Caterina Lauro, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in appello, iscritta al n. 718 del ruolo generale per gli affari contenziosi dell'anno 2018, trattenuta in decisione all'udienza cartolare del 17 gennaio 2023, e vertente TRA (...) S.r.l. (P. IVA (...)), in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dall'Avv. Ed.Pa., ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Luco dei Marsi (AQ), via (...), giusta procura in calce all'atto di citazione; ATTORE E (...) (C.F. (...)), rappresentata e difesa dall'Avv. Gu.Po., ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Avezzano (AQ), in via (...), giusta procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta; CONVENUTA-CHIAMANTE IN CAUSA NONCHE' AVV. (...) (C.F. (...)), rappresentato e difeso dall'Avv. Sa.Em., ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Avezzano (AQ), in via (...), giusta procura in calce alla comparsa do costituzione e risposta; TERZO CHIAMATO-CHIAMANTE IN CAUSA AVV. (...), TERZO CHIAMATO - CONTUMACE E (...) S.P.A. (C.F. e P.IVA (...)), in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dall'Avv. Fr.Ta., ed elettivamente domiciliata preso il suo studio in Roma, via (...), giusta procura generale alle liti conferita a rogito del notaio dott. (...), N. (...) di rep/N.(...) Racc. del (...); TERZA CHIAMATA Avente ad oggetto: altre ipotesi di responsabilità extracontrattuali non ricomprese nelle altre materie (art. 2043 c.c. e norme speciali) RAGIONI DI FATTO E DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Con atto di citazione ritualmente notificato la società (...) S.r.l. ha convenuto dinanzi all'intestato Tribunale la sig.ra (...) per sentirla condannare al risarcimento dei danni subiti a causa del mancato utilizzo di due autobus di sua proprietà (autobus marca Iribus Italia (...) targati rispettivamente (...) e (...)) a seguito dell'erroneo pignoramento sugli stessi effettuato da parte della convenuta. Con comparsa di costituzione tempestivamente depositata si è costituita in giudizio la sig.ra (...) la quale - sostenendo innanzitutto che il periodo di inutilizzo degli autobus pignorati fosse stato più breve (avendo nelle more dell'opposizione di terzo proposta la società attrice affermato di aver avuto conoscenza dello stesso soltanto in data 13.12.2016 e quindi non al momento della trascrizione del pignoramento al P.R.A. di L'Aquila il 14.10.2016) e che essendo la società proprietaria di altri 21 autobus, non avrebbe, di fatto, avuto necessità di utilizzare quelli pignorati - ha chiesto il rigetto dell'avversa pretesa in quanto infondata in fatto e in diritto. Ha, altresì, domandato l'autorizzazione all'evocazione in giudizio dei suoi legali , (...) e (...), al fine di tenerla indenne dall'eventuale condanna al risarcimento dei danni subiti dall'attrice in virtù del mandato difensivo loro conferito. Concessa la richiesta autorizzazione alla chiamata del terzo, si costituiva in giudizio il solo Avv. (...) instando anch'egli per il rigetto della domanda attorea. In particolare, sebbene abbia confermato di aver errato, seppur in buona fede, nel pignorare gli autobus di proprietà della società attrice nell'erronea convinzione che gli stessi fossero di proprietà del debitore della propria assistita, ha affermato di aver tempestivamente provveduto a richiedere al G.E. l'estinzione della procedura esecutiva intrapresa sugli autobus di proprietà della società attrice e alla cancellazione del relativo pignoramento. Ha chiesto, inoltre, la chiamata in garanzia della compagnia assicurativa (...) S.r.l. per essere manlevato dal pagamento del danno ove riconosciuto dal Tribunale. Parimenti concessa dal giudice l'autorizzazione alla chiamata della (...) S.p.A. si costituiva in giudizio anche quest'ultima, adducendo preliminarmente l'improcedibilità della domanda attorea, richiamando l' orientamento giurisprudenziale secondo cui la domanda di risarcimento del danno causato da pignoramento illegittimo rientra nell'ambito di cui all'art. 96, co. 2, c.p.c. e, di conseguenza, è di competenza del giudice chiamato a pronunciarsi sulla illegittimità dello stesso; nel merito, il rigetto della domanda di risarcimento avanzata dalla (...) S.r.l. in quanto non adeguatamente provata ed, infine, l'accoglimento della domanda di manleva nei limiti delle condizioni contrattuali pattuite. La causa è stata istruita mediante l'acquisizione delle prove documentali depositate dalle parti, escussione dei testi, ordine di esibizione dei cronotachigrafi relativi agli autobus oggetto di causa e trattenuta in decisione all'udienza cartolare di precisazione delle conclusioni del 24.05.2022. E' stata poi rimessa sul ruolo a seguito del mutamento dell'organo giudicante e trattenuta nuovamente in decisione all'udienza cartolare del 13.01.2023, previa assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito di comparse conclusioni e repliche. 2. Preliminarmente, va dichiarata la contumacia dell'Avv. (...) che, sebbene regolarmente citato, non si è costituito in giudizio. 3. La domanda proposta da (...) S.r.l. è inammissibile. In buona sostanza, la società (...) S.r.l. ha convenuto in giudizio (...) al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa del mancato utilizzo di due autobus di sua proprietà pignorati dalla convenuta nell'erronea convinzione che tali beni fossero di proprietà della Ditta Individuale (...) di (...), sua debitrice. Non vi è dubbio, quindi, che i fatti che avrebbero determinato il danno ingiusto a carico dell'attrice siano stati chiaramente da questa individuati nella condotta illecita della convenuta consistita nel aver trascritto il pignoramento sui beni di proprietà di (...) S.r.l. senza la ordinaria diligenza. Il caso che ci occupa deve, pertanto, essere correttamente inquadrato nell'ambito applicativo dell'art. 96, co. 2, c.p.c. Ciò posto, in tema di responsabilità aggravata, la giurisprudenza di legittimità è ormai concorde nel ritenere che tali ipotesi di responsabilità civile si pongano in rapporto di specialità rispetto alla fattispecie generale di responsabilità per fatto illecito di cui all'art. 2043 c.c.. La loro peculiarità risiede, infatti, nella natura processuale del comportamento illecito da cui è scaturito il danno ingiusto - che nell'ipotesi di cui al primo comma dell'art. 96 c.p.c. è tenuto dalla parte con mala fede o colpa grave, mentre nell' ipotesi di cui al secondo comma della stessa disposizione in assenza della normale prudenza - ragion per cui è stata esclusa la possibilità di un concorso tra le due norme (sul punto cfr. Cass., civ., sez. III, sentenza n. 5069 del 03/03/2010, Rv. 611867 secondo cui: "L'art. 96 c.p.c., che disciplina tutti i casi di responsabilità risarcitoria per atti o comportamenti processuali, si pone in rapporto di specialità rispetto all'art. 2043 c.c., di modo che la responsabilità processuale aggravata, pur rientrando concettualmente nel genere della responsabilità per fatti illeciti, ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sotto la disciplina del citato art. 96, senza che sia configurabile un concorso, anche alternativo tra i due tipi di responsabilità"). A nulla rileva, dunque, la distinzione evidenziata dalla società attrice - tra illegittimità e ingiustizia della trascrizione del pignoramento sugli autobus di sua proprietà - in occasione del deposito della prima memoria ex art. 183, co. 6, c.p.c. e ribadita in sede di deposito della comparsa conclusionale del 13/03/2023: infatti, avendo la domanda ad oggetto un caso di illecito relativo ad attività svolta da chi è parte in un processo la stessa non può che rientrare sotto la disciplina per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. Ebbene, premesso quanto sopra, questa giudice non può esimersi dall'osservare che l'azione proposta da (...) S.r.l. non poteva essere proposta in un separato ed autonomo giudizio, ma doveva essere esaminata dal giudice dell'opposizione di terzo all'esecuzione dalla stessa proposta avverso l'esecuzione mobiliare intrapresa dalla convenuta. Ed invero, valga rammentare che, in un caso analogo a quello che ci occupa, la S.C. ha avuto modo di affermare il principio di diritto secondo cui " "la domanda di risarcimento del danno derivato dall'incauta trascrizione d'un pignoramento, ai sensi dell'art. 96, comma secondo, c.p.c., può essere proposta in via autonoma solo: (a) quando non sia stata proposta opposizione all'esecuzione, né poteva esserlo; (b) ovvero quando, proposta opposizione all'esecuzione, il danno patito dall'esecutato sia insorto successivamente alla definizione di tale giudizio, e sempre che si tratti di un danno nuovo ed autonomo, e non d'un mero aggravamento del pregiudizio già insorto prima della definizione del giudizio di opposizione all'esecuzione" (cfr. Cass., civ., sez. III, sentenza n. 28527/2018). Ora, in applicazione dei suddetti principi, appare evidente, nel caso di specie, l'insussistenza delle condizioni per richiedere il risarcimento dei danni patiti a seguito di incauta trascrizione del pignoramento in via autonoma. Infatti, dal complessivo esame della documentazione e degli atti di causa nonché per stessa ammissione della società attrice, risulta non soltanto che quest'ultima abbia proposto opposizione di terzo all'esecuzione ex art. 619 c.p.c. avverso la procedura esecutiva mobiliare instaurata dalla S., ma anche che, in quella sede, abbia anche formulato espressa richiesta di condanna della convenuta ai sensi dell'art. 96 c.p.c. per aver agito senza la normale prudenza (vedi doc. all. n. 5 all'atto di citazione), infine, è altresì incontestato che il danno lamentato da (...) S.r.l. si sia prodotto in occasione della trascrizione stessa del pignoramento. A ciò si deve aggiungere, inoltre, che non colgono nel segno le allegazioni difensive svolte dalla parte attrice in sede di prima memoria ex art. 183, co. 6, c.p.c. e di comparsa conclusionale depositata in data 13.03.2023, ove ha affermato che: "L'eccezione di controparte non è attinente all'odierna vicenda, dal momento che l'art. 96 c.p.c. è applicabile solo ove il giudice abbia "accertato l'inesistenza del diritto", mentre nella fattispecie che ci occupa ciò non si è verificato (in altre parole, non è stato celebrato alcun giudizio "di merito" nel quale la (...) Srl avrebbe potuto proporre e veder giudicata la sua domanda di risarcimento ex art. 96 c.p.c.)" e "Ne l'odierna attrice avrebbe potuto "opporsi" alla declaratoria di estinzione della procedura di pignoramento e chiedere la fissazione di un termine per introdurre il giudizio di merito: ciò avrebbe rappresentato senz'altro un'ipotesi di abuso del diritto.". Ed invero, quello che rileva nel presente giudizio al fine di escludere l'ammissibilità della domanda è proprio la circostanza che (...) S.r.l. ha limitato le sue difese a tali allegazioni generiche, non fornendo alcuna prova concreta circa l'esistenza di ostacoli di fatto o preclusioni di diritto che potessero impedirle di coltivare la domanda risarcitoria nel giudizio di opposizione di terzo all'esecuzione ex art. 619 c.p.c. dalla stessa proposto avverso la procedura esecutiva mobiliare instaurata dalla (...) sugli autobus di sua proprietà, instaurando la relativa fase di merito. Dalle considerazioni che precedono si ricava, quindi, che la stessa parte attrice ha scelto di non instaurare il merito dell'opposizione ai sensi dell'art. 619 c.p.c., in cui avrebbe potuto coltivare l'azione ex art. 96 c.p.c., e non ha fornito alcuna compiuta argomentazione circa gli ostacoli (di fatto o di diritto) che hanno impedito di proporre la domanda risarcitoria nella sede a ciò deputata. Ed infatti, la possibilità di instaurare un autonomo giudizio al fine di ottenere il risarcimento del danno per illegittima esecuzione rappresenta una ipotesi meramente residuale non rimessa alla libera scelta della parte ma limitata dalla giurisprudenza di legittimità esclusivamente ai casi in cui risulti impossibile proporla dinanzi al giudice dell'esecuzione per comprovate ragioni di diritto o di fatto, circostanze che non appaiono ricorrere nel caso di specie. (cfr. Cass., civ., sez. VI, ord. N. 42119 del 31/12/2021). La domanda, quindi, non può che essere rigettata. 4. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, facendo applicazione dei valori medi di cui al D.M. n. 55 del 2014, tenuto conto del valore della controversia e dell'ordinario pregio delle questioni trattate. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunziando nella causa civile di primo grado indicata in epigrafe, ogni diversa istanza, conclusione e deduzione disattesa, così provvede: a) Rigetta la domanda; b) Condanna l'attrice alla refusione delle spese di lite sostenute dalla convenuta e dai due terzi chiamati che liquida in complessivi Euro 3.000,00 per ciascuno, oltre rimborso forfettario al 15%, c.p.a. e i.v.a. come per legge disponendone, in relazione alla parte convenuta (...), la distrazione in favore dell'avvocato dichiaratosi antistatario, Avv. Gu.Po.. Così deciso in Avezzano il 2 maggio 2023. Depositata in Cancelleria il 3 maggio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AVEZZANO Il Tribunale Avezzano in persona del GOT Avv. Alessandra Contestabile ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello, iscritta al n. 1562 del ruolo generale per gli affari contenziosi dell'anno 2017 trattenuta in decisione all'udienza del 07.03.2022 e vertente tra (...) ((...)), (...) ((...)), in proprio ed in qualità di esercenti la potestà genitoriale su (...) ((...)), (...) ((...)), in proprio ed in qualità di esercente la potestà genitoriale su (...) ((...)) e (...) ((...)) rappresentati e difesi dagli avv.ti Gi.Pa. ed Al.Gi., giusta procura in calce all'atto di citazione (attori) e (...) - (...) - (...) ((...)), in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dall'Avv. Gi.Di., giusta procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta (convenuta) Oggetto: risarcimento danni responsabilità sanitaria art. 1218 c.c. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Con atto di citazione ritualmente notificato, (...), (...), in proprio e quali esercenti la potestà genitoriale sulla minore (...), (...), in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulle minori (...) e (...), convenivano in giudizio l'(...) - (...) - (...) al fine di farne accertare e dichiarare la responsabilità per la morte occorsa in danno della loro congiunta (...) e la conseguente condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali quantificati in Euro 1.411.665,00 complessivi. In particolare, gli attori deducevano che in data 21.12.2016 la de cuius veniva dimessa dal Nosocomio di Avezzano in seguito ad un intervento di estrazione di calcoli ma che già dal giorno successivo manifestava febbre alta, problemi intestinali ed emesi, tanto da costringere la figlia (...) a prendere contatti telefonici con il Polo ospedaliero di Avezzano; sostenevano poi che durante la visita di controllo presso la struttura ospedaliera avvenuta in data 28.12.2016, sebbene la sig.ra manifestasse ancora tali sintomi, non erano stati effettuati accertamenti ulteriori fino al giorno successivo, quando, considerata la persistenza dei sintomi, la sig.ra (...) veniva nuovamente condotta in ospedale e le veniva prescritta una tac con mdc, mai eseguita sino alla morte avvenuta in data 01.01.2017. Sostenevano pertanto che la morte del loro familiare era attribuibile all'esclusiva responsabilità del Nosocomio di Avezzano per omessa diagnosi dell'aneurisma ed omissione di controlli diagnostici adeguati in relazione ai sintomi presentati dalla de cuius e chiedevano il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti sia iure proprio che iure hereditatis. Si costituiva in giudizio l'(...) - (...) - (...) chiedendo il rigetto della domanda siccome infondata in fatto ed in diritto, eccependo in via preliminare il difetto di legittimazione attiva in capo agli attori ed in ogni caso l'insussistenza della malpractice da parte degli operatori sanitari, anche in considerazione delle preesistenti patologie da cui era affetta la sig.ra (...) e dell'imprevedibilità dell'aneurisma che ne ha determinato l'evento morte. La causa veniva istruita mediante l'audizione di testi e con l'espletamento di CTU medico-legale e veniva trattenuta in decisione all'udienza di precisazione delle conclusioni del 07.03.2022, con concessione dei termini ex art. 190 c.p.c.. 2. Giova anzitutto precisare che l'azione de qua deve essere inquadrata nell'ambito della responsabilità contrattuale in virtù del rapporto fra la struttura sanitaria ed il paziente, inquadrabile nel novero dei contratti atipici ed in particolare in quello di "spedalità" o di "assistenza sanitaria", per effetto del quale la struttura assume l'obbligo di adempiere sia prestazioni principali di carattere strettamente sanitario, sia prestazioni secondarie ed accessorie - fra cui prestare assistenza al malato, fornire vitto e alloggio in caso di ricovero; tale qualificazione comporta che dunque, anche sotto il profilo del regime probatorio applicabile, alla struttura sanitaria grava provare, per essere esonerata dalla responsabilità risarcitoria verso il paziente, che le conseguenze dannose di tale condotta non le sono imputabili a titolo di inadempimento delle obbligazioni oggetto del contratto di spedalità e che dunque la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente. 3. La domanda avanzata da parte attrice è fondata in punto di an e deve trovare accoglimento, anche in punto di quantum, seppur con doverosa rimodulazione, tenuto conto anche delle risultanze dell'attività istruttoria espletata. Come anticipato, in tema di responsabilità contrattuale del medico nei confronti del paziente, ai fini del riparto dell'onere probatorio, l'attore è tenuto a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia con l'allegazione di qualificate inadempienze, astrattamente idonee a provocare (quale causa o concausa efficiente) il danno lamentato, restando poi a carico del debitore convenuto l'onere di dimostrare che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa essergli mosso, o che, pur essendovi stato un suo inesatto adempimento, questo non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno (ex multis Cass. Civ., sez. III, sent. n. 20547 del 30 settembre 2014; sent. n. 27855 del 12 dicembre 2013; sent. n. 4792 del 26 febbraio 2013). Nella vicenda per cui è controversia, gli attori ascrivono alla struttura l'aver omesso di disporre, o meglio, di dare esecuzione ad accertamenti prudenzialmente doverosi (nel caso che ci occupa di una tac), necessari ai fini della diagnosi di aneurisma e che i sanitari della struttura avrebbero dovuto disporre in relazione al quadro sintomatologico manifestato dalla paziente (nello specifico, febbre alta, vomito biliare, dolore addominale e lombare). Il ctu, chiamato a pronunciarsi sulla plausibilità della ricostruzione delineata in citazione ed avallata dalla ctp versata in atti, ha effettivamente riscontrato la sussistenza del nesso eziologico tra le condotte poste in essere dalla struttura convenuta e l'evento morte del paziente; nello specifico, i consulenti prof. dott. (...) e prof. (...), hanno anzitutto rammentato che era stato suggerito sin dal 29.12.2016 un esame TAC con MDC, all'esito della consulenza chirurgica eseguita dal dott. (...) (...) quest'ultima richiesta dal sanitario in servizio presso il Pronto Soccorso, dalla quale, tra l'altro, scaturì la richiesta di un ricovero urgente. Aggiungono inoltre che l'esame ecografico alla quale era stata sottoposta, "i cui limiti d'indagine compresa la mancata visualizzazione dell'aorta e del pancreas venivano segnalati dall'operatore che suggeriva dunque ulteriori approfondimenti (monitoraggio diagnostico dedicato)", in presenza della sintomatologia presentata dalla paziente, si era rivelato assolutamente inadeguato, al contrario della tac, che, se effettuata tempestivamente con mezzo di contrasto, avrebbe consentito ai sanitari di porre diagnosi di aneurisma dell'aorta lombare. Concludono dunque evidenziando profili di responsabilità professionale nella condotta dei sanitari che curarono la sig.ra (...) dal 29.12.2016 al 01.01.2017, "nello specifico (...) l'omessa effettuazione di un esame TAC con MDC, suggerito sin dal 29.12.2016 (...) ed ancora il 30.12.2016" in quanto "la mancata esecuzione dell'indagine eseguita annullò la possibilità di acquisire una diagnosi tempestiva di aneurisma addominale, la cui rottura improvvisa è da considerarsi la causa materiale e giuridicamente rilevante del decesso del paziente" (come confermato dallo stesso esame autoptico disposto dalla Struttura sanitaria) e che dunque deve ravvisarsi la responsabilità "del sanitario che omise di dare seguito alla proposta di indagine strumentale". Quanto alle possibilità di sopravvivenza della paziente deceduta, rilevano infine che "l'omessa diagnosi, gli omessi controlli diagnostici hanno in effetti determinato per la sig.ra (...) una perdita di chance, che statisticamente aveva, di conservare la propria vita e/o la possibilità di vivere più a lungo di quanto poi, effettivamente, ha vissuto". Pertanto, vi è prova con riferimento alla sussistenza del nesso eziologico tra la condotta imperita dei medici della struttura convenuta e l'evento morte del paziente, anche alla luce della cartella clinica della sig.ra (...) e dalle dichiarazioni testimoniali assunte, dalle quali risulta evidente come la stessa presentasse ininterrottamente dal giorno successivo alle dimissioni (21.12.2016) sino alla morte, i sintomi campanella dell'aneurisma dissecante del tratto lombare dell'aorta (febbre, vomito, dolori addominali), sintomi ravvisabili tipicamente nell'estrinsecazione dell'evento fatale, come ammesso dalla stessa convenuta (sebbene la divergenza in punto di prevedibilità dell'evento lesivo). Acclarata la sussistenza del nesso eziologico tra condotta omissiva posta in essere dall'(...) e l'evento morte nel paziente, la convenuta è tenuta a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali, subiti dagli attori, sebbene tuttavia occorra rimodulare il quantum ad essi spettante e dunque procedere ad una quantificazione equitativa del danno ed a una individuazione dei soggetti effettivamente beneficiari del risarcimento del danno patito dalla perdita del proprio familiare. 4. Preliminarmente, si ritiene opportuno chiarire la posizione inerente all'attrice, (...), di anni quattro al momento del decesso della de cuius; sul punto occorre rammentare l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui "la perdita del rapporto parentale è pregiudizio rilevante solo per il congiunto che di tale rapporto sia parte, ovviamente non in senso formale, ma che lo sia nel senso di poter trarre dal rapporto le "utilità" che esso offre: reciproco affetto, solidarietà, comunanza familiare, la cui natura presuppone naturalmente una certa capacità di trarre beneficio da quel rapporto, di averne le "utilità" che offre e che l'illecito fa perdere definitivamente" (ex multis Cass. Civ. sez. III, 26/04/2022, n.12987); ebbene, nel caso che ci occupa, tenendo conto della tenera età della minore al momento della dipartita della nonna e che, come chiarisce la Corte "se si può ammettere, in astratto, una eventuale sofferenza postuma, non si può ammettere un godimento postumo dei beni che il rapporto familiare consente", alla stessa non può essere riconosciuto un risarcimento del danno subito in conseguenza alla morte della sig.ra (...) anche considerando le pregresse patologie della nonna (demenza mista, sindrome di allettamento). Al pari, non può essere riconosciuto come soggetto legittimato a percepire il risarcimento dei danni subiti dalla morte della sig.ra (...) anche il genero convivente, (...), tenendo a mente che come sostenuto dalla giurisprudenza ormai pacificamente, i soggetti richiedenti "devono provare l'effettività e la consistenza della relazione affettiva, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di sussistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l'ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l'azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno o dalla nuora o dal genero", dunque, sebbene il c.d. concetto di "società naturale" non è più limitato alla mera "famiglia nucleare" dunque al solo rapporto di stretta parentela, è pur vero che deve essere data prova del rapporto costante di reciproco affetto e di solidarietà con la defunta, che nel caso di specie è stato provato genericamente da parte degli attori. Stessa considerazione vale anche con riferimento alla nuora, moglie del figlio premorto, (...), neppure convivente con la sig.ra (...) e delle nipoti non conviventi (...) ed (...), anche tenendo conto, in tale caso, dello stato di demenza dal quale era affetta la compianta, e della mancata prova di un'effettiva sussistenza di un rapporto costante di reciproco affetto e di solidarietà con la defunta. Diversa considerazione vale invece per la figlia convivente, (...), la quale, come emerso dall'attività istruttoria espletata, si occupava giornalmente della cura e dell'assistenza della madre, e che dunque appare la sola legittimata attiva ai fini del risarcimento dei danni subiti dalla perdita della de cuius. Ai fini della liquidazione del danno iure proprio patito per la perdita del rapporto parentale, la giurisprudenza di merito e di legittimità pacificamente sostiene che occorre considerare una serie di parametri, tra i quali l'esistenza di uno strettissimo legame di parentela tra il de cuius ed i parenti danneggiati, l'età del de cuius al momento della morte, nonché quella dei suoi parenti (in relazione alla quel va rapportato il risarcimento perché minore è l'età, maggiore è il periodo di tempo in cui questi dovranno sopportare la mancanza affettiva ed il sostegno morale del congiunto defunto), nonché delle circostanze improvvise o tragiche in cui è intervenuto il decesso (cfr. Corte appello Napoli sez. I, sent. n. 1770 del 27 aprile 2022). 5. Nel caso che ci occupa, occorre tener conto di taluni fattori, quali l'età della vittima (circa 70 anni) ed il fatto che ella fosse affetta da diverse patologie particolarmente invalidanti, ovvero sindrome di allettamento e demenza mista che, in effetti, non consentono di provare appieno l'intensità del legame affettivo tra i parenti e la vittima, se non nei limiti della sola figlia, (...), che infatti assistiva giornalmente la madre. In relazione a questa, deve ritenersi risarcibile un danno considerando i valori delle Tabelle di Milano, pari ad Euro 170.000,00. 6. Quanto al danno risarcibile iure hereditatis, gli attori chiedono liquidarsi il c.d. danno biologico terminale, il danno morale terminale, il danno tanatologico ed il danno da perdita di chance. Con riferimento al rapporto tra le prime due voci di danno, giova rammentare il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, applicabile anche nel caso oggetto di odierna disamina, in forza del quale "In tema di danno non patrimoniale risarcibile in caso di morte causata da un illecito, il danno morale terminale e quello biologico terminale si distinguono, in quanto il primo (danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico) consiste nel pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l'ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall'apprezzabilità dell'intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando soltanto l'integrità della sofferenza medesima; mentre il secondo, quale pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità e intensità, sussiste, per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell'integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa, ma richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo" (cfr. Cassazione civile sez. III, 13/02/2020, n.3557). Ed ancora, valga quanto sostenuto dalla Suprema Corte, la quale, appunto, in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, nel periodo di tempo interposto tra la lesione e la morte - oltre all'eventualità del danno biologico terminale (ossia al danno biologico stricto sensu) - può accompagnarsi, nell'unitarietà del genus del danno non patrimoniale, il danno morale (detto danno morale terminale), ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall'avvertita imminenza dell'exitus, se nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona si trovi in una condizione di "lucidità agonica", ossia in una condizione tale da consentire la percezione della propria situazione e, in particolare, l'imminenza della morte, essendo quindi irrilevante, a fini risarcitori, in tale ipotesi, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale ed il decesso (cfr., ex plurimis, Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 23153 del 17/09/2019). Dunque, le diverse voci di danno richieste da parte attrice richiedono anche un diverso esame da parte del Giudice di merito in ordine alla sussistenza dei presupposti necessari ai fini del loro riconoscimento. Quanto al danno morale terminale, dall'attività istruttoria espletata non è emersa la c.d. lucidità agonica richiamata dalla giurisprudenza, e dunque la consapevolezza da parte della sig.ra (...) dell'imminenza della propria dipartita, ma anzi, è emerso che la stessa soffrisse di demenza mista. Pertanto, la mancata allegazione di elementi idonei a provare che, nel momento del decesso e prima ancora del ricovero, la stessa conservasse momenti di coscienza e lucidità, ma anzi, lo stato di demenza da cui ella era affetta (circostanza peraltro non contestata), non consente di ravvisare la richiesta sofferenza morale subita dalla de cuius nei giorni antecedenti alla morte, quale presupposto ai fini del riconoscimento del risarcimento de quo. Venendo ad esaminare, la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale nella voce del c.d. danno biologico terminale, in tale caso l'esame del Giudice si concentra essenzialmente sull'esistenza di un apprezzabile lasso temporale tra lesioni colpose (nel nostro caso, l'omessa esecuzione della tac in presenza della sintomatologia presentata dalla paziente), e la morte. Seppur breve, deve comunque ravvisarsi un minimo lasso temporale tra evento omissivo ed evento morte, quantomeno a partire dal 28.12.2016, ovvero dal giorno in cui, in occasione della visita di controllo già fissata dal Nosocomio in seguito all'intervento di rimozione dei calcoli, la sig.ra presentava già sintomi campanella, idonei a destare sospetto in capo ai sanitari, tanto che infatti il giorno successivo, il chirurgo consultato dal Pronto soccorso indicava come necessario l'espletamento della tac con contrasto. Dunque, vi è un lasso temporale di quattro giorni, sufficiente ai fini della risarcibilità del c.d. danno biologico terminale, anche alla luce di quanto previsto dalla suprema Corte secondo la quale il danno biologico cd. terminale è configurabile, e trasmissibile "iure successionis", ove la persona ferita non muoia immediatamente, sopravvivendo per almeno ventiquattro ore, tale essendo la durata minima, per convenzione legale, ai fini dell'apprezzabilità dell'invalidità temporanea (cfr. Cass. Civ. sez. III, 05/07/2019, n. 18056). Tenendo dunque conto dei criteri indicati dalle Tabelle di Milano, il risarcimento del danno biologico terminale deve essere quantificato in Euro 31.000,00. Venendo al danno c.d. tanatologico, si rileva che, come da costante insegnamento della Suprema Corte, "la perdita della vita non può mai costituire un danno risarcibile alla persona stessa che la perde. E tantomeno, proprio per tale caratteristica del bene "vita" nessun danno in relazione ad esso è risarcibile, rectius trasmissibile, jure hereditatis. Invero, quel che sempre ricorre nel periodo di tempo interposto tra la lesione mortale e la morte è il danno biologico stricto sensu (ovvero danno al bene "salute"), come rileva Cass. 22541/2017; e a questo, peraltro, nell'unitarietà del genus del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie, ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica derivante dall'avvertita imminenza dell'exitus"; dunque non può trovare accoglimento tale voce di danno. Quanto infine al danno da perdita di chance, i ctu, come sopra richiamato, hanno accertato che la malpractice medica ha indubbiamente comportato in capo alla sig.ra (...) "una perdita di chance, che statisticamente aveva, di conservare la propria vita e/o la possibilità di vivere più a lungo di quanto poi, effettivamente, ha vissuto"; occorre tuttavia considerare che la de cuius, come emerso dalla lettura della cartella clinica, soffriva di una serie di patologie pregresse quali diabete incontrollato, sindrome di allettamento, esiti di ictus, che, unite anche all'età della vittima (comunque settantenne) presumibilmente avrebbero inciso negativamente sulla propria sopravvivenza, anche laddove l'esame diagnostico della tac avrebbe consentito di individuare la formazione dell'aneurisma e dunque scongiurarne la morte. In via equitativa si ritiene pertanto congruo liquidare a titolo di risarcimento del danno da perdita di chance, una somma non superiore ad Euro 15.000,00. 6. Da ultimo, la domanda di risarcimento del danno patrimoniale subito dai familiari in conseguenza dell'evento morte non risulta adeguatamente supportata da riscontri probatori, posto che infatti, non vi è alcun elemento dal quale risulti che la sig.ra (...) contribuisse materialmente, ed in che misura, allo svolgimento del menage familiare. 7. In considerazione dell'accoglimento parziale della domanda attrice e della rimodulazione del quantum di risarcimento del danno richiesto rispetto a quello riconosciuto, le spese di lite devono essere compensate tra le parti. Devono essere altresì definitivamente poste in solido tra le parti le spese di CTU, liquidate con separato decreto. P.Q.M. Il Tribunale definitivamente pronunciandosi sulla domanda proposta da (...), (...), in proprio e quali esercenti la potestà genitoriale sulla minore (...), (...), in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulle minori (...) e (...), nei confronti del Comune di Avezzano così decide: 1) accoglie la domanda attorea e per l'effetto condanna (...) - (...) - (...) a titolo di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., al pagamento di Euro 216.000,00 complessivi alla sig.ra (...) per i danni non patrimoniali iure proprio e iure hereditatis patiti in conseguenza alla morte della sig.ra (...), oltre rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat ed interessi compensativi al tasso legale su tale somma, rivalutata di anno in anno dalla data di proposizione della domanda; 2) compensa le spese di lite tra le parti; 3) pone definitivamente in solido a carico di entrambe le parti le spese di CTU, liquidate con separato decreto. Così deciso in Avezzano il 3 ottobre 2022. Depositata in Cancelleria il 3 ottobre 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI AVEZZANO Il Tribunale, nella persona del Giudice Unico dott.ssa Alessandra CONTESTABILE, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di primo grado iscritta al n. (...) r.g. contenzioso promossa da: (...) elett.te domiciliato in (...), con l'avv. (...) - attore opponente - contro (...), elett.te domiciliata in (...), con l'avv. (...) - convenuta opposta - Oggetto: opposizione a decreto ingiuntivo. SVOLGIMENTO DEL PROCEDIMENTO In applicazione degli artt. 132 c.p.c. e 1 18 disp. att. c.p.c., come novellati dall'art. 58, comma 2 Legge 18.6.2009 n. 69, si omette lo svolgimento delle fasi processuali della controversia in oggetto, dandosi solo conto delle posizioni assunte dalle parti in giudizio, nonché dell'avvenuto esperimento del procedimento di mediazione con esito negativo. Con atto di citazione ritualmente notificato in data (...) proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. (...) del (...) notificato in data (...) emesso dal Tribunale di Avezzano, con cui gli veniva ingiunto il pagamento, in favore di (...) della somma di Euro (...) (oltre interessi come da domanda, spese della procedura di ingiunzione pari Euro 540.00 per onorari ed Euro 145.50 per esborsi, oltre spese generali iva e cpa. oltre alle successive occorrende), in virtù del contratto di apertura di credito utilizzabile con carta revolving n. (...) stipulato tra l'odierno opponente nella veste di consumatore e (...), cedente il credito originariamente erogato. A fondamento dell'opposizione, il (...) deduceva l'inammissibilità e/o illegittimità del ricorso per decreto ingiuntivo opposto per difetto di procura, per difetto di notificazione del contratto di cessione, perché emesso in carenza dei presupposti di legge, ovvero per intervenuto pagamento, risultato eseguito per altro e diverso rapporto, dunque tanquam non esset, tale per cui inconferente e irrilevante per l'oggetto di causa. In ogni caso, a tutto voler concedere, tale pagamento configurerebbe "una eccezione avente efficacia estintiva indipendentemente dal tramite di una manifestazione di volontà della parte, sicché integra un'eccezione in senso lato rilevabile d'ufficio sulla base degli elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti" (cfr. Cass. Civ. Sez. I Ord. n. 41474 del 24.12.2021). Si costituiva in giudizio, mediante il deposito in via telematica della relativa comparsa la (...) quale cessionaria del credito relativo al contratto di finanziamento sopraddetto, deducendo l'infondatezza dell'opposizione ed insistendo quindi per il suo integrale rigetto e la conferma del d.i. opposto. Con ordinanza del 5.10.2017, il Giudice precedente titolare del molo, assegnava alle parti termine per l'introduzione del tentativo di mediazione che veniva esperito in data 15.12.2017 e che si concludeva con esito negativo. Attesa l'assenza di richieste istruttorie, la causa è stata rinviata per la precisazione delle conclusioni e quindi trattenuta in decisione con concessione dei termini ex art. 190 c.p.c. Va in primo luogo affrontata la questione inerente la legittimano adcausam. 1.1 .Trattasi, infatti, di questione da dover esaminare pregiudizialmente d'ufficio posto che il difetto di legittimazione ad agire in capo alla (...) quale cessionaria del credito preteso per mancanza di idoneo titolo che la legittimi ad agire, è condizione essenziale dell'azione diretta all'ottenimento di una qualsiasi decisione di merito la cui esistenza è da riscontrare, esclusivamente, nell'ambito della fattispecie giuridica prospettata nell'azione, ovvero nel d.i. n. (...), nella comparsa di costituzione e risposta, nei correlati atti e nella documentazione contestualmente prodotta dall'opposta, attore in senso sostanziale, prescindendo dalla titolarità del rapporto dedotto in causa ovvero dei crediti alla stessa ceduti che, invece, si riferisce al merito della causa, investendo i concreti requisiti per raccoglimento della domanda e, quindi, la sua fondatezza. In altri termini non viene offerta la prova certa che l'opposta fosse il soggetto abilitato ad azionare il credito vantato, al contrario risultato totalmente incerto, come richiesto dal consolidato maggioritario diritto vivente. 1.2. Sul punto le SS.UU. Civili della S.C. con la sentenza n. 2951/2016, in merito alla "legittimazione attiva" dell'opposta, hanno per l'appunto definitivamente chiarito che: a) l'istituto costituisce il "diritto all'azione" garantito e tutelato dall'art. 24 Cost. laddove è previsto "Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi b) pregressa e unanime giurisprudenza di legittimità ha diversamente qualificato la legittimano ad causam sia come condizione dell'azione sia come presupposto processuale (Cass. n. 14177/2011), in ogni caso da intendersi come diritto potestativo ad ottenere dal giudice una decisione di merito, favorevole o sfavorevole, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato secondo la prospettazione della parte, prescindendo dalla effettiva titolarità del medesimo rapporto (Cass. SS.UU. Civili n. 1912/2012 e Cass. n. 23568/2011 ); c) in riferimento all'art. 81 c.p.c. "sostituzione processuale" afferma che la stessa è intesa ad individuare il soggetto che, con riferimento al diritto che assume leso, può pretendere per sé il provvedimento di tutela giurisdizionale domandato nei confronti di colui che è stato chiamato in giudizio; d) il suo difetto condurrà ad una conclusione del processo con una pronuncia in rito tutte le volte in cui, dalla stessa prospettazione della domanda, emerga che il diritto azionato in giudizio non appartiene all'attore; tale carenza è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, anche in sede di legittimità, salvo l'effetto preclusivo del giudicato interno (Cass. SS.UU. Civili n. 1912/2012), ove la relativa questione abbia tonnato oggetto in sede di merito di specifica pronuncia non impugnata (Cass. Civ. n. 20978/2013; n. 25573/2009; n. l 1837/2007); e) la sua rilevabilità d'ufficio, purché desumibile dagli atti, viene affermata univocamente dalla giurisprudenza, vertendosi in materia di "ordine pubblico attinente alla legittima instaurazione del contraddittorio" e mirando a prevenire una sentenza "inutiliter data" (cfr. Cass. SS.UU. Civ. n. l912/2012) e viene riservato al Giudice di verificare la coincidenza del soggetto che esercita l'azione o vi resiste, con quello cui la legge riconosce il potere di agire e contraddire in ordine al rapporto giuridico dedotto in lite. In altra decisione, Cass. n. 8969/2015, è oltretutto previsto che la negazione della legittimazione ad agire non integra un fatto per il quale opera il principio di non contestazione, di cu: all'art. 115, comma 1 c.p.c., ma una eccezione processuale in senso ampio, attinente al contraddittorio, la cui fondatezza deve essere al pari valutata d'ufficio dal giudice attraverso l'esame degli atti acquisiti al giudizio; f) non si ravvisano problemi probatori "perché si ragiona sulla base della domanda e della prospettazione in essa contenuta"; g) la questione non é soggetta a preclusioni "in quanto una causa non può chiudersi con una pronuncia che riconosce un diritto a chi, alla stregua della sua stessa domanda, non aveva titolo per farlo valere in giudizio"; 2. Titolarità del credito azionato. 2.1. Questo Giudice conosce la problematica attinente la qualificazione (con le relative conseguenze in ordine al momento entro il quale la stessa può essere sollevata) della contestazione circa la titolarità del rapporto dedotto in causa, in termini di MERA DIFESA che non subisce preclusioni processuali circa la deduzione ed implica l'onere della parte, la cui titolarità è contestata, di fornire la prova di possederla, ovvero a mezzo di ECCEZIONE IN SENSO TECNICO, che invece deve essere introdotta nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte, con l'ulteriore conseguenza che spetta a chi la solleva l'onere di provare la propria affermazione. Sul punto dirimente è la pronuncia delle SS.UU. Civili che con decisione del 16.2.16 n. 2951 in relazione alla legittimati ad causam ha confermato la distinzione tra la legittimati)) ad causam e la effettiva "titolarità del rapporto ", puntualizzandone la diversa disciplina processuale 2.2. Sul punto le SS.UU. ha stigmatizzato e dissentito con l'orientamento giurisprudenziale maggioritario che riconduceva la suddetta questione in quelle attinenti al merito con effetto consequenziale che la titolarità del diritto rientrerebbe nel potere dispositivo, quindi, nell'onere deduttivo e probatorio della parte interessata con esclusione della rilevabilità d'ufficio dal giudice del difetto non potendo quest'ultimo soggiacere al regime delle eccezioni in senso stretto (in questi termini anche Cass. n. 2091/2012 cit.). 2.3. Ancora diversa è l'ipotesi in cui la titolarità del diritto sia negata dal convenuto con una mera difesa, vale a dire con una presa di posizione che si limiti a negare la esistenza del fatto e, perciò, non soggetta a decadenza ex art. 167 c.p.c., dall'ipotesi in cui vengano ad essa contrapposti fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto ex adverso sollevati, ossia le eccezioni in senso stretto di cui all'art. 2697 comma 2 c.c.; con la significativa precisazione che sulla predetta distinzione si era già conformemente pronunciata la S.C. (Cass. SS.UU. Civ., sent. 3.6.15 n. 1 1377; Cass. Civ., sez. I, sent. 13.10.15 n. 20564) secondo cui la mera negazione del fatto costitutivo del diritto azionato dalla controparte non costituisce eccezione, ma mera difesa per l'appunto, ragion per cui non rientra nelle preclusioni previste dagli artt. 167 e 345 c.p.c., e della sua mancanza, risultante dagli atti, il giudice deve tener conto anche in mancanza di specifica richiesta della parte interessata. 2.4. In conclusione e sintetizzando, va precisato che con la decisione n. 2951/16 le SS.UU., ponendo fine agli annosi contrasti interpretativi emersi tra le varie pronunce delle Sezioni semplici ed anche delle SS.UU., autorevolmente affermano: tutte le questioni che non si risolvono in una eccezione in senso stretto non sono assoggettabili alle preclusioni processuali e possono essere proposte in ogni fase del giudizio, anche in Cassazione nei limiti del giudizio di legittimità e sempreché non si sia formato il giudicato; possono essere sollevate d'ufficio dal giudice; possono anche essere oggetto di motivo di appello in quanto l'art. 345 c.p.c. prevede il divieto solo per le eccezioni nuove non rilevabili d'ufficio. 3. Difetto della titolarità del diritto azionato. Dalla prospettazione della stessa domanda dell'opposta, nella specie attore in senso sostanziale, dalla disamina degli atti e dei documenti versati nel presente giudizio, si evince che (...) non può ritenersi titolare del credito azionato in sede monitoria e ribadito in questa fase, nascente dall'inadempimento dell'obbligazione di restituzione delle somme utilizzate dal (...) mediante l'apertura di linea di credito revolving, giusto contratto stipulato in data 08.02.2005 con (...) (doc. 2 ricorso per ingiunzione), per manifesta carenza di prova circa la titolarità del titolo azionato in sede giudiziale, di guisa che l'opposizione è da accogliere anche nel merito per le ragioni di seguito illustrate. 3.1. Secondo i principi espressi dalle SS.UU. Civili con la sentenza del 16.02.2016 n. 2951 la legittimazione ad agire, attenendo al diritto di azione, spetta a chiunque faccia valere in giudizio un diritto assumendo di esserne il titolare e la sua carenza può essere rilevata d'ufficio dal Giudice, mentre cosa diversa dalla titolarità del diritto ad agire è la titolarità della posizione soggettiva vantata in giudizio che attiene invece al merito della causa, la quale è un elemento costitutivo del diritto fatto valere con la domanda che l'attore ha l'onere di allegare e di provare in positivo, ovvero anche in forza del comportamento processuale del convenuto qualora quest'ultimo riconosca espressamente detta titolarità, oppure svolga difese che siano incompatibili con la negazione della titolarità. 3.2. Ciò premesso e con diretto riferimento al caso trattato, si evidenzia che (...) ha agito in giudizio assumendo di essere cessionaria del credito ex art. 58 TUB di (...) (già cessionaria di (...)e questa a sua volta cessionaria di (...)), senza però adempiere ai specifici obblighi pubblicitari ed informativi imposti dalla Legge e di seguito descritti. 3.2.1. L'art. 58 comma 2 TUB, in materia di cessione di crediti, prevede che "la banca cessionaria dà notizia dell'avvenuta cessione mediante iscrizione nel registro delle imprese e pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. La Banca d'Italia può stabilire forme integrative di pubblicità". 3.2.2. In proposito deve rilevarsi che, con riferimento alla questione trattata, si contrappongono diversi orientamenti giurisprudenziali di legittimità: un primo orientamento reputa sufficiente, ai fini della prova della cessione del credito in blocco ex art. 58 TUB, il deposito dell'avviso di cessione pubblicato in Gazzetta Ufficiale (tra le varie, Cass. sent. nn. 4334/2020. 15884/2019, 31118/2017); un secondo e più convincente orientamento, già sposato da questo tribunale, l'avviso di cessione dei crediti di blocco e l'iscrizione nel Registro delle Imprese, risponde unicamente alla funzione di sostituzione della notifica prevista dall'art. 1264. dispensando così la Banca cessionaria dall'onere di provvedere alla notifica della cessione (Cass. ord. n. 5617/2020 e n. 22151/2019). Più precisamente, la pubblicazione in G.U. dell'atto di cessione e l'iscrizione nel Registro delle Imprese, sostituirebbero la notificazione dell'atto stesso al debitore ceduto, ponendosi sullo stesso piano degli oneri prescritti dall'art. 1264 c.c., realizzandone di fatto il medesimo effetto di pubblicità e non altro in termini di efficacia della cessione nei confronti del debitore ceduto. 3.2.3. Il CICR con delibera n. l 17/201 1 stabilisce che "nei casi previsti dall'art. 125 septies del TUB, il debitore ceduto è informato della cessione del credito con una comunicazione individuale e con le modalità previste dalla Banca d'Italia" (ndr, ipotesi applicabile nella specie pacificamente essendo il finanziato consumatore). 4. La S.C. con la sentenza 22280/2010, ha sancito che la natura del contratto di cessione comporta che il credito si trasferisce dal patrimonio del creditore cedente a quello del creditore cessionario per effetto dell'accordo, mentre l'efficacia e la legittimazione del creditore cessionario a pretendere la prestazione conseguono alla notifica della lettera di cessione del credito al debitore ceduto. 4.1. Più in particolare, in più occasioni, ha osservato "I principi di diritto segnalati dal ricorrente corrispondono alla giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale "la natura consensuale del contratto comporta che il credito si trasferisce dal patrimonio del cedente a quello del cessionario per effetto dell'accordo, mentre l'efficacia e la legittimazione del cessionario a pretendere la prestazione dal debitore (in quanto alla semplice conoscenza della cessione da parte di costui si ricollega l'unica conseguenza della non liberatorietà con il pagamento effettuato al cedente) conseguono alla notificazione o all'accettazione della cessione al contraente ceduto" (Cass. 16 giugno 2006 n. 13954). 4.2. Ed ancora "Non sussiste alcuna legittimazione ad agire per il cessionario senza la prova della cessione del credito. La natura consensuale di tale contratto, infatti, comporta che il credito si trasferisca dal patrimonio del cedente a quello del cessionario per effetto dell'accordo, mentre l'efficacia e la legittimazione del cessionario a pretendere la prestazione dal debitore conseguono alla notifica o all'accettazione del contraente ceduto" (cfr. ex multis, Cass. n. 23093 del 2010. n. 8373 del 2009 e n. 23463 del 2009). 4.3. Dunque, secondo tale indirizzo giurisprudenziale, la cessione è valida ed efficace tra cedente e cessionario quando sia stata data la comunicazione di essa al debitore ceduto. 5) Nel caso trattato, da un attento esame della documentazione prodotta si evince tra l'altro, che nessuna prova dell'avvenuta pubblicazione dell'atto di cessione nella Gazzetta Ufficiale è stata fornita, tantomeno dell'avvenuta iscrizione nel Registro delle Imprese. 6) Altresì, nessuna comunicazione scritta dell'avvenuta cessione del credito è stata comunicata al (...) indubbiamente ed incontestabilmente da ritenere persona fisica consumatore. 6.1. Deve, infatti, ritenersi viziata, id est inesistente, la notificazione come addotta dall'opposta, posto che non è dato comprendere se la raccomandata n. (...) (non consegnata), sia tornata al mittente effettivamente per compiuta giacenza o per irreperibilità del destinatario perché sconosciuto o trasferito, oppure, per rifiuto dello stesso; inoltre, dal documento relativo all'esito della spedizione (doc. 4 monitoraggio spedizione raccomandata n. (...) - comparsa di costituzione), si evince che la raccomandata in questione è stata consegnata in Pavia, nonostante la stessa sia stata inequivocabilmente indirizzata al (...) presso il domicilio dichiarato in contratto. 6.2. Oltretutto, volendo (quale mera ipotesi) ritenere corretta la predetta notificazione, ma non lo é come visto, dalla lettura dell'atto di cessione prodotto dalla opposta, si rileva la sola cessione di un credito in blocco, priva di qualsivoglia specifica inerente il credito vantato dalla cedente nei confronti del (...). 6.3. E' di tutta evidenza, quindi, come tale descrizione sia vaga e onnicomprensiva, facendo riferimento a rapporti di finanziamento, indicando solo i generici contorni degli stessi (prestiti personali, carte di credito, aperture di credito ecc. ecc.) 6.4. In altri termini, non solo non vengono indicati i rapporti ceduti, ma neppure si indicano dei tratti salienti che consentano di tratteggiarne le caratteristiche peculiari, di talché questo Giudice non può non far proprio il condivisibile principio enunciato da questo stesso Tribunale, laddove ha così deciso "Va ritenuta non provata la titolarità attiva del cessionario quando la descrizione dell'oggetto dei crediti ceduti sia vaga e onnicomprensiva" (Trib. Avezzano, sent. n. 44 del 17.2.2022, Estensore dott.ssa Caterina Lauro). Tra l'altro, nemmeno il su menzionato allegato A, recante il presunto elenco dei debitori ceduti, risulta essere stato prodotto. 6.4.1. A tal riguardo, la S.C. é intervenuta più volte a chiarire che, in caso di cessione dei crediti bancari nella forma ed "in blocco", non é sufficiente l'iscrizione della cessione nel Registro delle Imprese e la pubblicazione in G.U., bensì occorre anche la specifica dettagliata dei crediti e dei contratti ceduti, in maniera tale che vadano individuati senza incertezze di sorta, affermando i principi seguenti: a) "E' per contro principio ricevuto della giurisprudenza di questa Corte che colui che si afferma successore (a titolo universale o particolare) della parte originaria ai sensi dell'art. 58 TUB, ha l'onere puntuale di fornire la prova documentale della propria legittimazione, con documenti idonei a dimostrare l'incorporazione e l'inclusione del credito oggetto di causa nell'operazione di cessione in blocco" (cfr Cass. sent. n. 4116/2016); b) "La parte che agisca affermandosi successore a titolo particolare della parte creditrice originaria, in virtù di un'operazione di cessione in blocco ex art. 58 D.Lgs. n. 385 del 1993, ha l'onere di dimostrare l'inclusione del credito oggetto di causa nell'operazione di cessione in blocco, in tal modo fornendo la prova documentale del proprio diritto di agire" (cfr. Cass. C'iv. n. 24798 del 05.11.2020); c) "L'art. 58 TUB è volto a semplificare la procedura di cessione massiva dei crediti bancari, tuttavia è necessario che i crediti ceduti siano individuabili (anche mediante il ricorso a criteri negativi o a dati numerici o temporali), in quanto l'accertamento relativo alla titolarità del credito della cessionaria è requisito indefettibile per addivenire ad una pronuncia nel merito delle contestazioni relative al rapporto litigioso" (cfr Cass. Civ. sent. nn. 31188/2017 e 4453/2018; Trib. Napoli sent. n. 5377/2019). 7. Facendo applicazione dei condivisibili principi sopra richiamati ed in special modo quelli espressi dalle SS.UU Civili della S.C., con la più volte citata sentenza n. 2951/2016, trattandosi di un fatto costitutivo del diritto azionato in sede monitoria, laddove non necessita di una prova rigorosa ma appunto sommaria, sarebbe spettato a (...) provare compiutamente ex art. 2697 cc, la propria legittimazione attiva, quantomeno in questa fase, cosa che non ha fatto. Dal che consegue indubbio che (...) non ha documentalmente dimostrato in maniera circostanziata l'avvenuta cessione del credito oggetto di causa (cfr. tra le tante, Trib. Ferrara sentenza n. 288 del 4.9.19; Trib. Rimini ordinanza del 27.2.20 in Proc. n. 4416/17 R.G,; Trib. Napoli Nord sentenza n. 305/2019; Cass. Civ. n. 2780/2019). In conclusione, alla luce delle argomentazioni sin qui esposte, l'opposizione è fondata e pertanto il decreto ingiuntivo n. 29/2017 deve essere revocato e rigettata la domanda proposta dall'opposta. In ultimo, quanto alle spese di lite tenuto conto della particolarità della controversia, l'esistenza stessa di una chiara polifonia interpretativa sulle questioni poste a fondamento della decisione, consentono di procedere alla compensazione, nella misura del 50%, delle spese di lite tra le parti con effetto consequenziale di porre a carico dell'opposta il residuo 50%, calcolato e liquidato in dispositivo secondo i parametri medi previsti nel D.M. 55/2014 per lo scaglione di appartenenza della causa. P.Q.M. Il Tribunale di Avezzano nella causa iscritta al n. (...) di RG affari contenziosi, definitivamente pronunciando, ogni contraria domanda, eccezione e istanza disattese, così provvede: a) accoglie, per le causali di cui in motivazione, l'opposizione e per l'effetto revoca il decreto ingiuntivo n. (...) emesso dal Tribunale di Avezzano; b) compensa per la metà le spese legali con condanna del convenuto opposto al pagamento della parte residua di spese, liquidata già alla metà secondo i parametri medi previsti nel D.M. 55/2014 per lo scaglione di appartenenza della causa e determinata in Euro (...) per onorario professionale, oltre rimborso forfettario al 15%, IVA e CPA come per legge; La sentenza è provvisoriamente esecutiva come per legge. Così deciso in Avezzano il 14 giugno 2022. Depositata in Cancelleria il 23 giugno 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI AVEZZANO Il Tribunale di Avezzano, nella persona del Giudice dott. Alessandra Contestabile, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I grado iscritta al n. r.g. 1161/2016 promossa da (...) (c.f (...)) e (...) (c.f (...)), elettivamente domiciliati in Avezzano Via (...), presso lo studio dell'Avv. Sa.Ga., che li rappresenta e difende giusta procura a margine dell'atto di citazione del 04.07.2016, ATTORI Contro (...) (c.f. (...)), elettivamente domiciliato in Avezzano Via (...), presso lo studio dell'Avv. An.Di., che lo rappresenta e difende giusta procura a margine della comparsa di risposta del 31.10.2016 CONVENUTO Oggetto: Azione di rivendicazione, liberazione immobile e pagamento di indennità di occupazione. CONCLUSIONI DELLE PARTI: Come in atti e nel verbale d'udienza. CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Con atto di citazione, ritualmente notificato il 12.7.2016, (...) e (...) convenivano in giudizio (...) chiedendo che venisse accertato e dichiarato che il terreno sito in tenimento del Comune di Avezzano, Frazione Paterno, Via (...) 101 in C.T. al Fg. (...) (ex part. 1307) fosse di loro esclusiva proprietà in parti uguali, e per l'effetto che venisse ordinato al convenuto di rilasciare in loro favore detto terreno illegittimamente occupato libero da persone e cose, ordinando altresì la riduzione in pristino mediante rimozione dei fabbricati e della recinzione nonché condannare lo stesso al pagamento di una indennità per l'illegittima occupazione a partire dal 18.7.2015 nella misura che sarebbe stata ritenuta equa. Con vittoria di spese e competenze del giudizio. Con comparsa del 31.10.2016 si costituiva in giudizio (...), il quale chiedeva il rigetto siccome inammissibile in fatto e diritto, l'azione proposta ex art. 948 c.c. in ogni caso, dichiarare improcedibile la domanda per la mancata partecipazione, senza giustificato motivo, degli stessi all'incontro di mediazione obbligatoria; in subordine, trattandosi di uno dei rapporti previsti dall'art. 447-bis c.p.c., disporre la mutazione del rito e all'esito, rigettare l'azione di restituzione sussistendo sull'immobile oggetto del giudizio un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari; in via ulteriormente subordinata in caso di mancato accoglimento di quest'ultima domanda, accogliere la domanda riconvenzionale e, per l'effetto, condannare gli attori, in solido tra loro, a rimborsare a (...) la somma di Euro 26.000,00, o quella, maggiore o minore, che sarebbe risultata di giustizia all'esito della lite, per spese straordinarie sostenute perché l'immobile potesse servire all'uso convenuto, nonché per i miglioramenti ed addizioni apportati al bene, ovvero, in via subordinata, al pagamento della medesima somma, a titolo di indebito arricchimento, con diritto di del convenuto a ritenere l'immobile ex art. 2756 c.c. a garanzia del rimborso richiesto, oltre svalutazione monetaria ed interessi sulle somme via via rivalutate dal di della domanda all'effettivo soddisfo; in ulteriore subordine, riconoscere al convenuto lo jus tollendi per le addizioni eseguite. Con vittoria di spese e compensi di lite. Costituitosi il contradditorio e depositate le memorie ex art. 183 c.p.c. venivano ammesse ed espletate le prove orali nonché ammessa una CTU. Depositata la consulenza tecnica d'ufficio, in ragione della natura della lite e delle parti coinvolte, il Giudice disponeva la comparizione delle stesse davanti a sé per un tentativo di conciliazione che non aveva esito e quindi fissava l'udienza per la precisazione delle conclusioni. All'udienza di precisazione delle conclusioni la causa veniva trattenuta in decisione con concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica. 2. In limine litis, si rende indispensabile vagliare preliminarmente alcune questioni sollevate dalla parte convenuta in ordine alla improcedibilità della domanda per la mancata partecipazione degli attori al procedimento di mediazione e alla necessità di mutamento del rito dovendosi far rientrare l'oggetto del giudizio nelle materie previste dall'art. 447 bis c.p.c.. L'eccezione non coglie nel segno e va respinta. Vi è prova in atti che gli attori abbiano avviato, prima di iniziare il giudizio, un tentativo di mediazione presso l'organismo SPMC di Avezzano cui ha preso parte anche il convenuto e che ha dato esito negativo. A tale tentativo ha partecipato quale procuratore speciale degli attori l'Avv. (...) il quale ha prodotto in giudizio il relativo mandato. Pertanto non può accedersi alla tesi sostenuta dal convenuto secondo la quale sarebbe stata necessaria una procura notarile, dal momento che la giurisprudenza si limita ad affermare la insufficienza a tale fine della mera procura alle liti, dovendosi invece ritenere la comparizione personale dell'istante delegabile a terzi, ivi compreso l'avvocato difensore, purché munito di procura scritta di natura sostanziale (in questo senso deve interpretarsi la sentenza della Suprema Corte n. 8573/2019, citata da entrambe le parti). Deve escludersi, in ogni caso, che l'eventuale mancata partecipazione delle parti al procedimento di mediazione possa costituire causa di improcedibilità del successivo giudizio dal momento che le uniche sanzioni previste dalla legge in tale ipotesi sono quelle stabilite dall'art. 8 comma 4 bis del decreto legislativo n. 28/2010 che non contemplano tale possibilità. Nel caso specifico giova evidenziare che, in ogni caso, la controversia ha registrato anche in corso di causa l'esito infruttuoso del tentativo di conciliazione svolto da questo giudice nell'apposita udienza del 16.12.2019. Quanto alla seconda eccezione si osserva, in primo luogo, che ai fini della individuazione del rito deve farsi riferimento alle conclusioni svolte dall'attore nel giudizio di primo grado che, nel caso di specie, sono quella di riconoscimento della proprietà sul bene immobile (azione di rivendicazione) con consequenziale richiesta di condanna del convenuto che la occupa (abusivamente o meno è poi oggetto del giudizio e ne determina l'esito) alla sua restituzione. Tale azione è soggetta al rito ordinario e, peraltro, trattandosi di azione di rivendica, esige un maggior onere probatorio a carico di chi la promuove, senza che le eccezioni in ordine alla legittimità della detenzione del bene, da parte di chi vi si oppone, possa incidere su di esso. D'altra parte è principio pacifico che l'eventuale applicazione di un rito processuale, anziché di un altro, non possa dare luogo a nullità o vizio processuale quando non abbia determinato una lesione del diritto di difesa della parte che lo invoca o lo faccia rilevare e l'omesso mutamento del rito assume rilevanza invalidante solo se la parte che se ne dolga indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso. Pertanto in difetto di attestazioni n tal senso va da sé ritenere che lo svolgimento del giudizio mediante il rito ordinario abbia garantito ad ogni buon conto il pieno esercizio del diritto di difesa del convenuto. 3. Passando al merito della causa va, in primo luogo, affermato che l'azione di rivendicazione promossa dagli attori deve essere accolta, essendo stata provata, e del resto non è stata in giudizio contestata, la loro piena proprietà sull'immobile costituito dal terreno sito in Avezzano, Frazione Paterno, Via (...) n. 101, contraddistinto in Catasto al Foglio 71, particella 1445 (già 1337). Gli attori derivano il loro titolo per successione mortis causa dal padre (...) il quale, a sua volta, aveva acquistato la proprietà del bene dall'Ente per la valorizzazione del (...), con atto di vendita con patto di riservato dominio divenuto definitivo con il pagamento delle trenta annualità previste dalla legge. Lo provano i documenti prodotti dagli attori costituiti dalla dichiarazione di successione di (...) del 03.03.1999, dall'atto di subentro di quest'ultimo all'originaria assegnataria del 14.01.1965, dall'atto di quietanza del 05.12.2008 e dai certificati catastali che consentono di ritenere sufficientemente soddisfatto il rigoroso onere probatorio previsto per la piena dimostrazione del diritto di proprietà tutelabile erga omnes. Diritto, peraltro, giammai contestato dal convenuto in giudizio contrariamente, invece, a quanto in precedenza fatto nel procedimento di mediazione ove espressamente aveva dichiarato, per il tramite del proprio procuratore, di essere divenuto proprietario del terreno in questione dal momento che lo possedeva uti dominus da oltre venti anni. Se, dunque, non può esservi dubbio circa la proprietà in capo agli attori del terreno in questione è altrettanto pacifico che detto bene sia stato concesso in favore di (...) affinché lo occupasse per posizionarvi una costruzione ad uso abitativo. Deve con ciò ritenersi costituito tra le parti un contratto di comodato per fatti concludenti, la cui ammissibilità è pacifica in giurisprudenza non essendo richiesta la forma scritta; la circostanza, non contestata dagli attori, è stata confermata anche dai testimoni di parte attrice e di parte convenuta escussi in corso di causa. In ordine all'intervenuta interversione nel possesso del bene, va osservato che, in maniera esplicita ed a partire da una certa data, è risultato di indiscussa evidenza che il convenuto ha ritenuto di occupare il terreno come se ne fosse proprietario. A ciò dà conferma anche la domanda di accatastamento della costruzione realizzata sul terreno de quo presentata dal convenuto (...) nell'agosto 2013. Sul punto si osserva che nella relazione tecnica che l'accompagna, il Geom. (...) espressamente afferma che il mandato gli era stato conferito dal solo (...), possessore di fatto, e non dai contitolari di diritti reali intestatari del bene (gli odierni attori), in quanto quest'ultimo, sotto la propria responsabilità, aveva dichiarato che era in corso il procedimento di riconoscimento di proprietà in suo favore. Tanto considerato va da sé il venir meno del contratto di comodato, costituitosi al momento della concessione del terreno in favore in favore di (...) e conclusosi per fatti concludenti Se, infatti, la concorde volontà delle parti ha dato luogo alla nascita del contratto, il mutato animus con cui il comodatario ha ritenuto di poter disporre della cosa concessagli ne ha determinato la risoluzione. La condotta del comodatario, manifestata nelle circostanze sopra indicate, costituisce infatti comportamento incompatibile con il mantenimento del rapporto contrattuale instauratosi al momento della consegna del bene. In ogni caso la volontà dei comodanti di tornare nella sua disponibilità, manifestata prima e nel corso del presente giudizio, vertendosi in tema di comodato senza determinazione di termine, obbliga il comodatario alla restituzione ai sensi dell'art. 1810 c.c.. Né può accedersi alla tesi sostenuta dal convenuto che ritiene che nel caso di specie ricorra la particolare ipotesi del comodato di abitazione familiare poiché per la stessa, in primo luogo, si richiede che venga concessa in comodato una abitazione al fine specifico di utilizzarla come casa familiare nonché, anche, l'esistenza di un nucleo familiare che ne abbia bisogno, e la cui durata è legata alla permanenza in essa di una famiglia. Nell'ipotesi oggetto del giudizio il comodato riguarda una porzione di terreno concessa ad un singolo soggetto che ivi ha posizionato una casa inizialmente mobile e non vi è prova che le parti abbiano voluto qualcosa di diverso da ciò. Secondo le regole ordinarie spetta a chi intende valersene l'onere di provare questa particolare destinazione del bene, come sancito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte nella sentenza n. 20448/14, prova che nel presente giudizio non è stata in alcun modo raggiunta. Ne consegue ritenere fondata l'azione di rivendicazione promossa dai germani (...) ed (...) nei confronti dello zio (...), essendo i primi proprietari del terreno sito in Comune di Avezzano, Frazione Paterno, Via (...) 101 in C.T. al Fg. (...) (ex part. (...)). Posta l'illegittima occupazione del terreno da parte del convenuto, essendo definitivamente venuto meno il contratto di comodato per fatti concludenti va da sé la consequenziale condanna dello stesso all'immediato rilascio libero da persone e cose e nello stato in cui si trovava al momento della consegna. A tal pronuncia consegue anche la condanna del convenuto al pagamento di una somma a titolo di indennità di illegittima occupazione, così come richiesto dagli attori. La giurisprudenza di legittimità prevalente ritiene, in caso di occupazione senza titolo di un immobile altrui, l'esistenza di un danno in re ipsa subito dal proprietario, sul presupposto dell'utilità normalmente conseguibile nell'esercizio delle facoltà di godimento e di disponibilità del bene insite nel diritto dominicale, che costituisce oggetto di una presunzione iuris tantum, la quale non opera se risulti positivamente accertato che i proprietari si siano intenzionalmente disinteressati dell'immobile. Sulla base del principio sancito sempre dalla Suprema Corte secondo cui la liquidazione del danno ben può essere operata dal giudice sulla base di presunzioni semplici, essa può essere equitativamente indicata in Euro 150,00 mensili decorrenti dal mese di marzo 2016 allorquando con l'avvio della procedura di mediazione è divenuta esplicita la richiesta di restituzione del terreno da parte di questi ultimi. 4. Devono viceversa ritenersi infondate e, dunque, vanno rigettate anche le domande riconvenzionali svolte dal convenuto (...). Quanto a quella relativa alla richiesta di pagamento di una somma a titolo di rimborso delle spese straordinarie sostenute perché l'immobile potesse servire all'uso convenuto, vi osta il chiaro disposto dell'art. 1808 c.c.. Data per pacifica infatti la ricorrenza di un contratto di comodato alla base della originaria detenzione del bene da parte del convenuto risulta evidente che quanto dallo stesso realizzato, così come individuato nella disposta consulenza tecnica, debba essere ricondotto nel novero delle spese sostenute per servirsi della cosa per le quali è escluso che esso possa avere diritto al rimborso. Le opere cui le spese fanno riferimento, infatti, sono costituite, secondo quanto assunto da (...) e confermato dal consulente tecnico, dalla costruzione della struttura abitativa con portico garage, dalla realizzazione di un pozzo trivellato, da una recinzione perimetrale, dalla messa a dimora di varie piante da frutta e di un prato inglese con impianto di irrigazione e dall'allaccio alla abitazione delle utenze del gas e telefonica. Orbene nessuna di tali spese può ricondursi nell'ambito di quelle necessarie ed urgenti per la conservazione della cosa concessa in comodato che sole possono giustificare una richiesta di rimborso secondo quanto stabilito dall'art. 1808 comma 2 c.c.. Del pari deve essere rigettata la domanda riconvenzionale svolta, in via subordinata, di riconoscimento di una indennità a carico degli attori a titolo di indebito arricchimento o a qualunque altro titolo. Si deve infatti concordare con la dottrina e la giurisprudenza richiamate da questi ultimi secondo cui le spese necessarie per l'uso della cosa gravano sul comodatario quale limitazione naturale del vantaggio dedotto in contratto e tale obbligo deve ricondursi a quello di conservare e custodire con conseguente necessità di sopportare l'onere delle spese ordinarie e di ordinaria manutenzione per cui il comodatario non ha mai diritto al rimborso neanche a titolo di arricchimento. Allo stesso non spetta neppure il rimborso delle spese straordinarie non necessarie ed urgenti (per la conservazione della cosa concessa in comodato) anche se ne comportino dei miglioramenti sia sotto il profilo dell'art. 1150 c.c. (essendo il comodatario un mero detentore) sia sotto quello dell'art. 936 c.c. in quanto non è terzo, sia sotto quello ulteriore dell'art. 1592 c.c. richiamato in via analogica perché una indennità per i miglioramenti è negata al locatario (cui la norma si riferisce), la cui posizione è molto simile a quella del comodatario. Del resto è lo stesso convenuto a svolgere domanda di jus tollendi per le presunte adduzioni eseguite e cioè di separazione delle stesse dal terreno di proprietà degli attori il quali, peraltro, avevano a loro volta richiesto che il terreno fosse rilasciato libero da persone e cose nello stato di fatto in cui si trovava al momento della consegna al convenuto e, quindi, con la eliminazione di tutte le opere eseguite dal primo. In ragione del criterio della ragione più liquida non si reputa necessario esaminare tutte le ulteriori questioni sollevate dalle parti, potendosi ritenere le stesse assorbite ovvero superate per incompatibilità logico giuridica con quanto concretamente ritenuto provato dal giudicante. 5. Le spese di lite seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo in applicazione dei parametri di cui al D.M. 55/2014 e successive modificazioni ed integrazioni, tenuto conto della durata del processo, della quantità e qualità della dell'attività difensiva svolta e degli altri criteri stabiliti dall'art. 4 c. 1 del citato decreto, in rapporto ai parametri medi di liquidazioni propri dello scaglione di valore della controversia. Allo stesso modo rimangono totalmente a carico della convenuta le spese della consulenza tecnica. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, rigettata ogni altra domanda, così decide: 1) accoglie la domanda attrice e, per l'effetto, accerta e dichiara che il terreno sito nel Comune di Avezzano, Frazione Paterno, Via (...) 101 in C.T. al Fg. (...) (ex part. (...)), è di proprietà esclusiva in parti uguali tra loro degli attori (...) e (...); 2) accertato che detto terreno è indebitamente ed illegittimamente occupato dal convenuto (...), condanna lo stesso al suo immediato rilascio in favore degli attori libero da persone ordinando la riduzione in pristino nello stato in cui si trovava al momento della consegna mediante eliminazione di tutte le opere dallo stesso eseguite; 3) condanna il convenuto al pagamento della somma di Euro 150,00 a titolo di indennità di occupazione per ogni mese a far data dal 01.03.2016 e sino all'effettivo rilascio, oltre interessi e rivalutazione monetaria; 4) rigetta le domande svolte dal convenuto (...) perché infondate; 5) condanna (...) al pagamento in favore di (...) e (...) delle spese di lite che liquida in Euro 552,70 per esborsi ed Euro 7.254,00 per competenze professionali, oltre rimborso forfetario, cassa forense ed iva come per legge. 6) condanna il convenuto al rimborso delle spese di CTU sostenute dagli attori. Così deciso in Avezzano il 28 febbraio 2022. Depositata in Cancelleria il 9 marzo 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Avezzano In composizione monocratica, nella persona del giudice, dottor Mario Cervellino, ha emesso la seguente SENTENZA Nel giudizio iscritto al ruolo generale degli affari contenziosi n. 394 dell'anno 2019, vertente TRA (...), (C.F. (...)), residente in Roma, rappresentato e difeso da sé medesimo unitamente e congiuntamente all'Avv. Ga.De., ed elettivamente domiciliato presso il proprio studio in Roma, giusta procura in atti. Attore E (...), (C.F.: (...)) nata (...), in proprio e quale erede di (...), rappresentata e difesa dell'Avv. Li.Ta., ed elettivamente domiciliata presso il proprio studio in Avezzano, giusta procura in atti. Convenuta Oggetto: restituzione somma; Conclusioni: i procuratori delle parti hanno concluso riportandosi ai rispettivi atti. FATTO E DIRITTO (...), con citazione ritualmente notificata, evocava in giudizio la sorella (...) e il padre (...), per sentirli condannare alla restituzione in suo favore di somme a suo dire sottrattegli da un libretto postale cointestato tra le parti in causa. Chiedeva inoltre la condanna delle controparti al pagamento di un "indennizzo" in suo favore ex art. 96 comma 3 c.p.c., attesa la mancata adesione alla proposta di negoziazione assistita da parte dei convenuti. L'attore deduceva che in data 2.1.2013 venne aperto il libretto postale cointestato tra le parti n. 40734316; che sullo stesso veniva depositata la somma complessiva di Euro 13.200,00.; che, successivamente, in data 12.10.2018, lo stesso attore, recandosi presso l'ufficio postale per il ritiro del nuovo bancomat in dotazione al libretto in oggetto, appurava che, a quel momento, il saldo era pari ad 1,20 euro; che a riguardo mancava la sua autorizzazione a qualsivoglia tipologia di prelievo; che, in seguito a comunicazioni cartolari scambiate con il padre, quest'ultimo confermava di aver effettuato i prelievi. Concludeva quindi perché i convenuti fossero condannati a corrispondergli, in qualità di cointestatario, l'importo pari a 1/3 dell'iniziale saldo attivo. Contestualmente invitava i due convenuti ad aderire alla proposta di negoziazione assistita per risolvere la controversia in via stragiudiziale. Si costituivano ritualmente in giudizio i due convenuti, impugnando e contestando le avverse deduzioni e richieste. In via preliminare (...) eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva, non avendo ella personalmente prelevato somme dal conto tramite la propria carta postamat e non gravando, pertanto, sulla stessa alcun vincolo di solidarietà passiva. Nel merito, quindi, rilevavano anzitutto la titolarità esclusiva delle somme presenti sul libretto oggetto di giudizio in capo al convenuto (...), in quanto provenienti dal conto corrente postale cointestato tra il medesimo e la moglie (...), deceduta nel 2012, (conto n. (...), acceso presso l'Ufficio postale di San Vincenzo Valle Roveto). Allegavano inoltre che da tale conto era stata poi prelevata la somma di Euro 14.700,00, da cui in seguito l'importo di Euro 13.200,00 era stato versato sul libretto postale cointestato fra le parti. Deducevano, inoltre che (...), in data 9 febbraio 2013, consegnava in contanti brevi manu al figlio, odierno attore, la somma di Euro 2.000,00, alla presenza della sorella; rilevavano, altresì, l'effettuazione di ulteriori prelievi da parte dello stesso attore di Euro 250,00 e 200,00 nel settembre e dicembre 2013. Osservavano, quindi che il citato versamento in contanti e i prelievi effettuati dall'attore sarebbero valsi a soddisfare la quota di legittima spettantegli, nella misura di 1/3 della metà del totale della quota, ovverosia la somma caduta in successione in seguito al decesso della moglie del convenuto (...), pari al 50% della somma originariamente versata sul libretto. Concludevano, quindi, per il rigetto della domanda. All'esito del deposito degli scritti di cui all'art. 183 comma 6 c.p.c., il giudizio è stato dichiarato interrotto, visto l'intervenuto decesso del (...) nel novembre 2019. La causa è stata successivamente ritualmente riassunta dall'attore nei confronti della sorella (...) in qualità di erede. Dopo l'ammissione delle prove documentali all'udienza del 03.12.2020, la causa è stata poi trattenuta in decisione all'udienza del 14.06.2021, con concessione dei termini ex art. 190 c.p.c.. La domanda attorea va accolta per quanto di ragione, per i seguenti motivi di fatto e di diritto. In via preliminare va ritenuta sussistente la legittimazione in giudizio della convenuta (...), in proprio, quale cointestataria del libretto. Si rammenta, a riguardo, che la legittimazione in giudizio si fonda sulla domanda attorea e sulle allegazioni in essa formulate Per la sussistenza della legittimazione passiva si ritiene, quindi, necessario e sufficiente che la titolarità del rapporto venga semplicemente prospettata dall'attore mediante la deduzione, all'interno della domanda, di fatti idonei in astratto a fondare il diritto azionato. Nella specie, invero, lo stesso attore richiede la corresponsione quale cointestatario del libretto di un terzo dell'importo del saldo iniziale nei riguardi di entrambi gli altri cointestatari e tanto basta a far ritenere la sussistenza della legittimazione passiva della parte convenuta. Altro discorso, che attiene, in realtà al merito della causa e alla fondatezza della domanda, riguarda la circostanza, dedotta da parte convenuta, che i prelievi per cui è causa, sul conto cointestato, sono stati posti in essere esclusivamente dal padre Vincenzo (ex multis Cass. Civ. sezione II, sent. n. 6894 del 3.7.1999). Chiarito brevemente questo aspetto preliminare, devono in parte condividersi le asserzioni effettuate dalla parte convenuta in ordine alla questione della contitolarità del libretto. In effetti, la contitolarità delle somme versate su un libretto cointestato, ai sensi dell'art. 1854 c.c., si presume; essa può tuttavia essere agevolmente superata da un correntista, qualora, anche a mezzo di presunzioni semplici, dimostri la sussistenza di una situazione giuridica diversa. Statuisce a riguardo la S.C. che ""La contestatone di un conto corrente (...) fa presumere la contitolarità dell'oggetto del contratto, ma tale presunzione dà luogo soltanto all'inversione dell'onere probatorio, e può essere superata attraverso presunzioni semplici - purché gravi, precise e concordanti - dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa:" (ord. n. 11375/2019, Cass. Civ., II Sez.). La situazione giuridica diversa cui fa esplicito riferimento la Suprema Corte può essere individuata, laddove venga dimostrato che il conto (o, nella specie, il libretto) sia stato costituito con somme di denaro immesse e provenienti da uno solo dei correntisti. In tal caso, pertanto, deve escludersi che gli altri cointestatari possano vantare diritti di alcuna specie sulle somme così versate. (in tal senso, ex multis, Cass. Civ. Sez. I, sent. 18540 del 02.08.2013). Orbene, alla luce della documentazione prodotta in giudizio, il convenuto (...) ha dimostrato che la somma originariamente presente sul libretto cointestato, proveniva dal conto corrente dei coniugi (...)-(...). L'attore, stesso, peraltro, non ha contestato nel merito la provenienza del denaro, limitandosi soltanto a rivendicarne la proprietà pro quota, quale cointestatario del libretto. Del resto la dedotta comune volontà del versamento non poteva certo valere a determinare la comune proprietà dei cointestatari in quote paritetiche sulle somme dallo stesso provenienti, come sostenuto erroneamente dall'attore medesimo. Il (...) deve allora essere individuato come unico titolare delle somme versate sul libretto per cui è causa, sia pur nella limitata misura del 50%, in quanto proprietario, sulla base di presunzione non superata, in pari quota con la coniuge, della somma originariamente sullo stesso giacente (come deve desumersi, alla luce della incontestata provenienza di detti denari). Tanto chiarito, deve quindi concludersi che l'attore non può vantare diritti su un terzo dell'intero saldo iniziale del conto, bensì, soltanto pro quota, sulla metà di quell'importo, già appartenente alla defunta madre (...). Infatti, detto importo, pari ad Euro 6.600,00, non risulta di proprietà esclusiva di uno dei cointestatari ed anzi deve ritenersi caduto in successione in seguito al decesso della (...), madre dell'attore e della convenuta (...). Su tale somma, all'attore spettano, quindi, diritti per 1/3, ovvero Euro 2.200,00 (come del resto sostanzialmente riconosciuto dagli stessi convenuti nelle difese svolte). Appena il caso di osservarsi, peraltro, che la qualità di eredi della (...) delle parti (...) e (...) è incontestata e pacifica in quanto riconosciuta reciprocamente e dunque non necessita di alcun riscontro. Sotto tale profilo, in verità, parte convenuta ha dedotto l'avvenuta soddisfazione dei diritti del (...), alla luce di un versamento brevi manu dell'importo di Euro 2.000,00 effettuato dal padre e del successivo prelievo, operato dal medesimo attore, sul libretto per cui è causa, in due distinte occasioni, per i rispettivi importi di Euro 200,00 e 250,00. Tali circostanze sono state, peraltro, contestate da (...), il quale ha, per un verso, negato di aver ricevuto dal padre versamenti in contanti e, per altro profilo, riconosciuto l'avvenuto prelievo di Euro 450,00 (che quindi deve ritenersi provato ex art. 115, c.p.c.), a suo dire, tuttavia, effettuato, sull'accordo delle parti, al fine di effettuare pagamento dell'IMU e della tassa relativa ai rifiuti solidi urbani riferiti alla casa di Avezzano, via (...) 14, di proprietà comune dell'attore e della convenuta Signora (...) ed a suo tempo abitata dal signor (...). Sotto tale profilo si osserva che a nulla rileva la lettera autografa prodotta in giudizio da (...), in cui questi dà atto dell'avvenuta consegna in contanti nei confronti del figlio di una somma pari a Euro 2.000,00 a tacitazione dei diritti successori di quest'ultimo; il versamento brevi manu di detta somma è stato, infatti, negato dall'attore nei propri scritti e non è stato provato in modo alcuno dalla parte convenuta, che a riguardo ha prodotto soltanto la lettera autografa trasmessa dal padre al figlio, che, tuttavia, in presenza di specifica contestazione operata dall'attore e in mancanza di quietanza o accettazione, non può costituire valido riscontro del versamento. Né, d'altra parte, dimostrazione di tale versamento può desumersi, come pure vorrebbero i convenuti, dal contestuale prelievo operato dal (...) sul libretto de quo del complessivo importo di Euro 1.800,00, peraltro non corrispondente alla somma asseritamente versata al figlio. Diversamente deve, invece, dirsi per i due prelievi effettuati dall'attore per l'ammontare di Euro 200,00 e di Euro 250,00. (...) imputa gli stessi al pagamento delle tasse relative ad immobile di proprietà comune dei due germani Franca e (...) (salvo poi negare, tardivamente, in sede di memoria di replica, senza fornire alla contestazione alcun utile riscontro, il prelievo di Euro 250,00), ma tale dichiarata finalità, oltre che oggettivamente irrilevante (dovendo apprezzarsi in tal senso il fatto concreto del prelievo e non la destinazione poi asseritamente data alle somme così acquisite, tanto più che le stesse sarebbero state, comunque destinate al pagamento di oneri afferenti ad abitazione di cui l'attore è comproprietario e quindi a soddisfare indubitabilmente anche un suo interesse) non risulta, peraltro, in alcun modo riscontrata. Orbene, tanto chiarito, emergendo dagli atti, come ammesso dal convenuto (...) nelle sue difese, che i prelievi dal conto cointestato sono stati tutti da lui effettuati, è unicamente quest'ultimo che va individuato quale obbligato alla corresponsione in favore dell'attore della somma di sua spettanza così come sopra individuata. Tuttavia si osserva che, in conseguenza del decesso del detto convenuto, avvenuto nel novembre 2019, detto obbligo risulta caduto in successione. Il defunto (...), alla luce di quanto risulta in atti, lascia come eredi i suoi due unici figli, (...) e (...). La qualità di erede di quest'ultima non è in discussione, essendosi ella, in tale qualità, costituita in giudizio all'esito dell'istanza di riassunzione della causa presente ad opera del fratello. Conseguentemente, partendo dalla considerazione già effettuata per la quale in relazione al saldo iniziale del libretto (pari ad Euro 13.200,00) la somma di esclusiva spettanza del (...) ammontava ad Euro 6.600,00, per cui solo il residuo equivalente importo di Euro 6.600,00 risultava cadere in comunione fra i tre cointestatari (in quanto non di proprietà esclusiva di quest'ultimo) per cui l'odierno attore ha diritto alla restituzione di un terzo di tale somma (pari ad Euro 2.200,00), deve concludersi che la convenuta (...) quale erede, unitamente all'attore, dell'obbligato (...), sia tenuta, ai sensi dell'art. 752, c.c., al pagamento in favore del fratello del detto importo nei limiti della sua quota ereditaria (pari ad 1/2) e quindi nella misura della metà del dovuto, per un importo di Euro 1.100,00. Da questo va poi detratto l'importo di Euro 450,00, come già scritto prelevato direttamente dall'attore in due distinte occasioni. Detti prelievi, in mancanza di diverso riscontro, non possono che detrarsi dal dovuto, risultando, come pure già osservato, irrilevante la finalità del prelievo dichiarata dal (...) Franco e peraltro non adeguatamente provata. In ultimo si osserva che non può accogliersi la domanda di risarcimento ai sensi dell'art. 96 c.p.c., comma 3, come avanzata dall'attore. Vero, come prospettato dal ricorrente, che la mancata adesione alla negoziazione assistita in seguito ad invito, è potenzialmente in grado di integrare gli estremi per una richiesta risarcitoria in termini di c.d. abuso del processo, con il fine, come evidenziato dalla giurisprudenza "di stroncare operazioni il cui risultato non è altro se non quello di intasare gli Uffici Giudiziari di controversie la cui proposizione, con la semplice applicazione dei più elementari ed istituzionali principi dell'ordinamento, andrebbe del tutto evitata" (Trib. Torino, sez. III civile, sent. n. 214 del 18.01.2017). Tuttavia per evocare l'istituto del c.d. abuso del processo e configurare la c.d. responsabilità processuale aggravata disciplinata dall'art. 96 c.p.c., si reputano indifferibili una serie di presupposti ulteriori, fra cui rileva in particolare l'integrale soccombenza della parte che ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave. Il requisito minimo della soccombenza non risulta soddisfatto nel caso di specie, visto l'accoglimento solo parziale della domanda attorea e rende dunque superflua una valutazione nel merito delle azioni tenute dai convenuti in termini di eventuale dolo o colpa grave, che, peraltro data la reciproca soccombenza, vanno ragionevolmente esclusi. Alla luce dell'accoglimento parziale della domanda e della correlata parziale reciproca soccombenza, nonché tenuto conto del fatto che la condanna viene pronunciata nei confronti della convenuta nella sola qualità di erede del padre, le spese legali si compensano tra le parti in misura di 2/3, dovendo condannarsi (...) alla rifusione in favore dell'attore del residuo terzo, e si liquidano come indicato nel dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale di Avezzano, nella causa di cui in epigrafe, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da (...), ogni contraria istanza, eccezione o deduzione disattesa, così provvede: - Accoglie in parte la domanda e, per l'effetto, condanna (...), nella qualità di erede del defunto (...), al pagamento in favore della parte attrice della somma di Euro 650,00; - Compensa le spese del giudizio in misura di 2/3; - Condanna (...) alla rifusione in favore dell'attore del restante terzo delle spese di giudizio, pari ad Euro 42.00 per esborsi e 210,00 per compensi, liquidandosi complessivamente le stesse in Euro 125,00 per esborsi e 630,00 per compensi, oltre accessori come per legge. Così deciso in Avezzano il 28 febbraio 2022. Depositata in Cancelleria l'1 marzo 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI AVEZZANO UFFICIO CONTENZIOSO CIVILE in persona del giudice dott. Caterina Lauro, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 967 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell'anno 2019 del Tribunale di Avezzano, vertente tra (...), (c.f.: P.), (...) (c.f.: (...)) entrambi patrocinati dall'avv. Da.Na., elettivamente domiciliati presso il suo studio in Pescara alla Via (...), Attore - OPPONENTE contro (...) S.C. p. A. quale mandataria in nome e per conto di (...) S.p.A., in persona del procuratore speciale, con il patrocinio dell'Avv. Ma.Ce., elettivamente domiciliata presso il suo studio in Via (...) - 67051 Avezzano Convenuta - OPPOSTA nonché nei confronti di (...) s.r.l., - ( C.F. e partita IVA (...)) e per essa, P.C.S. S.p.A., quale mandataria del veicolo, rappresentata dal Dott. (...), procuratore speciale, con il patrocinio degli Avv.ti Ar. e Do.Ma. del Foro di Pescara con domicilio eletto presso il loro indirizzo telematico, intervenuta Oggetto: opposizione all'esecuzione RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE (...) e (...) hanno proposto opposizione all'esecuzione (già iniziata), ai sensi dell'art. 615 c.p.c., promossa (...), in virtù di un contratto di mutuo, chiedendo, previa sospensione del processo esecutivo, che si dichiarasse l'insussistenza del titolo esecutivo e del diritto a procedere esecutivamente. In particolare, l'opponente ha dedotto: a) la mancata consegna del denaro e la costituzione di un pegno presso la Banca, in sede di stipula del contratto, avrebbe determinato la conclusione di un contratto di "mutuo condizionato" da non qualificarsi alla stregua di un titolo esecutivo ai sensi dell'art. 474 c.p.c.; conseguirebbe l'insussistenza del titolo esecutivo; b) la promessa usuraria pattizia nella ipotesi di estinzione e/o di risoluzione anticipata per qualsiasi causa del mutuo, con conseguente gratuità del contratto e richiesta di ripetizione delle somma indebitamente versate al creditore a titolo di interessi; c) la delle clausole disciplinanti la misura degli interessi perché rinvianti all'indice Euribor manipolato nel periodo in cui ha avuto esecuzione il contratto de quo. All'udienza del 26.02.2019 si costituiva l'opposta, deducendo l'insussistenza dei gravi motivi per sospendere l'esecuzione e domandando il rigetto della relativa istanza; il ricorrente si riportava al ricorso, chiedendone l'accoglimento e il giudice si riservava di decidere. Con ordinanza del 14.03.2019 il G.E. ha rigettato la richiesta di sospensione della procedura esecutiva. La suddetta ordinanza è stata reclamata dinanzi al Collegio il quale, in accoglimento del motivo sub a), ha sospeso l'esecuzione. Con atto di citazione parte opponente ha introdotto il giudizio di merito, deducendo gli stessi motivi già in precedenza sollevati e domandando che si accertasse l'usurarietà dei tassi stabiliti nel contratto di mutuo. Si è costituita (...) che ha domandato il rigetto delle avverse domande. Concessi i termini di cui all'art. 183, co. 6, c.p.c. la causa è stata istruita mediante produzioni documentali e l'espletamento di una consulenza tecnica d'ufficio a firma del Dott. (...) all'esito della quale, ritenuta la causa matura per la decisione, è stata fissata udienza per la precisazione delle conclusioni. All'udienza del 27.10.2021 parte attrice ha preliminarmente eccepito il difetto di legittimazione attiva di (...) s.r.l. e per essa, P.C.S. S.p.A., cessionaria di (...) S.p.A., già in precedenza contestato all'udienza del 24.09.2020, la prima dopo la costituzione del suddetto creditore, risalente al 22.09.2020; le parti hanno, quindi, precisato le conclusioni e la causa è stata trattenuta in decisione, con concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c.. I. Sull'eccezione di difetto di legittimazione attiva di (...) s.r.l. L'eccezione è fondata. Preliminarmente deve confermarsi la tempestività dell'eccezione sollevata per la prima volta a verbale di udienza del 23.09.2020, nella difesa immediatamente successiva alla costituzione di (...) s.r.l., avvenuta con atto depositato il 22.09.2020. In particolare parte attrice contesta la mancanza del presupposto della titolarità del credito in capo al creditore intervenuto, (...) s.r.l., ritenendo non provata l'inclusione del credito azionato nella cessione dei crediti in blocco avvenuta nel contesto di un'operazione di cartolarizzazione in relazione alla quale è stato pubblicato, ex art. 58, co. 2, 3 e 4 D.Lgs. n. 385 del 1993, avviso nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 06.06.2020 n. 66, parte seconda, con la quale (...) S.r.l. sarebbe divenuta titolare di un portafoglio di crediti pecuniari di (...) S.p.A., (...) S.p.A. e (...) S.p.A. In proposito deve rilevarsi che, con riferimento alla questione in esame, si contrappongono diversi orientamenti giurisprudenziali di legittimità. Un primo orientamento reputa sufficiente, ai fini della prova della cessione del credito in blocco prevista dalla richiamata disciplina, il deposito dell'avviso di cessione pubblicato in Gazzetta Ufficiale (si veda in proposito tra le tante Cass. civ., sentt. nn. 4334/2020, 15884/2019, 31118/2017). Ad avviso di un altro e più convincente orientamento, già sposato recentemente da questo Tribunale, l'avviso di cessione dei crediti in blocco risponde unicamente alla funzione di sostituzione della notifica prevista dall'art. 1264 c.c. (si veda, in proposito, Cass. civ., ord. n. 5617/2020, 22151/2019). La Suprema Corte in tali pronunce non condivide la tesi di assegnare all'avviso di cessione pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il ruolo di attestare la legittimazione attiva del preteso cessionario di crediti in blocco. Secondo la Suprema Corte l'art. 58, co. 4, TUB, infatti, risponde ad una funzione diversa e di portata più limitata, intervenendo - in via di sostituzione - solo in relazione al disposto dell'art. 1264, co. 2, c.c. allo scopo di impedire l'eventualità di pagamenti liberatori, per il caso che il ceduto versi, nonostante la sopravvenuta cessione, la propria prestazione nelle mani del cedente. In definitiva, la norma dell'art. 58, co. 4, TUB si limita a stabilire che la pubblicazione della cessione sulla Gazzetta Ufficiale fissa il momento a partire dal quale il pagamento fatto nelle mani del cedente comunque non libera il ceduto (cfr. 22548/2018). Ciò nel presupposto che vi sia stata una cessione avente ad oggetto quel particolare credito: secondo la Corte, infatti, la previsione dell'art. 58, co. 4, TUB non provando la cessione, si applica solo al caso in cui una cessione rilevante sia effettivamente esistita. In questa prospettiva (dell'enunciazione minimale di un mero fatto di cessione), la pubblicazione nella Gazzetta può costituire, al più, elemento indicativo dell'esistenza materiale di un fatto di cessione, come intervenuto tra due soggetti in un dato momento e relativo - in termini generici, se non proprio promiscui - ad "aziende, rami di azienda, beni e rapporti giuridici individuabili in blocco" (art. 58, co. 1, TUB), non essendo sufficiente - in questa sua "minima" struttura informativa - a fornire gli specifici e precisi contorni dei crediti che vi sono inclusi ovvero esclusi. "E' per contro principio ricevuto della giurisprudenza di questa Corte che colui, che "si afferma successore (a titolo universale o particolare) della parte originaria" ai sensi dell'art. 58 TUB, ha l'onere puntuale di "fornire la prova documentale della propria legittimazione", con documenti idonei a "dimostrare l'incorporazione e l'inclusione del credito oggetto di causa nell'operazione di cessione in blocco" (cfr. Cass., sent. n. 4116/2016). Affermato che il contratto di cessione di crediti in blocco non risulta soggetto a forme sacramentali o comunque particolari al fine specifico della sua validità, conclude, quindi, la Corte che: "assunta questa diversa prospettiva, (che) - qualora il contenuto pubblicato nella Gazzetta indichi, senza lasciare incertezze od ombre di sorta (in relazione, prima di ogni altra cosa, al necessario rispetto del principio di determinatezza dell'oggetto e contenuto contrattuali ex art.1346 c.c.), sui crediti inclusi/esclusi dall'ambito della cessione - detto contenuto potrebbe anche risultare in concreto idoneo, secondo il "prudente apprezzamento" del giudice del merito, a mostrare la legittimazione attiva del soggetto che assume, quale cessionario, la titolarità di un credito (per questa linea si confronti, in particolare, la pronuncia di Cass., 13 giugno 2019, n.15884).". Altra pronuncia della Suprema Corte si spinge fino a ritenere necessario che nell'avviso di cessione siano puntualmente indicati, se non l'enumerazione dei crediti oggetto della cessione, per lo meno gli estremi del contratto ceduto insieme ad altri criteri utili ad acclarare che in effetti il contratto sia ricompreso tra quelli ceduti (Cass. civ. sent. n. 2780/2020). Va registrato un ulteriore orientamento espresso dalla Suprema Corte, citato anche da parte intervenuta, che ritiene che, a fronte dell'eccezione di difetto di legittimazione attiva, fermo restando il riparto del relativo onere probatorio a carico della parte contro la quale l'eccezione viene sollevata, il Giudice sia tenuto a valutare gli elementi che quest'ultima ponga a sostegno della propria legittimazione, non potendosi limitare a valutarli come meri atti sopravvenuti alla cessione (si veda Cass. Civ. ordinanza n. 10200/2021). Tali pronunciamenti, quindi, reputano provata la titolarità del credito sulla base di elementi sintomatici o fatti concludenti o dal fatto che il debitore l'abbia esplicitamente o implicitamente riconosciuto il fatto della cessione. Ebbene, al riguardo, deve ritenersi che la prova principe del fatto della cessione del singolo rapporto sia costituita proprio dai documenti contrattuali recanti la menzione del rapporto medesimo, facendo conseguire, altrimenti, la legittimazione attiva dal mero possesso del titolo esecutivo. Ciò premesso, nel caso qui specificamente in esame, va evidenziato che secondo la prospettazione proposta da parte intervenuta l'avviso di cessione deve considerarsi sufficiente a fornire la prova della titolarità del credito, pur senza indicazione specifica dei rapporti oggetto di cessione. Ebbene, il richiamato avviso di cessione, nella descrizione delle posizioni cedute riporta: "In particolare, i Crediti derivano dalla seguente tipologia di rapporti: (i) finanziamenti (incluse aperture di credito) e/o (ii) crediti di firma, sorti nel periodo tra il 01/01/1988 ed il 29/09/2019. Ai sensi dell'articolo 7.1, comma 6, della Legge sulla Cartolarizzazione, le (...) e la Società renderanno disponibili nella pagina (...), fino alla loro estinzione, i dati indicativi dei Crediti. Inoltre, i debitori ceduti potranno richiedere conferma dell'avvenuta cessione mediante invio di richiesta scritta al seguente indirizzo email: (...)". È di tutta evidenza come tale descrizione sia vaga e onnicomprensiva, facendo riferimento a rapporti di finanziamento, indicando solo i generici contorni degli stessi. Nella descrizione sopra riportata, infatti, possono astrattamente rientrare tutti i crediti vantati dalla cedente da rapporti di finanziamento sorti tra il 01.01.1988 e il 29.09.2019. In altri termini non solo non vengono indicati i rapporti ceduti, nè si riporta un allegato recante l'elenco degli stessi, ma neppure si indicano dei tratti salienti che consentano di tratteggiarne le caratteristiche peculiari. Deriva, pertanto, l'insufficienza della documentazione a comprovare la titolarità del credito. In aggiunta, anche se si volesse aderire all'orientamento da ultimo espresso dalla Suprema Corte, citato da parte intervenuta, non si giungerebbe a una diversa conclusione. La citata pronuncia della Suprema Corte n. 10200/2021, infatti, si limita ad osservare che il Giudice investito della questione sia tenuto a valutare tutti gli elementi offerti dalla parte a riprova della titolarità del finanziamento, senza escluderne la valenza per il solo fatto di essere fatti successivi alla cessione, lasciando ovviamente la relativa valutazione al giudice del merito, non investendo la stessa una questione di legittimità. Ciò posto, non si ritiene che il documento denominato dichiarazione di cessione datato 15.12.2021, allegato alla comparsa conclusionale, consenta di ritenere assolto il relativo onere probatorio, considerato che si tratta di documento sottoscritto da un soggetto, dott.ssa M.M. su carta intestata a (...) S.p.a., di cui non sono noti i poteri rappresentativi verso l'esterno, all'evidenza confezionato ai fini della presente controversia, non avente natura confessoria, che non ha valenza sostitutiva del contratto di cessione o dell'elenco recante le posizioni cedute che alla stessa avrebbe dovuto essere allegato. Dal mancato assolvimento dell'onere probatorio deriva la declaratoria di difetto di legittimazione passiva di (...) s.r.l. II. La valenza del contratto di mutuo a costituire titolo esecutivo In relazione al motivo di opposizione sub a), vanno svolte alcune opportune premesse. Come noto, il mutuo è un contratto reale il cui perfezionamento avviene con la consegna materiale della cosa mutuata da parte del mutuante al mutuatario. Parte opponente sostiene che debba negarsi il carattere di titolo esecutivo al contratto di mutuo in oggetto poiché, qualora il mutuo non sia accompagnato dalla immediata dazione della somma di denaro, perderebbe irreversibilmente il carattere della realità. Sostiene, inoltre che, nel caso di specie, sarebbe stato concluso un contratto di mutuo condizionato all'adempimento di quanto previsto dall'art. 1 del contratto stipulato tra le parti. La costituzione di un pegno sarebbe la riprova della mancata disponibilità giuridica della somma mutuata, la cui effettiva erogazione sarebbe stata condizionata all'adempimento delle ulteriori prestazioni imposte ad interesse della Banca. Ciò posto, occorre premettere che la progressiva dematerializzazione dei valori mobiliari impone una rilettura dei tradizionali strumenti della pratica degli affari - tra cui il contratto di mutuo - che tenga conto dell'attuale realtà senza, tuttavia, comportarne uno stravolgimento concettuale. Deve, pertanto, confermarsi la natura reale del contratto di mutuo che, quindi, si perfeziona con la consegna materiale della somma di denaro che è elemento costitutivo del contratto. Tuttavia, la consegna non deve necessariamente essere materiale e fisica, ritenendosi sufficiente a tal fine che il mutuatario consegua la disponibilità giuridica della somma, cui corrisponda la contestuale perdita della disponibilità delle somme medesime in capo alla Banca (cfr. Cass. sent. n. 2483/2011). Occorre, quindi, dar conto, nella prassi delle operazioni commerciali, della possibile conclusione di un contratto di mutuo, costituente valido titolo esecutivo ai sensi dell'art. 474 c.p.c., derivante dalla combinazione di una pluralità di atti, in cui l'atto di quietanza a saldo sia formalmente autonomo e distinto rispetto al mutuo e sia di poco successivo (cfr. da ultimo Cass. civ. sentt. nn. 18325/2014 e 17194/2015). Parimenti, ciò si verifica ogniqualvolta il mutuante crei un autonomo titolo di disponibilità a favore del mutuatario, così da determinare l'uscita della somma dal proprio patrimonio e l'acquisizione al patrimonio di quest'ultimo, ovvero, quando, nello stesso contratto di mutuo, le parti abbiano inserito specifiche pattuizioni consistenti nell'incarico che il mutuatario dà al mutuante di impiegare la somma per soddisfare un interesse della Banca. In tal caso, con il perfezionamento del mutuo, deve ritenersi già sorta l'obbligazione restitutoria del mutuatario. Sulla questione in esame non può sottacersi il vivace dibattito giurisprudenziale in atto. In particolare, secondo una parte della giurisprudenza di merito, in linea con quanto osservato dall'opponente, la fattispecie in esame è sussumibile nell'alveo del c.d. contratto di mutuo condizionato o promessa di mutuo, con conseguente insussistenza dei presupposti di cui all'art. 474 c.p.c. ai fini della qualificazione del contratto in questione come titolo esecutivo. Questo Giudice ritiene che, ai fini di un corretto inquadramento della questione, non si possa prescindere dallo schema contrattuale impiegato dalle parti; nella prassi, infatti, è possibile individuare almeno due casistiche ricorrenti. Il primo tra gli schemi contrattuali impiegati non contiene alcuna autonoma dichiarazione di volontà della parte mutuataria di vincolare la somma mutuata a garanzia dell'adempimento delle formalità necessarie all'iscrizione ipotecaria, ma una mera presa d'atto di tale circostanza. Generalmente, in tali casi, alla quietanza contenuta nel mutuo non corrisponde l'effettiva consegna della somma di denaro, mediante assegni o accredito su conto corrente bancario. Infine, il piano di ammortamento ha inizio in un momento successivo allo svincolo della somma mutuata. Se ne ricava, conseguentemente, la volontà complessiva di ritardare o posticipare gli effetti del contratto ad un momento successivo rispetto alla sua conclusione, coincidente con il consolidamento della garanzia ipotecaria. In tali casi, quindi, correttamente si esclude la valenza del contratto in esame come titolo esecutivo ai sensi dell'art. 474 c.p.c.. Si differenziano da tale casistica le ipotesi in cui nel contratto si dia conto dell'effettiva consegna (materiale tramite assegni, o contabile, tramite accredito su conto corrente intestato al debitore) della somma mutuata a cui si collega il rilascio della quietanza; in questa seconda fattispecie si rintraccia, generalmente, da un lato l'effettivo passaggio del denaro dalla Banca al mutuatario e dall'altro la manifestazione di volontà di quest'ultimo diretta a vincolare la somma all'adempimento delle formalità necessarie all'iscrizione ipotecaria, con immediata decorrenza del piano di ammortamento, senza che, quindi, sia possibile concludere per la sussistenza di una concorde volontà delle parti di ritardare ad un secondo momento l'esecuzione del contratto. Dalla riconducibilità alla prima o alla seconda delle fattispecie sopra enunciate dipende la qualificazione del contratto di mutuo come titolo esecutivo ai sensi dell'art. 474 c.p.c.. Infatti, nel primo caso, stante l'intenzione delle parti desumibile dalle clausole complessivamente considerate, non si ravvisa né la consegna materiale della somma, né l'inequivoca manifestazione di volontà della parte (cui corrisponde una disponibilità per lo meno giuridica della somma) di disporne, con la conseguenza che la quietanza ivi resa non può reputarsi validamente prestata, se non contenuta in un altro e successivo atto pubblico, redatto all'esito dell'effettiva erogazione della somma. Nella seconda ipotesi, invece, il complessivo atteggiarsi delle clausole, unitamente all'inizio immediato del piano di ammortamento, fa concludere diversamente per la disponibilità per lo meno giuridica della somma mutuata da parte del debitore, con conseguente idoneità della quietanza prestata e dell'atto a costituire titolo esecutivo (in tal senso Tribunale di Napoli -ordinanza del 18.10.2013), secondo cui nella fattispecie in esame (unico contratto con dazione delle somme; iscrizione di ipoteca e costituzione delle somme mutuate in deposito cauzionale o pegno) trova applicazione il principio secondo cui "Il mutuo è contratto di natura reale che si perfeziona con la consegna di una determinata quantità di danaro (o di altra cosa fungibile) ovvero con il conseguimento della giuridica disponibilità di questa da parte del mutuatario, la quale può ritenersi sussistente, come equipollente della "traditio"; nel caso in cui il mutuante crei un autonomo titolo di disponibilità in favore del mutuatario, in modo tale da determinare l'uscita della somma dal proprio patrimonio e l'acquisizione della medesima al patrimonio di quest'ultimo. Nel predetto paradigma contrattuale rientra pertanto anche il caso in cui la somma mutuata sia depositata su di un libretto fruttifero di risparmio al portatore (?) poiché detta somma, pur non essendo mai entrata nella disponibilità materiale del mutuatario, è comunque uscita dalla disponibilità del mutuante ed entrata nel patrimonio del mutuatario. (Cass. civ., sent. n. 6686/1994; la Suprema Corte, nella citata sentenza n. 6686/1994, ha precisato che perché si realizzi la disponibilità giuridica della somma mutuata in capo al mutuatario "occorre che essa abbia ricevuto una specifica destinazione convenzionale tale da rinnovare il titolo di appartenenza della somma medesima, poiché, diversamente, dovrebbe piuttosto ravvisarsi una pattuizione avente a oggetto il rinvio della consegna e, quindi, un differimento del perfezionamento del contratto (Cass. 12 giugno 1969, n. 2076), che integra un mero preliminare di mutuo con effetti obbligatori e non reali"). La circostanza che la parte mutuataria vincoli la somma mutuata al fine di costituire un deposito cauzionale presso la Banca stessa, a garanzia dell'adempimento di tutti gli obblighi posti a suo carico, presuppone, in queste ipotesi, che la somma sia entrata nella sfera di disponibilità del mutuatario, il quale costituisce una garanzia provvisoria per le obbligazioni assunte (tra cui documentare l'esecuzione delle formalità di pubblicazione delle garanzie reali). Ne deriva che, in tale frangente, la Banca si trova nel possesso della somma finanziata non perché non è stato concluso il mutuo, ma in virtù di un altro autonomo e connesso titolo giuridico, rappresentato dalla garanzia atipica costituita dal beneficiario del prestito il quale ne ha già acquisito la disponibilità giuridica, non potendo altrimenti costituirsi la garanzia medesima. In altre parole, la somma, pur non essendo mai entrata nella disponibilità materiale del mutuatario, è uscita dalla disponibilità della banca mutuante, entrando nella disponibilità giuridica del mutuatario, che la ha accantonata "a garanzia" dell'adempimento delle obbligazioni contrattualmente assunte. Traendo le dovute conclusioni dai principi sopra espressi, nel contratto di mutuo posto alla base della presente procedura esecutiva parte attrice dichiara di aver ricevuto dalla Banca la somma e ne rilascia ampia quietanza (cfr. art. 1 del contratto di mutuo in atti). In particolare nel contratto si legge: "la parte mutuataria ritira gli assegni suindicati, come fossero denaro contante e rilascia alla Banca ampia, definitiva e liberatoria quietanza della somma incassata. Successivamente, la parte mutuataria, come sopra rappresentata, riconsegna qui, all''atto, alla parte mutuante che, come sopra rappresentata, accetta, gli assegni su descritti, dichiarando di volerli costituire in pegno infruttifero. A tal fine gira gli assegni medesimi a favore della Banca ed autorizza quest'ultima a trattenerli e a depositarli su di un conto infruttifero di pari importo, acceso presso la stessa banca in testa ad essa parte mutuataria, con il vincolo di pegno, La somma sarà posta nella disponibilità della parte mutuataria medesima, (...) decorsi i termini di legge per il perfezionamento dell'ipoteca e comunque non appena la Banca verrà in possesso della seguente documentazione.". A supporto di tale conclusione si pone, poi, l'inequivoco tenore letterale del contratto, nella parte in cui si fissa un termine iniziale di adempimento dell'obbligo di restituzione delle rate e di corresponsione degli interessi in alcun modo condizionato dall'adempimento delle obbligazioni pattuite ai fini dello svincolo delle somme (si veda l'art. 2 del contratto in atti in cui si legge "L'ammortamento avrà inizio il giorno 1 luglio 2004, per il periodo dall'erogazione alla data di inizio dell'ammortamento stesso, la parte mutuataria dovrà corrispondere gli interessi di preammortamento calcolati sull'intera somma finanziata al tasso del 3.15%"). Il caso in esame si distingue da quelli, esaminati da questo Tribunale, in cui si è disposta la sospensione dell'esecuzione, in cui veniva del tutto a mancare tale autonoma disposizione della somma da parte del mutuatario, che non costituiva un vincolo di indisponibilità avente autonomo titolo (come nel caso di specie), senza quindi che vi fosse dimostrazione del conseguimento della disponibilità giuridica ancorché non materiale della somma. Non appare, quindi, corretta la prospettazione di parte ricorrente circa la natura condizionata del contratto, non giustificandosi sotto questo profilo l'accoglimento della domanda. III. Sulla dedotta usurarietà del tasso di interesse corrispettivo Preliminarmente si deve ribadire che, ai fini della valutazione del tasso di interesse corrispettivo, nel caso estinzione anticipata del mutuo non si può avere riguardo all'applicazione della c.d. penale per l'estinzione anticipata. La determinazione del tasso effettivo, infatti, non deve tenere in considerazione la commissione prevista in ipotesi di estinzione anticipata del finanziamento, posto che tale commissione, in quanto voce di costo meramente eventuale, a mera discrezione del mutuatario, non è collegata all'erogazione del credito e quindi non va aggiunta alle spese di chiusura della pratica. Laddove, infatti, si volesse sostenere che il tasso soglia ex L. n. 108 del 1996 sarebbe superato per effetto dell'inclusione nel TAEG dell'incidenza percentuale della penale per l'estinzione anticipata del mutuo, verrebbe postulata una sommatoria fra voci eterogenee per natura e funzione, quali gli interessi corrispettivi e la penale. Se gli interessi attengono alla fase fisiologica del finanziamento, remunerando la banca per il prestito richiesto dal mutuatario ed hanno un'applicazione certa e predefinita, legata all'erogazione del credito, costituendo il costo del denaro per il mutuatario, viceversa la penale per estinzione anticipata del mutuo costituisce un elemento eventuale del negozio, funzionale ad indennizzare il mutuante dei costi collegati al rimborso anticipato del credito, ossia del mancato guadagno (si veda in proposito Cassazione civile sez. VI, 31/01/2022, (ud. 10/12/2021, dep. 31/01/2022), n.2812 in cui si legge: "il quarto motivo è del pari manifestamente fondato, laddove esso deduce l'irrilevanza dell'astratta previsione di una determinata "penale per anticipata risoluzione", dal momento che pacificamente essa non fu applicata e secondo il principio sopra ricordato, che indica come rilevi quanto il contraente sia stato chiamato in concreto a pagare"). Proprio per tale ragione, nel formulare il quesito al consulente tecnico, il Tribunale ha domandato che la verifica del superamento del tasso soglia venisse eseguita "tenuto conto dei criteri indicati nelle Istruzioni della B.I. per la rilevazione del TEGM, con esclusione dell'applicazione della c.d. "penale di estinzione anticipata"". Ciò posto la consulenza tecnica d'ufficio, dalle cui risultanze non vi sono ragioni per discostarsi, ha evidenziato che gli interessi corrispettivi non superano la soglia usuraria. Su sollecitazione del consulente tecnico di parte, hanno altresì evidenziato che, nell'ipotesi di una risoluzione contrattuale nel periodo compreso tra il 03.02.04 (data di erogazione) e il 25.02.04 e, quindi, a circa venti giorni dalla conclusione del contratto, invece, sarebbe stato riscontrabile il superamento del tasso soglia. Come evidenziato dallo stesso consulente l'assunto di parte attrice parte dal presupposto che la verifica del rispetto del tasso soglia debba essere eseguita per tutta la durata del rapporto e, quindi, anche in un momento immediatamente successivo alla conclusione del rapporto medesimo. Ebbene, sotto questo profilo occorre riportare il passaggio delle SS.UU. della Suprema Corte 18 settembre 2020, n. 19597 che, seppure riguardo alla verifica del superamento del tasso soglia con riferimento agli interessi moratori ha espresso un principio generale. In particolare, ad avviso delle SS.UU.: "L'interesse ad agire in relazione ad una clausola reputata in tesi nulla o inefficace sussiste sin dalla pattuizione della medesima, in quanto risponde ad un bisogno di certezza del diritto che le convenzioni negoziali siano accertate come valide ed efficaci, oppur no. Ciò perché (cfr., fra le altre, Cass. 31 luglio 2015, n. 16262) l'interesse ad agire in un'azione di mero accertamento non implica necessariamente l'attualità della lesione di un diritto, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva. Tuttavia - ed in ciò sta la risposta al secondo quesito, nel senso che il tasso rilevante è quello in concreto applicato dopo l'inadempimento - la conseguenza è che la sentenza sarà di mero accertamento dell'usurarietà del tasso, ma in astratto, senza relazione con lo specifico diritto vantato dalla banca, posto che ancora non sarà attuale l'inadempimento ed il finanziatore ancora non avrà preteso alcunché a tale titolo. Onde se, da un lato, non può essere disconosciuto l'interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. per la presenza attuale in contratto di una clausola degli interessi usurari, dall'altro lato sarà limitato l'effetto del giudicato di accertamento, non idoneo automaticamente a valere con riguardo alla futura applicazione di un interesse moratorio in concreto, ma solo ad escludere che l'interesse pattuito sia dovuto. In altritermini, se il finanziato agisca in accertamento in corso di regolare rapporto, ed ottenga sentenza dinullità della clausola, ciò non vuol dire che, da quel momento in poi, egli potrà non adempiere epretendere che nessun interesse gli sia applicato, oltre all'interesse corrispettivo, incluso nelle rategià dovute. Realizzatosi l'inadempimento, rileva unicamente il tasso che di fatto sia stato richiestoed applicato al debitore inadempiente; cade l'interesse ad agire per l'accertamento della eventualeillegittimità del tasso astratto non applicato; i parametri di riferimento dell'usurarietà restano quelli esistenti al momento della conclusione del contratto che comprende la clausola censurata. In conclusione, ciò che rileva in concreto in ipotesi di inadempimento è il tasso moratorio applicato; se il finanziato intenda agire prima, allo scopo di far accertare l'illiceità del patto sugli interessirispetto alla soglia usuraria, come fissata al momento del patto, la sentenza ottenuta vale comeaccertamento, in astratto, circa detta nullità, laddove esso fosse, in futuro, utilizzato dal finanziatore. Onde tale sentenza non avrà ancora l'effetto concreto di rendere dovuto solo un interesse moratorio pari al tasso degli interessi corrispettivi lecitamente pattuiti (ex art. 1224 c.c.):effetto che, invece, si potrà verificare solo alla condizione - presupposta dalla sentenza di accertamento mero pre-inadempimento - che quello previsto in contratto sia stato, in seguito, il tasso effettivamente applicato, o comunque che, al momento della mora effettiva, il tasso applicato sulla base della clausola degli interessi moratori sia sopra soglia. Ove il tasso applicato in concreto sia, invece, sotto soglia, esso sarà dovuto, senza che possa farsi valere la sentenza di accertamento mero, che non quello ha considerato.". Se ne ricava, conseguentemente, il corollario secondo cui per la valutazione del superamento del tasso soglia sussiste l'interesse ad agire per l'accertamento dello stesso, tuttavia, per ottenere una sentenza di condanna alla restituzione dell'indebito percepito dalla Banca, occorre che il tasso venga effettivamente applicato. Tale soluzione appare bilanciare le opposte esigenze in gioco, consentendo da un lato di tutelare la posizione del soggetto cui sia potenzialmente richiesto il pagamento di interessi usurari, dall'altro di sanzionare la Banca che abbia in concreto richiesto il pagamento di interessi usurari, per cui non si riscontrano ragioni per discostarsene. Le deduzioni di parte attrice, infatti, che sostiene che in tal modo verrebbe surrettiziamente meno il principio sancito dalla Suprema Corte che ha stabilito che occorre valutare l'usura al momento della pattuizione non colgono nel segno. Proprio riconoscendo l'interesse ad agire del finanziato ad ottenere una sentenza di accertamento si riafferma tale principio; qualora però, nel corso del contratto, il pagamento di tale interesse non si sia in concreto verificato, è di tutta evidenza come l'interesse ad agire venga meno, non essendo alla pattuizione astratta conseguita alcun pagamento. Deriva pertanto che, sebbene in esito alle osservazioni di parte attrice - opponente, sia stato rilevato dal c.t.u. il superamento del tasso soglia, tale superamento si riferisce ad un'ipotesi astratta che, in concreto, non si è verificata, con conseguente difetto di interesse ad agire di parte attrice nei termini sopra indicati. III. Nullità del contratto per violazione della normativa antitrust - tasso Euribor Per quanto attiene all'ulteriore deduzione proposta che attiene alla pretesa manipolazione dell'indice Euribor all'esito di un'intesa anticoncorrenziale tra alcune banche europee avente ad oggetto l'Euribor (Commissione Antitrust Europea - Provvedimento C (2013) 8512/1 del 4.12.2013 si rileva quanto segue. Le suddette decisioni sono state circoscritte ai rapporti indicizzati all'Euribor che hanno avuto esecuzione durante il limitato periodo che parte però dal settembre 2005 (data in cui è stata accertata la manipolazione dei tassi) al 30/05/2008. È pacifico che la parte in tal caso, può rivolgersi al Tribunale competente in materia di controversie antitrust (il Tribunale delle Imprese), allegando un'intesa di cui si chiede la dichiarazione di nullità, ed altresì il suo effetto pregiudizievole, il quale rappresenta l'interesse ad agire dell'attore secondo i principi del processo, che trova rimedio solo attraverso il risarcimento del danno (Cass. Sez. U, Sentenza n. 2207 del 04/02/2005; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 993 del 21/01/2010 per cui l'art. 2 della L. n. 287 del 1990 vieta, a pena di nullità, "le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti", inter alia, nel "fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali"), non avendo l'eventuale nullità del contratto a monte (intesa anticoncorrenziale) effetti diretti sui contratti a valle (si veda in proposito Tribunale Civitavecchia sez. I, 27/07/2021, (ud. 20/07/2021, dep. 27/07/2021), n.797). Inoltre, ad avviso del prevalente orientamento della giurisprudenza di merito "Un'intesa vietata ai sensi dell'art. 2 L. n. 287 del 1990 può essere dannosa anche per un soggetto consumatore o imprenditore, che non vi abbia preso parte, ma perché gli si possa riconoscere un interesse ad invocare la tutela di cui all'art. 33 comma 2 L. n. 287 del 1990 non è sufficiente che egli alleghi la nullità dell'intesa medesima, ma occorre anche che precisi la conseguenza che tale vizio ha prodotto sul proprio diritto ad una scelta effettiva tra una pluralità di prodotti concorrenti atteso che le Sezioni Unite nella pronuncia n. 2207/2005 hanno affermato che "unica tutela concessa al soggetto rimasto estraneo alla intesa anticoncorrenziale che abbia allegato e dimostrato un pregiudizio ad essa conseguente, è quella risarcitoria non essendo prevista alcuna tutela reale per il soggetto che si assume danneggiato da un'intesa anticoncorrenziale (si veda Tribunale di Verona, ordinanza 1.10.2018)...nel caso di specie parte opponente non ha in alcun modo allegato - né tanto meno provato - di avere subito un pregiudizio in conseguenza dell'intesa anticoncorrenziale invocata, essendosi limitata a dedurre, la violazione dell'art. 2 L. n. 287 del 1990 da parte del contratto di fideiussione stipulato nel 2012 con conseguente nullità dello stesso", (si veda, al riguardo, Tribunale di Bologna, sent. n. 20344/2019). Nel caso di specie alcuna domanda risarcitoria è stata formulata dalla parte attrice, né nulla è stato dedotto circa la frustrazione delle possibilità di stipulare a condizioni migliorative o sull'effettiva adesione dell'istituto di credito all'intesa anticoncorrenziale né sugli effetti che tale intesa avrebbe determinato sul contratto a valle. Dalle considerazioni che precedono consegue, pertanto, il rigetto dell'opposizione. Le spese di lite della presente fase di merito seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo in applicazione dei parametri indicati dal D.M. n. 55 del 2014 tenendo conto della qualità e della quantità dell'attività difensiva prestata. P.Q.M. Il Tribunale di Avezzano, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando sulle domande proposte da (...) e (...) nei confronti di (...) S.p.A. con l'intervento di (...), S.r.l., ogni altra difesa, eccezione ed istanza disattesa, così provvede: - Dichiara il difetto di legittimazione passiva di (...) s.r.l.; - Rigetta l'opposizione; - Condanna (...) S.r.l. al pagamento delle spese di lite a favore del difensore Da.Na., dichiaratosi antistatario, che si liquidano in euro 6.750,00; - Condanna (...) e (...) in solido al pagamento delle spese di lite a favore di (...) S.p.A. che si liquidano in euro 13.430,00 oltre spese generali, i.v.a. e c.p.a. come per legge; Si comunichi. Così deciso in Avezzano il 17 febbraio 2022. Depositata in Cancelleria il 17 febbraio 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI AVEZZANO Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Alessandra CONTESTABILE, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 1520/2015 promossa da: (...) S.P.A. GIÀ (...) SPA, ((...)) - giusto atto di fusione del (...), nn. (...) di Rep./Racc. del Notaio Dr. (...) - con l'avv. Le.Bo. elettivamente domiciliato in Indirizzo Telematico con l'avv. DI.ST. ((...)), dalla quale è rappresentata e difesa congiuntamente e disgiuntamente all'avv. Le.Bo. giusta procura in atti; ATTORE contro (...) ((...)) residente in A., via delle A. n.16 CONVENUTO contumace (...) s.r.l.s. P.IVA (...) in persona dell'amministratore unico p.t. (...) rappresentata e difesa dall'avv. (...) (C.F. (...)) ed elettivamente domiciliata nel di lui studio in Avezzano, Via (...) giusta procura in atti:, CONVENUTO CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con atto di citazione del 29.9.2015 la società (...) spa conveniva in giudizio (...) e (...) s.r.l.s. formulando le seguenti conclusioni nel merito: - previe le declaratorie e gli accertamenti tutti del caso, accertata l'inesistenza di alcuna usucapione in favore del signor (...), dichiarare l'invalidità, la nullità, l'inesistenza, l'annullabilità e, in ogni caso, l'inefficacia nei confronti della società attrice dell'atto pubblico di vendita del (...), Rep. n. (...) del Notaio Dr. (...), trascritto in data 22.01.2015 mm. R. Gen. 782, R. Part. 643, a mezzo del quale il signor (...), senza titolo e legittimazione alcune, ha ceduto alla società (...) S.R.L.S., "la piena proprietà su quanto appresso sito nel Comune di Avezzano (AQ) alla via C. C. B. di C. 72 - C/D/E (ex. civ. n. 74) e precisamente: porzione di fabbricato costituta da due unità immobiliari, una al piano terra composta di un unico vano e tre bagni ed una al piano primo composto di tre vani ufficio e bagno, con scala che collega i due piani... riportati nel Catasto Fabbricati del Comune di A. al foglio (...) particella (...): subalterno (...), z.c. 2, Cat.(...), rendita catastale Euro 2.119,54, via C. C. B. di C. n. 74 piano T (il piano terra) e subalterno (...), z.c. 2, Cat. (...) di 1°, vani 5, rendita catastale Euro 748,86, via C. C. B. di C., 74, piano1, scala A (il piano primo)". Nell'oggetto della vendita vi era altresì ricompreso "il diritto di comproprietà sulla porzione della corte attualmente riportata, al Catasto Fabbricarti nel Comune di A. al foglio (...) particella (...) subalterno (...).".; il tutto come da narrativa degli atti di causa, con ogni conseguente pronuncia in merito alle trascrizione dell'atto medesimo e della pronuncia giudiziale che verrà emessa all'esito del presente giudizio; - per l'effetto, accertato e dichiarato che unica, piena ed esclusiva proprietaria è la società di leasing attrice, disporre che gli immobili sopra detti vengano riconsegnati, liberi da persone e cose con effetto del provvedimento anche nei confronti di eventuali terzi, alla proprietà ai sensi e per gli effetti della norma di cui all'art. 948 c.c- condannare altresì i convenuti al risarcimento dei danni subiti dall'attrice nella misura che sarà quantificata in corso di causa o che si chiede fin d'ora venga liquidata in via equitativa; - rigettare integralmente, per i motivi già esposti compiutamente in narrativa, tutte le domande e/o eccezioni, anche riconvenzionali, svolte dalla società convenuta e/o da qualsiasi altra parte intervenuta nel presente procedimento o chiamata in causa, nei confronti di (...) S.p.a. già (...) S.p.a., con ogni conseguente statuizione; - rigettare integralmente, per i motivi già esposti compiutamente in narrativa, tutte le domande e/o eccezioni riconvenzionali svolte dalla società convenuta in primis perché tardive ed indi inammissibili, e in ogni caso, perché infondate in fatto ed in diritto; Con vittoria di spese, diritti ed onorari del giudizio, CPA, IVA ed ogni ulteriore accessorio, come per legge" Nel giudizio, si costituiva la sola società (...) SRLS che invocava il rigetto della domanda attrice siccome infondata in fatto e in diritto e, in via riconvenzionale, avanzava domanda di condanna dell'attrice ai sensi dell'art. 92 c.p.c. secondo comma e domanda di accertamento in ordine all'intervenuto acquisto della proprietà oggetto di causa nonché in via ulteriormente gradata il risarcimento dei danni dell'attore e del convenuta carico dell'attore e del convenuto (...) quantificati in corso di causa o comunque nella misura che sarà ritenuta di giustizia ma non inferiore ad Euro 50.000,00. Nessuno si costituiva per (...) che veniva dichiarato contumace all'udienza del 17.02.2016. Esperito senza esito il tentativo di mediazione delegato dal giudice, venivano concessi i termini ex art. 183 VI comma c.p.c.. Successivamente all'esito delle predette memorie, il G.I. ammetteva le orali richieste dalle parti e fissava per l'escussione dei testi. Con atto del 07/02/2019 si costituiva per la società convenuta il nuovo difensore Avv. (...). All'udienza di precisazione delle conclusioni il giudice tratteneva la causa assegnando i termini di cui all'art. 190 c.p.c. Va in prima istanza osservato che l'eccezione proposta in via pregiudiziali non ha ragion d'essere posto che il tentativo di mediazione delegato dal giudice è stato ritualmente esperito. Inoltre, prima del merito, va vagliata l'eccezione d'inammissibilità delle domande proposte in via riconvenzionale. Sul punto si osserva che l'eccezione di inammissibilità delle domande riconvenzionali risulta meritevole di accoglimento in ragione del fatto che le stesse sono da ritenersi tardive siccome formulate a mezzo di comparsa di costituzione, depositata senza il rispetto del termine di cui all'art. 166 c.p.c.. Segue pertanto la dichiarazione di inammissibilità delle stesse. Nel merito va osservato che la fattispecie concreta in esame integra l'ipotesi di vendita di cosa altrui con richiesta di accertamento in ordine alla validità ed efficacia nei confronti di terzi dell'atto pubblico di vendita del 30.12.2014 con il quale (...), dichiaratosi proprietario esclusivo dei beni "per acquisto fattone per possesso pubblico, pacifico, continuato ed ininterrotto da esclusivo proprietario da oltre venti" ebbe a cedere alla (...) s.r.l.s. gli immobili per cui è causa. In merito alla legittimità dell'operazione di vendita ci si riporta all'ormai acquisito orientamento giurisprudenziale, che afferma la validità del trasferimento immobiliare a prescindere dall'accertamento giudiziale dell'avvenuta usucapione da parte del venditore che si presume abbia esercitato un potere di fatto sulla cosa, che abbi rivestito i caratteri di legge (Cass. Civ. 2785/2007). In particolare nel 2007 la Cassazione ha chiaramente mutato il precedente orientamento che, invece, riteneva che l'esercizio del possesso per il numero di anni stabiliti dalla legge costituisce il presupposto per ottenere solamente il riconoscimento del diritto di proprietà sulla cosa posseduta. La richiamata sentenza, in contrapposizione a quanto innanzi stabilito, ha ritenuto che un contratto avente ad oggetto il trasferimento del diritto di proprietà acquistato per usucapione sia perfettamente valido senza la necessità di un preventivo accertamento giudiziale. Ne consegue che anche il contratto di specie non è affetto da nullità alcuna. Tutte le ulteriori questioni non possono essere vagliate giacché la domanda per cui è causa investe, esclusivamente, la pronuncia in merito alla legittimità, validità ed efficacia del contratto di compravendita. Per quanto innanzi precisato segue il rigetto della domanda attrice con consequenziale declaratoria di validità ed efficacia dell'atto pubblico di vendita del (...), Rep. n. (...) del Notaio Dr. (...), trascritto in data 22.01.2015 mm. R. Gen. 782, R. Part. 643 con ogni effetto di legge Ogni ulteriore domanda viene assorbita dalla presente decisione. Le spese di lite in ragione della particolarità delle questioni trattate si ritiene congruo compensarle integralmente tra tutte le parti P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: - Rigetta la domanda attrice, infondata in fatto e in diritto, con consequenziale efficacia e validità dell'atto pubblico di vendita del (...), Rep. n. (...) del Notaio Dr. (...), trascritto in data 22.01.2015 mm. R. Gen. 782, R. Part. 643; - dichiara inammissibili tutte le domande e/o eccezioni svolte dalla società convenuta in via riconvenzionale perché tardive; - Spese integralmente compensate tra le parti. La sentenza è provvisoriamente esecutiva come per legge. Così deciso in Avezzano il 5 gennaio 2022. Depositata in Cancelleria il 7 gennaio 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI AVEZZANO SEZIONE LAVORO Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Antonio Stanislao Fiduccia ha pronunciato la seguente SENTENZA Nel giudizio civile di primo grado iscritto al n. 482/2018 (...) promosso da: (...) (C.F. (...)), (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. Al.Co. RICORRENTE contro (...) S.R.L. (C.F. (...)), in persona del legale rappresentante p.t., con il patrocinio degli avv.ti An.Pa. e An.Eb. RESISTENTE SVOLGIMENTO DEL PROCESSO (...) adiva con ricorso l'intestato Tribunale per ivi sentir accertare l'illegittimità del recesso dal rapporto di lavoro intimatogli da (...) S.R.L. per mancanza di effettività ed inadeguatezza della durata del periodo di prova e perché determinato da motivo illecito ed estraneo alla funzione del patto di prova; condannare, per l'effetto (...) S.R.L. al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, derivanti da tale illegittimo recesso. Esponeva, in particolare, il ricorrente che, nell'agosto del 2017, quando era ancora dipendente della società (...) S.p.A., con contratto a tempo indeterminato, inquadramento di livello quadro, ruolo di Area Manager, sede di lavoro a Milano, veniva contattato da (...) S.R.L. che gli illustrava la posizione lavorativa ricercata; che seguivano nello stesso mese una serie di colloqui con varie figure professionali di (...) S.R.L. tra cui la (...), (...) (line manager), (...) (responsabile risorse umane dell'area commerciale) (...) (Manager Human Resources), (...) (Direttore Vendite Modern Trade), (...) (Direttore Risorse Umane); che, all'esito dell'ultimo di tali colloqui, veniva formulata al ricorrente una prima proposta contrattuale a tempo indeterminato come impiegato di primo livello Quadro super; che seguivano alcune trattative in cui l'azienda resistente accettava le modifiche migliorative della proposta contrattuale richieste dal (...); che, considerato il vantaggioso trattamento economico offerto dal (...) S.R.L., il ricorrente si determinava a dimettersi dalla (...) S.p.A. e firmava, in data 8.9.2017, il contratto di lavoro a tempo indeterminato con l'odierna resistente, decorrente dal 16.10.2017, il quale prevedeva, tra l'altro, un periodo di sei mesi di prova; che, dal 16.10.2017, il (...) iniziava il previsto periodo di "induction" di 15 giorni (un periodo di formazione e introduzione del nuovo assunto nei processi connessi alle interazioni tra le funzioni aziendali), terminato il quale iniziava (lunedì, 30.10.2017) a svolgere le proprie mansioni operative assegnategli in Roma, sede del suo team di lavoro; che lo stesso giorno, tuttavia, il (...) riceveva messaggio telefonico da Direttore delle Risorse Umane, (...), del seguente tenore: "Parli già troppo"; che la mattina del successivo 3 novembre, il (...) veniva convocato per incontrare nel pomeriggio il dott. (...), (...) della resistente; che, all'incontro, il dott. (...) gli riferiva di avere una lettera per lui contenente la comunicazione di recesso dal rapporto di lavoro; che il (...) chiedeva spiegazioni ricordando di aver svolto solo due giornate di effettivo lavoro dopo il periodo di induction, rifiutandosi, poi, di sottoscrivere la lettera di recesso, nonostante le insistenze del dott. (...), provvedendo a restituire i beni aziendali (tra cui l'autovettura aziendale noleggiata); che, a seguito e in conseguenza dell'episodio, al (...) veniva diagnosticata una reazione acuta da stress; che, l'8.11.2017, il ricorrente riceveva la lettera, datata 3.11.2017, con la quale (...) S.R.L. gli comunicava il recesso dal rapporto di lavoro "per mancato superamento del periodo di prova, ai sensi dell'art. 2906 del codice civile". Si costituiva (...) S.R.L. resistendo al ricorso e chiedendone il rigetto in quanto infondato in fatto e in diritto. La società resistente, in particolare, esponeva che il recesso dal rapporto di lavoro era stato determinato dal comportamento tenuto dal ricorrente nel corso di una cena di lavoro (di "welcome on-boarding", cioè di benvenuto in azienda), tenutasi presso un ristorante in Segrate (MI), il 23.10.2017, tra il (...) e i colleghi di pari grado (...) e (...), anch'essi (...) Area Manager della Region Sud Italia, assegnati in affiancamento all'odierno ricorrente nella fase di inserimento: in tale occasione il (...), in particolare, raccontava ai due colleghi la sua fase di selezione per (...) S.R.L., affermando: "Ho l'azienda per i coglioni, mi hanno corteggiato a lungo, ho rifiutato più volte le proposte sottoposte mandandoli a cagare e alla fine hanno fatto come volevo io"; riferiva aspetti legati alla sua retribuzione annua lorda, deridendo i termini contrattuali dei colleghi e ostentandone la conoscenza ("Guadagno molto più di voi, ho uno stipendio molto alto, 70 mila Euro più i premi, mi hanno detto che il vostro stipendio non supera i 50 mila"), nonostante l'impegno assunto, in sede di trattative, sia con la dott.ssa (...) sia con il (...), alla riservatezza, in particolare, sul trattamento economico accordatogli dall'azienda; esternava commenti sul trattamento di particolare flessibilità ottenuto nei giorni e negli orari lavorativi ("Faccio come cazzo mi pare, starò a Roma massimo un paio di giorni a settimana e poi per il resto me ne sto a casa in Puglia a Manfredonia"; rivolgeva commenti denigratori sul nuovo line Manager (...) ("Il nostro Capo (...) non ha esperienza e presto andrà a fare altro, quel posto sarà mio, per questo ho accettato") e sul Direttore delle Risorse Umane (...) ("Il colloquio con il direttore HR dott. (...) è stato una passeggiata, è proprio un coglione, non capisce un cazzo come tutti quelli delle Risorse umane, mi ha offerto anche una coca-cola"); che, il 30.10.2017, il dott. (...), avuta conoscenza nello stesso giorno dal (...) delle esternazioni del (...), inviava il messaggio sms recante il testo "parli già troppo", cui il ricorrente così rispondeva: "Sono dispiaciuto, non ne ero cosciente, ridurrò al minimo le esternazioni"; che lo stesso (...), nei giorni seguenti chiedeva informazioni anche al (...), il quale confermava con ulteriore dettaglio quanto riferito al Direttore delle Risorse Umane dal collega (...); che, alla luce di quanto emerso dalla cena del 23.10.2017, l'azienda riteneva non possibile la prosecuzione del rapporto di lavoro con il (...) e recedeva dallo stesso. Nel corso del giudizio venivano acquisiti i documenti ritualmente depositati dalle parti ed assunte le prove orali ammesse. MOTIVI DELLA DECISIONE Il ricorso proposto da (...) è infondato e non può essere accolto. Si osserva che, ai sensi dell'art. 2096 c.c. e 10, L. n. 604 del 1966, il rapporto di lavoro costituito con patto di prova è sottratto, per il periodo massimo di sei mesi, alla disciplina dei licenziamenti individuali. Secondo la costante giurisprudenza (v. ex pluribus Cass., Sez. Lav. 5.8.2019, n. 20916; Cass., Sez. Lav., 3.12.2018, n. 31159; Cass., Sez. Lav. 18.1.2017, n. 1180; Cass, Sez. Lav. 17.11.2010, n. 23224; Cass., Sez. Lav., 14.10.2009, n. 21784), il recesso intimato dal datore di lavoro nel corso o al termine del periodo di prova, avendo natura discrezionale non deve essere motivato, neppure in caso di contestazione, sulla valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore stesso. La discrezionalità del recesso datoriale, nondimeno, non è assoluta. I limiti di tale discrezionalità sono stati individuati sin dalla sentenza della Corte Cost. n. 189 del 1980, che nel ritenere non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2096, comma 3, c.c. e 10, L. n. 604 del 1966, nelle parti in cui consentono il recesso immotivato del datore di lavoro dal rapporto di lavoro in prova, ha, tuttavia, precisato i termini entro i quali tale potere datoriale può essere esercitato onde non sconfinare in mero arbitrio. La Consulta ha posto al centro del proprio ragionamento la disposizione del secondo comma dell'art. 2096 c.c., che sancisce l'obbligo delle parti "a consentire ed a fare l'esperimento che forma oggetto del patto di prova", disposizione che esprime efficacemente la funzione economico-sociale dell'istituto. Da tale disposizione sono stati enucleati alcuni limiti alla discrezionalità del datore di lavoro nell'esercizio del suo potere di recesso, individuati nella necessità di una completa valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore. Per questa ragione, il recesso viene considerato illegittimo ogni qual volta non sia stata consentita l'effettuazione dell'esperimento, il lavoratore sia stato adibito a mansioni diverse da quelle per le quali era stata pattuita la prova, oppure l'esperimento non abbia avuto durata adeguata, o, ancora, sia stato positivamente superato dal lavoratore, nonché tutte le volte che sia imputabile ad un motivo illecito. Il recesso, in definitiva, come affermato anche dalla giurisprudenza di legittimità successiva, deve essere "coerente con la causa del patto di prova", che è quella di fare acquisire alle parti sufficienti ed adeguati elementi di valutazione sulla reciproca loro convenienza di addivenire a un rapporto di lavoro definitivo. Segnatamente entro tale concetto di aderenza del recesso alla causa del patto di prova si muove la giurisprudenza di legittimità allorquando afferma l'illegittimità del recesso ove ispirato a motivi del tutto estranei alla funzione tipica del patto di prova (v. per tutte, Cass., Sez. Lav., 12.3.1999, n. 2228). Nelle predette ipotesi, infatti, il recesso nel periodo di prova è illegittimo proprio se e nella misura in cui esso esprima un discostamento rispetto alla funzione economico-sociale del patto di prova a rendere illegittimo il recesso. Ne discende che circostanze come l'inadeguatezza della durata dell'esperimento (in quanto rivelatrici di uno sviamento rispetto alla funzione del patto di prova) devono essere valutate "in relazione alla "causa" del patto di prova, che consiste, appunto, nel consentire alle parti del rapporto di lavoro di verificarne la reciproca convenienza" (Cass., Sez. Lav. 6.6.1987, n. 4979). In tutti questi casi, comunque, l'onere della prova grava sul lavoratore, il quale è chiamato a dimostrare sia il positivo superamento dell'esperimento, sia che il recesso è determinato da motivo - unico e determinante (v. in particolare, Cass. n. 21784/2009 cit.) - illecito o comunque estraneo alla funzione del patto di prova. La prova, da parte del lavoratore, dell'esito positivo della prova non è, di per sé, sufficiente ad invalidare il recesso e ciò in quanto essa costituisce prova indiretta, che depone, con valenza di presunzione semplice, per l'esistenza di un motivo diverso da quello da quello del mancato superamento dell'esperimento stesso. La dimostrazione del positivo superamento della prova assume, perciò, rilievo solo ed in quanto manifesti che il recesso è stato determinato da motivi diversi (v. in particolare Cass. n. 1180/2017 cit.), ossia quando "siano dimostrati precisi e specifici fatti concreti i quali comprovino che il recesso non era in alcun modo ricollegabile all'esperimento stesso né al suo esito, ma era dovuto a ragioni del tutto estranee alla sua realizzazione ed alla causa del patto di prova e che integravano dunque così l'unico e determinante motivo (appunto illecito) della decisione del datore di lavoro di recedere dal rapporto" (Cass., n. 23224/2010 cit.). Orbene, nella stessa causa, intesa come funzione-economico sociale, del patto di prova, genericamente consistente nel consentire alle parti di verificare la reciproca convenienza del contratto, deve ritenersi rientrante l'interesse del datore di lavoro a verificare, non solo le qualità strictu sensu professionali, ma anche il comportamento e la professionalità del lavoratore in relazione all'adempimento della prestazione. Il patto di prova mira, infatti, ad accertare non solo la capacità tecnica, ma anche la personalità del lavoratore e, in genere, l'idoneità dello stesso ad adempiere agli obblighi di fedeltà, diligenza e correttezza (Cass., n. 20916/2019 cit.). Nel caso che occupa, non può dirsi assolto dal ricorrente l'onere di dimostrare la sussistenza di un motivo illecito, unico e determinante, o comunque estraneo alla finalità del patto di prova, sotteso al recesso esercitato da (...) S.R.L.. Nello stesso ricorso introduttivo, d'altra parte, il presunto "motivo illecito o estraneo al rapporto" è allegato in termini del tutto dubitativi dal (...), là ove esso viene rappresentato come un ancora aperto "interrogativo sul rapido ed anomalo declino del rapporto professionale" (contrapposto, secondo quanto affermato dallo stesso ricorrente, al forte interesse della società resistente nella fase delle trattative), formulando al riguardo il ricorrente solo vaghe ipotesi sulle possibili ragioni del recesso (v. pag. 13 del ricorso: "...La prima ipotesi è che la comunicazione sia da identificarsi come una sorta di minaccioso avvertimento del dott. (...) al dott. (...), causato da tensioni personali ingiustificate ed unidirezionali, non rilevanti dal punto di vista lavorativo poiché estranee al rapporto di lavoro; la seconda possibilità è che il messaggio rappresenti l'applicazione di un licenziamento disciplinare promosso dal dott. (...), senza aver tuttavia avuto alcun rispetto delle garanzie di difesa e del contraddittorio del lavoratore, disciplinate per legge e contratto collettivo"). E', di contro, dimostrato, all'esito dell'istruttoria, che, in occasione della cena tenutasi in data 23.10.2017, tra il (...) e i due colleghi Area Manager, (...) e (...), il ricorrente si sia lasciato andare ad dichiarazioni denigratorie nei confronti della datrice di lavoro, dei superiori gerarchici, e degli stessi colleghi, nonché alla divulgazioni di informazioni sul proprio trattamento economico, nonostante gli obblighi di riservatezza assunti nei confronti della società. Sia il teste (...), sia il teste (...), in particolare, hanno confermato: - che, nel corso della cena del 23.10.2017, presso il ristorante YE'S Sushi in Segrate (MI), organizzata dagli stessi (...) e dal (...), il (...) raccontava ai due colleghi circa la fase di selezione per (...) S.R.L., proferendo le seguenti testuali parole: "Ho l'azienda per i coglioni, mi hanno corteggiato a lungo, ho rifiutato più volte le proposte sottoposte mandandoli a cagare e alla fine hanno fatto come volevo io"; - che, inoltre, il (...) riferiva circa aspetti legati alla sua retribuzione annua lorda, deridendo i termini contrattuali dei colleghi ed ostentandone la conoscenza, con le seguenti parole: "Guadagno molto più di voi, ho uno stipendio molto alto, 70 mila Euro più i premi, mi hanno detto che il vostro stipendio non supera i 50 mila" (Il teste (...) ha, al riguardo, aggiunto: "Ero sorpreso da tanta saccenza e da tale facilità di spoilerare (rivelare) aspetti privati, però non dissi nulla in risposta, ma fu una cosa che mi turbò"; il teste (...) ha, dal canto suo, precisato: "Credo che si riferisse a quello che è un trattamento medio delle nostre figure (Area Manager) non so se sapesse specificamente del mio trattamento e di quello di (...). Non so se si riferisse specificamente a noi due (me e (...)) o in generale agli Area Manager"); - che, sempre nella stessa cena il (...) esternava commenti in merito al trattamento di particolare flessibilità ottenuta sull'orario lavorativo, con le seguenti parole: "Faccio come cazzo mi pare, starò a Roma massimo un paio di giorni a settimana e poi per il resto me ne sto a casa in Puglia a Manfredonia"; - che, con riferimento al nuovo (...) Sales Manager MT Sud, (...), il (...) dichiarava: "Il nostro Capo (...) non ha esperienza e presto andrà a fare altro, quel posto sarà il mio, per questo ho accettato"; - che, con riferimento al Direttore delle Risorse Umane, (...), il (...) dichiarava: "Il colloquio con il direttore HR dott. (...) è stato una passeggiata, è proprio un coglione, non capisce un cazzo come tutti quelli delle Risorse umane, mi ha offerto anche una coca-cola" (il teste (...), ha, al riguardo precisato: "Né io, né (...) ci sentimmo di dare dei giudizi in merito ad un comportamento che ci aveva lasciato allibiti. Pensavamo che fossero cose gravi, ma per la scarsa confidenza non gli dicemmo nulla. Non mi vennero fuori delle parole per invitarlo alla continenza") Il teste (...) ha, poi, riferito di aver comunicato al (...) il comportamento tenuto dal (...) nella cena del 23.10.2017, in occasione di un evento aziendale presso l'Università Ca' Foscari di Venezia il 30.10.2017, precisando, altresì: "A (...), il 30.10.2017, non riportai le specifiche parole, ma un sintesi e feci presente la situazione di forte rischio per la convivenza tra colleghi e l'influenza negativa che l'atteggiamento manifestato dal (...) avrebbe potuto avere in azienda considerato che lo stesso sarebbe stato chiamato a dirigere e coordinare circa un centinaio di dipendenti. Le specifiche frasi dette dal (...) le riportai al responsabile delle Risorse Umane, (...), poche settimane dopo, quando fui da lui convocato per maggiori dettagli sull'accaduto. Riconosco il doc. 15 e confermo che l'ho redatto anche io nella data ivi riportata. L'incontro con (...) è avvenuto prima della stesura di tale documento. Dopo l'incontro con il (...) mi è stato chiesto dallo stesso (...) di riportare per iscritto quanto gli avevo raccontato". Il teste (...) ha confermato che il (...) lo interpellò in data 31.10.2017, specificando: "Il dott. (...) mi disse che (...) il giorno precedente all'università di Venezia, gli aveva riferito del comportamento del (...) alla cena del 23.10.2017, e mi chiamò per chiedere chiarimenti sull'accaduto anche a me il 31.10.2017"; "Nel corso della conversazione telefonica tra me e il (...) del 31.10.2017, oltre a confermare le frasi che il (...) aveva pronunciato e che ho poc'anzi riferito, io espressi la mia difficoltà nello stabilire dei rapporti professionali di colleganza a fronte degli atteggiamenti tenuti dal (...) e aggiunsi di avere perplessità sulla figura da rivestire, considerato che il nostro ruolo è orientato non verso i clienti bensì molto di più verso il (...) (cioè verso i dipendenti)"; "(...) nella telefonata mi chiese di dirgli cosa aveva detto durante la cena il neo collega (...). In quella telefonata gli confermai le testuali parole dette dal (...) nella cena, le medesime che ho confermato poc'anzi"; "Riconosco il doc. 15, l'ho redatto io insieme a (...), nella data ivi indicata. Il documento l'abbiamo inviato a (...) delle Risorse Umane, credo lo stesso giorno della sua stesura (15.5.2018). Lo stesso (...), con il quale dell'episodio si era parlato sino a quel momento a voce, ci aveva chiesto - per vie telefoniche, qualche giorno prima del 15 maggio - di fare una relazione su quello che era accaduto quella sera del 23.10.2017". Non si ritiene ravvisabile alcun valido motivo per dubitare dell'attendibilità e veridicità delle dichiarazioni rese dai testi (...) e (...), essendo rimasta mera ed indimostrata congettura l'affermazione di parte ricorrente circa un complotto ordito dai due colleghi in danno del neo-assunto. Dalle dichiarazioni dei testi (...) e (...) risulta, inoltre, confermato che il (...) avesse assunto un obbligo di riservatezza sul trattamento economico accordatogli dall'azienda. La teste (...), impiegata di (...) S.R.L. con funzione di HR Business Partner, all'epoca dei fatti Talent Acquisition Specialist, cioè responsabile di selezione del personale, ha confermato che alla proposta di cui alla e-mail del 6.9.2017 (che prevedeva una retribuzione annua lorda di Euro 70.000,00, oltre fringe benefits quali auto aziendale, assicurazioni sanitaria, infortuni, malattia, vita), dalla stessa (...) inviata al (...), si era giunti dopo numerose ipotesi, ed avendo spiegato al (...) come tali condizioni non fossero ulteriormente migliorabili in quanto già di per sé superiori a quelle dei colleghi di pari grado anche con maggiore anzianità aziendale, che si aggiravano sui 50.000,00 Euro annui lordi fissi, ragion per cui doveva restare strettamente riservata (la teste ha, sul punto, precisato: "Fui io a comunicare la proposta al (...) nel mio ruolo di Talent Acquisition, gli ho quindi comunicato tutti i termini della proposta di cui al cap. 12, il suo trattamento era più alto rispetto alla media, per cui io stessa gli chiesi di mantenere riservata la proposta"); che, inoltre, a seguito di trattativa telefonica al (...) veniva concesso un ulteriore incremento, precisando che "l'incremento consisteva in due una tantum a 6 e 12 mesi dall'ingresso (credo di non sbagliarmi ma è comunque documentato), si trattava di circa 8000 Euro mi sembra per ciascun semestre. Anche su questo io gli chiesi espressamente di mantenere riservatezza. Preciso che il 4.9.2017 non ero presente all'incontro tra (...) e il (...), ma il (...) mi riferì di aver raccomandato al (...) la riservatezza massima perché la proposta econcomica era superiore alla media degli Area Manager. Fui, poi, io stessa a raccomandare la massima riservatezza al (...)"; che lo stesso (...) garantiva che le informazioni sarebbero rimaste strettamente confidenziali. Il teste (...), a sua volta, ha riferito che, nell'ultimo colloquio prima dell'offerta avuto con il (...) (il 4.9.2017, in un bar a Roma), invitava il (...) "a mantenere la riservatezza sul tema della retribuzione" (precisando, altresì: "La differenza retributiva (mi riferisco alla retribuzione annua lorda) era sensibile rispetto alla posizione equivalente di area manager: si parla di circa 15.000/20.000 Euro annui in più lordi e attinenti alla retribuzione fissa. Parlo specificamente delle posizioni di (...) e (...). C'è un range retributivo per la retribuzione degli area manager. Il (...) era oltre tale range. La media degli altri area manager era all'epoca Euro 55.000,00 annui lordi. (...) era sui 50.000,00 mentre (...) era superiore ai 55.000 ma non ricordo specificamente, comunque aveva più anzianità aziendale di (...), era uno dei più anziani in azienda"; "L'obbligo di confidenzialità era previsto in un codice di comportamento che credo il (...) abbia sottoscritto al momento dell'assunzione come tutti i dipendenti. Lui mi rispose che era scontato dover mantenere la riservatezza. Non gli furono indicate le conseguenze di un'eventuale violazione della riservatezza, ma il (...) rappresentava di essere consapevole della rilevanza della confidenzialità"); che il (...) lo rassicurava affermando che, essendo ben consapevole delle ripercussioni negative che la divulgazione di tale aspetto avrebbe potuto avere, non lo avrebbe condiviso con nessun collega. Il recesso esercitato sulla base dell'accertata condotta tenuta dal (...) nel corso della cena del 23.10.2017 deve ritenersi senza dubbio coerente con la causa del patto di prova, nei termini poc'anzi considerati, sol che si consideri che tale condotta (anche volendo prescindere dal riscontro di gravi violazioni dell'obbligo di fedeltà e di riservatezza del dipendente nei confronti del datore di lavoro, la cui violazione sarebbe financo idonea ad integrare giusta causa di licenziamento nell'ambito di un ipotetico rapporto di lavoro stabilizzato) ha consentito all'odierna resistente di desumere significativi elementi per il proprio apprezzamento, in termini negativi, della personalità del lavoratore, sufficienti di per sé ad esaurire l'esperimento del datore di lavoro sulla convenienza o meno del rapporto di lavoro e, quindi, a giustificare il recesso dal rapporto di lavoro in prova. Peraltro, la condotta tenuta dal (...), oltre che sotto il profilo strettamente comportamentale e caratteriale, assume rilievo, nel caso specifico, anche ai fini della valutazione datoriale sulle capacità professionali del (...), considerato che tale condotta denota caratteristiche professionali non in linea con quelle richieste da (...) S.R.L. per il ruolo di Area Manager che il (...) era chiamato a coprire, esigendo l'azienda, in relazione a tale figura professionale, non solo capacità individuali di "super venditore", ma anche attitudine a guidare e gestire una squadra composta di circa 40 persone ed un fatturato di circa 45 milioni di Euro, aspetti questi ultimi confermati anche dai testi (...) e (...). In definitiva, la condotta tenuta dal (...) in occasione dell'evento del 23.10.2017, se, per un verso, non può essere considerata motivo illecito né estraneo alla funzione economico-sociale del patto di prova, per altro verso, essa consente di far ritenere completata la prova, fornendo un elemento obiettivo di per sé idoneo a rendere definitivo il giudizio datoriale sulla non convenienza del contratto e superflua la prosecuzione dell'esperimento per la verifica delle capacità più strettamente afferenti alla prestazione lavorativa del neo-assunto. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza del (...). P.Q.M. Il Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza, domanda ed eccezione disattese, così provvede: - rigetta il ricorso proposto da (...); - condanna (...), alla rifusione delle spese di giudizio liquidate in complessivi Euro 10.204,80, oltre rimborso forfettario delle spese nella misura del 15% del compenso, IVA e CPA come per legge, in favore di (...) S.R.L.; - fissa termine di giorni 60 per il deposito della sentenza attesa la particolare complessità della controversia. Così deciso in Avezzano il 25 maggio 2021. Depositata in Cancelleria il 4 gennaio 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI AVEZZANO Il Tribunale, nella persona del Giudice Onorario dott.ssa Fedora VOLPE, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 1394/2013 promossa da: Ci.Pi. (c.f. (...)), rappresentato e difeso dall'avv. Ce.DI. del foro di Avezzano ed ivi elettivamente domiciliato presso il suo studio, giusta procura a margine dell'atto di citazione; attore contro Pi.Ma. (c.f. (...)), rappresentata e difesa dall'avv. Sa.GA. del foro di Avezzano ed ivi elettivamente domiciliata presso il suo studio, giusta procura a margine della comparsa di costituzione e risposta; convenuta Oggetto: Azione negatoria servitutis MOTIVI DELLA DECISIONE Si premette che la presente sentenza è redatta in ossequio alla nuova formulazione degli artt. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. come modificati dalla legge n. 69 del 18.06.2009, con esonero dall'esposizione dello svolgimento del processo, essendo sufficiente ai fini dell'apparato giustificativo della decisione la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, per cui, con riguardo alle domande ed eccezioni formulate dalle parti, si fa rinvio al contenuto degli atti di causa e dei verbali di udienza, e dunque, le questioni non trattate non andranno considerate come omesse per l'effetto di un errore in procedendo ben potendo risultare semplicemente assorbite ovvero superate per incompatibilità logico giuridica con quanto concretamente ritenuto provato dal giudicante. 1. Con atto di citazione depositato in cancelleria in data 27.6.2013 e ritualmente notificato, Ci.Pi., premesso di essere proprietario di un terreno sito nel Comune di Collelongo, catastalmente identificato al NCT di detto Comune, foglio (...), fondo comune alle particelle (...) del medesimo foglio 34, ha evocato in giudizio Pi.Ma., chiedendo l'accoglimento delle seguenti conclusioni: "accertato e dichiarato che la sig.ra Pi.Ma. ha illegittimamente posizionato le tubazioni di scarico dei fumi dell'impianto di riscaldamento e della stufa/camino della sua abitazione sulla proprietà di Ci.Pi., in violazione di diritti soggettivi, oltre che in dispregio alla normativa di riferimento vigente, condannare la sig.ra Pi.Ma. al ripristino della situazione quo ante con l'eliminazione delle anzidette tubazioni, oltre al risarcimento dei danni patititi e patiendi che il Giudice vorrà liquidare in via equitativa, entro il limite di valore dichiarato; con vittoria di spese e compensi del giudizio". A sostegno della domanda, l'attore ha allegato che la convenuta, proprietaria dell'immobile identificato al NCU del Comune di Collelongo al foglio 34, particella (...), confinante con la proprietà (...), nell'anno 2007/2008, in occasione della ristrutturazione del fabbricato, aveva installato le tubazioni dello scarico dei fumi dell'impianto di riscaldamento della sua abitazione al di fuori del muro perimetrale esterno confinante con l'esclusiva proprietà del (...) (p.lla (...)), così costituendo di fatto una arbitraria servitù in detta area di proprietà. Ha dedotto, inoltre, che il Dipartimento di Prevenzione, Servizio Igiene, Epidemiologia e Sanità pubblica della ASL 1 Avezzano-Sulmona-L'Aquila, aveva eseguito due sopralluoghi - entrambi preceduti da esposti da parte dell'attore - nel primo, in data 13.10.2012, veniva accertato dai medici del SIESP che il terminale di sbocco dell'impianto di riscaldamento a metano dell'abitazione della convenuta (Via Roma 101) si trovava a parete a breve distanza dalla finestra del locale cucina dell'istante, mentre in base alla normativa di cui al D.P.R. n. 412/93 e D.P.R. n. 551/99, in caso di nuova installazione di impianti termici lo sbocco deve avvenire sopra il colmo del tetto dell'edificio; nel secondo, in data 20.5.2013 - successivo all'adeguamento operato dalla (...) - veniva accertato che il terminale di sbocco dell'impianto di riscaldamento era stato si innalzato ma terminava ad una quota inferiore al colmo del tetto, al di sotto della grondaia. Inoltre a seguito dell'innalzamento del livello del tubo di cui trattasi, la curva di 90 gradi creatasi, era priva di chiusura tanto da permettere il gocciolamento dei residui della combustione e l'emissione di esalazioni a breve distanza dalle finestre del fabbricato dell'attore il quale, sostiene il (...), è costretto a respirare i residui della combustione con pregiudizio per la propria salute e quella della sua famiglia. Con comparsa depositata in cancelleria il 30.10.2013, si è costituita in giudizio Pi.Ma. che ha preliminarmente eccepito l'incompetenza per materia ex art. 38 c.p.c. del Tribunale adito per essere competente il Giudice di Pace; deduceva in proposito che la controversia rientrava nell'ambito dei rapporti di vicinato ed era dunque ricompresa nelle ipotesi di cui all'art. 7, comma 3, n. 3 c.p.c. avendo l'attore lamentato la collocazione da parte della convenuta di una tubazione di scarico dell'impianto di riscaldamento a confine con la proprietà del (...) che, secondo la prospettazione attorea, oltre a creare una servitù - contestata come inesistente dalla convenuta - sull'area della particella (...) affermata di sua esclusiva proprietà, aveva determinato emissione di esalazioni e gocciolamento dei residui della combustione a breve distanza dalle finestre dell'attore, con pregiudizio della salute nonché inquinamento ambientale. Deduceva, inoltre, che la competenza per materia del Giudice di Pace non era limitata nemmeno dal valore della causa, considerato che l'ulteriore domanda di risarcimento dei danni ex adverso proposta rientrava nel limite valoriale di Euro 1.100.00. Concludeva la convenuta che, in ogni caso, qual che sia il Giudice competente, l'area in questione individuata al foglio 34 particella (...), non era di proprietà dell'attore, non ha intestatari, e funge da passaggio comune alle particelle (...) del fgl. 34, come da risultanze dalla visura catastale depositata in atti dalla parte attrice e tanto escludeva che, qualora l'azione proposta dal (...) dovesse inquadrarsi in una negatoria servitutis, l'attore sarebbe privo di legittimazione attiva dato che tale azione spetta esclusivamente al proprietario. Contestata nel merito la fondatezza in fatto ed in diritto delle domande proposte nei suoi confronti e anche quella relativa a presunte immissioni di fumo come pure la conseguente domanda di risarcimento dei danni, la (...) ne ha chiesto l'integrale rigetto. Alla prima udienza di comparizione e trattazione del 20.11.2013, il Giudice Istruttore inizialmente procedente concedeva i termini ex art. 183, comma 6, c.p.c. e rinviava alla successiva udienza del 28.3.2014 nel corso della quale venivano ammesse le prove orali e documentali offerte dalle parti nonché nominato il CTU, geom. Gabriele Sorgi, al quale, dopo un rinvio, all'udienza del 23.2.2015, previa prestazione del giuramento e accettazione dell'incarico, venivano formulati i quesiti di cui all'ordinanza ex art. 191 c.p.c. resa a verbale, che qui integralmente si richiama. I termini di cui all'art. 183 c.p.c. sono rispettivamente scaduti il 20.12.2013 (1 termine di 30 gg.), il 20.1.2014 (2 termine di ulteriori 30 gg.) e il 10.2.2014 (3 termine di ulteriori 20 gg.). All'udienza del 14.3.2016 il procuratore di parte attrice depositava un "dvd", da qualificarsi prova documentale per immagini, e dichiarava a verbale contenere la riproduzione dei luoghi oggetto di causa. La difesa della convenuta si è opposta alla produzione di cui trattasi deducendone l'inammissibilità e l'irritualità. Mutato il Giudice Istruttore, il processo è pervenuto per la prima volta al sottoscritto Giudice all'udienza del 9.9.2016. All'udienza del 3.7.2019 l'attore dava atto di aver depositato in via telematica, in pari data, nota di deposito di tre documenti così indicati: "1 - relazione aggiornamento catastale immobili oggetto di causa; 2 - nota pec a forma dell'avv. Valeria Panella; 3 - visure catastali e mappale aggiornati al 21.6.2019' e deduceva a verbale che dalla documentazione de qua si evinceva che la proprietà della particella (...), oggetto di causa, era stata attribuita esclusivamente a Ci.Pi. e ai suoi familiari a seguito di procedimento d'ufficio da parte dell'Agenzia delle Entrate; chiedeva pertanto l'ammissione di dette produzioni documentali allegandone la rilevanza ai fini decisori trattandosi, sosteneva l'attore, di documenti attestanti fatti intervenuti successivamente alla scadenza dei termini ex art. 183 c.p.c., non operando alcuna preclusione. La convenuta dichiarava a verbale di opporsi alle produzioni documentali in questione in quanto tardive e non rilevanti per la decisione. Riservata dal giudice ogni decisione sull'ammissibilità dei documenti che precedono e dato atto in ogni caso a verbale che detti documenti erano stati prodotti dopo la scadenza del termine ex art. 183, co. 6, n. 2, c.p.c., su concorde richiesta delle parti veniva concesso termine per note illustrative riguardanti "unicamente" i documenti tardivamente prodotti dall'attore all'udienza del 3.7.2019. Entrambe le parti hanno depositato in via telematica rispettive note autorizzate. All'udienza del 16.10.2019, il difensore del (...), deduceva di aver depositato unitamente alle proprie note autorizzate un'ulteriore documento, di cui chiedeva l'ammissione, rappresentato dalla visura catastale estratta il 21.6.2019 (n. (...)) relativa al fabbricato di cui al foglio 34, particella 430, attestante la proprietà della stessa in capo al (...) per intervenuta usucapione dichiarata dal Tribunale di Avezzano con sentenza del 13.10.2017. Il difensore della convenuta ribadiva l'eccezione di tardività dei documenti prodotti dall'attore con la precedente nota di deposito del 3.7.2019 e dell'ulteriore visura catastale ut sopra depositata dalla controparte con le note autorizzate, deducendone in ogni caso l'irrilevanza ai fini del giudizio. La causa è stata istruita mediante l'acquisizione delle produzioni documentali tempestivamente offerte dalle parti, l'escussione dei testi di parte attrice e c.t.u. assegnata al geom. Gabriele Sorgi. Depositato in via telematica l'elaborato peritale in data 6.8.2015, il c.t.u. è stato chiamato successivamente a rendere chiarimenti in ordine alle osservazioni della parte attrice. Dopo diversi rinvii in pendenza di trattative per la definizione bonaria della controversia (trattative che non hanno sortito alcun auspicato e sollecitato effetto), nel frattempo, data la sospensione dell'attività giudiziaria disposta con D.L. n. 18/2020 per l'emergenza sanitaria da Sars-Cov-2, l'udienza dell'1.4.2019 è stata differita al 2.7.2020 a norma dell'art. 83 D.L. cit. e successivamente all'udienza del 23.7.2020 per la precisazione delle conclusioni, tale udienza è stata trattata "cartolarmente", a norma dell'art. 83, comma 7, lettera h), D.L. cit. e succ. mod. e integraz.. Il procuratore di parte convenuta ha depositato in via telematica in data 20.7.2020 note di trattazione scritta con cui ha chiesto disporsi rinvio dell'udienza del 23.7.2020 essendo pendenti tra parti trattative volte alla bonaria definizione della lite. Contestualmente ha prodotto copia della sentenza (Rep. n. 850/2020 del 17.6.2020) della Corte d'Appello di L'Aquila che ha rigettato l'appello interposto, tra gli altri, da Ci.Pi., avverso la sentenza Tribunale di Avezzano n. 145/2015, depositata il 2.3.2015, che aveva rigettato la domanda di usucapione della particella (...) del foglio 34 proposta dal (...) (e altri) contro Pi.Ma. (e altro). A scioglimento della riserva assunta all'udienza cartolare 23.7.2020, il sottoscritto Giudicante, con ordinanza del 27.7.2020, rilevato il mancato deposito dell'attore di note scritte "entro le ore 13:00" dell'udienza cartolare ut supra e dato atto della mancata comparizione della parte, rinviava la causa all'udienza del 2.10.2020 per la precisazione delle conclusioni, in difetto della prospettata conciliazione della controversia. All'udienza così fissata, in presenza delle parti, la difesa dell'attore dichiarava che alla precedente udienza cartolare del 23.7.2020 aveva ritualmente depositato in pari data, alle ore 11:43, le proprie "note scritte" ma per un disguido della cancelleria l'atto era stato inserito nel fascicolo telematico soltanto successivamente in data 27.7.2020 alle ore 15:20, ed ha prodotto a conforto le ricevute PEC generate all'esito del deposito, ritualmente allegate dall'attore (docc. 2-7) con la nota depositata in via telematica all'udienza 2.10.2020. Il procuratore del (...) deduceva altresì a verbale che nota di deposito aveva prodotto ulteriori documenti contraddistinti all'indice con il n. 1) e precisamente: "verbale di conciliazione mediazione ratificato dal Notaio rogante in data 30.7.2020, con unita nota di trascrizione; visura catastale del 18.8.2020 della particella (...), ex (...), foglio (...); certificazione di destinazione urbanistica del Comune di Collelongo, tutti dotati di conformità dal medesimo notaio". Il procuratore della convenuta (...) ha reagito con animosità alle ripetute ulteriori produzioni documentali della controparte eccependone la tardività e dunque l'inammissibilità irrilevanza ai fini del giudizio. Con ordinanza resa in calce al verbale di udienza del 2.10.2020, il Giudice, rilevata l'intervenuta preclusione istruttoria dell'attività processuale ex art. 183, co. 6, c.p.c., di cui l'attore (al di fuori di ogni schema) si era (nuovamente) avvalso, dichiarava la parte attrice decaduta dal potere di esercitare l'attività suddetta e l'inammissibilità della produzione documentale contraddistinta al n. 1) dell'indice della nota di deposito del 2.10.2020. Altresì, quanto all'accertato disguido in cui era incorsa la cancelleria in ordine al deposito delle note scritte dell'attore per l'udienza cartolare del 23.7.2020, da ritenersi tempestivamente depositate, si è provveduto alla parziale modifica della precedente ordinanza del 27.7.2020. In limine litis, si rende indispensabile vagliare preliminarmente alcune questioni sollevate dalla parte convenute e/o comunque emerse nel corso del giudizio. 2. Con la comparsa di risposta, la (...) ha tempestivamente eccepito in via pregiudiziale di rito l'incompetenza per materia ex art. 38 c.p.c. del Tribunale di Avezzano sull'assunto che le domande ex adverso proposte rientravano nella competenza del Giudice di Pace ai sensi dell'art. 7, co. 3, n. 3) c.p.c.., tra l'altro competente per valore anche in relazione alla richiesta di risarcimento danni formulata dall'attore entro il limite valoriale di Euro 1.100.00. A fondamento dell'eccezione, la difesa della convenuta ha rilevato che pur avendo la controparte lamentato che la (...) aveva collocato una tubazione dell'impianto di riscaldamento a confine con la proprietà dell'attore con emissione di esalazioni e gocciolamento dei residui della combustione che, oltre a creare una servitù sul fondo dell'attore, determinavano pregiudizio alla salute dell'attore e della sua famiglia, aveva svolto una richiesta risarcitoria entro il limite valoriale di Euro 1.100,00, domanda anch'essa ricompresa nella competenza per valore del Giudice di Pace. Pertanto ha sostenuto che sono devolute a detto Giudice le azioni in tema di immissioni sia nell'aspetto di carattere reale ex art. 844 c.p.c. che in quelle di carattere personale di risarcimento del danno in forma generica o specifica. In proposito, ha richiamato il principio affermato dalla Suprema Corte a Sezioni Unite con l'ordinanza n. 21582 del 2011: la competenza del Giudice di Pace "(nei limiti della sua competenza per valore)" sussiste anche qualora si tratti di "...controversie aventi ad oggetto pretese che abbiano la loro fonte in un rapporto giuridico o di fatto riguardanti un bene immobile, salvo che la questione proprietaria non sia stata oggetto di una esplicita richiesta di accertamento incidentale di una delle parti ...". L'attore, con la memoria ex art. 183, comma 6, n. 1) c.p.c. depositata il 20.12.2013, ha precisato le domande ab origine proposte (seppur anche tali precisazioni non paiono connotate da sufficiente chiarezza ed esaustività) e nel richiamare la pronuncia della Corte di Cassazione n. 16495/2005, di cui ha riportato la massima, ha allegato di aver esercitato un'azione a difesa della proprietà sullo schema della "actio negatoria servitutis" nella quale rientra non solo la domanda diretta all'accertamento dell'inesistenza della pretesa servitù ma anche quella volta ad eliminare la situazione antigiuridica posta in essere dal terzo, mediante la rimozione delle opere da quest'ultimo realizzate che abbiano comportato lesione del diritto di proprietà, allo scopo di ottenere l'effettiva libertà del fondo di cui è titolare il proprietario agente così da impedire che il protrarsi per il tempo prescritto dalla legge possa comportare l'acquisto per usucapione di un diritto reale su cosa altrui. Pertanto, ha sostenuto l'attore, "l'azione diretta a conseguire la riduzione in pristino a favore di colui che ha subito danno per effetto della violazione delle distanze legali deve qualificarsi come "actio negatoria servitutis" che non è volta "all'accertamento del diritto di proprietà dell'attore libero da servitù vantate da terzi bensì a respingere l'impostazione di limitazioni a carico della proprietà suscettibili di dar luogo a servitù". Con la medesima memoria ha ulteriormente precisato che la domanda formulata con l'atto introduttivo è tesa sia a negare la servitù arbitrariamente posta in essere dalla convenuta con il posizionamento delle tubazioni di scarico dei fumi dell'impianto di riscaldamento sulla proprietà dell'attore (con ciò intendendosi l'area di cui alla particella (...) del foglio 34), sia a far accertare e dichiarare la violazione dei diritti soggettivi ad opera della convenuta con il posizionamento di dette tubazioni, conseguendone che la causa intrapresa non verte soltanto sulle materie riservate alla competenza ex art. 7 c.p.c. del Giudice di Pace, e, dunque, ha sostenuto che la competenza per materia a decidere spetta, "in via residuale" ex art. 9 c.p.c., al Tribunale adito che assorbe anche le questioni che, per materia, spetterebbero alla cognizione del Giudice di Pace. Sulla scorta del contesto nozionistico rilevabile dalla memoria di parte attrice ex art. 183, n. 1), c.p.c., ritiene questo Giudicante che la quaestio sulla competenza, in estrema sintesi, vada risolta nel fatto che l'attore ha agito in giudizio avvalendosi della facoltà prevista dall'art. 104 c.p.c. che consente di proporre nello stesso processo più domande (anche non altrimenti connesse) dalla stessa parte contro la stessa parte che dà luogo al c.d. cumulo oggettivo conseguente a mera connessione soggettiva. Quindi, qualora nei confronti della stessa parte siano proposte più domande, anche solo soggettivamente connesse, alcune rientranti nella competenza per valore del Giudice di Pace, altre in quella del Tribunale, l'organo giudiziario superiore è competente a conoscere dell'intera controversia, in applicazione degli artt. 104 e 10, comma 2, c.p.c. (cfr. Cass. civ., sez. 6-3, ordinanza 8.8.2014, n. 17843). Da tanto discende che l'eccezione pregiudiziale di rito, pur correttamente sollevata dalla convenuta in sede di costituzione in giudizio (in virtù della equivocità delle allegazioni e degli assunti confusamente prospettati dall'attore nell'atto introduttivo), può ritenersi superata e non necessita di ulteriore vaglio e approfondimento dovendosi ritenere affermata la competenza del Tribunale per quanto ut supra precisato, dandosi atto che la convenuta, nella propria comparsa conclusionale depositata in via telematica il 28.12.2020, non ha insistito nell'eccezione preliminare di rito sul presupposto che l'attore, con la prima memoria depositata il 20.12.2013, aveva modo di spiegare l'oggetto della domanda e il fatto giuridico posto a fondamento della pretesa azionata. 3. Sempre in via preliminare, la convenuta ha sollevato poi l'eccezione di difetto di legittimazione attiva della titolarità del diritto dominicale in capo all'attore sul rilievo che qualora il contenzioso oggetto di causa rientri nel perimetro dell'actio negatoria servitutis, il (...) non avrebbe potuto proporre tale azione per mancanza del presupposto, ai fini della legittimazione, della titolarità del diritto di proprietà dell'area (p.lla (...), fgl. 28) su cui si affaccia il tubo di scarico dei fumi dell'impianto di riscaldamento. Invero, tale questione - che è di merito e come meglio si dirà nel prosieguo ha carattere "dirimente" ai fini del giudizio che ci occupa - dovrebbe essere vagliata in sequenza logico-giuridica a quella trattata al punto precedente (pregiudiziale di rito) ma evidenti ragioni presupposte - in primo luogo alcune primarie vicende processuali nonché l'inquadramento della domanda proposta dall'attore - rendono opportuno anteporre la soluzione delle stesse e rinviare, all'esito, la delibazione sull'eccezione de qua. Ulteriormente, in limine litis, va considerato come la giurisprudenza di legittimità e di merito abbiano recepito il principio, di elaborazione dottrinaria, della "ragione più liquida" conformemente all'orientamento espresso dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 9936 dell'8.5.2014: "In applicazione del principio processuale della "ragione più liquida " - desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost. - deve ritenersi consentito al giudice esaminare un motivo di merito, suscettibile di assicurare la definizione del giudizio, anche in presenza di una questione pregiudiziale ". Ed ancora: "Il principio della "ragione più liquida", imponendo un approccio interpretativo con la verifica delle soluzioni sul piano dell'impatto operativo, piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica, consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell'ordine delle questioni da trattare, di cui all'art. 276 cod. proc. civ., in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dall'art. 111 Cost., con la conseguenza che la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione - anche se logicamente subordinata - senza che sia necessario esaminare previamente le altre" (in senso conf. a Cass. S.U., n. 9936/2014 cit, cfr. Cass. n. 2872/2017; Cass. n. 17214/2016; Cass. n. 12002/2014, conf a Cass. S.U., n. 9936/2014 cit.). Detto altrimenti, in ragione del principio della ragione più liquida, la domanda può essere respinta sulla base della soluzione di una questione assorbente e di più agevole scrutinio e soluzione, anche se logicamente subordinata alle altre senza che sia necessario esaminare preventivamente tutte le altre secondo l'ordine previsto dall'art. 276 c.p.c.. Infatti, la sentenza, quale atto giuridico tipico, non ha il compito di ricostruire compiutamente la vicenda che è oggetto del giudizio in tutti i suoi aspetti giuridici, ma solo quello di accertare se ricorrano le condizioni per concedere la tutela richiesta dall'attore; consegue che la decisione può fondarsi sopra una ragione il cui esame presupporrebbe logicamente, se fosse invece richiesta una compiuta valutazione dal punto di vista del diritto sostantivo, la previa considerazione di altri aspetti del fatto stesso. Tanto premesso si dà atto che la presente sentenza viene decisa alla luce dell'illustrato principio della ragione più liquida, seppur con il correttivo di opportuni approfondimenti delle vicende processuali che si affrontano di seguito, necessariamente presupposte al fine di meglio argomentare in ordine all'eccezione di difetto di legittimazione attiva sollevata dalla convenuta. 4. In primo luogo occorre soffermarsi sulle produzioni documentali, deduzioni difensive e su una delle note di deposito (che, invero, è una vera e propria memoria difensiva) quali attività poste in essere dall'attore a termini per le integrazioni istruttorie ampiamente scaduti e per tutto l'ulteriore corso del giudizio, dunque, manifestamente tardive. Come noto, il rigoroso modello delle preclusioni che caratterizza un tratto peculiare dell'architettura del processo civile ordinario, ora come allora ovvero prima delle riforme del 2005 e del 2009, comporta la regola per ciascuna delle parti costituite di svolgere le proprie richieste istruttorie entro i termini scanditi espressamente dall'art. 183, comma 6, c.p.c.. La prima memoria il cui deposito è consentito entro il termine perentorio di trenta giorni dall'udienza di comparizione-trattazione e dall'assegnazione dei relativi termini ex art. 183 c.p.c.. è limitata alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte. La seconda memoria consente alle parti di avvalersi della facoltà, da esperirsi nel termine di trenta giorni con decorrenza dalla scadenza del primo termine, di chiedere le prove e produrre i documenti. Il termine di cui alla memoria de quo è ispirato al principio di libertà nel senso che le parti possono liberamente esperire le attività processuali previste, senza che la mancata produzione di documenti o la richiesta delle prove, nei momenti anteriori, sia dipesa da causa imputabile alle stesse parti. Quindi, la produzione di nuovi documenti e l'articolazione dei mezzi di prova nuovi o non proposti negli atti introduttivi, è rafforzata dal fatto che il legislatore non prevede alcuna decadenza all'eventualità che le parti nei rispettivi atti introduttivi non abbiano indicato oppure abbiano indicato in modo incompleto i mezzi di prova di cui intendono avvalersi, così come dei documenti che offrono in comunicazione. E' altrettanto noto che il giudice deve concedere alle parti i suddetti termini (da qualificarsi perentori) di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c., anche qualora la richiesta promani da una sola delle parti in contesa, di modo che le parti possano avvalersi dell'appendice scritta per la definizione del thema decidendum. Con l'ultima memoria, la terza, il cui deposito deve avvenire nei successivi venti giorni (a decorrere dalla scadenza del secondo termine ut supra), consente alle parti di indicare la sola prova contraria; al riguardo deve essere precisato che la lettera della norma potrebbe apparire preclusiva delle attività assertive che sono collegate alla seconda memoria dal momento che, l'ultima memoria-la terza è, come detto, il luogo giuridico dell'indicazione della "sola" prova contraria, in replica a quella dedotta anteriormente, ma, se questa dovesse ritenersi la corretta lettura, è facilmente intuibile che verrebbe leso il diritto di difesa proprio per l'impossibilità di disporre, con l'ultima terza memoria, delle nuove deduzioni istruttorie in risposta a quelle prodotte ex adverso con la seconda memoria. In realtà, la norma va interpretata conformemente all'art. 24 Cost., dal momento che, per prova contraria deve intendersi non solo la produzione dei mezzi di prova diretti a contrastare le deduzioni avversarie, ma anche le prove nuove, costituende e costituite, purchè (unicamente) conseguenti alle allegazioni formulate dalla controparte nella seconda memoria. Tale interpretazione normativa, in sintonia con il dettato costituzionale, è certamente quella da considerarsi sia a tutela del diritto di difesa che del principio del contraddittorio e della parità di armi tra le parti in giudizio. Tornando alla seconda memoria, le parti, in base all'art. 183, co. 6, n. 2, c.p.c., devono, a pena di preclusione, effettuare l'attività istruttoria che non abbiano già compiuto in precedenza. La regola del rigoroso modello delle preclusioni, posta a presidio di interessi di carattere generale, direttamente identificabili nell'integrità del contraddittorio o dell'esercizio del diritto di difesa, comporta che le prove non richieste ed i documenti non prodotti con la seconda memoria non possono essere, introdotti successivamente. Le preclusioni istruttorie di cui ai nn. 2 e 3 dell'art. 183, co. 6, c.p.c. riguardano sia le prove costituende che quelle precostituite e da ciò ne deriva che l'allegazione postuma (di fatti e documenti) ovvero oltre i termini ex art. 183, comma 6, c.p.c., "può" essere residualmente ed eccezionalmente consentita - quale ipotesi, dunque, di extrema ratio - solamente laddove la parte dimostri di non aver potuto depositare il documento tempestivamente (e/o dedurre tempestivamente) e per accedere a tale possibilità non è certo sufficiente che, una volta scaduti i termini perentori in questione, la parte depositi ugualmente i documenti e/o le memorie contenenti deduzioni difensive senza però aver previamente proposto al Giudice istanza di restitutio in terminum ex art. 153, comma 2, c.p.c. - ottenendo la relativa autorizzazione al deposito tardivo - con la quale deve precisamente allegare e provare la causa che ha impedito il tempestivo deposito non imputabile alla parte perché cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà. Ciò premesso, anche una eccezione in sé ammissibile, può esporsi alla declaratoria di infondatezza laddove si basi su di un fatto costitutivo non tempestivamente allegato e, in particolare, quando la produzione della prova documentale è un tutt'uno con l'allegazione del fatto costitutivo. Neppure la mancata opposizione della controparte alle tardive produzioni e/o alle memorie tardivamente introdotte può valere ad impedire una decadenza già maturata giacché i termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c. sono qualificati espressamente come "perentori" dal legislatore e ai sensi dell'art. 153, comma 1, c.p.c. "i termini perentori non possono essere abbreviati o prorogati, nemmeno sull'accordo delle parti". Anche l'onere di contestazione specifica posto dall'art. 115, comma 1, c.p.c. non può che riferirsi a fatti ritualmente acquisiti al processo. Facendo corretta applicazione degli enunciati principi di diritto alla questione che ci occupa, è di palmare evidenza che devono ritenersi tardive e, in quanto tali, non ammissibili, le produzioni documentali, nonché un'ulteriore memoria malcelata sotto la denominazione di nota di deposito, che Ci.Pi. ha prodotto e introdotto indiscriminatamente nel processo al di fuori di ogni regola preclusiva dei termini. In particolare: a) la produzione di un "dvd" (prova documentale per immagini) intervenuta all'udienza del 14.3.2016 che, secondo quanto dichiarato a verbale dall'attore, contiene la riproduzione dei luoghi oggetto di causa. Tale documento, tuttavia, avrebbe dovuto essere rituale, ovvero nel rispetto delle barriere preclusive stabilite dal codice di rito, non potendo giustificarsi una produzione tardiva se non in forza dell'accoglimento di una istanza di rimessione in termini ai sensi del già richiamato art. 153, co. 2, c.p.c., che la parte attrice non ha affatto proposto. Il documento (in dvd) avrebbe dovuto essere prodotto entro lo scadere del termine di cui all'art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c. (scaduto il 20.1.2014) che rappresenta la barriera preclusiva per la "indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali" e pertanto qualsiasi documentazione prodotta successivamente va ritenuta tardiva con conseguente inutilizzabilità della stessa. Di tale documento non può, pertanto, tenersi conto in questa sede in quanto tardivamente - e quindi non ritualmente - acquisito al processo. b) i documenti prodotti in uno alla nota di deposito in data 3.7.2019 ivi contraddistinti con il n. 1 "relazione aggiornamento catastale immobili oggetto di causa", con il n. 2 "nota pec a forma dell'avv. Valeria Panella", e con il numero 3 "visure catastali e mappale aggiornati al 21.6.2019' tendenti, per quanto qui di interesse, all'attribuzione all'attore Ci.Pi. e ai suoi familiari della proprietà in via esclusiva della particella (...) del foglio 34 che l'attore assume intervenuta a seguito di procedimento d'ufficio da parte dell'Agenzia delle Entrate e che il documento è riconducibile a fatti successivamente intervenuti alla scadenza dei termini ex art. 183 c.p.c. e, dunque, non operava alcuna preclusione. E' di tutta evidenza che, secondo la prospettazione che ha inteso darne l'attore, l'asserito fatto successivo tale non è per la finalità cui tende la produzione de qua e per il suo contenuto intrinseco. In primo luogo pur dubitandosi della regolarità dell'intestazione della proprietà di un bene che essendo "comune" non è censibile, l'intestazione "postuma" (ben dopo 6 anni dalla instaurazione del giudizio che ci occupa) della particella (...) è un evidente escamotage, invero poco felice, ordito dall'attore che si è autonomamente e volitivamente determinato, pur senza averne titolo, a stravolgere l'originaria ed immemorabile "non intestazione ad alcun proprietario' del fondo in questione, come del resto si desume dalla visura catastale prodotta in causa proprio dal (...) in sede di costituzione in giudizio (27.6.2013). Da tale visura - che tra l'altro, già di per sé, contrasta e smentisce la enfatizzata qualità dell'attore. prospettata nell'atto di citazione, di agire nel giudizio che ci occupa in quanto "proprietario" della p.lla (...) - è dato desumere che la particella in questione identificata al C.T. del foglio 34 non ha intestatari di sorta, è "accessorio comune ad ente rurale ed urbano", qualità "passaggio", comune alle particelle (...) del foglio 34 (cfr. doc. 1 indice di parte attrice). Tutti i documenti tardivamente depositati dalla parte attrice il 3.7.2019 (nn. 1, 2, 3) non sono affatto precostituiti rispetto alla causa che ci occupa, bensì sono successivi (come detto, di ben oltre 6 anni rispetto alla causa in decisione) e dipendono da un ultradecennale disinteresse soggettivo a regolarizzare catastalmente diversi beni, a vario titolo pervenuti alla famiglia (...) dagli intestatari risultanti dal catasto del 1940, come sarà meglio illustrato nel prosieguo. Detti documenti non sono altro che la conseguenza di un'iniziativa autonoma ovvero di un'attività a cui si è determinato il (...) e poco conta che lo abbia fatto su sollecitazione dell'Agenzia delle Entrate poiché, se vero è - come ha dedotto - che l'Ufficio Provinciale dell'Agenzia del territorio aveva sollecitato la presentazione degli atti necessari agli aggiornamenti catastali per le particelle (...), (...) e 688 con avviso che, in difetto di adempimento, i sigg.ri (...) sarebbero incorsi della procedura di accertamento ex art. 1, comma 277, L. n. 244/2007, è altrettanto evidente che il (...) e gli altri obbligati avrebbero potuto e dovuto provvedere a regolarizzare l'aggiornamento catastale delle originarie particelle (...) (e/o, se del caso, anche della p.lla (...)), già in epoca di gran lunga precedente alla richiesta asseritamente promanante dall'Agenzia del territorio. L'inerzia di Ci.Pi. rispetto ad un'attività cui era tenuto ancor prima della instaurazione del giudizio e la determinazione cui è invece pervenuto successivamente è palesemente diretta a munirsi e recuperare una parvenza di proprietà (della cui "acquisita" legittimità comunque si dubita) che giustificasse l'inveritiera attribuzione affermata nell'atto di citazione risalente al 20.6.2013 di essere proprietario della particella (...). La documentazione depositata il 3.7.2019 non sortisce alcun effetto utile relativamente ai fatti della causa in decisione né consente di ritenere attuali e sopravvenute le espletate attività e la correlativa documentazione, rispetto alle intervenute preclusioni istruttorie maturate alla scadenza del termine ex art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c. (termine che, si rammenta, è scaduto il 20.1.2014). Valgono, pertanto, anche in tal caso, i rilievi già ampiamente illustrati alla precedente lettera a) che qui si intendono integralmente richiamati e confermati con riguardo alla irritualità delle produzioni documentali in disamina, manifestamente tardive in quanto depositate a preclusioni istruttorie già maturate, non precedute da rituale istanza di rimessione in termini ex art. 153 c.p.c. cit., con la conseguenza che dei documenti de qua non può tenersi conto ai fini della decisione; c) il documento prodotto in uno con le note autorizzate depositate in via telematica il 16.10.2019, rappresentato dalla visura catastale estratta il 21.6.2019 (n. (...)) relativa al fabbricato di cui al foglio 34, particella 430 che l'attore afferma attestare l'acquisto della proprietà per usucapione in favore di (...) Evirallina, (...) e Ci.Pi., dichiarata con sentenza emessa dal Tribunale di Avezzano il 13.10.2017 (n.d.g. alla particella (...), così come alle particelle (...), è pertinenziale la corte comune di cui alla particella (...) sulla quale la convenuta esercita "legittimamente" il passaggio), è del pari irrilevante. Innanzi tutto l'attore con la nota autorizzata del 16.10.2019 non si è affatto attenuto a quanto disposto con l'ordinanza del 3.7.2019. Infatti le note consentite dovevano riguardare "esclusivamente" chiarimenti e osservazioni ai documenti prodotti dall'attore il 3.7.2019, mentre il (...) si è impropriamente avvalso della facoltà non consentita di depositare un ulteriore documento che, in ogni caso, oltre ad essere tardivamente prodotto, non ha rilevanza alcuna ai fini del giudizio (in quanto riguarda l'acquisto della proprietà di un bene che non ha alcun rilievo di sorta nella specifica questione oggetto di causa né ha attinenza con i fatti del giudizio) sicché se ne deve trarre la conclusione della sua inammissibilità ed irrilevanza ai fini della decisione, con espresso richiamo alle considerazioni già espresse per analoga tardività alle lettere a) e b). d) con nota depositata in via telematica in data 2.10.2020 (contestualmente al giorno di udienza di precisazione delle conclusioni), l'attore ha depositato ulteriori documenti che per quanto qui di interesse sono contraddistinti in detta nota con il n. 1: "verbale di conciliazione mediazione ratificato dal Notaio rogante in data 30.7.2020, con unita nota di trascrizione; visura catastale del 18.8.2020 della particella 1299, ex (...), foglio 34; certificazione di destinazione urbanistica del Comune di Collelongo, tutti dotati di conformità dal medesimo notaio". Con ordinanza resa in calce al verbale di udienza del 2.10.2019 detti documenti sono stati dichiarati inammissibili e il provvedimento deve intendersi integralmente richiamato e confermato anche in questa sede con la conseguenza che non può tenersi conto ai fini del decidere dell'atto negoziale contraddistinto con il n. 1 delle produzioni di parte attrice cui alla nota di deposito del 2.10.2020, in quanto tardivamente e quindi irritualmente acquisito al processo, tra l'altro senza essere preceduto da rituale e tempestiva istanza dell'attore di rimessione in termini ex art. 153, co. 2, c.p.c. che solo in caso di accoglimento avrebbe potuto giustificarne la tardiva produzione in giudizio. Si rileva, inoltre, che la nota di deposito del 2.10.2020 sopra richiamata, sottende, in realtà, una memoria non autorizzata che contiene irritualmente nuove deduzioni, nuovi difese e nuove circostanze di fatto, limitatamente a quelle dedotte a pag. 1 e a pag. 2 fino al secondo capoverso che inizia con "Il tutto risultante..." e termina con "... atti parimenti uniti all'allegato uno", con la conseguenza non dissimile da quella afferente il documento correlato, pertanto, le nuove deduzioni e argomentazioni difensive contenute in detta nota/memoria non autorizzata sono da considerarsi tardive, come tali inammissibili, e in questa sede non possono essere prese in considerazioni ai fini della decisione. Muovendo da quanto fin qui argomentato e rilevato, prive di pregio e rilievo giuridico si devono ritenere anche le argomentazioni svolte dall'attore in sede di comparsa conclusionale con il chiaro intento di dimostrare una (inutile) sopravvenienza di fatti e circostanze - in particolare un innovativo titolo di proprietà, del tutto inesistente - allo stesso asseritamente favorevoli rispetto alle diverse risultanze del compendio probatorio ritualmente acquisito al processo. Le circostanze di fatto illustrate nella comparsa conclusionale e i documenti richiamati a sostegno (punto 2. (da pag. 7 ultimo cpv. a pag. 8 primo cpv) nonché i punti: 2.2. lett. a), b), c (pag. 8); 2.3. (pag. 8, ultimo cpv e prime due righe pag. 9); 2.4. (pagg. 9 e 10)) riguardano censure di ammissibilità e rilevanza già delineate, non hanno alcuna valenza probatoria "sopravvenuta" (bensì meramente defatigatoria e/o riparatoria di originarie cristallizzate defezioni) essendo state "tutte" introdotte in causa tardivamente (finanche all'udienza di precisazione delle conclusioni!). Inoltre occorre chiarire e precisare che non colgono nel segno le suggestive tendenziose allusioni della parte attrice dove sostiene "l'implicita ammissione' del giudice di detti documenti (e delle note di deposito), giacché, a tutto voler concedere, la ipotizzata (surrettizia) implicita ammissione - frutto di elaborazione dell'attore pro domo sua - sarebbe comunque superata dalle statuizioni che precedono, dalla lettera a) alla lettera d), espressione della intervenuta decadenza in cui è incorso l'attore non solo in relazione alle allegazioni e produzioni rispetto alle quali prudenzialmente" insiste per l'ammissione, ma anche per ogni altra analiticamente descritta nelle richiamate statuizioni di censura per tardività e inutilizzabilità a fini decisori. 4.1. Qualche considerazione va partitamente spesa in relazione al (surrettizio) verbale di conciliazione, cui si è fatto riferimento alla lettera d), depositato all'udienza di precisazione delle conclusioni del 2.10.2020, avente ad oggetto usucapione ordinaria dell'area pertinenziale particella (...) del foglio 34 (poi catastalmente identificata per autonoma e volitiva determinazione del (...) con il n. 1299). Innanzi tutto trattasi di un mera convenzione tra l'attore e altri soggetti estranei al giudizio che ci occupa, i quali hanno reso dichiarazioni ivi risultanti avanti al notaio. L'atto in questione giammai potrebbe assumere efficacia idonea a superare l'accertamento giudiziale dell'acquisto della proprietà per usucapione che si conclude con una sentenza dichiarativa. Dunque, in questa sede, l'esito di una simile iniziativa non ha alcuna rilevanza giuridica e la evidente preordinata finalità che ha determinato l'attore, dopo oltre 7 anni dall'inizio dell'azione giudiziaria della presente causa e nel corso della stessa, ad avviare l'ennesimo espediente teso ad ottenere "ragione che non ha e che non ha mai avuto", si risolve in un'implicita conferma offerta dallo stesso Ci.Pi. con il verbale di conciliazione mediazione ratificato dal Notaio rogante in data 30.7.2020, che, già di per sé, consente di affermare che l'attore non era e non è proprietario del terreno, area comune, della particella (...). Orbene, è di tutta evidenza che il (...), a fronte della spiegata "actio negatoria servitutis", che è azione a difesa della proprietà, con l'atto di citazione ha dichiarato di agire quale "proprietario di un terreno contraddistinto al NCT del Comune di Collelogno al fg. (...), part. (...)." ed in corso di causa, ormai pervenuta alla fase decisoria, dunque, ben oltre l'intervenuta definizione del thema decidendum e del thema probandum, si è determinato - melius re perpensa - ad una estemporanea iniziativa, unitamente ai suoi familiari (...) e (...), e in data 21.7.2020 ha depositato istanza presso l'Organismo di mediazione SPCM così attivando un procedimento di mediazione "alternativo al procedimento giudiziario innanzi al Tribunale di Avezzano al quale rinunciano" (la versione corretta è invece quella in base alla quale Ci.Pi. non avrebbe potuto più ricorrere ad un'azione giudiziaria avente il medesimo oggetto, alla luce della proliferazione di pregresse e anche recenti sentenze sfavorevoli nei confronti dello stesso (...) e suoi familiari) per sentirsi dichiarare proprietario per intervenuta usucapione di quello che nel verbale di conciliazione viene descritto "immobile sito in Comune di Collelongo", che altro non è se non l'area pertinenziale oggetto di causa sulla quale la convenuta ha diritto di passaggio ovvero la particella (...) del foglio 34, alias 1299 fgl. 34 (variazione catastale autonomamente posta in essere dall'attore). Le parti in mediazione (da un lato i fratelli Ci.Pi., (...) e (...), dall'altro le parti invitate (...), (...) e (...)) sono pervenute ad un accordo conciliativo avendo i soggetti chiamati in mediazione riconosciuto che l'immobile di cui sono titolari, una per il diritto di usufrutto e le altre per comproprietà della nuda proprietà, foglio (...) (già 424), pur risultando avere diritto di passaggio sulla particella (...) non corrispondeva (guarda caso .) "alla reale situazione di fatto e vi hanno rinunciato in via definitiva". Premesso che in esito alle improvvide iniziative giudiziarie di Ci.Pi. e del dante causa (...) (azioni per reintegra nel possesso, azioni di rilascio dell'area, azioni petitorie) nei confronti della famiglia (...), attraverso le quali hanno chiesto riconoscersi in loro favore il possesso esclusivo o comunque la proprietà per usucapione dell'area di cui alla particella (...), le domande in giudizio a vario titolo spiegate sono state univocamente rigettate in tutte le sedi giudiziarie adite (dalla sentenza lontanamente emessa dal Pretore di Trasacco n. 9/1989 (alleg. 2A memoria 183 c.p.c. parte convenuta) cui hanno fatto seguito la sentenza del Tribunale di Avezzano n. 788/2004 (alleg. c.s.), la sentenza del Tribunale di Avezzano n. 145/2015 confermata, da ultimo, dalla sentenza della Corte d'Appello di L'Aquila emessa il 26.2.2020 (alleg. note trattaz. scritta 20.7.2020 parte convenuta)) e non è stato riconosciuto, né in capo a (...) che a Ci.Pi., alcun ipotetico possesso dagli stessi esercitato, indimostrato, né tantomeno un possesso esclusivo nei modi e nei termini per l'acquisto della proprietà per usucapione. Tornando al verbale di conciliazione mediazione, che invero rappresenta una "ingloriosa" alterazione della realtà fattuale che si pretende forzatamente di sovvertire, ciò che più appare grave sono le dichiarazioni formalizzate in detta convenzione da Ci.Pi. e dai suoi familiari con riguardo alla particella (...), del seguente tenore: "che l'usucapione è maturata a seguito del possesso ultraventennale continuo e non interrotto, esercitato uti dominus quantomeno a far data dall'anno 1960, tenuto conto del possesso già esercitato dal loro dante causa a titolo universale signor (...), senza che nessuno abbia mai contestato tale possesso né direttamente né indirettamente". Tali dichiarazioni, rese con evidente mala fede, sono del tutto inveritiere e contrarie in fatto ed in diritto alla cristallizzata realtà (anche) giuridica e si pongono in dispregio delle pronunce giudiziali sopra richiamate, alcune di recente attualità (l'ultima sentenza del Tribunale di Avezzano n. 145/2015 è stata pubblicata il 2.3.2015 e confermata integralmente in sede di gravame dalla Corte d'Appello di L'Aquila con sentenza pubblicata il 17.6.2020). Da quanto si desume dalla sentenza della Corte d'Appello, da ultimo richiamata, che ripercorre il ragionamento logico-giuridico del Tribunale di Avezzano, cui la Corte ha aderito pienamente, il Giudice di primo grado ha escluso che (...), (...) e Ci.Pi. e prima ancora il loro dante causa (...) abbiano esercitato un possesso esclusivo, pacifico e indisturbato per oltre un ventennio sul fondo identificato al catasto al fg. 34 p.lla (...) non essendo stato dimostrato di possedere il fondo in forza di un valido titolo, allora è di palmare evidenza evidente che le "private" dichiarazioni dei sigg.ri (...) trasfuse nel verbale di conciliazione mediazione di una usucapione maturata a seguito del possesso ultraventennale esercitato uti dominus quantomeno a far data dall'anno 1960 rappresentano soltanto un mero espediente per aggirare ciò che non sono riusciti ad ottenere per via giudiziaria. Il giudice di secondo grado, a sostegno della infondatezza dell'interposto gravame alla sentenza pronunciata dal Tribunale di Avezzano, ha puntualmente rilevato che "assume significato dirimente la circostanza, giustamente evidenziata nella gravata sentenza e non contestata dagli appellanti, che nell'atto di donazione del 20.5.2002 a rogito Notaio dott. (...), il donante (...), pur professando di essere proprietario dei beni donati in forza di legittimi titoli e del possesso ultratrentennale degli stessi (così nell'art. 3), non annovera tra questi la particella (...), che viene menzionata nell'atto solo con diritto al passaggio della stessa. Pertanto a quella data, risulta documentalmente che (...) non era proprietario né per titolo né per possesso ultraventennale dell'area in discussione, né i figli, odierni appellanti possono ritenersi tali non avendo ragione altrimenti di menzionare un diritto di passaggio dei donatari sulla particella (...) se detto fondo era già da loro posseduto da oltre venti anni e quindi da loro usucapito, stante il principio "nemini res sua servit" (pag. 5, ultimo cpv. sentenza cit.) Fermo restando l'inammissibilità della produzione documentale in argomento e la sua irrilevanza, tanto sarebbe sufficiente per escludere anche una remota ipotesi di attendibilità del verbale di conciliazione mediazione ratificato dal Notaio rogante in data 30.7.2020 e di "veridicità" delle dichiarazioni di Ci.Pi. ivi formalizzate. In ogni caso, unicamente per completezza argomentativa, l'efficacia e la validità del verbale di conciliazione in questione (semmai abbia qualche efficacia), giammai può essere estesa alla convenuta che non è stata parte di quel procedimento di mediazione, e, dunque, l'accordo in tal senso raggiunto può, se del caso, produrre effetti unicamente tra le parti che lo hanno sottoscritto e non nei confronti di terzi estranei. In forza dell'art. 2 del D. Lgs n. 28/2010, considerato che l'accesso alla mediazione per la conciliazione è limitato alle controversie vertenti su diritti disponibili, si deve ritenere che solo l'accertamento del possesso ad usucapionem - che, si ribadisce, ha effetti limitati alle parti - può essere demandato all'autonomia negoziale e non anche l'accertamento del diritto di proprietà per intervenuta usucapione con valenza erga omnes, in quanto simile accertamento rientra, come su detto, nel novero degli atti riservati al giudice. Quindi, dal raffronto degli artt. 2 e 5 del D. Lgs n. 28/2010, può affermarsi che la mediazione in materia di usucapione deve essere "circoscritta" solo al superamento della lite riguardo all'esistenza dei presupposti di fatto. Il legislatore, infatti, nel prevedere strumenti di conciliazione, non ha mai perseguito lo scopo di rendere equivalente il procedimento di conciliazione al processo, quindi, di assicurare alle parti con la conciliazione un risultato equiparabile alle sentenze. Ne consegue che l'accordo conciliativo in materia di usucapione produce effetti solo tra le parti ex art. 1372 c.c. (e non erga omnes come la sentenza di usucapione) e proprio per questa ragione si colloca su un piano nettamente differente rispetto alla sentenza di usucapione la quale, oltre ad eliminare l'incertezza in modo incontrovertibile tra le parti, i loro eredi o aventi causa, produce, altresì, la cosiddetta "efficacia riflessa nei confronti dei terzi", tant'è che ne è prescritta la trascrizione ai sensi dell'art. 2651 c.c., sia pure con il limitato effetto della pubblicità notizia, evidentemente esclusa per il negozio di accertamento - che rimane tanquam non esset rispetto ai terzi - e, per la limitata portata dei suoi effetti, non ha alcun metro di paragone con la sentenza che dichiari l'acquisto della proprietà per usucapione. 4.2. Merita altresì a questo punto di essere stigmatizzata la surrettizia allegazione di parte attrice che nella comparsa conclusionale datata 28.12.2020 ha affermato quanto di seguito: ".il G.I. all'udienza sopraddetta..." (ud. 28.3.2014) ".. .ammetteva solo parzialmente le richieste di parte convenuta limitatamente alla prova per testi. e fissava l'udienza del 22.10.14 per l'interrogatorio formale della convenuta (non reso senza giustificazione alcuna)." (pag. 1, ultimo cpv. e pag. 2 prima riga). L'ordinanza del precedente Istruttore del 28.3.2014 resa in calce al verbale di udienza, con cui previa ammissione delle prove orali, documentali e nomina del CTU, ha rinviato la causa all'udienza del 22.10.2014 "per l'interrogatorio formale", è un mero refuso, tenuto conto che nelle memorie ex art. 183, c.p.c. nessuna delle parti in causa ha chiesto il reciproco interrogatorio formale. Appare evidente che quanto dedotto dall'attore assume l'unica valenza strumentale di screditare intenzionalmente e inutilmente la controparte ma non certo a indurre sic et simplicer questo Giudicante a valutare il comportamento della parte che non si è presentata a rendere l'interrogatorio (mai) deferito. Inoltre, sempre nella comparsa conclusionale, l'attore introduce un ulteriore doglianza avente l'unico effetto di aggravare e appesantire il processo. Afferma a pag. 3 "Quanto invece alla legittimazione ad agire, sono sufficienti le circostanze pacifiche emergenti de facto dagli atti di causa ... senza necessità di dimostrare altro, a mezzo di prove orali contrarie cui peraltro non è stato dato corso per decisione del Giudicante ...". In proposito, occorre rammentare alla parte attrice che nel corso della fase istruttoria, dopo diversi rinvii per assenza dei testimoni intimati, sia di quelli dell'attore che della convenuta, all'udienza fissata da questo Giudicante di precisazione delle conclusioni del 2.10.2020, la difesa del (...) ha formulato le proprie conclusioni definitive senza richiedere, né tantomeno ha insistito, darsi corso alla prova contraria con i propri testi, dedotta nella memoria depositata ai sensi dell'art. 183, comma 6, n. 3) c.p.c.. In tal sede il difensore si è limitato a precisare le conclusioni che ha richiamato in quelle rassegnate nell'atto introduttivo del giudizio (e ad altre deduzioni e produzioni) alle quali si è riportato, senza tuttavia attivarsi nella richiesta di espletamento del mezzo istruttorio che il precedente Istruttore aveva ammesso. Orbene, la prova testimoniale ammessa e non espletata è da ricondurre all'inerzia della parte attrice o comunque ad un suo disinteresse all'espletamento, che configura un'ipotesi di decadenza dalla prova stessa non avendo la parte che vi aveva interesse riproposto l'istanza istruttoria nelle rassegnate conclusioni e da tanto si desume un implicito abbandono dell'istanza medesima giacché, in tema di istruzione probatoria nel rito ordinario, spetta alla parte attivarsi per l'espletamento del richiesto mezzo istruttorio che il giudice abbia ammesso "...sicché, ove la parte rimanga inattiva, chiedendo la fissazione dell'udienza di precisazione delle conclusioni senza più instare per l'espletamento del mezzo di prova, è presumibile che abbia rinunciato alla prova stessa (Cass. n. 18688/2007; n. 10569/2004). Si deve, infatti, ribadire il principio secondo cui, qualora la parte che abbia indicato un teste richieda la fissazione dell'udienza di precisazione delle conclusioni, la stessa manifesta con tale inequivoco comportamento la sua volontà di rinunciare all'audizione del teste stesso e se la controparte aderisce alla richiesta di remissione della causa al collegio in sostanza accede alla rinuncia al teste. Tale rinuncia acquista poi efficacia per effetto del consenso del giudice implicitamente espresso con il provvedimento di chiusura dell'istruttoria e di remissione della causa in decisione" (Cass. civ., sez, VI, ordinanza 19.6.2014, n. 13945). Il principio espresso dalla giurisprudenza è per analogia applicabile anche al caso di specie e pur avendo il Giudice implicitamente ritenuto esaurita l'istruttoria e la causa matura per la decisione, ciò però non toglie né esclude che la parte attrice, qualora avesse avuto interesse all'espletamento della prova orale contraria, avrebbe avuto, si ripete, l'onere di attivarsi all'udienza di precisazione delle conclusioni insistendo per l'espletamento del mezzo di prova, cosa che invece non ha fatto come del resto risulta dal verbale di udienza del 2.10.2020. 5. A questo punto occorre, nondimeno, procedere alla corretta qualificazione dell'azione in situazioni analoghe a quella che cui occupa in cui, cioè, l'essenza del thema decidendum verte nel genus dell'actio negatoria servitutis disciplinata dall'art. 949 c.p.c., che è azione petitoria di natura reale diretta all'accertamento delle libertà di un fondo rispetto all'altro. Tale azione ricomprende in sé anche quelle modellate sullo stesso schema dell'actio ex 949 c.p.c., quali: - l'azione reale ex art. 844 c.c. in tema di immissioni, volta ad impedire che il proprietario del fondo "immittente" possa acquistare con il decorso del tempo utile per l'usucapione un diritto di servitù sul fondo "immesso" di proprietà di un terzo che lo legittimi a continuare le attività dalle quali derivano le propagazioni intollerabili; l'azione ha anche un risvolto di natura personale che legittima una richiesta risarcitoria a mente dell'art. 2043 c.c. nel caso in cui le immissioni vadano ad incidere sul bene salute o altri interessi personalissimi e primari; - l'azione ex art. 872, co. 2, c.c. diretta a chiedere la riduzione in pristino delle opere realizzate a distanza inferiore a quella legale. L'attore nei propri atti e scritti difensivi ha ripetutamente ricondotto la domanda proposta nel giudizio che ci occupa nel perimetro di una actio negatoria servitutis e previa affermazione di essere proprietario dell'area sita nel Comune di Collelongo individuata al Catasto Terreni di detto Comune al foglio (...), ha chiesto sia l'accertamento dell'inesistenza di una servitù in capo alla convenuta ovvero di aggravamento della servitù che sarebbe stata operata dalla (...) sulla suddetta area sulla quale, ha dedotto il (...), entrambe le parti in contesa esercitano il passaggio "ma di esclusiva proprietà dell'attore e dei suoi familiari", sia la rimozione delle opere realizzate dalla convenuta (posizionamento di tubazioni di scarico dei fumi dell'impianto di riscaldamento asservito all'abitazione della convenuta) lesive del diritto di proprietà di esso attore allo scopo di ottenere la libertà del fondo, atta ad impedire che la protrazione del potere di fatto della (...) per il tempo previsto dalla legge possa condurre all'acquisto per usucapione di un diritto reale (di servitù) su cosa altrui. Con la medesima domanda, il (...) ha chiesto altresì la riduzione in pristino dello stato dei luoghi in quanto le tubazioni di scarico dei fumi sono state poste a distanza non regolamentare, oltre al risarcimento del danno. Come noto, il giudice ha il potere-dovere di qualificare giuridicamente i fatti posti a base della domanda o delle eccezioni e di individuare le norme di diritto conseguentemente applicabili, anche in difformità rispetto alle indicazioni delle parti, incorrendo nella violazione del divieto di ultrapetizione soltanto ove sostituisca la domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realtà fattuale non dedotta e allegata in giudizio dalle parti (Cass. 3 agosto 2012, n. 13945; Cass. 21 febbraio 2019, n. 5153). Infatti, il giudice di merito, nell'esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, non è condizionato dalle espressioni adoperate dalle parti, ma deve accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, desumendolo non esclusivamente dal tenore letterale degli atti ma anche dalla natura delle vicende rappresentate e dalle precisazioni fornite dalle parti nel corso del giudizio, nonché dal provvedimento concreto richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del divieto di sostituire d'ufficio un'azione diversa da quella proposta, sicché, il relativo giudizio, estrinsecandosi in valutazioni discrezionali sul merito della controversia, è sindacabile in sede di legittimità unicamente se siano stati travalicati i detti limiti o per vizio della motivazione (Cass. 29 aprile 2004, n. 8225; Cass. 21 maggio 2019, n. 13602). Sulla scorta di tali precisazioni, la formulazione della domanda di parte attrice in relazione al petitum e alla causa petendi rientra, come detto, nelle azioni a difesa della proprietà ed in particolare nell'azione negatoria sicché il parametro normativo di riferimento deve conseguentemente individuarsi nell'art. 949 c.p.c.. Alla luce della posizione assunta dalla giurisprudenza, sia di legittimità (cfr. Cass. civ., sez. II, 3.7.2013, n. 16331) che di merito (cfr. Trib. Bari, sez. V, 17.3.2014, n. 1400), chiamata a codificare le esatte caratteristiche di tale azione, la richiesta di accertamento negativo di diritti vantati da altri sulla cosa, anche nella ipotesi di dedotta molestia al possesso o godimento, in quanto correlata a pretesa di diritto o di esistenza di diritto sulla cosa medesima, concretizza ai sensi dell'art. 949, comma 2, c.p.c. una "actio negatoria" servitutis: in tal senso detta azione è finalizzata non solo all'accertamento dell'inesistenza della pretesa servitù, ma anche alla eliminazione della assunta situazione antigiuridica posta in essere dal terzo mediante la rimozione delle opere lesive dell'altrui diritto di proprietà dal medesimo realizzate, allo scopo di ottenere la effettiva libertà del fondo. A ciò deve aggiungersi che, in tema di "actio negatoria", il risarcimento del danno, in aggiunta al ripristino della situazione violata, non è dovuto ove non risulti, neppure in via indiziaria, che dall'illegittimo esercizio della servitù sia derivato un concreto pregiudizio patrimoniale alla parte avente diritto. Muovendo quindi da tali essenziali premesse, è stato ulteriormente chiarito che l'actio negatoria presuppone, in situazioni analoghe a quella in argomento, che il proprietario abbia motivo di tenere che le iniziative altrui (i diritti affermati o le turbative o le molestie) possano recargli un pregiudizio. In particolare, la norma di cui all'art. 949 c.c. legittima il proprietario a chiedere la cessazione delle attività altrui, quale che sia (di fatto o di diritto), se quell'attività limita il suo potere di godimento sul bene di cui è proprietario, mentre laddove il petitum della domanda risulti circoscritto alla mera declaratoria dell'inesistenza di diritti altrui, l'onere della prova si arresta allo stato di mero pregiudizio potenziale. Ebbene, tali principi di portata generale vanno ora calati all'interno della concreta fattispecie in esame e sono inevitabilmente destinati a riverberare conseguenze sul regime dell'onere probatorio sicchè, ripercorrendo concetti già ampiamente illustrati, è da ritenere che in tema di azione negatoria (che, va ribadito, è azione petitoria, dunque di natura reale, diretta a tutela della proprietà) poiché la titolarità del bene si pone come requisito di legittimazione attiva e non come oggetto della controversia - tant'è che la parte che agisce in giudizio non ha l'onere di fornire, come nell'azione di rivendica, la prova rigorosa della proprietà - è sufficiente la dimostrazione, con ogni mezzo, anche in via presuntiva, di possedere il fondo a titolo di proprietà in forza di un "titolo valido", originario o derivativo, mentre incombe sul convenuto - ma soltanto dopo che l'attore ha assolto all'onere probatorio che gli è imposto - l'onere di provare l'esistenza del diritto di compiere l'attività lamentata come lesiva dall'attore (cfr. Trib. Salerno, sez. II, 18.11.2015, n. 4811). 5.1. Effettuato tale inquadramento giuridico deve evidenziarsi nel merito della specifica questione attinente il diritto dominicale di cui l'attore si è affermato titolare sulla particella (...) - affermazione invero caratterizzata da un evidente grado di genericità ed approssimazione già in punto di allegazione (ove si consideri che l'attore ha prodotto soltanto una visura catastale, contraria all'assunto difensivo della proprietà) - che il (...) non ha dimostrato tale assunto e cioè la titolarità del bene. All'esito del compendio probatorio risultante dall'espletata istruttoria non ha trovato adeguato riscontro probatorio, apparendo, al riguardo, alquanto significativo che la parte eccipiente non sia stata in grado di fornire alcuna prova, anche in via presuntiva, circa la proprietà dell'area individuata al NCT al foglio (...), in forza di un "titolo valido", originario o derivativo. Del resto, la prova richiesta di cui era onerato l'attore nemmeno può essere desunta - al più, anche se in via residuale e con valenza meramente presuntiva - dalla visura catastale n. AQ0077583 del 7.5.2013 prodotta in atti che, come detto, depone a suo sfavore, poiché dalla stessa risulta che al Catasto Terreni del Comune di Collelongo, la particella (...) del foglio 34, qualità passaggio, superficie are 00 ca 72 (così catastalmente identificata nell'atto introduttivo e così affermata dall'attore quale bene di cui si qualifica proprietario), non ha intestatari e funge da passaggio comune alle particelle (...) (cfr. doc. 1 atto di citazione). Cardine dell'esercizio dell'azione negatoria risulta essere l'onere probatorio, infatti giurisprudenza conforme, sostiene: "è pacifico che colui che agisce con l'azione negatoria possa provare la titolarità del diritto di cui assume la lesione "con ogni mezzo, anche in via presuntiva" (Cass. n. 472/2017). Non di meno, anche facendo riferimento alla CTU espletata in corso di causa, le risultanze e le conclusioni cui è pervenuto il consulente, geom. Sorgi Gabriele, non offrono alcun elemento di segno contrario che consenta di ritenere sussistente, ancorchè presuntivamente, un principio di prova che l'attore sia proprietario del fondo, come tale legittimato ad agire ex art. 949 c.p.c.. Il CTU, all'esito dell'espletamento dell'incarico, ha depositato in via telematica in data 6.8.2015 l'elaborato peritale in risposta ai quesiti sottoposti dal precedente Istruttore all'udienza del 23.2.2015 di seguito trascritti: "1) Verificati gli atti di causa ed acquisiti i relativi atti, previo sopralluogo nei luoghi oggetto di causa, accerti le proprietà di parte attrice degli immobili descritti nella domanda introduttiva, verifichi se l'installazione delle tubazioni di scarico dell'impianto di riscaldamento servente l'abitazione di parte convenuta è stata eseguita nel rispetto o meno delle norme di legge; 2) Verifichi il CTU altresì la distanza delle finestre dell'abitazione di parte attrice dalle tubazioni in questione e più in particolare del comignolo terminale; 3) Verifichi il CTU se dalle tubazioni in questione vi sono o vi sono stati gocciolamenti dei residui della combustione ed eventualmente perdite o fuoriuscite di fumi". Ebbene, limitatamente alla questione in trattazione e, dunque, l'accertamento della proprietà di parte attrice (quesito 1) ... accerti le proprietà di parte attrice degli immobili descritti nella domanda introduttiva...) sulla scorta degli accertamenti tecnici peritali espletati, le conclusioni cui è pervenuto l'ausiliario immuni da vizi logici e suffragate da completezza ed analiticità della relazione e della logicità delle argomentazioni, meritano di essere condivise in quanto esenti da censura, dandosi atto che ogni singolo profilo accertato dal ctu in ordine agli ulteriori quesiti demandati potrà, se del caso, essere affrontato in subordine al vaglio e alla soluzione della preliminare questione di merito relativa alla legittimazione attiva/titolarità dal lato attivo del rapporto dedotto in giudizio. Il ctu ha proceduto con scrupolosi accertamenti catastali dai quali risulta che la particella n. (...) sub 1 distinta al NCEU al fgl. 34 è di proprietà di (...) e la particella (...) distinta al NCEU al fgl. 34 è di proprietà di Pi.Ma.. Alla luce della dettagliata ricostruzione risultante dall'elaborato peritale dello stato dei luoghi, degli originari intestatari catastali - (da un lato (...), di (...), maritata (...), dall'altro (...), di (...), maritata (...)) nonché dell'accertata confusa ed errata intestazione delle proprietà al Catasto Terreni (confusioni ed errori unicamente riconducibili ai detentori dei beni) con i nominativi invertiti ((...) anziché (...) e viceversa), degli eventi intervenuti per successione mortis causa, donazioni, soppressione e annessione di particelle con altre, che oltretutto hanno comportato la duplicazione degli immobili risultanti al Catasto Edilizio Urbano - è indubbiamente evidente che nel corso del lungo tempo precedente il giudizio che ci occupa, chi deteneva i beni (terreni e fabbricati) non ha mostrato alcun interesse ad attivare una corretta procedura diretta a rimediare sotto il profilo tecnico e di regolarizzazione catastale alle molteplici irregolarità. Il ctu ha accertato (cfr. pag. 14, punto 2.1.6 relazione peritale in atti) che il terreno identificato al NCT foglio 34, p.lla (...) è classificato in catasto come passaggio comune alle particelle (...): "... classificato fin dall'origine come accessorio comune ad enti rurali ed urbani, questo immobile non ha mai costituito un'entità catastale con propria intestazione", e trattasi quindi di terreno asservito (come passaggio) alle suddette particelle. Il consulente ha altresì precisato che "negli accatastamenti al NCEU, effettuati nel 1940, dei fabbricati distinti con le particelle (...) sub 1 e (...), adiacenti al terreno di passaggio in questione, tale terreno era ritenuto strada comunale e veniva riportato come Via (...)" (pag. 14, con nota a piè pagina n. 39, il ctu ha richiamato le planimetrie allegate alla perizia, nn. 15 e 16 indicanti i confini). L'ausiliario ha accertato che con atto rep. 34715 del 20.5.2002 a rogito Notaio (...), il fabbricato rurale del NCT particella (...) (di mq. 29) è stato donato da (...) ai figli (...), (...)e (...) e nell'atto di donazione il fabbricato viene così descritto: "Fabbricato rurale alla traversa di Via Roma composto di due vani ai piani terra e primo ad uso stalla e fienile confinante con i mappali numero (...), (...) e (...) del foglio 34, identificato in Catasto Terreni, al fgl (...) mappale numero (...), con diritto al passaggio n. (...) del foglio (...)" (cfr. pag. 8 relaz. peritale). A seguito di variazione catastale del 28.2.2013 n. 1010.1/2013, la particella (...) del NCT (di mq. 29) è stata successivamente soppressa ed annessa alla particella (...) del NCT (già Ente Urbano di 42 mq.) divenendo Ente Urbano di 71 mq. che, ha accertato il ctu, "costituisce attualmente l'insieme delle porzioni di fabbricato distinte al NCEU con le particelle n. (...) sub 1 (di proprietà di Ci.Ev.) e n. (...) (di proprietà di Pi.Ma.)" (pag. 9, 2 cpv.). Nell'ambito dell'espletamento dell'incarico, comprensivo dell'accertamento della proprietà di parte attrice degli immobili descritti nella domanda introduttiva (cfr. quesito 1)), l'ausiliario geom. Sorgi ha evidenziato nel proprio elaborato che non è stato reperito alcun atto legale dal quale risulti che l'attore, Ci.Pi., "sia proprietario e/o comproprietario di detto terreno adibito a passaggio, come affermato nell'atto di citazione" e ha concluso nel senso che l'attore Ci.Pi.", non risulta avere alcun diritto di proprietà sul passaggio distinto al NCT di Collelongo al fgl. (...), particella n. (...) di 72 mq."" (pag. 14). A questo punto, unicamente per completezza argomentativa, occorre rilevare che le osservazioni alla ctu sollevate dal procuratore della parte attrice hanno trovato compiuta ed esauriente risposta dell'ausiliario, confortata dalla analitica esposizione delle ragioni sostenute a confutazione delle stesse (cfr. punto 3.1, da pag. 20 a pag.27 relaz. peritale); conclusioni che l'ausiliario del Giudice ha confermato integralmente anche in sede di convocazione a chiarimenti (ripetutamente sollecitata dall'attore anche attraverso l'irrituale foglio di deduzioni scritte allegate al verbale di udienza 7.12.2015) e all'udienza del 23.5.2016 risulta a verbale che il ctu "dà atto di aver risposto anche alle osservazioni e quindi di non dover aggiungere alcunché all'elaborato già depositato in atti". Orbene, la parte attrice, una volta avvedutasi di aver intentato una actio negatoria (tra l'altro fermamente e rinnovatamente invocata nonostante ab origine il palese difetto di un titolo che consentisse di intraprendere una tale azione di chiara natura petitoria), ha posto in essere i comportamenti già diffusamente e analiticamente delineati (cfr. punto 4. motivazione) attuando una pervicace irrituale sequenza di tentativi, caratterizzati da evidente colpa grave e mala fede, volti ad introdurre prepotentemente nel processo, al di là di ogni regola processuale, atti, documenti, memorie celate sotto la denominazione di nota di deposito (si ribadisce, persino all'udienza di precisazione delle conclusioni) del tutto intempestivi e tardivi stante la intervenuta rigorosa definizione del thema decidendum e del thema probandum, in palmare dispregio della integrità e del rispetto del contraddittorio o dell'esercizio del diritto di difesa. 6. Ebbene, operato l'inquadramento della domanda e risolte le altre necessarie questioni aventi inevitabile incidenza riflessa sull'ultima questione (di merito) che ci si accinge ad esaminare e alla sua fondatezza, occorre dunque vagliare l'eccezione, invero dirimente, sollevata in limine litis dalla convenuta di difetto legittimazione attiva in capo all'attore. In proposito la (...) ha allegato che qualora il contenzioso oggetto di causa rientri nel perimetro dell'actio negatoria servitutis, il (...) non avrebbe potuto proporre tale azione per mancanza del presupposto, ai fini della legittimazione, della titolarità del diritto di proprietà dell'area (p.lla (...), fgl. (...)) su cui si affaccia il tubo di scarico dei fumi dell'impianto di riscaldamento e ha correttamente sottolineato che dalla visura catastale originariamente depositata dallo stesso attore (con ciò riferendosi al doc. 1-atto di citazione) non risulta che il (...) sia proprietario del terreno di cui alla particella (...) (poi 1229) trattandosi, tra l'altro di un'area che non ha intestatari e funge da passaggio comune alle particelle (...) del foglio (...). Alla sollevata eccezione l'attore ha replicato con la prima memoria ex art. 183 c.p.c., depositata il 20.12.2013 deducendo che essendo detta area ".bene comune a più particelle..." dalla visura catastale prodotta in uno con l'atto di citazione (visura n. (...) de 7.5.2013) "risulta solo l'annotazione delle particelle cui è comune, e tra queste si evince ictu oculi la non menzione della particella (...)". L'assunto è privo di pregio: la convenuta non ha mai argomentato nelle proprie difese che, quale proprietaria del bene catastalmente individuato con la particella (...) (ovvero (...)) - di cui in effetti è proprietaria esclusiva - l'area censita come "comune" qualità passaggio di cui alla particella (...), risultasse catastalmente collegata anche alla particella (...) (caso mai è l'attore che ne assume il collegamento). Ciò che è vero, invece, è che da tempo immemorabile la (...) ha diritto di passaggio su detta area indipendentemente da ogni questione se l'area comune sia o non sia collegata con il fabbricato di sua proprietà; che tale sia la posizione della convenuta rispetto alla corte de qua è fatto e circostanza del resto ben nota al (...) nonostante, da decenni, come si è già avuto modo di precisare, nella sequenza delle numerose azioni intraprese in giudizio tendenti a negare alla (...) il diritto di passaggio e di contro acquisire esso attore un titolo di proprietà a titolo originario mediante l'usucapione, tutte le azioni (possessorie e petitorie) si sono risolte con l'integrale rigetto delle domande dei (...) per manifesta infondatezza. Muovendo dai termini con cui la convenuta ha sollevato l'eccezione di difetto di legittimazione attiva, occorre, innanzi tutto, richiamare i noti principi che consentono al Giudice il potere di qualificare giuridicamente un'azione o un'eccezione e di attribuire al rapporto processuale un nomen juris doverso da quello invocato dalle parti, purché ciò non produca una sostituzione della domanda proposta con una differente. Ebbene, la questione in esame attiene non già alla legittimazione processuale, bensì alla titolarità del rapporto giuridico controverso. La sostanziale sovrapposizione dogmatica, piuttosto frequente e invalsa, tra i profili attinenti alla legittimazione attiva e alla titolarità del diritto risulta impropria e i due profili meritano di essere tenuti distinti, alla luce della consolidata giurisprudenza di legittimità intervenuta in subiecta materia. Più segnatamente, sulla base di quanto ritenuto dalla giurisprudenza più recente (cfr. Cass. civ., SS.UU., 16.2.2016 n. 2951; conf. ex plurimis Cass. civ., sez. VI, 20.12.2017, ordinanza. n. . 30545) si converge sull'opportunità di sintetizzare e richiamare i principi (per così dire "risolutori") espressi dalla Suprema Corte sul punto (cfr. SS.UU. n. 2951/2016 cit.): (i) la legittimazione ad agire (legittimatio ad causam), intesa come titolarità del potere, per la legittimazione attiva, e del dovere di subire, per la legittimazione passiva, un giudizio in ordine ad un rapporto giuridico di diritto sostanziale dedotto in causa, va distinta dalla (ii) titolarità attiva e passiva della situazione giuridica sostanziale che attiene invece al merito della causa, la quale è un elemento costitutivo del diritto fatto valere con la domanda che l'attore, come per tutti gli altri fatti costitutivi del proprio diritto, ha l'onere, agendo, di allegare e provare, in positivo ovvero (in forza del principio espresso dall'art. 115 c.p.c.) anche in forza del comportamento processuale del convenuto qualora quest'ultimo riconosca espressamente tale titolarità, oppure svolga difese che siano incompatibili con la negazione della titolarità. Conseguenza diretta di tale assunto è quella per cui la contestazione del convenuto della titolarità attiva non può qualificarsi come "eccezione in senso stretto" (con i relativi limiti preclusivi e oneri probatori, a pena di decadenza) ma si sostanzia in una sua attività difensiva, che si inquadra nella c.d. mera difesa che è attinente al merito. Ai principi sopra illustrati deve aggiungersi che la distinzione tra i due profili (legittimazione e titolarità) spiega inoltre perché, in caso di difetto di legittimazione ad agire, il processo si chiuda con una pronuncia di rigetto in rito, mentre in caso di accertata mancanza di titolarità della situazione giuridica dedotta in giudizio la domanda dev'essere rigettata nel merito. In sostanza, la distinzione non assume solo una valenza teoretica, ma ha rilevanti ripercussioni pratiche, sia con riguardo al riparto dell'onere probatorio tra le parti sia con riguardo al tenore della pronuncia che definisce il giudizio. Come precisato, la legittimazione ad agire si risolve nella titolarità del potere di promuovere un giudizio indipendentemente dalla titolarità della situazione sostanziale attiva del rapporto giuridico controverso e va determinata in base agli effetti del provvedimento richiesto. Il controllo del giudice sulla sussistenza della legitimatio ad causam, nell'aspetto di legittimazione ad agire, si esplica nell'accertare se, secondo la prospettazione dell'attore, questi assuma la veste di soggetto che ha il potere di chiedere la pronuncia giurisdizionale. Può aversi difetto di legitimatio ad causam tutte le volte che (e solo se) si faccia valere, in sede giudiziaria, un diritto rappresentato come altrui, ovvero un diritto rappresentato come oggetto della propria sfera di azione e di tutela giurisdizionale al di fuori del relativo modello legale tipico (cfr. Cass. Sez. III, 6.3.2006, n. 4796; Cass. Sez. III, 14,6.2006, n. 13756). "La questione della reale titolarità del diritto sostanziale fatto valere in giudizio attiene, invece, al merito della causa. Naturalmente ben può accadere che, all'esito del processo, si accerti che la parte non_era titolare del diritto che aveva prospettato come suo, ma ciò riguarda il fondo della controversia e non esclude la legittimazione a promuovere un processo. L'attore perderà la causa, ma aveva diritto di intentarla (Cass. Sez. Un., 16 febbraio 2016, n. 2951, cit.). La giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. VI, 7 novembre 2013, n. 25104) distingue infatti fra il caso in cui un soggetto faccia valere in giudizio un diritto altrui in nome proprio, ed allora rimane violato l'art. 81 cod. proc. civ., dal caso in cui il soggetto abbia fatto valere in giudizio come proprio un diritto spettante invece ad altro soggetto, ed allora la decisione è di meritò" (Cass. civ., sez. 2, ordinanza 26.1.2021, n. 1617). Ciò premesso e con diretto riferimento al caso di specie, ne consegue che quanto eccepito da parte convenuta in relazione al difetto di legittimazione attiva di Ci.Pi., attiene non già alla legittimazione processuale bensì al titolo di legittimazione dell'azione proposta, e la questione sollevata, in limine litis, è una questione preliminare di merito processualmente eccepibile in ogni stato e grado del giudizio (in quanto eccezione in senso lato) e rilevabile d'ufficio dal Giudice, se risultante dagli atti di causa, con il solo limite del giudicato. Facendo applicazione dei principi fin qui richiamati, ed in special modo quelli espressi da Cass. civ., SS.UU. n. 2951/2016, nel caso di specie trattandosi di un fatto costitutivo del diritto fatto valere con l'azione negatoria ex art. 949 c.c., spettava all'attore provare compiutamente, ai sensi dell'art. 2697 c.c., con ogni mezzo ed in via residuale anche in via presuntiva, la propria titolarità soggettiva del diritto dominicale che è fatto necessariamente presupposto all'azione intrapresa e che, si precisa nuovamente, si pone come requisito di legittimazione attiva/titolarità del diritto e non come oggetto della controversia, con ricadute sulle sorti del giudizio che ci occupa. Volendosi anche prescindere dal tenore delle difese svolte sul punto dalla convenuta, rileva il Giudicante come l'attore abbia irrimediabilmente fallito il proprio onere probatorio, posto che emerge dalla documentazione depositata, come ritualmente acquisita al processo (tra cui, la visura catastale n. AQ0077583 del 7.5.2013: doc. 1 indice di parte attrice), l'insufficienza probatoria della asserita proprietà del bene costituito dalla corte comune individuato a Catasto Terreni del Comune di Collelongo, al foglio (...), di 72 mq. Tanto premesso, nella vicenda preliminare di merito in esame l'attore non ha dimostrato la propria titolarità attiva nei modi e nei termini sopra esposti e, pertanto l'eccezione (in senso lato) sollevata dalla convenuta - come qualificata giuridicamente dal Giudicante, come così consentito - è fondata e meritevole di accoglimento. I rilievi fin qui illustrati appaiono necessari e sufficienti per addivenire ad una pronuncia di rigetto delle domande svolte dall'attore nei confronti della convenuta, dovendosi ritenere - sul piano della legittimazione in senso sostanziale, ossia della titolarità del rapporto controverso - non provata la titolarità in capo a Ci.Pi. del diritto di proprietà sull'area suddetta; diritto dominicale che, giova ribadire, non è oggetto della domanda e quindi della tutela giudiziaria, ma è un elemento costitutivo della domanda ovvero costituisce il presupposto del diritto fatto con l'azione petitoria ex art. 949 c.p.c. che, dalle risultanze probatorie in atti e alla luce dei rilievi tutti che precedono, non appartiene effettivamente a chi assume di esserne il titolare. In ossequio al preannunciato principio della ragione più liquida, la decisione assunta appare idonea a definire il giudizio e tale da precludere ovvero rendere superfluo l'esame di ogni ulteriore domanda, eccezione e questione di merito in via principale e/o accessoria ovvero subordinata, formulata reciprocamente dalle parti, anche di carattere pregiudiziale e preliminare (eventualmente ulteriori e diverse di quelle già comunque già decise), che restano assorbite. 7. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano d'ufficio, non risultando prodotta la nota spese ex art. 75 disp. att. c.p.c.,, ai sensi dell'art. 4 del D.M. Giustizia 10.3.2014, n. 55, come modificato dal D.M. 08.03.2018, n. 37, in applicazione dello scaglione valoriale della controversia (da Euro 0,01 a Euro 1.100,00) secondo i valori medi ed in relazione all'attività concretamente esercitata dal difensore costituito rapportata anche al tenore delle difese svolte, si reputa congruo liquidare in favore della convenuta la somma di Euro 630,00 (di cui Euro 125,00 per fase di studio, Euro 125,00 per fase introduttiva, Euro 190,00 per fase istruttoria, Euro 190,00 per fase decisionale) oltre al rimborso spese forfetarie nella misura del 15% calcolato sull'importo liquidato, CPA e IVA come per legge e le successive occorrende. Ad avviso di questo Giudice deve procedersi poi ad una condanna della parte attrice ai sensi del novellato art. 96, comma 3, c.p.c. a tenore del quale: "in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91 c.p.c., il giudice anche d'ufficio può altresì condannare la parte soccombente al pagamento in favore della controparte di una somma equitativamente determinata". Sul punto, si osserva che la norma in questione introdotta nel tessuto codicistico dalla L. n. 69/2009 ha introdotto una forma di danno punitivo che si pone non come prius, bensì come posterius logico della decisione di merito, tant'è che, come precisato da autorevole Dottrina, la pronuncia non abbisogna della preventiva instaurazione del contraddittorio ex art. 101 c.p.c.. Il danno in questione è chiaramente finalizzato a scoraggiare il fenomeno diffuso dell'abuso del diritto e del ricorso alla giustizia per questioni meramente strumentali e dilatorie in dispregio della funzionalità del sistema giustizia che, come noto, soffre di un inflazionato contenzioso anche ingiustificato (cfr. Trib. Luino, ord. 23.1.2010; Trib Piacenza 7.12.2010; Trib. Verona ord. 1.10.2010. In questi termini anche Cass. n. 17902/2010). Un simile comportamento è abusivo e merita di essere adeguatamente sanzionato con il pagamento di una somma equitativamente individuata (cfr. ex multis Tribunale di Padova, sez. II, sentenza 10.03.2015; Tribunale di Padova, sez. II, sentenza 09.05.2014; Tribunale di Padova, ordinanza del 10.01.2014; Tribunale di Varese, 23.01.2010) per l'offesa arrecata anche alla giurisdizione (così Corte Cost., 23.06.2016, n. 152). La illustrata finalità teleologica della norma porta, dunque, ad escludere che, diversamente da quanto si verifica per l'ipotesi di lite temeraria, non è indispensabile, ai fini dell'applicazione dell'art. 96, comma 3, la necessità ovvero la prova di un danno patito dalla controparte vittoriosa in causa, potendo provvedere il Giudice, anche d'ufficio, e anche senza specifica richiesta della parte risultata vittoriosa, alla condanna della parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata. Con riferimento alla tematica dell'elemento soggettivo richiesto in capo al destinatario della condanna, appare condivisibile la tesi maggiormente garantista che postula un comportamento caratterizzato dal requisito della malafede o della colpa grave (così Trib. Verona ord. 21.3.2011, Trib. Pescara sent. 30.9.2010, Trib. Padova ord. 10.11.2009), non già della sola colpa lieve e quantomeno della mera soccombenza. E' indispensabile precisare, pur nell'evidenza, che agire in giudizio per far valere una pretesa che all'esito si rileva infondata non costituisce condotta di per sé rimproverabile poiché non è ragionevole sanzionare la semplice soccombenza, che è un fatto fisiologico alla contesa giudiziale, al più sottoposta al regime delle spese ex artt. 91 e 92 c.p.c.. Infatti, non è questa la ratio sottesa alla previsione del comma 3 dell'art. 96 c.p.c. che invece nel richiedere ai fini della sua applicazione l'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, considera tale elemento "qualcosa in più" rispetto alla mera soccombenza, in tal modo che la condotta soggettiva risulti caratterizzata da comportamenti deresponsabilizzanti, da pervicace volontà di protrarre la lite quale che ne siano le conseguenze. Posta dunque l'applicabilità ratione temporis della fattispecie al caso che ci occupa (la causa è stata introdotta a giugno 2013, e quindi dopo l'entrata in vigore della L. n. 69/2009), deve ritenersi integrante il requisito della colpa grave ancorchè anche della malafede - e cioè della temerarietà della lite - la condotta tenuta dalla parte attrice consistita nell'aver esperito l'iniziativa di cui al presente giudizio con la coscienza e volontà della manifesta infondatezza della domanda o comunque della normale diligenza volta all'acquisizione di detta conoscenza, affermandosi titolare del diritto dominicale (diritto di proprietà) di un bene (identificato al NCT, fgl. (...), p.lla (...)) che, nell'intrapresa actio negatoria, si pone come requisito di legittimazione attiva, senza tuttavia averne dato la dimostrazione, con ogni mezzo ed anche in via presuntiva, dell'esistenza di un valido titolo di proprietà. Titolo di proprietà che, in effetti, non aveva e non poteva vantare di avere e di ciò la parte attrice era pienamente edotta e consapevole anche in virtù delle ripetute pregresse azioni giudiziarie promosse nei confronti della convenuta al fine di farsi dichiarare proprietario esclusivo per usucapione del terreno ut supra, i cui esiti a sé sfavorevoli emergono e sono rappresentati dalle univoche concordanti sentenze di rigetto delle plurime azioni intraprese (sent. del 1989 Pretore di Trasacco, sent. del 2004 Tribunale di Avezzano, sentenza del 2015 Tribunale di Avezzano, sentenza del 2020 Corte d'Appello di L'Aquila, oltre ad analoga iniziativa assunta dall'attore avanti al Tribunale di Avezzano con atto di citazione 22.1.2010) che hanno sempre negato ogni paventato preteso diritto di proprietà in capo all'attore del terreno di cui, ciò nonostante, si è affermato dolosamente in questa sede proprietario. Dunque, merita di essere stigmatizzata la ripetuta pervicacia di Ci.Pi., il quale pur avendo piena ed ampia possibilità di tenere conto delle decisioni consacrate nella sentenze su richiamate (inerenti fatti e circostanze presso che identici a quelli di cui alla decisione per cui è causa) ha perseverato, con atteggiamento di totale indifferenza ai validi argomenti e decisioni giudiziarie contrarie ai suoi assunti, volendo ad ogni costo superare i propri conclamati torti con il periodico reiterato ingiustificato ricorso al sistema giustizia che continua ad inflazionare perseverando nei propri intenti aventi l'unico fine di sottrarre alla convenuta, che è la medesima parte convenuta nei processi cui si è sopra accennato, l'utilizzo dell'area comune sulla quale la (...) ha pieno diritto di utilizzo. L'attore ha dunque intrapreso l'ennesima azione che non avrebbe (potuto e) dovuto proporre. Inoltre, ai fini della dolosa condotta dallo stesso tenuta al fine di precostituirsi ad ogni costo una parvenza di proprietà, ha posto in essere comportamenti inutilmente gravosi attraverso strategie processuali inutilmente dilatorie, aggirando ripetutamente il rigoroso regime delle preclusioni ex art. 183, comma 6, c.p.c. e introducendo a termini scaduti, pervicacemente per tutto l'ulteriore corso del processo - finanche all'udienza di precisazione delle conclusioni - allegazioni, documenti e atti "postumi" artatamente confezionati, memorie (queste ultime malcelate come note di deposito comunque tardive) e tale condotta temeraria si è concretizzata nel totale, indifferente e reiterato dispregio delle regole processuali e di quelle poste a presidio di interessi di carattere generale, direttamente identificabili nella integrità del contraddittorio o dell'esercizio del diritto di difesa. La condotta fin qui delineata configura abuso del diritto di agire e rivela la coscienza e volontà della parte attrice di servirsi indiscriminatamente del processo per conseguire scopi estranei ai suoi fini istituzionali. A tacer d'altro per quanto riguarda il comportamento tenuto anche nei confronti del consulente del giudice, geom. Ga.So., al quale il difensore della parte attrice si è rapportato disdicevolmente (con toni minacciosi, inopportuni e ingiusti, addirittura riservandosi di adire le vie legali) per il sol fatto che gli accertamenti e le conclusioni cui è pervenuto il CTU non sono stati per il (...) soddisfacenti alle aspettative di "improbabile" ragione della domanda. Tenuto conto che l'art. 96, co. 3, c.p.c. non fissa alcun limite quantitativo (né minimo, né massimo) dell'entità della condanna, la determinazione giudiziale deve solo osservare il criterio equitativo potendo essere calibrata anche sull'importo delle spese processuali o su un loro multiplo, con l'unico limite del principio di ragionevolezza (Cass. civ. ord. n. 21570/2012 cit.; Cass. civ., sez. VI-II, ord. 11.02.2014, n. 3003; Cass. civ., sez. VI-III, ord. 18.11.2014, n. 24546), nel caso di specie si stima sanzione equa di condanna di Ci.Pi. ad una somma corrispondente al doppio dell'importo complessivamente liquidato a titolo di spese di lite in favore della controparte (Euro 630,00). Le spese di CTU, come liquidate in corso di causa con separato decreto del 15.9.2015, sono definitivamente poste a carico di parte attrice. P.Q.M. Il Tribunale di Avezzano, definitivamente pronunciando nella causa civile iscritta al n. 1394/2013 R.G., ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattese, respinte o assorbite, così dispone: a) accerta e dichiara la carenza di titolarità attiva dell'attore Ci.Pi. in ordine alle domande proposte, per quanto in motivazione, e, per l'effetto, rigetta le domande attoree; b) condanna l'attore alla rifusione in favore della convenuta delle spese di lite del presente giudizio che liquida per compensi professionali in complessivi Euro 630,00, oltre al 15%, calcolato su detto importo, per spese forfetarie, IVA e CPA come per legge; c) condanna l'attore al pagamento in favore della convenuta dell'importo di Euro 1.260,00 ex art. 96, ultimo comma c.p.c.. d) pone le spese di CTU definitivamente e per l'intero a carico di parte attrice, già liquidate in separato decreto. Così deciso in Avezzano il 5 giugno 2021. Depositata in Cancelleria il 13 luglio 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI AVEZZANO Il Tribunale, nella persona del Giudice Onorario dott.ssa Fedora VOLPE, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 13/2015 promossa da: (...) (c.f. (...)), rappresentato e difeso dall'avv. Fi.PA. del foro di Avezzano, elettivamente domiciliato in Avezzano presso lo studio del difensore, giusta procura in calce all'atto di citazione; attore contro (...) ASSOCIAZIONE SPORTIVA DILETTANTISTICA, rappresentata e difesa dall'avv. Ro.DI. del foro di Avezzano, elettivamente domiciliato in Avezzano presso lo studio del difensore, giusta procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta; convenuto nonchè (...) S.p.A. (p. iva (...)), rappresentata e difesa dall'avv. Vi.SA. del foro di L'Aquila, elettivamente domiciliata in Avezzano presso lo studio dell'avv. Al.IA., giusta procura speciale in calce all'atto di citazione per chiamata di terzo; terza chiamata Oggetto: Azione di risarcimento danni MOTIVI DELLA DECISIONE Preliminarmente si dà atto che la presente sentenza viene redatta in applicazione degli artt. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. come modificati dalla L. n. 69 del 18 giugno 2009, con esonero dall'esposizione dello svolgimento del processo, essendo sufficiente ai fini dell'apparato giustificativo della decisione la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto e, dunque, le questioni eventualmente non trattate non andranno considerate come omesse per l'effetto di un errore in procedendo ben potendo risultare semplicemente assorbite ovvero superate per incompatibilità logico giuridica con quanto concretamente ritenuto provato dal giudicante. 1. Con atto di citazione notificato il 30.12.2014 (...) conveniva in giudizio il (...) Associazione Sportiva Dilettantistica (d'ora in poi, per brevità (...)), in persona del Presidente - legale rappresentante p.t., al fine di sentirlo condannare, previa declaratoria di responsabilità ex art. 2051 c.c., al risarcimento dei danni patiti in conseguenza del fatto dannoso occorsogli in data 28.10.2012. A sostegno della domanda, l'attore ha esposto che: - il giorno 28.10.2012, verso le ore 7:00 del mattino, alla guida della propria autovettura (...) tg. (...) percorreva Via T. con direzione L. dei M. per recarsi sul luogo di lavoro, azienda M., sito nel N. Industriale di A., quando, svoltando a destra per immettersi sulla Via N., si trovava improvvisamente davanti ad un ostacolo rappresentato da alcune transenne, non segnalate, disordinatamente collocate sulla sede stradale che impedivano il transito e l'accesso alla via; essendo rimasta una ristretta zona libera nella parte destra della carreggiata di Via N., vi si immetteva e nel tentativo di evitare l'urto con la transenna posta a ridosso del varco apparentemente sufficiente per consentire il transito, rovinava con l'autovettura nel canale di scolo adiacente la sede stradale; - a causa del sinistro riportava lesioni consistite nella "contusione escoriativa del ginocchio destro e trauma distruttivo del rachide cervicale", con una prognosi di giorni sette; anche l'autovettura riportava danni. L'attore precisava che le transenne costituenti ostacolo alla immissione alla Via N. erano state apposte dal (...) che aveva organizzato per quella stessa giornata del 28.10.2012 una manifestazione podistica "5 Mezza Maratona del Fucino" ed aveva ottenuto le autorizzazione necessarie per il suo svolgimento da parte degli Enti ed Autorità preposte, con sospensione del traffico veicolare dalle ore 10:00 alle ore 12:30 lungo il percorso di gara che interessava i Comuni di Avezzano, Celano e Trasacco; al momento del sinistro avvenuto alle ore 7:00 circa, l'attore sostiene che l'incrocio che da Via T. immetteva in Via N. avrebbe dovuto essere libero, privo di ingombri rappresentati dalle transenne invece già dislocate in maniera disordinata, non presidiate e non segnalate. Sulla scorta di siffatte premesse, ha prospettato la responsabilità del (...) ai sensi dell'art. 2051 c.c. per non aver predisposto la segnaletica stradale di avviso, con congruo anticipo, della chiusura al transito veicolare, per non aver adottato gli accorgimenti necessari ed idonei ad evitare il danno causato dalla imprevedibile presenza - anche perché non segnalata - delle transenne sulla via N., per non aver esercitato il potere di controllo e vigilanza sulla cosa (Via N.) affidata alla sua custodia dai provvedimenti autorizzativi per lo svolgimento della gara sulla strada pubblica comunale, tale stato di fatto aveva determinato il sinistro e i conseguenti danni riportati dall'attore come precisati in atti. Instaurato regolarmente il contraddittorio, con comparsa depositata il 17.3.2015 si costituiva in giudizio il (...) che chiedeva di essere autorizzato a chiamare in causa la (...) S.p.A., con cui aveva sottoscritto una polizza di responsabilità civile, per essere dalla stessa garantito e manlevato nell'ipotesi di accoglimento, in tutto o in parte, della domanda attorea. Nel merito, il convenuto instava per il rigetto della pretesa risarcitoria spiegata dall'attore in quanto infondata in fatto e in diritto, più in dettaglio evidenziava l'inconfigurabilità degli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità, che comunque negava, valorizzando altresì la rilevanza causale esclusiva del contegno dell'attore nella determinazione dell'evento lesivo. A seguito di differimento e autorizzazione alla chiamata in causa del terzo, con comparsa depositata il 16.9.2015 si costituiva in giudizio (...) S.p.A. (d'ora in poi, per brevità, (...)), impugnando e contestando le deduzioni e richieste svolte dalla parte attrice ed insistendo per il rigetto della domanda, facendo proprie tutte le deduzioni e considerazioni prospettate dall'assicurato (...). Specificava che la garanzia operava nei limiti della vigenza ed operatività del contratto di assicurazione stipulato con l'assicurato e delle condizioni di polizza. All'esito dell'istruttoria, acquisite le produzioni documentali offerte dalle parti ed esperita prova per interpello, prova testimoniale e disposta CTU cinematica e dinamica del sinistro affidata all'ing. (...), dopo alcuni rinvii, anche tendenti, su invito rivolto dal giudice alle parti, alla verifica delle trattative pendenti di bonario componimento della lite - che non ha avuto esito positivo - veniva fissata udienza di precisazione delle conclusioni che, a fronte della diffusività dell'emergenza epidemiologica Sars-Cov2, e a seguito delle determinazioni assunte dal Capo dell'ufficio giudiziario, si è svolta nelle forme di un'udienza cartolare come consentito dall'art. 83, comma 7, lettera h) D.L. n. 18 del 2020 e art. 36 D.L. n. 23 del 2020 e success. modif. e integraz., mediante deposito in telematico di note scritte ovvero "foglio di precisazione delle conclusioni" avente il duplice effetto processuale di perfezionarne l'acquisizione agli atti del fascicolo telematico processuale e al contempo consentirne la ricezione nella sfera di conoscenza delle controparti con agevole presa visione. Tutte le parti hanno depositato le rispettive note, ivi compreso la terza chiamata (...) che pur avendo tempestivamente inviato e depositato telematicamente le proprie note scritte-foglio di precisazione delle conclusioni (come si rileva dalla RAC del gestore di PEC dal Ministero della Giustizia - RdAC, prodotte in atti in uno alla istanza di modifica dell'ordinanza adottata fuori udienza il 9.7.2020) per un disguido di cancelleria e tardiva accettazione dell'atto avvenuta il giorno 10.7.2020, il deposito è stato reso visibile nel fascicolo telematico successivamente all'udienza svoltasi in forma cartolare; infatti, nel provvedimento di questo giudicante del 9.7.2020 adottato fuori udienza, si è dato atto che "(...) S.pA non ha depositato note scritte da intendersi alla stregua di mancata comparizione di detta parte" e tanto risultava a detta data e fino alle ore 13:00 dalla consultazione del fascicolo telematico, salvo la positiva successiva verifica nel prosieguo del deposito delle note di trattazione scritta da ritenersi effettivamente intervenuto in termini. Con la richiamata ordinanza la causa è stata trattenuta in decisione con concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c., con decorrenza differita dal 15.9.2020, per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica. 2. Nel merito, la domanda risarcitoria proposta dall'attore, da inquadrarsi nell'ambito dell'art. 2051 c.c. che attiene alla responsabilità per danni da cose in custodia, è parzialmente fondata e meritevole di accoglimento per le ragioni e nei limiti che seguono. Ciò posto, non appare superfluo rammentare che l'art. 2051 c.c. configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, che, per essere affermata, non esige un'attività o una condotta colposa del custode (di talchè, in definitiva, il custode negligente non risponde in modo diverso dal custode perito e prudente, se la cosa ha provocato danni a terzi - cfr. Cass. civ., 19.02.2008, n. 4279), ma richiede la sussistenza del mero rapporto causale tra la cosa in custodia e l'evento lesivo verificatosi in concreto (da ultimo, Cass., ord. n. 22648/2013). Il fondamento della responsabilità è costituito dal rischio di provocare danni a terzi insisto nella cosa che la legge imputa al responsabile per effetto del rapporto di custodia (Cass. civ., sez. III, 13.01.2015, n. 295). Il primo presupposto, ossia la custodia, consiste nel potere fattuale di effettiva disponibilità e controllo della cosa, che è evidentemente un concetto più ampio della nozione contrattuale di custodia: custodi sono infatti tutti i soggetti, pubblici o privati, che hanno il possesso o la detenzione (legittima o anche abusiva: v. Cass. 3.6.1976, n. 1992) della cosa e custodi sono anzitutto i proprietari, ma anche conduttori, depositati, comodatari e usufruttuari. In sintesi, la custodia è la relazione di fatto e non semplicemente giuridica tra il soggetto e la cosa che legittima una pronunzia di responsabilità fondata sul potere di governo della res (cfr. Cass. civ., 20.09.2009, n. 24546) anche in virtù dei corrispondenti obblighi di vigilanza, controllo e diligenza, in base ai quali il custode è tenuto ad adottare tutte le misure idonee a prevenire ed impedire la produzione di danni a terzi, con lo sforzo adeguato alla natura e alla funzione della cosa e alle circostanze del caso concreto (cfr., con riguardo a differenti fattispecie, Cass. 5.5.52020, n. 8466; Cass. 5.9.2019, n. 22163; Cass. 12.3.2019, n. 7005). La responsabilità custodiale ha natura oggettiva e si fonda sul mero rapporto di custodia, cioè sulla relazione intercorrente fra la cosa dannosa e colui il quale ha l'effettivo potere su di essa, nei termini sopra delineati, e non anche sulla presunzione di colpa, restando estraneo alla fattispecie il comportamento tenuto dal custode: la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge, di regole tecniche o di criteri di comune prudenza rileva ai soli fini della fattispecie dell'art. 2043 c.c., salvo che la deduzione de quo non sia diretta soltanto a dimostrare o a rafforzare la prova dello stato della cosa e la sua capacità di recare danno, a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra la prima (lo stato della cosa) e l'evento dannoso (cioè l'attitudine della res a recare danno); allo stesso modo e per i medesimi fini non rileva che sia il custode a dedurre la conformità della cosa agli obblighi di legge o a prescrizioni tecniche o a criteri di comune prudenza al fine di escludere l'attitudine della cosa a produrre il danno. In entrambi i casi, infatti, trattasi di deduzioni volte a sostenere (quanto al danneggiato) oppure a negare (quanto al custode) la derivazione del danno dalla cosa e non, invece, a riconoscere rilevanza al profilo della condotta del custode. Tale responsabilità prescinde, altresì, dall'accertamento della pericolosità della cosa e sussiste in relazione a tutti i danni da essa cagionati, sia per la sua intrinseca natura, sia per l'insorgenza di agenti dannosi, rimanendo esclusa solo dal caso fortuito, che può essere rappresentato - con effetto liberatorio totale o parziale - anche dal fatto del danneggiato, avente un'efficacia causale idonea ad interrompere del tutto il nesso causale fra cosa ed evento dannoso o ad affiancarsi ad esso come ulteriore contributo utile nella produzione del pregiudizio. A tal proposito, è opportuno precisare che la nozione di caso fortuito - che è qualificazione incidente sul nesso causale e non sull'elemento psicologico dell'illecito - individua un fattore riconducibile ad un elemento esterno avente i caratteri dell'imprevedibilità e dell'inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata) senza che rilevi la diligenza o meno del custode. Il caso fortuito, ove ricorrente, costituisce elemento di sovrapposizione eziologica con la cosa in custodia a tal punto da recedere ogni tipo di rapporto causale e in tal modo si avrà un'efficacia autonoma e sufficiente per la determinazione dell'evento (cfr. Cass. civ., sez. III, ordinanza 1.2.2018, n. 2479), anche la condotta del danneggiato assume valore, seppur residuale, nel caso in cui entri in interazione con la cosa e configuri un rapporto causale colposo che si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento dannoso in applicazione, anche ufficiosa, dell'art. 1227, comma 1, c.c., al pari del caso fortuito,(cfr. Cass. n. 20619/2014), operante nell'ambito della responsabilità extracontrattuale in virtù del richiamo operato dall'art. 2056 c.c.. Tale applicazione giuridica da parte del giudice richiede una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'articolo 2 Cost., che impone al soggetto danneggiato di adottare "condotte idonee a limitare entro limiti di ragionevolezza gli aggravi per i terzi, in nome della reciprocità degli obblighi derivanti dalla convivenza civile" (Cass. civ., sez. III, 28.6.2019, n. 17443). Pari ed equivalente dovere di cautela, che si ricava dal criterio oggettivo di imputazione della responsabilità in capo al custode ex art. 2051 c.c., impone allo stesso il dovere di precauzione in quanto titolare della signoria sulla res custodita, in funzione di prevenzione dei danni che da essa possano derivare. Il suddetto giudizio sull'autonoma identità causale del fattore esterno alla produzione del danno deve, tuttavia, essere funzionale alla natura della cosa e alla sua pericolosità, nel senso che quanto più la situazione di possibile danno (il che equivale a possibile pericolo) è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo (costituente, pertanto, fattore esterno) nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile, come sopra accennato, l'interruzione del nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso (con conseguente esclusione della responsabilità del custode), quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un'evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l'esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro (cfr. tra le altre Cass. 12.11.2020, n. 25460; Cass. 29.1.2019, n. 2345; Cass. 3.4.2019, n. 9315 e Cass. 1.2.2018 n. 2477; id. n. 2478; id. n. 2479; id. n. 2480; id. n. 2481; id. n. 2482). In termini probatori, incombe sul danneggiato la prova, anche a mezzo di presunzioni, dell'evento lesivo e del suo rapporto eziologico-nesso causale con il bene in custodia (in altri termini, la derivazione del danno dalla cosa); sul custode grava, invece, la prova dell'esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale ed è appunto ciò che si identifica con la prova liberatoria del caso fortuito - elemento di elisione del nesso di causalità -. La prova che si richiede deve essere fornita in concreto non potendosi ritenere soddisfatta dalla semplice allegazione da parte del custode di una violazione di norme di condotta imputabile al danneggiato. Resta comunque fermo che, prospettato e provato dal danneggiato il nesso causale tra cosa custodita ed evento dannoso, come già detto la colpa o l'assenza di colpa del custode rimane del tutto irrilevante ai fini dell'affermazione della sua responsabilità ai sensi dell'art. 2051 c.c., giacchè il fondamento della responsabilità è costituito dal rischio che grava sul custode (c.d. rischio da custodia) - e non di colpa nella custodia - per i danni prodotti dalla cosa che non dipendano dal caso fortuito che è l'unico limite previsto dall'art. 2051 c.c.. Non è invece richiesta al danneggiato anche la prova dell'intrinseca dannosità o pericolosità della cosa (qualità viceversa rilevante per la diversa fattispecie prevista dall'art. 2050 c.c.) e ciò perché tutte le cose, anche quelle normalmente innocue, sono suscettibili di assumere ed esprimere potenzialità dannose per un loro dinamismo intrinseco o per l'insorgenza esterna di agenti dannosi. Pertanto, in aderenza all'inequivoco disposto letterale dell'art. 20151 c.c., una volta provate dal danneggiato le suddette circostanze, il custode, per escludere la sua responsabilità, ha l'onere di provare che il danno non è stato causato dalla cosa ma dal caso fortuito, nel cui ambito possono essere compresi tanto i fatti naturali, quanto il fatto del terzo o dello stesso danneggiato, precisandosi che il caso fortuito è integrato da ciò che rappresenta" un'eccezione" alla normale sequenza causale, rispetto alla quale si colloca in una posizione esterna, nelle forme di "un'obiettiva imprevedibilità" che assume efficienza causale esclusiva. In sostanza, la prova liberatoria del caso fortuito - fattore che, come precisato, attiene non già ad un comportamento del responsabile bensì al profilo causale dell'evento - è riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata ma all'esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva che, per il suo carattere di imprevedibilità ed eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso causale (cfr. Cass. civ. 05.02.2013, n. 2660; Cass. civ. n. 5910/2011; Cass. civ. n. 8005/2010; Cass. civ. 19.02.2008, n. 4279) tra la cosa in custodia e il danno (si veda anche Cass. n. 8500/2010; Cass. n. 16029/2010; Cass. n. 57417/2009; Cass. n. 11277/2008). Infatti, nell'ottica della previsione dell'art. 2051 c.c. il fulcro della questione gioca sul piano di un accertamento di tipo "causale" (della derivazione del danno dalla cosa e dell'eventuale interruzione di tale nesso per effetto del fortuito) senza che rilevino altri elementi, quali il fatto che la res abbia o meno natura "insidiosa" o la circostanza che l'insidia sia o non sia "percepibile ed evitabile" da parte del danneggiato in quanto tali elementi corrispondono ad una diversa ricostruzione della responsabilità, condotta alla luce del paradigma dell'art. 2043 c.c. e non dell'art. 2051 c.c.. 3. Tanto premesso in linea di diritto e facendo applicazione dei cennati principi, nel caso di specie è certamente sussistente il rapporto di custodia tra l'area stradale individuata dalla parte attrice, interessata dalla chiusura alla circolazione e al traffico veicolare attraverso il posizionamento di transenne, e il (...) convenuto. Parte attrice ha anche dimostrato il fatto storico del sinistro e il nesso eziologico-nesso causale tra la cosa in custodia (id est l'incrocio stradale con svolta a destra in Via N. a cui si accede dalla strada comunale di provenienza Via T.) e l'evento lesivo produttivo del danno arrecato (id est il sinistro intercorso), nonché l'intrinseca potenzialità dannosa della res. Tale prova emerge dal fatto che, a conferma di quanto dedotto dall'attore, il sinistro è stato cagionato in ragione della responsabilità del custode della res: preliminarmente per aver interrotto la circolazione e il transito sulla strada comunale di via N. almeno dalle ore 7:00 circa, in orario in cui la strada doveva rimanere libera ad ogni accesso veicolare e pedonale, infatti, solo a partire dalle ore 8:00 la strada avrebbe potuto essere chiusa e interdetta al traffico cfr. nulla osta comprensivo della chiusura al traffico della Via N. (ed altre) cui alla Delib. n. 78 del 2 ottobre 2012 adottata dal Commissario Regionale del Consorzio per lo S.I. - doc. 4 indice di parte convenuta). Se il convenuto (...) si fosse attenuto alla prescritta chiusura al traffico nell'orario prestabilito e predeterminato, il sinistro non si sarebbe verificato e l'attore non avrebbe subito i danni lamentati. Il (...) non solo ha tenuto la suddetta arbitraria e incontrollata condotta ma ha aggravato una situazione (già di per sé grave) avendo collocato sul suolo stradale della Via N. una serie di transenne - presenti in loco già dalle ore 7:00 circa, anzichè, eventualmente, dalle ore 8.00 - deputate ad interdire e limitare il traffico veicolare, senza nemmeno provvedere a segnalare preventivamente agli utenti della strada, tramite cartellonistica stradale temporanea, la chiusura della strada e un'eventuale deviazione del traffico in altra direzione stradale, così come il convenuto organizzatore della gara podistica non ha provveduto a dislocare sul luogo, ovvero prima dell'immissione degli utenti della strada sulla via N., il personale ausiliario a presidio, sorveglianza e vigilanza dell'incrocio che immetteva in Via N., al fine segnalare la presenza dell'ostacolo e al fine di evitare qualsiasi situazione di pericolo per gli utenti della strada. Alla luce di quanto precede, spettava alla parte convenuta, al fine di disattendere la domanda e resistere ad un'ipotesi di responsabilità oggettiva, provare concretamente l'esistenza del caso fortuito, ciò che invece non ha fatto. Anzi, le risultanze dell'istruttoria esperita hanno comprovato un rilevante grado di colpa in capo al convenuto (...) ed altrettanta evidente negligenza, come emerge dalla semplice disamina degli atti autorizzativi emanati dagli Enti ed Autorità preposte alla sospensione della circolazione stradale nei luoghi in cui si è svolta la manifestazione podistica. Il (...) non si è attenuto a quanto concretamente autorizzato, praticando invece una sequela di omissioni, violazioni di obblighi di legge e regole imposte dagli atti di cui trattasi ed ai quali avrebbe dovuto attenersi pur non assumendo rilevanza, come in precedenza accennato, ai fini dell'affermazione della responsabilità ai sensi dell'art. 2051 c.c. (trattandosi di responsabilità oggettiva) il profilo attinente alla condotta del custode (la colpa o l'assenza di colpa, la negligenza o meno che assume rilevanza, invece, nell'ambito della diversa fattispecie ex art. 2043 c.c.). Il criterio di imputazione della responsabilità è comunque volto a sollecitare chi ha il potere di intervenire sulla cosa all'adozione di precauzioni tali da evitare che siano arrecati danni a terzi e nel caso di specie il sinistro e l'evento dannoso si è dunque verificato all'interno della situazione che ha assunto la res in un tempo in cui il custode, parte convenuta, nell'intervenire sulla res lo ha fatto in dispregio del dovere di precauzione che gli è imposto, atto ad evitare che la cosa arrechi danno a terzi, come invece arrecato all'attore, in considerazione dell'arbitraria chiusura anticipata al traffico della strada comunale via N., della mancata adozione delle cautele specifiche quali il difetto di segnalazione e di preavviso della chiusura della strada, l'omesso controllo e vigilanza da parte di ausiliari del convenuto dell'incrocio che immetteva in detta via il cui accesso era impedito e ostacolato dalle transenne apposte - si ribadisce - in un orario in cui, tra l'altro, la strada comunale avrebbe dovuto essere libera, sgombra da ostacoli, transitabile e aperta al traffico veicolare. Non è in discussione che l'organizzatore (...) avesse ottenuto le necessarie autorizzazioni per lo svolgimento della manifestazione "5° Mezza Maratona del Fucino" programmata per il giorno 28 ottobre 2012, ciò che è contestato e che configura la responsabilità custodiale è proprio il fatto del mancato esercizio del controllo e vigilanza cui era tenuto in qualità di custode in virtù della relazione qualificata con la res cui consegue la responsabilità dei danni subiti dal danneggiato. Dalla documentazione in atti risulta: a) la richiesta di autorizzazione del (...) (del 25.9.2012) trasmessa al Prefetto di L'Aquila e all'Amministrazione Provinciale di L'Aquila per lo svolgimento della manifestazione podistica "5° Maratona del Fucino" con contestuale istanza di "sospensione del traffico dalle ore 10.00 alle ore 12.30 del giorno 28 ottobre 2012 per le seguenti strade che sono interessate allo svolgimento della gara e che ricadono nei comuni di Avezzano ... Via N. (...), Via N., ... (doc. 5 indice parte attrice); b) la comunicazione di "nulla osta" del Dirigente della P.L. del Comune di Avezzano (prot. n. (...) del 10.10.2012) trasmessa all'Amministrazione Prov.le di L'Aquila, "allo svolgimento della manifestazione sportiva ... in programma per il 28 ottobre 2012, sulle strade ricomprese nel territorio del Comune di Avezzano" (doc. 7 indice di parte attrice); c) l'autorizzazione rilasciata dal Dirigente Settore Viabilità dell'Amm.ne Prov.le di L'Aquila (prot. n. (...) del 19.10.2012) ad organizzare ed effettuare la manifestazione (doc. 8 indice parte attrice e doc. 2 indice parte convenuta); d) l'ordinanza del Viceprefetto di L'Aquila (prot. n. (...) (...) del 23.10.2012) di sospensione temporanea del traffico veicolare dalle ore 10.00 alle ore 12.30 ca. del 28 ottobre 2012 che per quanto riguarda il Comune di Avezzano interessa Via N. C., Via N., ...; "Durante il periodo di sospensione temporanea della circolazione: ... - E' fatto divieto a tutti i veicoli di immettersi nel percorso interessato dal transito dei concorrenti; - E' fatto obbligo a tutti i veicoli provenienti da strade o da aree che intersecano ovvero che si immettono su quella interessata dal transito dei concorrenti di arrestarsi prima di impegnarla rispettando le segnalazioni manuali o luminose degli organi preposti alla vigilanza o del personale dell'organizzazione. L'organizzatore della manifestazione è tenuto a predisporre un idoneo servizio, a mezzo di proprio personale munito di adeguati segni di riconoscimento. Ove necessario, dovrà essere predisposta una specifica segnaletica in corrispondenza delle intersezioni stradali che interessano il transito della gara podistica in modo che tutti gli utenti della strada siano informati della sospensione temporanea della circolazione; dovrà, altresì, predisporre idonea segnaletica indicante le eventuali deviazioni del traffico; la segnaletica non dovrà in alcun modo essere sovrapposta a quella stradale esistente né potrà essere installata in modo da arrecare danno alla strada e alle sue pertinenze e dovrà essere immediatamente rimossa dopo lo svolgimento della competizione". (doc. 10 indice parte attrice; doc. 3 indice parte convenuta); e) la concessione di nulla osta del Consorzio per lo S.I.A. (deliberazione del Commissario Regionale n. 78 del 2.10.2012 - doc. 4 indice parte convenuta) per lo svolgimento della manifestazione podistica del 28.10.2012 che, per quanto qui di interesse, avrebbe interessato le strade comunali ricadenti nel territorio del Comune di Avezzano ed in particolare le strade del Nucleo Industriale di competenza del Consorzio deliberante lungo il percorso "Via N. C., Via I. N., Via T. E., Via (...) (...), Via A. E.", con contestuale autorizzazione alla chiusura al traffico delle predette strade dalle ore 8.00 alle ore 13.30 "con carico al predetto gruppo sportivo di adottare ogni provvedimento e la segnaletica del caso al fine di garantire la continuità del traffico veicolare, da dirottare alle arterie limitrofe". Il (...) e la terza chiamata (...) hanno ampiamente argomentato nelle loro difese sulla elisione del nesso causale per la condotta di guida disattenta, negligente, imprudente tenuta da (...), tale da ricondurre a sua colpa esclusiva la responsabilità del sinistro per cui è causa e ciò sul presupposto che, pur essendo interrotta la Via N., il danneggiato anziché arrestare l'autovettura avrebbe oltrepassato le transenne ponendo in essere una manovra azzardata nel tentativo di aggirare e/o superare l'ostacolo, transitando lateralmente ad una delle transenne e così finendo la sua corsa nel fossato prospicente la strada in conseguenza della "pericolosa velocità" tenuta nel frangente. Condotta che, secondo le prospettazioni delle controparti, costituirebbe, appunto, fatto idoneo ad integrare il caso fortuito ovvero il c.d. fortuito incidentale - come sostiene (...) - con esclusione della responsabilità ex art. 2051 c.c. del custode (...). Al di là di mere generiche affermazioni, le resistenti hanno però scientemente omesso nei propri argomenti difensivi di soffermarsi sul fatto concreto per cui alle ore 7:00 il (...) avesse chiuso la strada, interdetta la circolazione e l'accesso alla Via N. nonostante la sospensione temporanea della circolazione era stata autorizzata a partire dalle ore 8:00. Né dette parti hanno argomentato e specificato quale segnaletica temporanea (verticale, orizzontale, luminosa) di avviso e preavviso di sospensione della circolazione - specificandone la natura - fosse stata collocata "ben prima" delle transenne e lungo il percorso stradale precedente l'incrocio che da via T. immetteva in via N., né hanno argomentato sul punto di collocazione della segnaletica e della distanza di avvistamento della stessa rispetto all'incrocio di via N., così da garantire uno spazio di avvistamento tra il conducente e il segnale stradale nonché tra il segnale e il punto di inizio del blocco stradale, in conformità agli artt. 39 C.d.S., 77 e segg. del Regolamento di attuazione C.d.S.. Il convenuto (...), in primo luogo non avrebbe dovuto e potuto chiudere la strada dove è avvenuto il sinistro interdire in orario antecedente le ore 8:00 della mattina del 28.10.2012 e, considerato che l'attore alla guida della sua autovettura si è immesso su detta via alle ore 7:00 circa, l'anticipata chiusura della strada legittima già di per sé la responsabilità del custode per i danni subiti dal (...) derivati dalla cosa produttiva dell'evento lesivo; in secondo luogo, fermo restando tale preliminare rilievo, il custode non aveva adottato le preventive precauzioni di segnaletica stradale indicante la sospensione temporanea della circolazione e dell'accesso alla via N. né tantomeno segnalato la presenza delle transenne. La segnaletica stradale del tutto assente non può infatti essere rappresentata dalle transenne, come intende invece la convenuta e anche la terza chiamata, poiché l'avvistamento della loro collocazione è avvenuto quando il veicolo condotto dall'attore già si trovava a ridosso dello sbarramento. Il nastro segnaletico da recinzione in plastica di colore bianco e rosso che, secondo quanto dedotto dal resistente, sarebbe stato apposto ad intervallo ed in unione delle transenne poste a chiusura di via N., non pare trovare verosimile conforto nei documenti fotografici prodotti dal convenuto (docc. 5, 6, 7) rappresentanti lo stato dei luoghi. Al di là del fatto che il documento fotografico n. 5 è privo del dato temporale, dalle altre due fotografie emerge che lo stato dei luoghi sia stato ripreso alle ore 8:53 e 8:54, quindi, dopo circa due ore dal sinistro occorso al (...); ulteriormente, ciò che appare ancor meno verosimile è il fatto che pur avendo il (...) effettuato manovra sterzante di emergenza (urtando o meno l'ultima transenna posta sul lato destro della via N.) impattando con il segnale stradale di prescrizione della velocità massima consentita (50 Km), che ha abbattuto, dai due documenti fotografici n. 6 e n. 7 si rileva che il nastro segnaletico bianco e rosso - che si rammenta è in materiale plastico - asseritamente di congiunzione e intervallante la transenna e il segnale stradale, è rimasto perfettamente ancorato alla transenna posta a destra e al segnale abbattuto, nonostante l'attore avesse transitato proprio nella ristretta zona laterale tra la transenna di destra posta sulla carreggiata e il segnale di prescrizione della velocità posto al margine destro della carreggiata, zona che egli sostiene essere stata libera e priva del nastro segnaletico mentre invece i resistenti deducono che tutta la strada fosse stata chiusa dalle transenne intervallate e unite tra loro dal nastro segnaletico. La non verosimiglianza delle suddette due fotografie all'effettivo stato dei luoghi al momento del sinistro - artatamente, è evidente, modificato dopo il sinistro con l'apposizione, prima inesistente, del nastro segnaletico sul lato destro della carreggiata tra i due punti di appoggio - trova conferma proprio dal fatto che l'autovettura condotta dal danneggiato sia effettivamente transitata nella zona stradale in questione che dai rilievi fotografici "postumi" al sinistro appare delimitata con il nastro segnaletico, ma che in realtà lo stato di fatto originario così non poteva essere. Infatti, se al momento del sinistro il nastro segnaletico fosse stato effettivamente elemento di congiunzione tra l'ultima transenna del lato destro e il segnale stradale, come deduce la resistente e come sembra desumersi dai due documenti fotografici (6 e 7), non vi è dubbio che quando il (...) ha eseguito la manovra di svolta a destra per immettersi su via N. e trovatosi davanti l'ostacolo imprevedibile delle transenne ha tentato di evitarlo transitando sulla ristretta area libera posta al lato destro dell'ultima transenna, evidentemente non sufficiente ampia per consentire di oltrepassarla, ha urtato contro il segnale stradale di limitazione di velocità, abbattuto dall'urto, per poi finire la sua corsa nel canale di scolo, tale dinamica avrebbe comportato che anche il nastro segnaletico avrebbe dovuto essere travolto e reciso dal passaggio dell'autovettura, che con l'urto ha abbattuto il segnale stradale, tanto più che il nastro segnaletico, in materiale plastico, non può di certo avere una resistenza all'impatto maggiore di quella del segnale di prescrizione della velocità realizzato con materiale in lamiera di ferro o alluminio che pure è stato abbattuto. 4. La prova dei fatti e del nesso causale tra l'evento e il danno è stata fornita anche tramite l'escussione dei testimoni e l'interrogatorio formale dell'attore. (...), all'udienza del 22.12.2016, in sede di interrogatorio formale (chiesto dal convenuto e dalla terza chiamata), ha negato che il sinistro sia avvenuto per aver urtato contro il palo del segnale di limitazione di velocita per poi finire nel fosso ed ha precisato che le transenne erano soltanto due, collocate solo centralmente e tra loro unite da un nastro rosso ma non occupavano tutta la strada ed ha dichiarato di essere finito nel canale di scolo per evitare le transenne che però ha urtato; ha negato di essersi assunto la responsabilità del sinistro in presenza del personale addetto alla gara e anzi ha precisato che non c'era nessuno e di essere stato soccorso dai colleghi di lavoro che viaggiavano con i propri mezzi e che seguivano la vettura da lui condotta; ha confermato che la mattina del 28.10.2018 (rettificando la data del 17.2.2012 che erroneamente la terza chiamata ha indicato nella formulazione del cap. 1) proveniente da via T. si immetteva su via N. precisando che percorreva quella stessa strada da circa 5 anni per recarsi al lavoro; ha ribadito che le transenne erano apposte al centro della strada e legate solo centralmente tra loro mentre ai lati vi era uno spazio per il passaggio. La teste di parte attrice (...) (udienza 4.4.2016), ha dichiarato di essere a conoscenza dei fatti in quanto nelle circostanze di tempo e di luogo di cui al sinistro seguiva, alla guida della propria autovettura, quella condotta dall'attore; ha confermato che il (...) rovinava con l'autovettura nel canale di scolo adiacente alla sede stradale di via N. nel tentativo di evitare l'impatto con le transenne che impedivano il transito dei veicoli su detta via e che tuttavia nella parte destra della strada vi era una ristretta zona libera non interessata dalle transenne; ha precisato che "le transenne erano poste al centro , ma sul lato destro vi era uno spazio che sembrava permettere l'accesso della vettura" ed ha aggiunto che "se non ci fosse stato il (...) dinanzi a me io sarei passata in questo spazio. Ciò in quanto la strada non era tutta chiusa". A.d.r. ha riferito che "il (...) con la sua autovettura ha cercato di passare nel varco ma poi si è accorto che lo spazio era ristretto e quindi è sbandato sulla destra. Non vi era il nastro rosso sulla destra..."; la (...) ha negato che sia prima che dopo l'incrocio di via N. vi fossero cartelli stradali di pericolo; A.d.r. ha precisato "...che non vi era né un segnale di strada chiusa né un segnale di svolta. Infatti la transenna era spostata"; ha negato che sul luogo del sinistro vi fossero persone presenti così come persone munite di bracciali o altri segni di riconoscimento. Sulle circostanze di prova articolate dalla terza chiamata (...), ha ribadito che sul lato destro della strada non vi era il nastro rosso e bianco (cap. 3); ha ribadito di non aver visto nessuno sul luogo del sinistro (cap. 7); la teste, richiesta di riferire se le fotografie prodotte in atti dalla convenuta e rammostrate (docc. 5, 6, 7, 9, 10, 11) raffigurassero il luogo del sinistro al momento della sua verificazione (cap. 8), ha dichiarato "...che i nastri bicolori ed il cartello del limite del 50Km non li ho visti". Le stesse circostanze riportate dalla teste (...), sono state peraltro confermate anche dal teste di parte attrice (...) (ud. 4.4.2016), a conoscenza diretta dei fatti in quanto nelle circostanze di tempo e di luogo viaggiava con la propria autovettura dietro a quella condotta da (...). A.d.r. ha dichiarato che "sul lato destro della carreggiata non erano apposte strisce bicolori e vi era uno spazio per poter passare"; ha negato ("Assolutamente no") che all'inizio della strada vi fossero cartelli stradali che segnalavano la presenza delle transenne e del blocco del transito veicolare, precisando "non vi erano cartelli né all'inizio della strada né in prossimità delle transenne" e gli unici avvisi erano rappresentati da "...fogli di carta formato A4 nei quali era scritto strada chiusa per gara podistica" e "tali fogli erano appesi solo sulle transenne"; il teste (...) ha negato che fossero presenti persone munite di bracciali o altri segni di riconoscimento del (...) ed ha dichiarato che "le uniche persone presenti eravamo noi", "preciso che nessuno dell'organizzazione". Sulle circostanze di prova articolate dalla terza chiamata, ha dichiarato (cap. 3) di ricordare la presenza delle transenne e dei nastri bicolori ma di non ricordare che la strada fosse tutta chiusa ed ha precisato "non erano comunque presenti segnali stradali di deviazione"; ha riferito (cap. 4) "ho visto la macchina (il veicolo (...) condotto dal (...)) deviare a destra dove vi era il passaggio fra la transenna e il ciglio della strada, non ricordo se il veicolo ha urtato il segnale o le transenne"; richiesto di riferire se dopo il sinistro il (...) si era assunto la responsabilità dell'accaduto in presenza del personale addetto alla gara (cap. 7) ha dichiarato "Non c'era alcuno del personale della gara"; A.d.r. ha riferito "i nastri sula lato della carreggiata non ricordo che ci fossero, né tantomeno segnali di pericolo o di deviazione". Il teste di parte attrice (...) (udienza 16.5.2016), a conoscenza diretta dei fatti in quanto nelle circostanze di tempo e di luogo viaggiava con la propria autovettura a circa 50 metri da quella del (...), ha sostanzialmente confermato le circostanze riportate dagli altri testimoni (...) e (...); ha dichiarato che la mattina del 28.10.2012 "c'era foschia per cui la visibilità non era ottimale"; ha riferito che la mattina del sinistro "ho visto la vettura del (...) dopo aver imboccato via N. rovinare nel canale laterale"; A.d.r. "preciso che tra la transenna e il ciglio stradale vi era uno spazio che consentiva il passaggio"; ha negato la presenza di cartelli stradali di pericolo che segnalavano la presenza delle transenne e dell'interruzione del traffico veicolare; A.d.r. "né ho visto nastro di colore bianco e rosso"; ha dichiarato "non ho notato persone munite di bracciali o altri indumenti per il riconoscimento della funzione". Sulle circostanze di prova articolate dalla terza chiamata, ha negato ("no non è vero") che al centro dell'incrocio che immetteva in via N. fossero state apposte transenne con nastro rosso e bianco prolungato sino ai margini della strada in modo da deviare il transito dei veicoli su Via E. (cap. 3); al teste sono state mostrate le fotografie prodotte in atti dalla convenuta (docc. 5, 6, 7, 9, 10, 11) e richiesto di riferire se raffigurassero il luogo del sinistro al momento della sua verificazione (cap. 4 e cap. 8), ha dichiarato "Le foto non rappresentano i luoghi di causa al momento del sinistro"; richiesto di riferire se dopo il sinistro il (...) si era assunto la responsabilità dell'accaduto in presenza del personale addetto alla gara (cap. 7) ha dichiarato "No non è vero". Il teste P.T. (teste comune di parte convenuta e della terza chiamata), all'udienza del 16.5.2016 ha confermato di aver posizionato le transenne di chiusura del perimetro di gara adibito alle corse dei bambini; A.d.r. "quale volontario sportivo ho dato un mano ad assembrare le transenne. Le transenne sono quelle della foto 2 del fascicolo del convenuto". Il giudice precisa che nessun documento fotografico del fascicolo di parte convenuta è contraddistinto dal n. 2, come del resto si rileva anche dall'indice dei documenti prodotti in atti. Il teste ha confermato che "le transenne erano poste al centro dell'incrocio e con strisce rosso e bianco dalla transenna al margine come dalle foto 1 e 2 del fascicolo convenuto" (cap. 10) ed ha confermato che "...c'era del nastro bianco rosso, come da foto 1, 2 e 3" (cap. 11); Il giudice richiama la precisazione già formulata da intendersi estesa alla foto 1 e alla foto 3 cui il teste ha fatto riferimento, in quanto nessun documento fotografico prodotto dal convenuto è contraddistinto con detta numerazione, né tantomeno quella dell'indice fa riferimento a documenti fotografici contraddistinti ai nn. 1 e 3. Il teste P. ha riferito che "chi doveva andare dritto doveva girare a destra sulla via E." (cap. 15) e che dopo il sinistro le transenne erano rimaste come originariamente posizionate. Il testimone di parte attrice (...), titolare della (...) Srl (ud. 22.6.2016), ha riconosciuto che i danni riportati dall'autovettura (...) dell'attore sono quelli indicati nel preventivo redatto dalla (...) Srl cui al documento rammostratogli (doc. 13 fascicolo di parte attrice) e che le riparazioni effettuate sul veicolo che precede corrispondono a quelle riportate nella successiva fattura n. (...) emessa dalla medesima (...), cui al documento rammostrato al teste (doc. 14 fascicolo cit.); A.d.r. il T. ha riferito "preciso che i pezzi elencati in fattura sono stati sostituiti e non riparati". All'udienza del 12.1.2017 è stato escusso il teste indicato da (...), (...) collaboratore dello studio (...), fiduciario di (...), il quale ha dichiarato di non poter riferire alcuna circostanza precedente il sopralluogo essendosi recato sul luogo del sinistro successivamente all'evento e pertanto lo stato dei luoghi era stato modificato, potendo confermare soltanto il ribaltamento dell'autovettura condotta dal (...); ha dichiarato di aver accertato che all'epoca del sopralluogo sulla via N. vi era un segnale di limitazione della velocità a 50 Km/h; il teste ha confermato la valutazione di stima del valore commerciale della (...) che alla data del 17.2.2012 era di Euro 1.700,00 e il valore del suo relitto era di Euro 100,00. Il teste (...) (teste comune del convenuto e della terza chiamata), ha dichiarato di essere arrivato sul luogo del sinistro in un momento successivo al verificarsi dell'incidente occorso all'attore e ha riferito che quando è arrivato sul luogo "erano presenti sia il nastro che le transenne che ostruivano l'intera carreggiata di Via E." (cap. 3, 2° memoria (...)). Il Giudice rileva che la delimitazione/ostruzione della Via E. è circostanza priva di rilevanza ai fini di causa in quanto il sinistro è avvenuto in via N., né risulta dagli atti che apposita segnaletica stradale deviasse ovvero delimitasse il traffico veicolare sulla via E.. Il teste ha dichiarato "quando sono arrivato sul luogo di cui mi si chiede, le transenne erano regolarmente posizionate ai margini della strada" (cap. 4). Il Giudice rileva che il posizionamento delle transenne "ai margini della strada" è fatto e questione diversa dal posizionamento delle transenne "al centro dell'incrocio" cui si riferiva la diversa circostanza richiesta al testimone (cap. 4). Sulle circostanze di prova articolate dal convenuto ha confermato ("sì è vero") nel senso che le transenne erano poste al centro dell'incrocio e la restante parte dell'incrocio stesso era chiuso solo con nastro rosso e bianco (cap. 10); il teste ha dichiarato "nulla so" relativamente alla circostanza di cui al cap. 11 relativa al fatto che "la porzione di strada" (nella formulazione del capitolo 11 preceduta dall'inciso: "tra le transenne poste al centro dell'incrocio ed il segnale del limite di velocità di Km/h 50 posto al margine di via N.") "era chiusa solo con nastro rosso e bianco". Il Giudice rileva il dubbio di attendibilità del testimone che è incorso in evidente contraddizione nelle dichiarazioni rese sulle circostanze di cui ai capp. 10 e 11, infatti, delle due l'una: o il teste aveva contezza che l'incrocio che immetteva in via N. era totalmente interdetto sia con le transenne poste al centro e per il resto con il nastro segnaletico bianco e rosso (come dichiarato in risposta al cap. 10), oppure avendo dichiarato "nulla so" sulla circostanza di cui al cap. 11 relativamente al fatto della chiusura con il nastro segnaletico della ristretta zona di strada posta tra le transenne situate al centro e il segnale del limite di velocità, sta a significare che il teste non aveva contezza e non poteva averne nemmeno per quanto dichiarato con riferimento al precedente capitolo, la cui formulazione ha ad oggetto una circostanza di contenuto pressochè identico a quella del capitolo 11 (in sintesi, la zona ristretta della sede stradale posta tra l'ultima transenna del lato destro e il segnale stradale situato sul lato destro della via N., a ridosso del canale di scolo). In ordine alla valutazione delle prove si rammenta che per granitico orientamento della giurisprudenza di legittimità "l'esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. Sez. L, Sentenza n. 17097 del 21/07/2010; Sez. 1, Sentenza n. 16056 del 02/08/2016)" (così Cass. Civ., Sez. I, 24 maggio 2019, n. 14333). Pertanto, la valutazione delle risultanze delle prove e il giudizio sull'attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili. La veridicità delle testimonianze va valutata alla luce dell'intero compendio probatorio, alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all'eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità (Cass. civ., sez. II, ordinanza 09.08.2019, n. 21239; conf. Cass. civ., sez. lavoro, 21.8.2004 n. 16529). Nel caso di specie le dichiarazioni dei testimoni di parte attrice non legati al danneggiato da stretti vincoli familiari hanno dato la prova che il sinistro avvenuto in Avezzano la mattina del 28.10.2012, alle ore 7:00 circa, all'incrocio che da via T. immette sulla via N., è stato determinato dalla presenza di ostacoli che impedivano il transito veicolare sulla via N., senza segnalazione preventiva di pericolo e/o di interdizione del traffico veicolare tramite segnaletica stradale (verticale, orizzontale, luminosa) ovvero dalla presenza di ausiliari del (...) convenuto nei pressi e sul luogo del sinistro, non consentendo, dunque, all'attore di avvertire alcuna fonte di imminente potenziale pericolo, con ciò confermando il nesso eziologico tra la res e il danno patito dal (...). Inoltre, ai fini che ci occupano particolare rilievo va attribuito al fatto che all'orario in cui il (...) transitava, o meglio, si immetteva con l'autovettura dallo stesso condotta su via N. (ore 7:00 circa), l'incrocio e la strada comunale avrebbero dovuto essere totalmente transitabili e accessibili, privi di ostacoli interdittivi, giacchè la chiusura al traffico della predetta strada era stata autorizzata a partire dalle ore 8:00 dello stesso giorno 28 ottobre 2012 (cfr. Delib. n. 78 del 2 ottobre 2012 del Consorzio per lo S.I.-doc. 4 indice di parte convenuta) e tale circostanza è di per sé già sufficiente a giustificare la responsabilità dei convenuti ex art. 2051 c.c. L'attendibilità dei testi (...), (...) e P., i quali hanno reso dichiarazioni precise, dettagliate, concordanti ed esaustive e, dunque, meritevoli di sicura credibilità, non trova smentita dalle dichiarazioni, invero poco credibili, rese dal teste comune di parte convenuta e della terza chiamata, P.T. (qualificatosi volontario sportivo che "aveva dato una mano a sistemare le transenne"), dichiarazioni che oltre ad essere imprecise, generiche, non circostanziate, si pongono al limite del mendace; non pare che il teste P. sia stato presente sui luoghi al momento del sinistro e le sue dichiarazioni non danno conto nemmeno dello stato dei luoghi che il testimone ha dichiarato di aver riconosciuto dalla documentazione fotografica mostratagli e individuata - come si legge dal verbale di udienza 16.5.2016 - con gli allegati nn. 1, 2, 3 di parte convenuta ma che, si ribadisce, dall'indice dei documenti nessun documento fotografico reca la suddetta numerazione che invece riguarda "atto di citazione" o "dichiarazione Fidal", "ordinanza dell'Amministrazione Provinciale", "ordinanza del Prefetto". Le dichiarazioni dell'altro teste comune delle parti resistenti, (...), oltre alle numerose risposte "nulla so" e alla contraddizione in cui è incorso, riguardano comunque circostanze successive al sinistro che, dunque, non offrono elementi rilevanti di valutazione con riguardo allo stato dei luoghi precedente e contestuale al sinistro stesso. 5. In esito alla CTU cinematica ricostruttiva della dinamica del sinistro, dello stato dei luoghi, delle cause determinanti il sinistro, l'ausiliario Ing. (...), ha anche replicato alle osservazioni del CTP nominato dalla terza chiamata ed a quelle del difensore del convenuto. Le conclusioni cui è pervenuto il consulente dell'Ufficio, immuni da vizi logici e suffragate da completezza ed analiticità della relazione e della logicità delle argomentazioni, risultano condivisibili e fatte proprie dal Tribunale relativamente agli accertamenti tecnici espletati alla luce del quesito in base al quale il Consulente è stato chiamato a rispondere. Non condivisibile, invece, è la precisazione del CTU con riguardo alla descrizione del luogo rappresentata al paragrafo 3.2 dell'elaborato, con particolare riguardo alla chiusura completa della carreggiata di via N. per mezzo di tre barriere stradali di cui due posizionate ai margini della carreggiata e la terza al centro della carreggiata; chiusura completa della carreggiata che secondo l'ausiliario sarebbe avvenuta con l'apposizione "del nastro bicolore bianco e rosso tra la barriera posta sul lato destro della carreggiata, rispetto alla direzione di marcia del veicolo del (...)" e il segnale di limite massimo della velocità posto a ridosso del cordolo che separa la sede stradale e il canale di scolo (pag. 15, 1 cpv). L'impiego di tale mezzo di chiusura, sul quale il Tribunale dissente, è stato dedotto dall'ausiliario unicamente sulla scorta della documentazione fotografica prodotta in atti dalla parte convenuta (cfr. docc. 5, 6, 7) - e di tanto il consulente ha dato atto: "Per la ricostruzione del sinistro è stato tenuto in particolare evidenza quanto visionato personalmente nel luogo de quo, nonché la documentazione fotografica presente negli atti" (cfr. pag. 14, 1 cpv. 3.2) - ma come si è in precedenza precisato, e come qui si ribadisce, le rappresentazioni fotografiche di cui trattasi del luogo non sono contestuali al momento del sinistro bensì successive di ben due ore, pertanto, non offrono certezza assoluta che lo stato dei luoghi sia rimasto immutato nel tempo intercorso tra l'orario del sinistro e quello delle riprese fotografiche. Tanto osservato, invero, il consulente tecnico, ha accertato: - che il sinistro si è verificato il 28.10.2012 verso le ore 7:00 in località N. Industriale di A., via N., all'incrocio con via E.; - che il giorno del sinistro il (...), dopo aver percorso via T. ed essersi immesso in via N. per raggiungere il luogo di lavoro presso la soc. (...), giunto all'altezza dell'incrocio con via E., si trovava dinanzi degli ostacoli apposti per delimitare il percorso della manifestazione sportiva "V Maratona del Fucino" e finiva all'interno di un canale di scolo; - che il tratto di strada di via N. è caratterizzato da un rettilineo che, fino all'incrocio con Via E., è lungo circa 300 metri; - che dopo circa 120 metri dall'immissione con via T. è presente il limite massimo di velocità pari a 50 km/h, segnale che sia prima sia dopo dell'incrocio con via E. si ripete; il segnale di cui trattasi divelto nell'evoluzione del sinistro per cui è causa, è quello da ultimo citato (posto dopo l'incrocio con via E.); - che il tratto di strada via N., dopo l'incrocio con via E., era interessato dal percorso della manifestazione sportiva "V mezza Maratona del Fucino" che prevedeva la sospensione del traffico veicolare; - che per lo svolgimento della manifestazione, il (...) aveva ottenuto l'autorizzazione dall'Amm.ne Prov.le di L'Aquila e dalla Prefettura di L'Aquila e quest'ultima prevedeva la sospensione temporanea della circolazione il giorno 28.10.2012 dalle ore 10:00 alle ore 12:30 per tutto il percorso interessato dalla competizione podistica; - che il (...) aveva ottenuto dal Consorzio per lo S.I.A. autorizzazione per la chiusura delle strade interessate tra cui via N. e via E., dalle ore 8:00 alle ore 13:30 del giorno 28.10.2012; - che il veicolo coinvolto nel sinistro, condotto dall'attore, è una (...) tg. (...), immatricolata il 31.3.2003. - che il (...) si è immesso da Via T. su via N. e da tale punto le barriere (cioè le transenne) erano poste a circa 300 metri su un tratto pianeggiante e rettilineo, tale morfologia della strada non limitava dunque il campo visivo diretto; - che ancor prima dell'orario in cui è avvenuto il sinistro, ore 7:00 circa, è possibile distinguere chiaramente gli oggetti circostanti anche senza utilizzo di illuminazione supplementare rispetto alla luce naturale. In punto di descrizione del luogo (paragrafo 3.2 della perizia, pagg. 14 e 15) il consulente ha fatto nuovamente ricorso alla documentazione fotografica dimessa in atti dal convenuto e cioè i documenti contraddistinti ai nn. 5), 6), 7) - dandone atto - sulla scorta dei quali ha desunto: - che la carreggiata era chiusa per mezzo di tre barriere stradali, unite tra loro da un nastro bicolore rosso e bianco, che tagliavano la strada trasversalmente; due delle barriere erano state posizionate ai margini della carreggiata e la terza era posta al centro della carreggiata (figura 10, perizia che corrisponde al doc. 5 delle produzioni del convenuto); - che per chiudere completamente tutta la carreggiata era stato apposto del nastro bicolore bianco e rosso tra la barriera posta sul lato destro della carreggiata, rispetto alla direzione di marcia del veicolo del (...), e il segnale di limite massimo della velocità (figura 11, perizia che corrisponde al doc. 6 delle produzioni del convenuto); - che dalle misure effettuate in sede di sopralluogo, la distanza tra la barriera posta sul margine destro e il segnale di limite della velocità, era di circa 10 metri; - che la distanza percorsa dal veicolo del (...) dal ciglio della strada fino al punto di quiete era di circa 5 metri. Per quanto riguarda il secondo rilievo di cui sopra (corrispondente alla precisazione di cui a pag. 15, 1 cpv. dell'elaborato peritale e alla pedissequa figura 11), questo giudice richiama le osservazioni svolte in premessa in questo stesso punto di motivazione e richiama altresì le ragioni per le quali non può essere condiviso il rilievo in questione con riguardo al mezzo impiegato per la completa chiusura della carreggiata tramite apposizione del nastro stradale bicolore bianco e rosso tra la barriera posta sul lato destro della carreggiata e il segnale di limite massimo di velocità di 50 km/h. Il Consulente, in punto di ricostruzione cinematica (paragrafo 3.3 dell'elaborato, da pag. 16 a pag. 19), ha affermato: - che il (...) nella manovra sterzante di emergenza messa in atto, non ha urtato le barriere poste sulla carreggiata, ma ha impattato dapprima con il segnale di limite di velocità, per poi terminare la corsa nel canale di scolo; - che il tempo di reazione ossia l'intervallo di tempo che inizia dall'istante in cui un oggetto o un evento diventano visibili per un conducente ragionevolmente attento e termina quando lo stesso conducente avvia un'azione in risposta (sposta il piede sul pedale del freno o le mani iniziano un'azione sterzante); tale tempo è quello necessario al guidatore per la percezione del pericolo, per decidere il da farsi e per agire (in sostanza trattasi delle fasi di percezione, decisione e reazione); - che nel caso specifico del sinistro occorso al (...), le circostanze di tempo (primo mattino) e ambientali (nella norma) non erano tali da alterare significativamente la visibilità alla guida, e, dunque, conclude il CTU, il tempo di reazione di un conducente medio che si trovi di fronte ad un pericolo imprevisto in condizioni di guida standard, è pari a 1 secondo. Il CTU ha poi sviluppato una serie di calcoli (pagg. 17 e 18) dai quali ha ricavato la velocità iniziale tenuta dal (...), basati anche sulle due tipologie di terreno interessate dal sinistro (prima il manto stradale asfaltato e poi la banchina erbosa quando il (...) è uscito fuori dalla carreggiata), sulla variazione cinetica che è pari alla somma delle variazioni si ciascun tratto (ossia per ciascuna tipologia di terreno), ed è pervenuto a determinare la velocità iniziale in circa 48 km/h che ha poi condotto - unitamente agli altri valori di tempo nel tratto percorso sull'asfalto e sulla banchina erbosa - al calcolo della minima distanza determinata in 28,5 metri per riuscire (il (...)) ad arrestare il veicolo ed evitare il sinistro, concludendo nel senso che "se il (...) avesse visto le barriere e il nastro bicolore da 30 metri, era in grado di riuscire a fermare la sua auto in sicurezza e ad evitare il sinistro"(pag. 18, relazione e figg. 13 e 14 pag. 19). Con riferimento alla chiusura della carreggiata (paragrafo 3.4 relazione peritale, da pag. 20 a pag. 22), l'ausiliario ha richiamato ed in parte trascritto l'ordinanza emessa dal Prefetto di L'Aquila 23.10.2012, rilevandone i tratti salienti ponendo rilievo alle prescrizioni e cautele imposte a carico dell'organizzatore della manifestazione, (...), specificamente disposte per informare "della sospensione temporanea della circolazione" tutti gli utenti della strade interessate dalla gara podistica mediante "specifica segnaletica in corrispondenza delle intersezioni stradali" e "idonea segnaletica indicante le eventuali deviazioni del traffico". Il CTU ha sottolineato che la segnaletica di cui trattasi avrebbe dovuto essere conforme al D.M. 10 luglio 2002 "Disciplinare tecnico relativo agli schemi segnaletici, differenziati per categoria di strada, da adottare per il segnalamento temporaneo" nonché al Regolamento di Esecuzione del Codice della Strada (D.P.R. n. 495 del 1992) ed ha elaborato una tavola sinottica con la minima segnaletica da apporre per la deviazione del traffico in caso di chiusura della strada (fig. 15, pag. 22 elaborato). Conclusivamente, il CTU in risposta al quesito posto dal giudice all'udienza del 13.7.2017, qui da intendersi integralmente richiamato e trascritto, ha accertato che il sinistro verificatosi il giorno 28.10.2017 alle ore 7:00 circa in Avezzano, (...), nell'intersezione tra via N. e via E., in cui è rimasto coinvolto (...) mentre a bordo della sua autovettura (...), tg. (...), percorreva la via N. e detta strada, costituita da un'unica carreggiata con due corsie a doppio senso di circolazione, era chiusa (per consentire la manifestazione podistica) tramite barriere e nastro bicolore rosso e bianco; il (...), giunto nella intersezione di cui sopra, pur non urtando le barriere apposte finiva nell'adiacente canale di scolo dopo aver impattato con il segnale indicante il limite di velocità. La velocità di marcia del mezzo, in base ai calcoli del consulente, è risultata pari a circa 48 km/h e pertanto conforme al limite massimo di velocità imposto di 50 km/h. Il consulente ha altresì verificato ed accertato sulla scorta dei calcoli eseguiti che in base agli ostacoli che si sono prospettati al conducente, una ragionevole concentrazione alla guida avrebbe consentito di porre in atto una manovra di emergenza che consentiva di evitare il sinistro a circa 30 metri prima degli ostacoli. L'ausiliario ha anche accertato dalla disamina degli atti del processo che la sospensione temporanea della circolazione, già autorizzata con ordinanza prefettizia dalle ore 10:00 del giorno 28.10.2012, prevedeva che "L'organizzazione della manifestazione è tenuto a predisporre un idoneo servizio, a mezzo di proprio personale munito di adeguati segni di riconoscimento. Ove necessario, dovrà essere predisposta una specifica segnaletica in corrispondenza delle intersezioni stradali che interessano il transito della gara podistica in modo che tutti gli utenti della strada siano informati della sospensione temporanea della circolazione; dovrà, altresì, predisporre idonea segnaletica indicante le eventuali deviazioni del traffico; la segnaletica non dovrà in alcun modo essere sovrapposta a quella stradale esistente...". Il Consorzio per lo S.I.A. aveva autorizzato la chiusura al traffico di via N. (ed altre strade del N.I di competenza del Consorzio) dalle ore 8:00 del 28.10.2012. Conclude il consulente rilevando che dagli atti del fascicolo di causa, al momento del sinistro l'intersezione tra via N. e via E. era priva sia di personale per la segnalazione della chiusura della strada, sia di un'adeguata segnaletica per la deviazione (in altro percorso stradale alternativo) di chiusura della strada "tale da suscitare nel conducente un'aspettativa di pericolo atta a fargli assumere un comportamento di guida consono alla situazione che gli si sarebbe prospettata alle ore 7:00 del 28.10.2012". Le osservazioni alla CTU formulate dal difensore della parte convenuta e dal consulente di parte della terza chiamata - debitamente allegate alla perizia depositata dall'ausiliario - hanno trovato compiuta ed esauriente risposta con il conforto di altrettanto esauriente esposizione delle ragioni che l'ausiliario ha posto a confutazione, e, dunque, non consentono la condivisione delle osservazioni medesime. In proposito il consulente dell'Ufficio ha spiegato compiutamente i motivi per cui le considerazioni effettuate dal difensore e dal perito non siano state condivise avuto riguardo al caso di specie ed ha riconfermato integralmente le conclusioni rassegnate nel proprio elaborato peritale. All'esito della corretta e congrua spiegazione dei criteri utilizzati dal c.t.u. non possono, pertanto, essere accolte le contestazioni delle parti con specifico riguardo: a) alla distanza in metri 30 del campo di avvistamento delle barriere poste a chiusura della strada via N. che il c.t.p., p.i. Guido Campana, ha ritenuto essere superiore; b) i dati utilizzati per il calcolo della velocità (accertata dall'ausiliario in 48 km/h) che, secondo le osservazioni del c.t.p., sarebbe stata ottenuta con dati non attendibili in quanto modificabili opportunamente, ed ha rilevato inoltre che non sarebbero stati considerati molteplici parametri nel suddetto calcolo della velocità, concludendo che il c.t.u. avrebbe dovuto riferire al giudicante che nel caso di specie la velocità non poteva essere calcolata. Quanto alle osservazioni del difensore del convenuto, i rilievi critici attengono, per lo più, ad una attenta lettura della perizia ed contraddizioni del procuratore tant'è che il c.t.u. ha replicato al rilievo, che ha indicato come "punto 1", allegando che il c.t.u. si era già pronunciato sulla visibilità del nastro bianco e rosso e sul tempo di reazione della manovra supponendo che il (...) viaggiasse a 50 km/h; inoltre ha precisato il c.t.u. che il legale prima chiedeva di pronunciarsi sul tempo di reazione (circa 28 mt. dal punto di impatto) e successivamente riportava la risposta alla sua domanda ricalcando quella che lo stesso consulente aveva già riportato nella perizia; il procuratore del convenuto chiedeva al c.t.u. di pronunciarsi anche su una possibile velocità superiore o inferiore rispetto a quella determinata di 50 km/h e il consulente ha giustamente considerato "provocatoria" la richiesta, confermando che la velocità della vettura è stata calcolata con un ottimo grado di attendibilità; sulle ulteriori osservazioni - invero del tutto strumentali e affatto consone per essere qualificate "osservazioni alla c.t.u. - il consulente ha replicato ineccepibilmente facendo rilevare che il legale della parte convenuta si è soffermato sui provvedimenti autorizzativi ottenuti dal (...) per lo svolgimento della gara podistica ma debitamente omettendo di indicare l'orario delle ore 7:00 in cui si è verificato il sinistro e l'orario in cui, invece, si sarebbe dovuto chiudere la via N. al traffico veicolare in tal senso autorizzata per le ore 8:00; altresì ha replicato il consulente che la chiusura veicolare non era stata predisposta solo a salvaguardia dei podisti in quanto l'ordinanza prefettizia prevedeva l'apposizione di specifica segnaletica in corrispondenza delle intersezioni stradali interessate dal transito della gara in modo che - ha sottolineato - "tutti gli utenti della strada siano informati della sospensione temporanea della circolazione" oltre alla previsione di "idonea segnaletica indicante le eventuali deviazioni del traffico". Quanto accertato dal CTU - ad esclusione e limitatamente al punto in cui questo Tribunale si è già espresso per la non condivisione, cui si rimanda - trova altresì conferma nel complessivo compendio probatorio versato in atti. 6. Alla luce delle superiori considerazioni, provato il rapporto di custodia tra il (...) Associazione Dilettantistica e la res de qua in ordine all'episodio di cui al sinistro occorso a (...) il 12.10.2012 alle ore 7:00, provato il nesso eziologico tra res ed evento dannoso come acclarata all'esito dell'istruttoria e degli accertamenti tecnici, non avendo il convenuto offerto la prova del caso fortuito, anche in termini di fortuito incidentale, può ritenersi dimostrata e quindi affermata la responsabilità ex art. 2051 c.c. in capo al (...) avendo avuto la cosa custodita piena efficienza causale sull'evento dannoso di cui sopra. Era, dunque, sul convenuto che incombeva l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare l'evento dannoso occorso a parte attrice, fornendo la prova liberatoria che il danno si è verificato in modo non prevedibile né evitabile con lo sforzo diligente dovuto in relazione alle circostanze del caso specifico, circostanze tanto più aggravate proprio dall'inusitato comportamento del convenuto che nonostante l'arbitraria anticipata chiusura della strada al traffico veicolare - in dispregio dell'orario successivo in cui avrebbe dovuto in tal senso provvedere - non si è preoccupato della doverosa custodia e doverosa vigilanza della res né tantomeno di predisporre, come anche gli incombeva, idonea ed adeguata segnaletica di preavviso di deviazione e di chiusura della strada così impedendo all'attore anche la mera prospettazione di un possibile pericolo intrinseco della res nonostante nell'orario in cui il (...) si è trovato improvvisamente davanti all'ostacolo, nessun ostacolo avrebbe dovuto essere frapposto tra la res e l'utente della strada. La prova liberatoria - in verità ardua se non praticamente impossibile in considerazione delle circostanze di fatto sopra delineate - è rimasta del tutto indimostrata e non è stata offerta dal (...) convenuto, né può riconoscersi alcun pregio all'eccezione spiegata (invero, arditamente !) sulla condotta del danneggiato ricondotta dai resistenti alla inosservanza delle regole di prudenza ed accortezza (allegate come condotta di guida distratta, imperita, negligente; velocità inadeguata, etc.) che dunque avrebbe cagionato o residualmente concorso a cagionare il sinistro. Tale rappresentazione difensiva è connaturata da un pervicace profilo di temerarietà e tanto alla luce degli esiti probatori da ritenersi quali - quantitativamente, modalmente, cronologicamente - idonei a prodursi, così come descritto dall'attore, e pertanto risultano pienamente soddisfatti i criteri di giudizio riguardanti il nesso di causalità. Nell'ambito della responsabilità civile, contrattuale o aquiliana, si applicano i principi penalistici di cui agli artt. 40 e 41 c.p. (della condicio sine qua non temperato dalla causalità efficiente) per cui un evento si considera causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (riconducibile alla condotta tenuta dall'agente), nonché dal criterio della causalità adeguata sulla base della quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che, con valutazione ex ante, non appaiono del tutto inverosimili, ferma restando la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi, nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vale la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio". "Nella responsabilità civile, gli stessi principi valgono sia per il danno commissivo che omissivo, nel quale il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto, dato dalla inesistenza del comportamento positivo viceversa prescritto da una norma (specifica o generica) che astrattamente tendeva a prevenire lo specifico rischio dell'evento, poi verificatosi. A questo proposito, pare opportuno ricordare che la responsabilità "omissiva" /o commissiva mediante omissione) postula la preventiva individuazione del comportamento imposto (che si assume omesso) in capo al soggetto ritenuto responsabile, comportamento che si connota come presupposto preliminare per l'apprezzamento della condotta omissiva sul piano della causalità; nel senso che, non è possibile apprezzare l'omissione del comportamento sul piano causale se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulta tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva" (Cass. civ. ordinanza 7.11.2018, n. 28454). La verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso si sostanzia dunque nell'accertamento della probabilità positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante il cosiddetto giudizio "contro fattuale" che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto. Ne consegue che con riguardo alla responsabilità custodiale, essendo il custode tenuto ad esercitare attività di vigilanza e controllo della res affinchè non sia fonte di danno nei confronti dei terzi che entrano in contatto con essa, il giudice, accertata l'omissione di tale attività ed in assenza di fattori alternativi, può ritenere che tale omissione sia stata causa esclusiva dell'evento lesivo e che, per converso, la condotta doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento stesso. Di qui la necessità di accertare la relazione tra la condotta del custode e l'evento sulla base della menzionata regola del "più probabile che non", che impone, nella specie ed in concreto, di considerare sussistente il nesso causale attraverso quel criterio probabilistico cui si è accennato, potendosi pertanto ritenere che il giorno 28.10.2012 se il convenuto (...) non avesse chiuso la strada al traffico veicolare e non avesse collocato le barriere sulla sede stradale "alle ore 7:00 circa" - in assenza di qualsivoglia autorizzazione - non si sarebbe "certamente" verificato il danno conseguente al sinistro occorso all'attore nel transitare con la sua autovettura sulla via N.; parimenti, in via del tutto residuale e ipotetica, se il convenuto (...), pur in assenza di autorizzazione a porre in essere quelle attività alle ore 7:00 di quello stesso giorno - condotta peculiarmente e isolatamente idonea a fondare in ogni caso la sua responsabilità - avesse comunque cautelativamente e prontamente tenuto una condotta osservante di tutte le prescrizioni di prevenzione e segnalazione imposte dalla legge in caso di chiusura della strada (D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285) replicate e imposte anche dal provvedimento autorizzativo (contenente prescrizioni precedenti e contestuali la chiusura), tale comportamento avrebbe avuto fondata possibilità di evitare il danno patito dall'attore. Sotto altro profilo, a nulla rileva, poi, che l'attore avrebbe potuto, nell'eventualità, accorgersi dell'insidia, per le buone condizioni di visibilità (trattandosi delle prime ore del mattino, la luce del giorno che non richiedeva l'utilizzazione di illuminazione supplementare, potendosi dunque distinguere gli oggetti circostanti) essendo irrilevante, ai fini dell'attribuzione di responsabilità nella fattispecie ex art. 2051 c.c., il concetto di insidia elaborato dalla giurisprudenza in riferimento alla differente previsione dell'art. 2043 c.c. ed atta a connotare i presupposti di non visibilità ed imprevedibilità della situazione di pericolo. Di tal che non essendo stato dimostrato il caso fortuito, consegue, a norma dell'art. 2051 c.c., la mancanza della prova liberatoria della responsabilità del convenuto, custode della strada teatro del sinistro, non essendo emerso nessun elemento contrario che consenta di ritenere che abbia tempestivamente segnalato la presenza della barriere interdittive della circolazione veicolare e la chiusura della strada, fermo restando la pregiudiziale ragione che, comunque, alle ore 7:00 circa del giorno 28.10.2012, la strada doveva essere totalmente libera da ostacoli e perfettamente e interamente transitabile. 7. Accertato quanto sopra e stabilità l'applicabilità della responsabilità ex art. 2051 c.c., deve valutarsi anche l'eventuale concorso colposo del (...), tanto al fine di ridurre ex art. 1227 c.c., laddove risultasse provato, il risarcimento del danno dovuto al danneggiato. Sulla responsabilità ex art. 2051 c.c. può infatti influire la condotta della vittima sotto un duplice profilo: il primo con riguardo alla eventuale applicazione della regola posta dall'art. 1227 comma 1 c.c. che prevede la riduzione del risarcimento in presenza della colpa del danneggiato, proporzionalmente all'incidenza causale della stessa sull'evento dannoso, l'ulteriore profilo innesta la condotta della vittima che può assumere efficacia causale esclusiva (c.d. fortuito incidentale), tale da interrompere/elidere del tutto il nesso eziologico tra la cosa e l'evento dannoso soltanto qualora sia qualificabile come abnorme, cioè estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto ma su tale ipotesi si è già argomentato pervenendosi a conclusione negativa. La condotta influente della vittima rileva, secondo la più recente ed accorta impostazione dogmatica, non tanto in virtù del principio di autoresponsabilità postulato dalla tradizionale dottrina - ma non condiviso in termini dalla giurisprudenza di legittimità - per imporre ai potenziali danneggiati doveri di attenzione e diligenza e per indurli a contribuire, insieme con gli eventuali responsabili, alla prevenzione dei danni che potrebbero colpirli, quanto piuttosto per il principio di causalità, per cui al danneggiante non può farsi carico di quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile (cfr. Cass. n. 15779/2006, Cass. n. 15383/2006). La regola di cui all'art. 1227 c.c. va allora inquadrata esclusivamente nell'ambito del rapporto causale ed è espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno risarcibile quello che ciascuno procura a sé stesso (per tutte, cfr. Cass. n. 6988/2003) L'orientamento più accreditato della Suprema Corte afferma che non esiste un unicum di caso fortuito in relazione ai limiti di responsabilità del custode e precisa che da un lato sussiste il caso fortuito consistente in un fatto naturale o del terzo, ove si rinviene realmente l'imprevedibilità e l'inevitabilità, dall'altro, sussiste il ben diverso caso fortuito rappresentato dalla condotta del potenziale danneggiato e con riguardo a tale specie si precisa che la condotta in questione deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso all'art. 2 della Costituzione (non quindi al principio di autoresponsabilità) (cfr. Cass. civ., sez. VI, 9.7.2019, n. 18415). Con la conseguenza che quanto più la situazione di possibile pericolo può essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato di normali cautele prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompe il nesso causale tra fatto ed evento dannoso, quando, benché astrattamente prevedibile, sia da escludere come evenienza ragionevole ed accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale. In punto di diritto, ribadito che al cospetto dell'art. 2051 c.c. la condotta del danneggiato può rilevare unicamente nella misura in cui valga ad integrare il caso fortuito ossia presenti caratteri tali da "sovrapporsi" al modo di essere della cosa sì da porsi detta condotta all'origine del danno, ove tale danno consegua alla interazione fra il modo di essere della cosa in custodia e l'agire umano, non basta ad escludere il nesso causale fra la cosa e il danno stesso la condotta colposa del danneggiato, richiedendosi anche che la stessa si connoti per oggettive caratteristiche di "imprevedibilità" e "imprevenibilità" tali da determinare una definitiva elisione nella serie causale riconducibile alla cosa: "La eterogeneità tra i concetti di negligenza della vittima e imprevedibilità della sua condotta da parte del custode ha per conseguenza che, una volta accertata una condotta negligente, distratta, imperita, imprudente, della vittima del danno da cose in custodia, ciò non basta di per sé ad escludere la responsabilità del custode. Questa è infatti esclusa dal caso fortuito, ed il caso fortuito è un evento che praevideri non potest. L'esclusione della responsabilità del custode, pertanto, quando viene eccepita dal custode la colpa della vittima, esige un duplice accertamento: (a) che la vittima abbia tenuto una condotta negligente; (b) che quella condotta non fosse prevedibile. In questo senso, di recente, si è già espressa questa Corte, stabilendo che la mera disattenzione della vittima non necessariamente integra il caso fortuito per i fini di cui all'art. 2051 c.c., in quanto il custode, per superare la presunzione di colpa a proprio carico, è tenuto a dimostrare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire i danni derivanti dalla cosa (Sez. 3, Sentenza n. 13222 del 27/06/2016). La condotta della vittima d'un danno da cosa in custodia può dirsi imprevedibile quando sia stata eccezionale, inconsueta, mai avvenuta prima, inattesa da una persona sensata. Stabilire se una certa condotta della vittima d'un danno arrecato da cose affidate alla custodia altrui fosse prevedibile o imprevedibile è un giudizio di fatto, come tale riservato al giudice di merito: ma il giudice di merito non può astenersi dal compierlo, limitandosi a prendere in esame soltanto la natura colposa della condotta della vittima" (Cass. civ., , sez. III, ordinanza 31.10. 2017, n. 25837). Se la condotta della vittima può assumere, come precisato, efficacia causale esclusiva con l'effetto di spezzare il nesso causale tra la res e l'evento di danno, può verificarsi anche la diversa ipotesi in cui la condotta del danneggiato "si affianca" come ulteriore contributo utile nella produzione del danno ed in tal caso diviene rilevante ai fini del concorso causale ai sensi dell'art. 1227, comma 1, c.c., che - si è già detto - prevede la riduzione del risarcimento in presenza della colpa del danneggiato, proporzionalmente all'incidenza causale di tale colpa sull'evento dannoso (ex plurimis, cfr. Cass. civ., sez. III, 15.10.2010, n 21328; id. 22.4.2010, n. 9546; id. 21.1.2010, n. 1002; id. 28.10.2009, n. 22807; id. 8.5.2008, n. 11227). Applicando gli enunciati principi alla fattispecie concreta e valutato il comportamento tenuto dal (...) ai sensi dell'art. 1227, co. 1, c.c. nelle circostanze di cui al sinistro per cui è causa, deve escludersi che abbia contribuito alla sua causazione non essendo risultato che abbia potuto avere contezza alcuna della chiusura della strada comunale via N. per la manifestazione podistica organizzata dal convenuto e della presenza sulla sede stradale delle barriere di interclusione alla medesima via sulla quale l'attore si era immesso per recarsi sul luogo di lavoro, come faceva ogni giorno da 5 anni, né del resto, considerate tutte le circostanze del caso concreto, potendosi esigere dal (...) un contributo di attenzione esclusivamente polarizzato su un immaginario ostacolo preludio alla chiusura della strada dallo stesso percorsa ogni giorno per recarsi al lavoro e che dunque ben conosceva essere libera da ostacoli e aperta al transito, cosi dovendo presumersi e pretendersi in condizioni ottimali o quantomeno normali al pari di come lo era il giorno precedente, l'altro precedente ancora, la settimana prima, il mese prima, ecc.. In ogni caso, quand'anche si accerti una condotta negligente, distratta, imperita, imprudente della vittima del danno da cosa in custodia, ciò non basta di per sé ad escludere la responsabilità del custode potendo la condotta in questione escludere la responsabilità del custode in quanto possa reputarsi caso fortuito e può reputarsi tale quando fu imprescindibile da parte del custode nel senso che l'elisione della responsabilità è esclusa dal caso fortuito ed il "caso fortuito è un evento che praevederi non potest" e da tanto discende che: a) la vittima deve aver tenuto un comportamento negligente (colposo); b) quel comportamento non era prevedibile (dal custode). Nondimeno, unicamente per completezza argomentativa, i giudizi di negligenza della vittima e di imprevedibilità della sua condotta, non si implicano a vicenda: l'imprevedibilità da parte del custode della condotta della vittima va valutata con giudizio ex ante nel senso se il primo (il custode) potesse ragionevolmente attendersi una condotta negligente da parte dell'utente delle cose affidate alla sua custodia, ma nella questione che ci occupa non si può ignorare che il (...) non poteva (e non doveva) ritenere imprevedibile che in quelle circostanze di tempo e di luogo gli utenti della strada transitassero sulla via N.. Pertanto, la mera disattenzione della vittima "non necessariamente integra il caso fortuito" per i fini di cui all'art. 2051 c.c. in quanto il custode è tenuto a dimostrare anche "di aver adottato tutte le misure idonee a prevenire i danni derivanti dalla cosa" (cfr. Cass., 27.06.2016, n. 13272; Trib. Civitavecchia n. 239/2017) e la condotta della vittima di un danno da cose in custodia è idonea ad escludere la responsabilità del custode quando può ritenersi imprevedibile, eccezionale ed anomala da parte dello stesso custode (arg. ex Cass. n. 2660/2013; Cass. n. 15389/2011; Cass. n. 11016/2011). Va replicato che il fatto del terzo e la colpa del danneggiato escludono la responsabilità del custode in quanto intervengano nella determinazione dell'evento dannoso con un impulso "autonomo" e con i caratteri già enunciati dell'imprevedibilità ed inevitabilità, i quali non ricorrono nel fatto che il custode possa "prevenire" esercitando i poteri di vigilanza che gli competono. Per i principi di diritto e le argomentazioni fin qui illustrate, non colgono dunque nel segno le contrarie allegazioni delle parti resistenti nella qualificazione della condotta dell'attore come unica ed esclusiva causa del danno ovvero come condotta concorrente alla sua determinazione, e, del resto, dal compendio probatorio acquisito al processo, compresa la CTU espletata, è risultato l'esatto contrario. Il sinistro occorso al (...) non è dunque configurabile per il custode come evento imprevedibile nè imprevenibile e allora e la valutazione dell'eventuale concorso di colpa del danneggiato non può che deporre in senso negativo non configurandosi alcun suo apporto di responsabilità in proporzione dell'incidenza causale, con la conseguenza che rimane integro il nesso causale manifestamente insito nel fatto stesso che il sinistro è stato originato dalla interazione (prevedibile e prevenibile da parte del custode) fra la cosa resa pericolosa da chi aveva l'obbligo di custodia e vigilanza e l'agire umano. 9. L'attore ha chiesto il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a seguito del sinistro, danni che vengono riconosciuti nei termini che seguono. La liquidazione del danno non patrimoniale da lesione della salute, sia di natura permanente che temporanea, costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tener conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dal danneggiato nella sua persona complessivamente considerata, a prescindere da qualsiasi valutazione di carattere reddituale, costituendo una posta di danno connessa alla lesione della persona fisica in sé riguardata al di là della specifica attitudine del soggetto a procacciarsi reddito, la cui eventuale lesione trova adeguato rimedio mediante il riconoscimento del danno patrimoniale da lucro cessante.. Nel caso di specie, la liquidazione in via equitativa del danno non patrimoniale può essere ricondotta ai criteri fissati nella disciplina del Codice delle Assicurazioni private (D.Lgs. n. 209 del 2005) e dall'ultimo Decreto del Ministero dello sviluppo economico 22 luglio 2019 (pubblicato su G.U. serie generale n. 189 del 13.8.2019) di aggiornamento degli importi dei danni di lieve entità alla persona, con decorrenza aprile 2019. Il danno biologico è definito dagli artt. 138 e 139 del D.Lgs. n. 209 del 2005 quale "lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente dalle eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito" e questo giudice aderisce all'orientamento a termini del quale l'area del danno risarcibile va anzitutto ricondotta nell'ambito delle due sole categorie del danno patrimoniale (art. 2043-1218 c.c.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), ambito, quest'ultimo, nel quale deve ora ritenersi collocato il danno biologico. Altresì, occorre precisare che l'art. 139 Cod. Ass. subordina la risarcibilità delle lesioni di lieve entità ad un "accertamento medico legale" ma tale espressione deve essere interpretata nel senso che il danno biologico permanente va acclarato con l'applicazione rigorosa dei criteri insegnati dalla medicina legale, non limitati però ai soli referti di esami strumentali ma ammettendo anche fonti di prova diverse che dimostrino l'esistenza del danno e della sua genesi causale, anche in base presuntiva, purché ricorrano indizi gravi, precisi e concordanti, ai sensi dell'art. 2719 c.c.: "non l'assenza di riscontri diagnostici strumentali impedisce il risarcimento del danno alla salute con esiti micro-permanenti, ma piuttosto l'assenza di una ragionevole inferenza logica della sua esistenza stessa, compiuta sulla base di qualsivoglia elemento probatorio od anche indiziario, purché in quest'ultimo caso munito dei requisiti di cui all'art. 2729 c.c." (cfr. Cass. civ., sez. III, 29.11.2019, n. 31072). Dalla documentazione prodotta in atti dall'attore ed in particolare dal referto del Pronto Soccorso del P.O. di Avezzano del 28.10.2012, ore 9.11, prestazione n. 2012/39385 (doc. 2 indice di parte attrice) risulta nella diagnosi di dimissione "contusione escoriata ginocchio dx, trauma distrattivo rachide cervicale" con prognosi di "giorni 7 s.c." (doc. 2), che non è stata oggetto di contestazione ad opera delle controparti e costituisce quindi valida prova della lesione e del danno ivi accertato ossia 7 giorni di inabilità. In realtà, la richiesta risarcitoria dell'attore per le lesioni subite, in punto di quantum del danno biologico assoluto e temporaneo, non è sorretta, quantomeno in parte, da adeguato riscontro probatorio, né il giudice può far ricorso a elementi indiziari non rappresentandosi, in concreto, circostanze che nello specifico consentano di desumere che il periodo di invalidità temporanea assoluta sia stato di 10 giorni anzichè di 7 giorni (come risulta documentalmente) né l'attore ha allegato argomenti suffraganti l'estensione del periodo di invalidità assoluta, con la conseguenza che il periodo di ITA da considerare ai fini della liquidazione si attesta in 7 giorni. Analogamente, per le stesse ragioni, alla generica allegazione di un'invalidità temporanea parziale di 20 giorni al 50%, non ha fatto seguito alcun riscontro probatorio, dovendosi pertanto escludere il riconoscimento e la liquidazione per il corrispondente titolo di danno temporaneo. Applicando, dunque, i criteri fissati nella disciplina del Codice delle Assicurazioni private (D.Lgs. n. 209 del 2005) e dall'ultimo Decreto del Ministero dello sviluppo economico 22 luglio 2019, avuto riguardo al caso concreto e al referto ospedaliero - P.S. di Avezzano - acquisto agli atti del processo, circa il quantum si provvede alla liquidazione in via equitativa e può dunque riconoscersi a titolo di danno non patrimoniale, tenuto conto della natura delle lesioni riportate, del grado di invalidità residuato e dell'età del danneggiato (anni 43 all'epoca della stabilizzazione del danno biologico): - Invalidità temporanea totale (gg. 7 x Euro 47,49) = Euro 332,42 - Danno biologico 1% = 679,92 (valore per punto base Euro 814,27 con decremento per età, 43 anni, ai sensi dell'art. 139, comma 1, lett. a) Cod. d. Ass.). Totale danno biologico risarcibile Euro 1.012,34 (Euro 332,42 + 679,92). Su tale somma, già rivalutata all'attualità secondo le tabelle aggiornate al 2019, avuto riguardo ai principi enunciati dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con la sentenza del della 17.2.1995, n. 1712, va riconosciuta la rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat FOI dal 2019 (aprile 2019 data di entrata in vigore del D.M.) e fino alla data di pubblicazione della presente decisione (trattandosi di obbligazione di valore) e, sulla somma così rivalutata, gli interessi al tasso legale dalla pubblicazione della sentenza sino al saldo effettivo. Non vi sono state incidenze sulla capacità lavorativa generica o specifica e pertanto nulla compete all'attore a tal titolo. Non sussistono i presupposti per individualizzare ulteriormente il danno non patrimoniale al caso di specie e dunque nessuna personalizzazione può essere riconosciuta al danneggiato per la componente del danno morale richiesto e quantificato in Euro 520,00 ricondotto alla "impossibilità di utilizzare l'unico autoveicolo di sua proprietà necessario all'intera famiglia, con conseguenti e radicali modifiche alla vita di relazione" e al fatto che il (...) "ha dovuto limitare i suoi spostamenti e cambiare radicalmente le proprie abitudini di vita". Tali conseguenze sono ricomprese non solo nella valutazione del danno già liquidato ma nemmeno appaiono circostanze "eccezionali o anomale" come tali ulteriori e peculiari rispetto alla condizione di inabilità che normalmente consegue a chi ha subito un evento di danno consimilare a quello del (...). La somma liquidata a titolo di danno non patrimoniale deve ritenersi integralmente riparatrice di tutti i pregiudizi sofferti non essendo stato dimostrato alcun elemento peculiare al caso in esame tale da consentire una diversa applicazione del punto danno riconosciuto al quale non segue automaticamente la personalizzazione del danno a titolo di ulteriore pregiudizio che sia stato meramente allegato, occorrendo invece la prova concreta dell'effettivo e maggiore pregiudizio sofferto che si sostanzia nella dimostrazione di circostanze di danno ulteriori rispetto a quelle ordinarie già ricomprese nella liquidazione forfettizzata tabellare. In proposito occorre precisare che per danno non patrimoniale, sulla scorta del dato normativo di cui agli artt. 138 e 139 C.d.A., nell'accertare la lesione non patrimoniale del danno alla salute, il giudice deve analizzare congiuntamente, ma distintamente, il danno morale inteso come sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute e il danno dinamico-relazionale che è destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto danneggiato (Cass. civ. sez. 3, ord. 20.8.2018, n. 20795, Rv. 650413-01). E' indubbio che l'attribuzione di una somma a titolo di risarcimento del danno biologico e altra somma per il risarcimento del patimento interiore non rappresenta una duplicazione risarcitoria, infatti, il cosiddetto pretium doloris, pur non avendo fondamento medico legale, se adeguatamente dimostrato può formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (cfr. Cass. civ. sez. III, ordinanza 27.3.2018 n. 7513) sulla scorta del principio che la lesione del diritto alla salute comporta la compromissione di tutte le attività quotidiane della vittima (fare, essere, apparire), con la conseguenza che il danno arrecato alla salute è un danno dinamico-relazionale, giacché se così non fosse, non vi sarebbe un pregiudizio medicalmente (e legalmente) apprezzabile. Se le suddette conseguenze costituiscono un danno non patrimoniale che comporta una menomazione permanente sulle attività del quotidiano del danneggiato, non vi è diversità del danno biologico, dovendosi inoltre considerare la distinzione tra "conseguenze comuni" a tutte le persone, in dipendenza di quella tipologia di danno e "conseguenze peculiari" attinenti al caso concreto, in cui il pregiudizio sofferto dalla vittima è superiore alla media. La liquidazione delle prime (conseguenze comuni) postula unicamente la dimostrazione della sussistenza dell'invalidità mentre la liquidazione delle seconde (conseguenze peculiari) esige la prova concreta dell'effettivo (e maggior) pregiudizio sofferto. In tale quadro, il pregiudizio invocato dall'attore - invero genericamente - consistito nell'aver perso la possibilità di utilizzare l'autoveicolo poiché danneggiato o la possibilità di svolgere una qualsiasi attività del quotidiano, non può che ritenersi ricompreso in quello che si definisce "conseguenza normale" del danno, ossia nella situazione in cui si trovano tutti i soggetti che siano incorsi in una tipologia di danno consimile, che allora deve ritenersi risarcita con la liquidazione del danno biologico. Al contrario, ricomprendere nell'ambito di una "conseguenza peculiare" l'allegazione del pregiudizio invocato dall'attore significherebbe riconoscere il risarcimento aumentando la stima del danno biologico, attraverso la sua "personalizzazione", operazione che impone al giudice di far emergere e valorizzare, dandone conto con adeguata motivazione "in coerenza alle risultanze argomentative e probatorie obiettivamente emerse ad esito del dibattito processuale, specifiche circostanze di fatto, peculiari al caso sottoposto ad esame, che valgano a superare le conseguenze "ordinarie" già previste e compensate dalla liquidazione forfettizzata assicurata dalle previsioni tabellari" (così Cass. Sez. 3, sent. 21 settembre 2017, n. 21939, Rv. 645503 01), e ciò in quanto "le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l'"id quod plerumque accidit" (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento" (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, ord. 7513 del 2018, cit.)" (Cass. civ., sez. 3, 27.5.2019, n. 14364); "la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata, nella sua componente dinamico-relazionale, solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali: le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo "l'id quod plerumque accidit" (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità ovvero lesione non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento; in questo senso, va ribadito che ai fini della c.d. "personalizzazione" del danno forfettariamente individuato (in termini monetari) attraverso i meccanismi tabellari cui la sentenza abbia fatto riferimento (e che devono ritenersi destinati alla riparazione delle conseguenze "ordinarie" inerenti ai pregiudizi che qualunque vittima di lesioni analoghe normalmente subirebbe), spetta al giudice far emergere e valorizzare, dandone espressamente conto in motivazione in coerenza alle risultanze argomentative e probatorie obiettivamente emerse ad esito del dibattito processuale, specifiche circostanze di fatto, peculiari al caso sottoposto ad esame, che valgano a superare le conseguenze "comuni" già previste e compensate dalla liquidazione forfettizzata assicurata dalle previsioni tabellari; da queste ultime distinguendosi siccome legate all'irripetibile singolarità dell'esperienza di vita individuale nella specie considerata, meritevoli in quanto tali di tradursi in una differente (più ricca e, dunque, individualizzata) considerazione in termini monetari, rispetto a quanto suole compiersi in assenza di dette peculiarità (Cass., 21/09/2017, n. 21939); ..." (Cass. civ., sez. III, n. 4878 del 19.02.2019). In applicazione al caso di specie dei principi di diritto che precedono, non constano motivi per discostarsi, in più od in meno, dal valore medio di liquidazione del danno, non avendo l'attore assolto l'onere probatorio su di esso gravante, di dimostrare l'esistenza e l'entità del preteso riconoscimento del danno morale (e/o esistenziale), difettando quindi ogni elemento utile, circostanze di fatto specifiche e peculiari che consentano di considerare il riconoscimento della personalizzazione del danno, nondimeno, dall'esperita istruttoria (attraverso le prove precostituite e costituende) non sono emersi dati ed elementi significativi da far presumere che l'attore ha patito un ulteriore pregiudizio (morale o esistenziale o dinamico-relazionale) come tale "peculiare", con la conseguenza che nessun risarcimento aggiuntivo spetta alla parte attrice rispetto a quanto già liquidato a titolo di danno non patrimoniale sotto la voce danno biologico tenuto conto, altresì, della modesta entità dei postumi dalla stessa riportati. 9.1. Spetta all'attore anche il risarcimento del danno patrimoniale, da determinarsi, però, in misura inferiore rispetto alla somma richiesta di Euro 7.016,68 per la riparazione del veicolo (...) di sua proprietà, somma così originariamente stimata dalla (...) Srl, cui si era rivolto l'attore, come da preventivo del 4.3.2013 prodotto in atti (doc. 13), mentre non può essere riconosciuto il danno da c.d. fermo tecnico (gg.15) quantificato nella somma di Euro 600,00. Quanto alla prima voce di danno, la parte attrice (successivamente all'originaria quantificazione del danno formulata nell'atto introduttivo del giudizio) ha prodotto, in uno con la memoria istruttoria ex art. 183, co. 6, n. 2 c.p.c., depositata in telematico il 16.11.2015, la fattura emessa dalla citata (...) n. (...) in data 13.11.2015 recante l'importo totale di Euro 5.000,00 (comprensivo di Iva) (doc. 14) - le cui voci di danno e di spesa per le riparazioni effettuate sul veicolo dell'attore sono state tra l'altro confermate in sede testimoniale da (...), legale rapp.te (capp. 10 e 11 mem. istrutt. cit.) - senza però emendare nei successivi atti difensivi il quantum dell'originaria richiesta per il titolo dedotto pur essendo evidente, dal riscontro documentale (doc. 14) e dalle dichiarazioni rese dal teste di riferimento, che il costo delle riparazioni si attesta nella somma di Euro 5.000,00 di cui alla fattura. Quanto alla seconda voce di danno, non può essere riconosciuto il danno c.d. da fermo tecnico dell'automezzo richiesto in Euro 600,00 calcolato assumendo un costo giornaliero di Euro 40,00 per giorni 15 asseritamente necessari all'esecuzione delle riparazioni. Infatti, oltre a non essere stato provato dal richiedente l'arco temporale del fermo tecnico né il parametro in base al quale è stato determinato il costo giornaliero, la voce di danno in questione, invero, nonostante intrinsecamente connessa al sinistro stradale ed alla patita lesione del diritto soggettivo al godimento ed alla disponibilità del veicolo danneggiato per il tempo necessario alla sua riparazione, non può essere risarcito in re ipsa né sulla mera allegazione della parte che lo invoca. Questo giudice non ignora che secondo una parte della giurisprudenza di merito e di legittimità, è possibile la liquidazione equitativa di detto danno anche in assenza di prova specifica, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato dell'autoveicolo per un certo periodo, anche a prescindere dall'uso effettivo a cui esso era destinato. A tale orientamento si contrappone altra parte della giurisprudenza - le cui argomentazioni appaiono maggiormente condivisibili - che in un recente arresto (Cass. civ., sez. 3, ordinanza 4.4.2019, n. 9348), nel richiamare precedenti conformi (Cass. 07/02/1996, n. 970; Cass. 19/11/1999, n. 12820), ha affermato la non risarcibilità "automatica" del danno da fermo tecnico in quanto: a) non trovano ingresso nel nostro ordinamento danni in "re ipsa", giacchè, in primo luogo, il danno non coincide con l'evento dannoso ma individua le conseguenze da esso prodotte, in secondo luogo, ammettere il risarcimento del danno per la mera lesione dell'interesse giuridicamente protetto, significherebbe utilizzare la responsabilità civile in funzione sanzionatoria, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge (ex plurimis, Cass. 4.12.2018, n. 31233); b) la liquidazione equitativa non può sopperire al difetto di prova del danno, giacchè essa presuppone che il pregiudizio del quale si invoca il risarcimento "sia stato accertato nella sua consistenza ontologica" e se tale certezza non sussiste, il giudice non può procedere alla quantificazione in via equitativa del danno, non sottraendosi tale ipotesi all'applicazione del principio dell'onere della prova quale regola di giudizio, secondo il quale se l'attore non ha fornito la prova del suo diritto, la sua domanda deve essere rigettata, atteso che il potere del giudice di liquidare equitativamente il danno ha la sola funzione di "colmare le lacune insuperabili" ai fini della sua precisa determinazione (Cass. civ., 14.5.2018, n. 11698). Tanto giustifica il mancato riconoscimento del danno da fermo tecnico dell'autovettura (...). Diversamente dicasi per ciò che concerne la liquidazione del danno arrecato all'autovettura di proprietà dell'attore, seppur nei limiti che seguono. In proposito, la parte convenuta, nel contesto delle argomentazioni difensive spiegate nella comparsa di costituzione, ha contestato l'importo risarcitorio del danno di Euro 7.016,68 richiesto dall'attore in quanto superiore al valore del veicolo, allegando che il valore commerciale della (...) non era superiore ad Euro 3.100,00 (fonte quattroruote 2010-docc. 11 e 12) La terza chiamata (...) ha evidenziato e rilevato la medesima questione di antieconomicità della riparazione allegando che il danno richiesto dall'attore non poteva essere liquidato in misura superiore al valore che il bene aveva al momento del sinistro, detratto il prezzo del relitto. Per ordine del giudice ex art. 210 c.p.c. (...) ha successivamente depositato in telematico in data 22.6.2016 estratto di perizia del proprio consulente di parte, Studio (...), da cui risulta la valutazione del veicolo dell'attore nell'importo "antesinistro" di Euro 1.600,00 al quale vanno aggiunte le spese del fermo recupero analogo mezzo (F.R.A.M.) nonché le spese di immatricolazione di un veicolo similare ottenuto per differenza tra il valore commerciale di Euro 1.700,00 dell'autovettura immatricolata nell'anno 2003 (fonte quattroruote: così dall'estratto di perizia) e il valore relitto di Euro 100,00. In sintesi, le parti resistenti assumono che ai fini risarcitori, quando il valore del danno è antieconomico ed è superiore al valore del mezzo deve essere preso in considerazione tale ultimo parametro non potendo il danno essere liquidato in misura superiore al valore che aveva il bene stesso al momento del sinistro, detratto il prezzo del relitto, poiché, diversamente - sostiene (...) -, "si assisterebbe ad un ingiusto aggravamento della posizione del danneggiante, che è tenuto alla restitutio in integrum, ovvero a ricostruire il patrimonio del danneggiato al momento dell'evento, non già a migliorarlo". Orbene, a fronte della richiesta risarcitoria della parte attrice per il costo delle riparazioni del veicolo incidentato - che, si ribadisce, non può essere la somma di Euro 7.016,68 ma quella eventualmente esigibile e documentata nel minor importo di Euro 5.000,00 - la parte convenuta (...) ritiene che detta pretesa, in ogni caso contestandone preliminarmente la debenza, non possa superare la somma di Euro 3.100,00 corrispondente al valore commerciale dell'autovettura; la terza chiamata (...) ritiene che per il medesimo titolo, ferma e contestata la debenza, in denegata ed inverificata ipotesi di positivo accertamento della pretesa ex adverso formulata, non possa essere riconosciuto all'attore un importo superiore al valore per differenza (tra il valore commerciale e il valore relitto) di Euro 1.600,00 oltre alle spese indicate nell'estratto di perizia del proprio consulente. Ciò posto, prendendo in considerazione i danni causati ad un'autovettura in seguito ad un sinistro, in punto di diritto il parametro di riferimento della liquidazione è costituito dall'art. 2058 c.c. in base al quale: "Il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile. Tuttavia il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore". Esistono pertanto due forme di risarcimento, quello in forma specifica che è diretto al conseguimento della stessa identica prestazione dovuta, nel qual caso l'oggetto della pretesa non è costituito da una somma di denaro ma dalla riparazione del veicolo in questione, e quello per equivalente che consiste nell'attribuzione di somma di denaro pari al valore del danno subito dall'autovettura. La prima forma di risarcimento è, di regola, sicuramente più dispendiosa per il debitore tenuto alla prestazione, pertanto, è proprio il citato art. 2058 c.c. che consente al giudice di disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, laddove la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa. Sulla ermeneusi della norma, il giudice di legittimità ha precisato che "La domanda di risarcimento del danno subito da un veicolo a seguito di incidente stradale, quando abbia ad oggetto la somma necessaria per effettuare la riparazione dei danni, deve considerarsi come richiesta di risarcimento in forma specifica, con conseguente potere del giudice, ai sensi dell'art. 2058, secondo comma, cod. civ., di non accoglierla e di condannare il danneggiante al risarcimento per equivalente, ossia alla corresponsione di una somma pari alla differenza di valore del bene prima e dopo la lesione, allorquando il costo delle riparazioni superi notevolmente il valore di mercato del veicolo (Cass. civ., sez. VI, ordinanza del 4.11.2013, n. 24718 e Cass. civ. sez. 3, sentenza 12.10.2010, n. 21012)" (Cass. civ., sez. III, 8.1.2016, n. 124). E' da rilevare come l'art. 2058, comma 2, "rimetta" alla discrezionalità del giudice la valutazione circa l'applicazione del c.d. risarcimento per equivalente, infatti, la sentenza del giudice di legittimità sopra richiamata menziona "il potere" (e non l'obbligo) del giudice di condannare il danneggiante al risarcimento per equivalente pari alla differenza di valore del bene prima e dopo la lesione. Ne consegue che il giudice potrà condannare il danneggiante per equivalente solo se si configura un arricchimento per il danneggiato e non in qualunque caso e ciò non vuol dire che la liquidazione del danno debba essere limitata soltanto al valore del bene danneggiato perché altrimenti non si terrebbe conto del pregiudizio effettivo da quest'ultimo subito che verrebbe totalmente assorbito e posto ad unico ed esclusivo carico dello stesso danneggiato, lasciando indenne e/o favorendo il debitore. Per tale ragione, al valore ante sinistro dell'autoveicolo vanno aggiunte le spese integrative quali quelle del f.r.a.m., di immatricolazione di un veicolo similare, di fermo tecnico. E' da rilevare, altresì, in particolare, che il risarcimento per equivalente può essere usato come criterio di liquidazione del danno nell'ipotesi ex art. 2058, comma 2, nei casi di particolare difficultas praestandi del debitore dell'obbligazione risarcitoria in forma specifica: nella specie non è dato riscontrare una siffatta difficoltà di adempimento. Non da ultimo, occorre tener conto anche della posizione del creditore danneggiato che ha (o aveva) nel suo patrimonio un bene (l'autovettura) che non costituisce, in sé, un valore statico e/o un mero valore patrimoniale, ma assolve ad un'utilità pratica rilevante, in funzione di consentire al proprietario danneggiato gli spostamenti nei luoghi prescelti dove intende recarsi per qualsivoglia motivo o ragione; in tal senso, la sostituzione del risarcimento in forma specifica con quello per equivalente non consente di risarcire in pieno il danno subito dal proprietario del veicolo danneggiato. Tanto consente, di replicare, incidentalmente, alla terza chiamata che ha sottolineato l'ingiusto aggravamento della posizione del debitore danneggiante qualora la liquidazione del danno avvenga in misura superiore al valore del bene dato dalla differenza tra il suo valore commerciale e il valore relitto, in tal modo però si rimettono al danneggiato le conseguenze negative, o parte rilevante di esse, nonostante aventi causa dal danneggiante. Nella specie, questo giudice non ritiene di poter sostituire il risarcimento pari al valore del bene con quello in forma specifica conseguente all'ammontare delle riparazioni eseguite dalla parte attrice sull'autovettura (...) danneggiata, non senza considerare che l'attore ha materialmente sostenuto il costo di riparazione a dimostrazione del fatto che il vulnus subito per effetto del sinistro era da individuare non solo nel valore del bene in sé e per sé, ma anche nella funzionalità e nell'utilità che lo stesso poteva assolvere in condizioni di perfetta integrità. Non è in discussione che corollario ai predetti principi è che il risarcimento non possa comunque creare a favore del danneggiato una situazione più vantaggiosa rispetto a quella in cui si sarebbe trovato in assenza del sinistro, immettendo nel suo patrimonio un valore economico maggiore della differenza patrimoniale negativa indotta dallo stesso e ciò per via della regola della "compensatio lucri cum damno" per la quale dalla pretesa quantitativa del danno vanno detratti gli eventuali vantaggi che il fatto dannoso abbia procurato al danneggiato come conseguenza diretta e immediata. Da un lato, perciò, il danneggiato non deve realizzare una locupletazione per effetto del danno subito, dall'altro, la liquidazione del danno non deve essere necessariamente contenuta nei limiti di valore del bene danneggiato, ma deve avere per oggetto l'intero pregiudizio subito dal soggetto leso poiché, appunto, il risarcimento è diretto alla completa restituto in integrum del suo patrimonio e ciò sta a significare che il giudice, laddove la riparazione del pregiudizio subito vada oltre la ricostruzione della situazione anteriore e produca un vantaggio economico al danneggiato, dovrà tenerne conto riducendo corrispondentemente la misura del risarcimento; dall'altro lato, nemmeno risponde a principi di equità e giustizia l'effetto contrario laddove il soggetto tenuto al risarcimento acquisisca egli stesso un vantaggio rispetto all'integrale obbligazione restitutoria cui è tenuto, attraverso il ristoro solo parziale del pregiudizio nei confronti dell'avente diritto così realizzando esso sì una locupletazione. In ogni caso, è notorio che a seguito delle riparazioni che si rendano necessario a causa del fatto dannoso, rappresenta ipotesi quantomeno inverosimile che un automezzo acquisti un valore commerciale più elevato essendo invece più frequente che il complesso delle utilità che l'automezzo produce aumenti grazie alle sostituzioni di pezzi che ne garantiscono una più elevata funzionalità. La Suprema Corte, con condivisibile orientamento ha affermato che laddove "la funzione tipica del risarcimento è di porre il patrimonio del danneggiato nelle medesime condizioni in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non si fosse prodotto, per cui qualora la riparazione del pregiudizio subito vada oltre la ricostruzione della situazione anteriore e produca un vantaggio economico al danneggiato, il giudice deve tenerne conto, riducendo corrispondentemente la misura del risarcimento" (Cass. civ. sez. III, 14.6.2001, n. 8062; Trib. Padova, 15.2.2010, n. 9727). Riveste allora importanza nella determinazione del danno in caso di riparazioni antieconomiche (danno superiore al valore del veicolo prima del sinistro) l'analisi del caso concreto partendo dalle spese effettivamente sostenute per la riparazione del mezzo ed anche il valore ante sinistro dell'autovettura, la sua vetustà, il deprezzamento subito a seguito del sinistro; tenuti in considerazione tutti tali parametri, può essere ridotto proporzionalmente l'importo chiesto a ristoro del danno laddove tale somma sia produttiva di un vantaggio economico al danneggiato rispetto ai danni effettivamente subiti. Alla luce delle considerazioni svolte, tenuto conto di tutti gli evidenziati parametri ed anche dei rilievi formulati dalle parti resistenti quanto al valore ante sinistro dell'autovettura immatricolata nel 2003 (valore commerciale stimato dal convenuto in Euro 3.100,00, mentre la terza chiamata (...) ha attributo un valore commerciale, per differenza, di Euro 1.600,00) delle varie voci di ripristino desumibili dalla fattura n. (...) di Euro 5.000,00 acquisita in atti (doc. 14 cit.), confermata dal testimone escusso (...), si reputa equo determinare il valore equivalente di ripristino corrispondente al danno subito da (...) riducendo la misura del risarcimento con applicazione di una decurtazione del 50% dovuta allo stato di presumibile usura preesistente al sinistro, pervenendosi alla minor somma di Euro 2.500,00 a fronte del maggior costo delle riparazioni dell'autovettura (...) documentate in atti. Il danno patrimoniale si determina pertanto in Euro 2.500,00 e trattandosi di debito di natura risarcitoria, dunque di valore, è soggetto a rivalutazione secondo gli indici Istat FOI dalla data in cui la spesa è stata sostenuta (13.11.2015, fattura n. (...)) e sulla somma rivalutata fino alla data di pubblicazione della presente decisioni vanno aggiunti gli interessi al tasso legale sino all'epoca del soddisfo. In definitiva, il danno non patrimoniale e patrimoniale subito dall'attore, a seguito del sinistro per cui è causa, si determina complessivamente in Euro 3.534,25 oltre rivalutazione e interessi al tasso legale nei termini in precedenza disposti. 10. Come accennato nelle premesse, il (...) ha chiamato in causa (...) S.p.A., quale compagnia assicuratrice per la responsabilità civile verso terzi (doc. 14 indice di parte convenuta) al fine di essere garantita e manlevata da qualsiasi onere economico derivante a suo carico ed in favore dell'attore, in denegata ipotesi del riconoscimento di responsabilità, dalla pronuncia condannatoria a seguito del sinistro del 28.10.2012. La domanda è ammissibile ai sensi dell'art. 106 c.p.c. e costituisce domanda di garanzia (impropria) in quanto il convenuto chiamante ha inteso riversare sul terzo le conseguenze della lite in cui è coinvolto, in base ad un titolo diverso da quello dedotto con la domanda principale proposta dalla parte attrice. Ferma, dunque, la responsabilità del convenuto in quanto custode, deve essere accolta la sua domanda di manleva nei confronti della sua compagnia di (...) S.p.A.. Invero, l'episodio dannoso per cui è causa lamentato dalla parte attrice, si è indubbiamente verificato alla luce della vigenza della garanzia assicurativa (31.12.2011 - 31.12.2012) prestata dalla Compagnia chiamata in causa e tanto si rileva anche dalla Polizza n. (...) stipulata dal contraente Fidal, Federazione Italiana atletica leggera - alla quale è affiliato o comunque tesserato il (...) - con (...) e da questa dimessa in atti (allegato A- 2 memoria istruttoria telematica depositata dalla terza chiamata il 16.11.2015). Conseguentemente non vi è apparente ragione per escludere, sul piano temporale, l'operatività della suddetta garanzia assicurativa che il convenuto ha inteso pretendere dalla terza chiamata. Pertanto, per effetto dell'accoglimento della domanda di garanzia, (...) SpA deve essere dichiarata tenuta e condannata a tenere indenne la propria assicurata, parte convenuta in causa, con la rifusione al (...) assicurato di quanto è tenuto a pagare in favore dell'attore in dipendenza della presente decisione (per danno patrimoniale e non patrimoniale e per spese di lite) nei limiti delle condizioni di polizza, dei massimali di polizza e tenuto conto delle franchigie contrattualmente previste. 10.1. La difesa di (...) ha chiesto dichiararsi la nullità e/o l'inutilizzabilità della CTU e ordinarne il rinnovo a mezzo di altro Ausiliario ovvero di riconvocare il Consulente d'Ufficio a chiarimenti ed a rispondere sulle osservazione del proprio Consulente di parte. L'esaustività, ai fini della decisione, degli elementi cui fin qui si è fatto riferimento rende ultroneo l'espletamento di qualsiasi ulteriore attività istruttoria, con la conseguenza che vanno disattese anche in questa sede tutte le istanze della terza chiamata, formulate in sede di precisazione delle conclusioni, invero del tutto dilatorie e defatigatorie, comunque prive di pregio e rilievo ai fini decisori. Orbene, innanzi tutto il convenuto non ha dimostrato la sussistenza del caso fortuito né di un comportamento colposo del danneggiato tale da integrare quantomeno un concorso di colpa ai sensi dell'art. 1227, 1 comma, c.c., conseguendone il mancato assolvimento dell'onere di dare la prova liberatoria ai sensi dell'art. 2051 c.c., e tanto rende superabile l'inutile accertamento di altre circostanze che pure sono state chiarite nell'ambito del processo soprattutto in ordine alla effettiva dinamica del sinistro di cui è stato vittima l'attore. Altresì, il CTU ha replicato compiutamente ed esaustivamente alle osservazioni critiche del CTP Guido Campana che, al di là di mere congetture meramente oppositive, prive di concretezza, nulla ha proposto in termini di specificità sulla non corretta valutazione del CTP del calcolo della velocità posseduta dall'autoveicolo condotto dal (...), nel senso che il consulente di parte ne ha contestato il calcolo senza tuttavia sviluppare una diversa ipotesi di calcolo e senza indicare quale sia stata, invece, a suo giudizio, la velocità tenuta dal veicolo. La strumentalità delle critiche del consulente (...) si è manifestata nella sua "strumentale" significatività sul punto dei dati utilizzati dal CTU per il calcolo della distanza di avvistamento delle barriere da parte dell'attore, dati che il consulente di parte ha utilizzato quale argomento di contestazione ma li ha riproposti come propri con identico calcolo così pervenendo alle medesime conclusioni e alla medesima distanza metrica necessaria ad arrestare il veicolo calcolata dall'ausiliario. I chiarimenti "tutti" sono stati esaurientemente già forniti dal CTU e questo giudice non può che ribadire la propria condivisione alle conclusioni cui è pervenuto l'ausiliario per le ragioni già ampiamente spiegate in precedenza che qui si richiamano e si riconfermano integralmente. L'istanza formulata dalla terza chiamata va dunque disattesa e respinta. Nessuna altra domanda formulata rispettivamente da tutte le parti in causa merita accoglimento. 11. Le spese di lite seguono ex art. 91 c.p.c. la soccombenza prevalente (nei riguardi della convenuta e della terza chiamata per le ragioni a breve specificate) e si liquidano nei termini indicati di seguito. La soccombenza in punto di spese di lite (che comprendono, come noto, anche quelle di CTU) anche nei riguardi della terza chiamata consegue all'applicazione del principio secondo cui l'assicuratore della responsabilità civile, a seguito della chiamata in garanzia, assume nel giudizio la posizione di interventore adesivo autonomo, sicché, qualora abbia contestato la fondatezza della domanda attorea, resta soggetto al principio della soccombenza al fine della regolamentazione delle spese, indipendentemente ed a prescindere da ogni questione sulla natura e sul titolo dell'intervento e può anche essere condannato in solido con la parte della quale e con la quale condivide il medesimo interesse (cfr. Cass. civ., sez. III, 17.1.2017, n. 925); si sottolinea che la Compagnia assicuratrice, a fronte del comportamento processuale di mancata opposizione alla domanda di manleva dell'assicurato, ha chiesto non solo il rigetto delle domande attore ma ha svolto articolate e reiterate difese in ordine all'an e al quantum del danno ex adverso preteso ed anche partecipando attivamente alla CTU. Considerate le disposizioni in materia di spese di lite, la liquidazione è determinata alla luce dei parametri indicati dall'art. 4 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, come modificato dal D.M. 08 marzo 2018, n. 37, in base al valore della controversia, desumibile dal decisum all'esito del giudizio (Cass. S.U. 11.9.2007, n. 19014) ed in ossequio tra l'altro all'art. 5, co. 1, penultimo cpv. D.M. n. 55 del 2014 cit., in applicazione dello scaglione valoriale da Euro 1.100,01 ad Euro 5.200,00, secondo i valori medi (ridotti nel limite del 50%), e, tenuto conto dell'opera prestata e delle attività svolte dal difensore. si liquidano in favore del procuratore dichiaratosi antistatario come da istanza, della parte attrice (...) ed a carico in solido del convenuto e della terza chiamata, in complessivi Euro 2.200,00 (di cui Euro 400,00 per fase di studio, Euro 400,00 per fase introduttiva, Euro 700,00 per fase istruttoria, Euro 700,00 per fase decisionale), oltre al rimborso spese forfetarie nella misura del 15% calcolato sull'importo liquidato, CPA e IVA come per legge e le successive occorrende. Le spese processuali nel rapporto tra il convenuto (...) Associazione Sportiva dilettantistica e la terza chiamata (...) S.p.A. devono essere integralmente compensate. Le spese di CTU come liquidate in via di anticipazione in corso di causa e poste in via provvisoria a carico della terza chiamata, vanno poste definitivamente in solido a carico del (...) convenuto e della sua assicurazione (...) S.p.A., con quanto ne consegue in ordine al rimborso in favore della parte processuale che le abbia eventualmente anticipate in misura parziale e/o per l'intero. P.Q.M. Il Tribunale di Avezzano, definitivamente pronunciando nella causa iscritta al N. 13/2015 R.G., ogni contraria istanza, difesa, eccezione e deduzione disattesa, respinta o assorbita, così provvede: 1) accerta e dichiara la responsabilità in via esclusiva del (...) Associazione Sportiva dilettantistica, in persona del presidente legale rappresentante p.t., nel sinistro verificatosi il 28.10.2012 dedotto in lite, per l'effetto, 2) in parziale accoglimento della domanda risarcitoria proposta dall'attore (...), condanna il convenuto (...) Associazione Sportiva dilettantistica, in persona del presidente legale rappresentante p.t., al pagamento in favore di (...) della complessiva somma di Euro 3.534,25 a titolo di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, oltre rivalutazione e interessi con le modalità e la decorrenza di cui in motivazione; 3) condanna il (...) Associazione Sportiva dilettantistica, in persona del presidente legale rappresentante p.t., in solido con (...) S.p.A., in persona del legale rappresentante p.t., alla rifusione delle spese di lite in favore dell'avv. Filippo Paolini procuratore dichiaratosi antistatario ex art. 93 c.p.c. di (...), che si liquidano in Euro 2.200,00 per competenze, oltre a spese generali forfetarie al 15% calcolate sulle competenze, Iva e CPA come per legge, oltre alle successive occorrende; 4) in accoglimento della domanda di garanzia proposta dal (...) Associazione Sportiva dilettantistica nei confronti della terza chiamata, per l'effetto, dichiara tenuta e condanna (...) S.p.A., in persona del legale rappresentante p.t., a tenere indenne il proprio assicurato, parte convenuta, da quanto lo stesso è condannato a pagare in favore dell'attore in esecuzione della presente sentenza (a titolo di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale e spese di lite) in forza dei superiori punti 2) e 3), nei limiti di franchigia, di massimale e di condizioni previsti dal contratto inter partes; 5) dichiara interamente compensate le spese processuali tra il convenuto (...) Associazione Sportiva dilettantistica e la terza chiamata (...) S.p.A.; 6) pone le spese di CTU espletata in corso di causa già liquidate in atti con separato decreto del 17.1.2018, definitivamente a carico in solido del convenuto e della terza chiamata, con quanto ne consegue in ordine al rimborso in favore della parte processuale che le ha eventualmente anticipate in misura parziale e/o per l'intero. Rigetta ogni altra domanda. Così deciso in Avezzano il 21 maggio 2021. Depositata in Cancelleria il 27 maggio 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI AVEZZANO Il Tribunale, nella persona del Giudice Onorario dott.ssa Fedora VOLPE, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 791/2016 promossa da: VE.GI. (c.f. (...)), rappresentato e difeso dall'avv. CA.Ma. del foro di Avezzano ed elettivamente domiciliato in Luco dei Marsi (AQ) presso lo studio dell'avv. To.Fi. di Giuliano Fina, giusta procura in calce all'atto di citazione, ATTORE contro FA.MA. (c.f. (...)), rappresentata e difesa dall'avv. CI.Ev. del foro di Avezzano ed elettivamente domiciliata in Carsoli (AQ) presso lo studio del difensore, giusta procura a margine della comparsa di costituzione e risposta; CONVENUTA nonché contro RI.FA. (c.f. (...)), rappresentato e difeso dall'avv. PA.Pa. del foro di Avezzano ed elettivamente domiciliato in Luco dei Marsi (AQ) presso lo studio del difensore, giusta procura a margine della comparsa di costituzione e risposta; CONVENUTO Oggetto: Azione di rivendica proprietà MOTIVI DELLA DECISIONE La presente sentenza viene redatta in conformità a quanto disposto dal nuovo testo degli artt. 132, co. 2 n. 4) c.p.c. e 118, co. 1, disp. att. c.p.c., come modificati, rispettivamente, dall'art. 45, co.17 e dall'art. 52, co. 5, della L. n. 69 del 18 giugno 2009, essendo sufficiente, ai fini dell'apparato giustificativo della motivazione della decisione, la succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e le ragioni giuridiche della decisione, omettendo lo svolgimento del processo, e, quindi, devono all'uopo considerarsi integralmente richiamati dalla presente pronuncia sia l'atto introduttivo che la comparsa di costituzione ed ogni altro atto del giudizio nonché le istanze di cui ai verbali di causa ed ogni altra attività ivi verbalizzata, con la conseguenza che le questioni eventualmente non trattate non andranno considerate come omesse per l'effetto di un errore in procedendo ben potendo risultare semplicemente assorbite ovvero superate per incompatibilità logico giuridica con quanto concretamente ritenuto provato dal giudicante. 1. Con atto di citazione ritualmente notificato in data 5.5.2016, Ve.Gi. ha convenuto in giudizio innanzi l'intestato Tribunale i sigg.ri Fa.Ma. e Ri.Fa. chiedendo che sia accertato e dichiarato il proprio diritto di proprietà sull'immobile sito in Luco dei Marsi (AQ), Via (...) n. 2, individuato al Catasto Fabbricati di detto Comune, foglio (...) sub 1 (indirizzo catastale Via (...)/Via (...)) e contestualmente dichiarare nullo l'atto di vendita stipulato con atto pubblico in data 8.4.2015 a ministero del Notaio dott.ssa Ma.Sc. (Rep. n. 13973 - Racc. n. 9244), con cui Fa.Ma. ha venduto detto immobile, per possesso ultraventennale, a Ri.Fa. con condanna di quest'ultimo al rilascio del bene oltre al risarcimento dei danni non patrimoniali a carico di entrambi i convenuti di Euro 10.000,00 o quella somma maggiore o minore ritenuta di equità e la condanna degli stessi ex art. 96 c.p.c.. A fondamento della domanda deduce l'attore che la proprietà dell'immobile gli è pervenuta per successione ereditaria in morte del padre Ve.Fr. il quale lo aveva acquistato dal Comune di Luco dei Marsi con atto di compravendita stipulato il 23.3.1957 e di essere proprietario per quota unitaria essendo deceduto ogni altro legittimo erede del de cuius, pertanto contesta alla Fa. il possesso ad usucapionem come mai esercitato ed inesistente. Sostiene inoltre di aver risieduto nell'immobile sino al 1998 e di aver esercitato il possesso anche quando il padre Ve.Fr. era ancora in vita e, successivamente al decesso di quest'ultimo intervenuto il 30.10.2003, ne ha avuto l'esclusiva disponibilità concedendolo anche in locazione a terzi sino all'anno 2011, contesta pertanto alla Fa. il possesso ad usucapionem come mai esercitato ed inesistente. Quanto all'acquirente dell'immobile, Ri.Fa., ha eccepito che questi ha agito in mala fede essendo edotto che la Fa. non era proprietaria dell'immobile e inoltre il bene è stato acquistato dal convenuto al prezzo irrisorio di Euro 10.000,00 rispetto al maggior valore di mercato di Euro 25.000,00 (così determinato per gli interventi di manutenzione e ristrutturazione necessari per renderlo agibile ed abitabile). Si è costituita in giudizio, con comparsa depositata il 22.7.2016, Fa.Ma., contestando le avverse deduzioni e richieste, delle quali ha chiesto il rigetto per infondatezza in fatto ed in diritto; solo subordinatamente e in caso di accoglimento della richiesta risarcitoria formulata dall'attore, chiede accertare che la quota di comproprietà di Ve.Gi. è pari alla sola quota di 1/3 dell'intero, mentre in ordine alla domanda ex adverso di risarcimento dei danni, chiede dichiararsi l'estinzione per intervenuta compensazione con il credito vantato dalla convenuta nei confronti dell'attore cui al decreto ingiuntivo del Tribunale di Avezzano n. 666/2015 e successivo atto di precetto. In via pregiudiziale ha eccepito l'insussistenza della legittimazione attiva in capo all'attore dichiaratosi unico titolare del diritto di proprietà sull'immobile oggetto di causa controdeducendo in proposito che al de cuius Ve.Fr. non è succeduto unicamente l'attore bensì tutti i 3 figli: Ve.Gi., Ve.Ma. - deceduto il 9.10.2015 al quale sono subentrati per rappresentazione la moglie ed un figlio-figlio - Ve. Lucio premorto al padre il 19.12.1993, al quale sono subentrati per rappresentazione la moglie Fa.Ma. e i due figli - con la conseguenza che alcun diritto di proprietà unitaria ed esclusiva può essere vantata dall'attore a titolo ereditario ma, semmai, solo un diritto corrispondente alla sua quota ereditaria di 1/3. Alla luce dell'eccezione sollevata, la convenuta ha chiesto disporsi l'integrazione del contradditorio nei confronti degli eredi pretermessi. Nel merito, primariamente contestato per le ragioni come sopra spiegate il preteso diritto di proprietà unitaria di Ve.Gi. sul bene di cui trattasi, la convenuta ha dedotto che l'attore nonché Ve.Ma. avevano concordato verbalmente di cedere ad essa stessa la proprietà dell'immobile sito in Luco dei Marsi, Via F.lli (...) e tale accordo era stato raggiunto in virtù della posizione debitoria di Ve.Ma. nei confronti di Banca Ca. a fronte di un'apertura di credito in conto corrente garantita da Ve.Gi. e Fa.Ma., costituiti fideiussori di Ve.Ma. il quale, non avendo onorato l'integrale restituzione della somma accreditata, determinava la Banca ad agire monitoriamente nei confronti del debitore principale e dei fideiussori cui faceva seguito atto di precetto, rimasto anch'esso inesitato. La Banca notificava quindi atto di pignoramento presso terzi nei confronti della sola Fa. che subiva il pignoramento del quinto stipendiale dal mese di giugno 2009 sino al mese di ottobre 2015, epoca in cui la Banca esecutante e la fideiubente Fa. pervenivano ad una definizione a saldo e stralcio della posizione debitoria con il versamento della somma di Euro 20.000,00. La convenuta deduce, quindi, che avendo essa corrisposto alla Banca Ca. la complessiva somma di Euro 38.000,00 (di cui Euro 20.000,00 a saldo e stralcio ed il residuo con la trattenuta del quinto stipendiale pignorato) anche in nome e per conto del debitore principale Ve.Ma. e del confideiussore Ve.Gi., questi ultimi convennero concordemente che la Fa. avesse il godimento esclusivo e la proprietà dell'immobile oggetto di causa. Deduce inoltre che a fronte dell'importo complessivamente pagato, aveva richiesto ed ottenuto dal Tribunale di Avezzano decreto di ingiunzione nei confronti di Ve.Gi. per il pagamento della somma di Euro 10.000,00 (50% del debito di 20.000,00 onorato dalla Fa. in favore di Ca.) seguito da atto di precetto la cui intimazione rimaneva inesitata. Con comparsa depositata il 5.9.2016 si è costituito in giudizio Ri.Fa. contestando in fatto ed in diritto la fondatezza delle domande proposte nei suoi confronti da parte attrice di cui, pertanto, ha concluso per l'integrale rigetto; ha chiesto accertare e dichiarare il proprio acquisto in buona fede a titolo oneroso del bene immobile alienato dalla Fa., dichiaratasi proprietaria per usucapione (per possesso ultraventennale) non accertata giudizialmente; in via meramente subordinata ha concluso che in ipotesi di accoglimento delle avversarie richieste e del rigetto dell'accertamento della buona fede di esso terzo acquirente, sia determinata la quota di proprietà dell'attore con eventuale annullamento dell'atto pubblico di compravendita limitatamente alla sola quota di (com)proprietà di Ve.Gi. con conservazione dell'atto di compravendita per la parte residua di validità. Ha precisato che in sede di acquisto dell'immobile sito in Luco dei Marsi, non aveva avuto motivo di dubitare della dichiarazione della venditrice del possesso ultraventennale della res, come tale di essere proprietaria per usucapione, e, contrariamente agli assunti dell'attore, non avrebbe potuto avere conoscenza del fatto che la venditrice non fosse titolare del diritto di proprietà ovvero che tale diritto spettasse ad altri in considerazione della giovane età di esso acquirente che al momento del rogito aveva 27 anni e nulla sapeva né avrebbe potuto sapere delle sottese vicende di eventuale contrasto sul possesso in capo ad altro soggetto. Relativamente al prezzo di acquisto pagato di Euro 10.000,00, allega che il prezzo era quello di valore dell'immobile poiché era in pessimo stato di conservazione e richiedeva interventi edilizi rilevanti anche strutturali e, dunque, il prezzo pagato non poteva che essere congruo. Nel corso del giudizio, concessi i chiesti termini per il deposito di memorie di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c. ed espletate le prove testimoniali - ammesse nei limiti di cui all'ordinanza istruttoria del 17.3.2017 del Presidente Istruttore già assegnatario del procedimento -, interrogate liberamente le parti in contraddittorio tra loro ai sensi dell'art. 117 c.p.c. anche al fine di provocare la conciliazione della controversia, la causa è stata trattenuta in decisione con concessione dei termini di legge, con decorrenza differita alla data del 2.3.2020 per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica; a causa della sopravvenuta emergenza sanitaria da SARS-CoV-2, ai sensi dell'art. 83 del D.L. n. 18 del 17.03.2020 e art. 36, co. 1, del D.L. n. 23 dell'8.4.2020 è stata disposta ex lege la sospensione straordinaria dei termini processuali per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili dal 09.03.2020 all'11.05.2020; tale sospensione si applica dunque ai termini ex art. 190 c.p.c. nel caso di specie quasi interamente ricadenti nella sospensione (ad eccezione dei soli primi 7 giorni e cioè dal 2.3.2020 e fino all'8.3.2020) per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica. 2. Così chiarite, in sintesi, le opposte prospettazioni giova anteporre all'esame della res controversa alcune considerazioni in punto di qualificazione della domanda spesa in giudizio da parte attrice e relativo onere della prova. Il rilascio di una determinato bene nella materiale disponibilità di altri costituisce risultato indifferentemente conseguibile sia attraverso un'azione di rivendica, che attraverso un'azione di restituzione. Con l'azione di rivendica, disciplinata dall'art. 948 c.c. a carattere intrinsecamente reale e di natura petitoria, la causa petendi mira a difendere il diritto di proprietà di cui l'attore deve dare la c.d. prova diabolica dimostrando di essere titolare di tale diritto sul bene rivendicato o in forza un titolo originario da parte sua o in forza di un valido titolo derivativo, acquisito dall'effettivo e precedente dominus del bene. Chi agisce in rivendica chiede la reintegrazione piena ed esclusiva del diritto reale al fine di riottenere la piena disponibilità e dunque il rilascio della res illegittimamente e/o abusivamente occupata sine titulo da parte del convenuto, ciò comporta la necessità per l'attore di provare non solo il possesso abusivo del convenuto ma anche la pienezza e la legittimità del proprio diritto di proprietà (così, Cass. civ., sez. 2, 14.1.2013, n. 705). Legittimato passivamente, qualunque sia il titolo di acquisto petitorio invocato dall'attore, è chiunque di fatto possegga o detenga il bene rivendicato e sia in grado, quindi, di restituirlo, e ai fini del rigetto della domanda proposta nei suoi confronti, gli incombe l'onere di provare la legittimità del possesso o della detenzione relativi allo stesso bene (Cass. civ., sez. 2, 16.6.2006, n. 13973). Nell'azione di restituzione, invece, di natura prettamente personale, la causa petendi è per converso costituita dal diritto di ottenere l'adempimento di una prestazione di dare, derivante da un rapporto di carattere obbligatorio della cui sussistenza e/o sopravvenuto venir meno l'attore deve fornire la prova secondo gli ordinari criteri in tema di onus probandi. Detta azione, più in dettaglio, è destinata ad ottenere l'adempimento dell'obbligazione di ritrasferire una cosa che è stata in precedenza volontariamente trasmessa dall'attore al convenuto in forza di negozi quali la locazione, il comodato, il deposito e così via, che non presuppongono necessariamente nel tradens la qualità di proprietario. Essa non può pertanto surrogare l'azione di rivendicazione, con elusione del relativo rigoroso onere probatorio, quando la condanna al rilascio viene chiesta nei confronti di chi dispone di fatto del bene nell'assenza anche originaria di ogni titolo. In questo caso la domanda è tipicamente di rivendicazione, poiché il suo fondamento risiede non in un rapporto obbligatorio personale inter partes, ma nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione mediante la probatio diabolica. Nella specie, alla luce del petitum e delle pretese in concreto avanzate da Ve.Gi., la sua domanda deve intendersi in termini di azione di rivendicazione ai sensi dell'art. 948 c.c., e ciò a prescindere dalla mancata qualificazione da parte dell'attore della propria domanda il cui fondamento risiede nell'asserito diritto di proprietà esclusiva sull'immobile sito in Luco dei Marsi, Via F.lli (...), che il Ve. sostiene di vantare per successione ereditaria in morte del padre Ve.Fr. (il quale non ha avuto alcun ripensamento per tutto il corso del giudizio dell'assunta posizione di titolarità unitaria del compendio immobiliare). In concreto, l'attore ha lamentato un'apprensione di fatto, in assenza di una precedente relazione qualificata con il bene da parte della convenuta Fa.Ma. che per possesso ventennale ha alienato la res a Ri.Fa., attuale possessore, ovvero la non opponibilità ad esso attore del titolo di godimento vantato dalla Fa. prima e dal Ri. poi, instando dunque per l'accoglimento di un'azione reale. Circa gli oneri probatori che vengono in rilievo nel caso di specie, si rammenta che la parte che agisce in giudizio con l'azione di rivendicazione deve provare il proprio diritto, risalendo, attraverso i titoli dei precedenti danti causa del bene, ad un acquisto a titolo originario, ovvero provare di aver posseduto esso stesso il bene - anche attraverso precedenti danti causa - per il periodo di tempo necessario all'usucapione. Orientamento consolidato della giurisprudenza riconosce che il rigore di tale rigore probatorio a carico di chi agisce in rivendica è suscettibile di modularsi in relazione al concreto atteggiarsi delle difese della parte convenuta, così attenuandosi, in particolare, quando il convenuto non contesti l'originaria appartenenza del bene conteso ad un dante causa comune. In tal caso, il rivendicante assolve l'onere probatorio dimostrando un acquisto del bene in base ad un titolo valido, che prevale su quello dell'avversario (Cass. civ., n. 25793/2016; Cass. civ. n. 3564/1995; Cass. civ., n. 1508/1994). Occorre precisare che la convenuta Fa. si è limitata, sulla scorta del principio possideo quia possideo, a rappresentare il fatto materiale del suo possesso tale da giustificare la vendita per possesso intervenuta con atto pubblico stipulato in data 8.4.2015 in favore dell'acquirente Ri.Fa., senza proporre alcuna eccezione o domanda riconvenzionale di usucapione in suo favore, così assumendo una difesa meramente passiva; in tal caso non vi è attenuazione della prova gravante sull'attore che deve pertanto dimostrare il fondamento dell'azione di rivendicazione per ottenere la riconsegna del bene. Il convenuto Ri. ha unicamente controdedotto in ordine alla legittimità del suo acquisto di buona fede a titolo oneroso chiedendo il rigetto integrale della domanda attorea, e, dunque, anche in tal caso non si ravvisa alcuna attenuazione della prova di cui è onerata la parte attrice. Con riferimento ai singoli mezzi di prova si esclude che possa ammettersi una prova basata su soli elementi presuntivi, come per esempio sulle sole risultanze catastali (Cass. civ. n. 5131/2009; Cass. civ., n. 5983/2000; Cass. civ. n. 11115/1997; Cass. civ. n. 515/1994; Cass. civ. n. 9096/1991), sulla nota di trascrizione, sulla denuncia di successione (Cass. civ., n. 25149/2014; Cass. civ. n. 11605/1997). Tanto premesso in termini di qualificazione dell'azione, la domanda di parte attrice è infondata e come tale deve essere integralmente rigettata. 3. Il Tribunale rileva che l'attore non ha prodotto alcun documento comprovante il diritto di proprietà vantato nell'atto di citazione e ribadito nei propri atti e scritti difensivi né ha provato l'esercizio di un possesso ultraventennale, pacifico, ininterrotto, pubblico, essendo gli unici atti allegati al proprio fascicolo di parte, per quanto qui di interesse, la visura storica catastale, il certificato storico di famiglia di Ve.Fr., il certificato di residenza storico di Ve.Fr., l'atto di acquisto della proprietà a titolo derivativo da parte del de cuius Ve.Fr. intervenuto con la compravendita stipulata il 23.3.1957 con il Comune di Luco dei Marsi che ha alienato, all'utente occupante, una delle casette asismiche costruite dallo Stato per i terremotati del 1915, l'atto di compravendita dell'immobile stipulato con atto pubblico in data 8.4.2015 tra la Fa. e il Ri.. In tema di rivendicazione il giudice di merito è tenuto innanzitutto a verificare l'esistenza, la validità e la rilevanza del titolo dedotto dall'attore a fondamento della pretesa, e ciò a prescindere da qualsiasi eccezione del convenuto, giacché, investendo tale indagine uno degli elementi costitutivi della domanda, la relativa prova deve essere fornita dall'attore e l'eventuale insussistenza deve essere rilevata dal giudice anche d'ufficio (Cass. civ., sez. II, 3.9.2009, n. 5131). Chi agisce in giudizio deve, pertanto, offrire la prova del fatto costitutivo dell'azione, poiché tale accertamento costituisce l'antecedente logico-giuridico necessario per decidere la consequenziale domanda di rilascio del bene detenuto dal convenuto (a prescindere dalla circostanza che l'attore non abbia formulato un'espressa domanda di accertamento della proprietà). Nel caso di specie, non risulta che Ve.Gi. abbia ottemperato all'indefettibile onere probatorio di cui era gravato, avendo omesso di produrre in giudizio il titolo comprovante il diritto di proprietà rivendicato ovvero non ha provato compiutamente di aver acquistato la proprietà a titolo originario con il compimento dell'usucapione del bene immobile oggetto della domanda, così dovendosi ribadire l'infondatezza della domanda principale in esame e anche di restituzione, di risarcimento del danno, con conseguente rigetto principalmente per mancanza di prova. Nell'azione di rivendicazione, l'attore che afferma di essere proprietario non solo deve provare che è divenuto tale in base ad un valido titolo di acquisto ma dovrà anche provare che ha ricevuto il diritto da chi era effettivamente proprietario e, per fare questo, deve necessariamente dimostrare che il vecchio proprietario aveva ricevuto il diritto da chi era effettivamente proprietario e così di seguito, in una catena di prove che dovrebbe giungere al primo ed incontestabile proprietario da cui è sorto a titolo originario il diritto di proprietà in contestazione nel processo. In sintesi, era onere dell'attore dare dimostrazione di essere divenuto proprietario dell'immobile in Luco dei Marsi in base ad un valido titolo di acquisto a titolo originario; dare dimostrazione di aver ricevuto il diritto - come sostiene, per l'intero: 100/100 - da chi era effettivamente proprietario, nonché di aver mantenuto tale diritto sino all'attualità, ossia alla data di proposizione della domanda (5.5.2016 data di notifica ai convenuti dell'atto introduttivo). Tuttavia tale onere probatorio non risulta affatto assolto e, anzi, appare smentito dalle risultanze probatorie acquisite al processo. Nella disciplina dell'azione di rivendicazione, il concetto di dominus non si identifica con quello del titolare, occorrendo anche che la titolarità risulti legittima. Al riguardo, infatti, la Suprema Corte ha precisato che "In tema di azione di rivendicazione, ai fini della "probatio diabolica" gravante sull'attore, tenuto a provare la proprietà risalendo, anche attraverso o propri danti causa, fino all'acquisto a titolo originario, ovvero dimostrando il compimento dell'usucapione, non è sufficiente produrre l'atto di accettazione ereditaria, che non prova il possesso del dante causa, né il contratto di acquisto del bene, che non prova l'immissione in possesso dell'acquirente" (cf. Cass. civ., sez. 2, 4.12.20214, n. 25643, Rv. 633752). Non vi è prova che Ve.Gi. - o i danti causa - abbia acquistato a titolo originario la proprietà totalitaria ed esclusiva dell'immobile in questione con estensione del diritto anche alle quote degli altri comproprietari e non vi è prova della continuità e durata del possesso ai fini dell'usucapione; infatti, le espletate prove orali non hanno condotto ad alcun utile elemento idoneo a corroborare il possesso ultraventennale meramente prospettato dal Ve. e le contrastanti ed equivoche dichiarazioni rese dai testimoni di parte attrice sono inidonee a provare la sussistenza dei presupposti oggettivo e soggettivo richiesti per il compimento dell'istituto in parola. Oltretutto parte attrice si è arrogato un presunto diritto di proprietà allegando di essere l'unico erede del padre Ve.Fr. nonostante lo stato di famiglia prodotto proprio dall'attore (sub doc. 6) dà conto dell'esistenza di altri eredi legittimi del de cuius, oltre all'attore, il quale, anzi, ha addirittura sostenuto di essere proprietario della res "in ragione dell'avvenuta morte di ogni altro legittimo erede", ignorando totalmente l'esistenza dell'istituto della rappresentazione ai sensi dell'art. 467 c.c. che, così come previsto dal comma 2 della norma citata, ha luogo sia nella successione testamentaria che in quella legittima e sono legittimati a succedere per rappresentazione i discendenti legittimi e naturali del rappresentato. Né, sotto altro profilo, può ragionevolmente sostenersi che la convenuta Fa. non abbia contestato la titolarità in capo all'attore dell'immobile in questione. Infatti la suddetta - che pure non ha proposto alcuna eccezione e domanda riconvenzionale di usucapione - ha ripetutamente contestato nei propri atti e scritti difensivi l'assunto della controparte attrice chiedendo il rigetto della domanda ed ha correttamente allegato che Ve.Gi. non è proprietario del bene che, per successione legittima, "apparterrebbe in quota" indivisa a tutti i figli eredi di Ve.Fr.: ossia l'attore, Ve.Ma. e per esso agli gli eredi (coniuge e un figlio), Ve. Lucio e per esso agli eredi (il coniuge Fa.Ma. e i due figli), così smentendo che Ve.Gi. possa vantare un diritto di proprietà esclusivo allo stesso pervenuto per successione legittima ereditaria, smentita che, del resto, trova conforto dal certificato di stato famiglia originario di Ve.Fr. prodotto in atti. Occorre rammentare che per possesso utile ai fini dell'usucapione deve intendersi un potere sulla cosa rilevabile in un'attività corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale e deve trattarsi di un possesso avente precisi requisiti: a) esercitato per un periodo temporale di almeno 20 anni; b) continuato, senza interruzioni, caratterizzato dalla costante esplicazione del possessore del potere di fatto sul bene corrispondente al diritto reale posseduto e con manifestazione del puntuale compimento di atti di possesso conformi alla qualità ed alla destinazione della cosa tali da rivelare, anche esternamente, un'indiscussa e piena signoria di fatto sul bene medesimo che, in modo inconciliabile, escluda la possibilità di godimento altrui, anche parziale, in contrapposizione all'inerzia del titolare (Cass. Civ. n. 18392/2006 cit.). Deve quindi risultare evidente - escludendo situazioni che possano condurre ad una possibile tolleranza altrui - un'inequivoca volontà di possedere il bene in via esclusiva che connoti "impedimento' ad altri di ogni atto di godimento e/o di gestione del medesimo bene (Cass. Civ. n. 9903/2006; Cass. n. 16841/2005); c) pacifico e pubblico, quindi, non acquistato in modo violento o clandestino (Cass. Civ. 17.07.1998 n. 6997) (in tali casi, detto possesso potrà giovare ai fini dell'usucapione solo quando la violenza o la clandestinità saranno cessate - art. 1163 c.c.); d) inequivoco, come tale né dubbio né incerto nell'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o altro diritto reale; in sostanza, deve trattarsi di un possesso certo e parallelamente inidoneo a generare nei soggetti terzi il dubbio sulla effettiva intenzione del soggetto possessore di porre in essere un'attività corrispondente al predetto esercizio della proprietà. L'inequivocità, inoltre, esclude la sussistenza di "atti di mera tolleranza da parte di terzi" nel rapporto di fatto con la res, tenuto conto che tali atti comportano solo un residuale godimento della cosa da parte del (mero) fruitore, in tal modo incidendo molto debolmente sull'esercizio del diritto da parte del titolare del bene e determina uno stato di fatto incompatibile e contrastante con il pieno godimento del diritto o con il precedente esercizio del possesso, considerato che il rapporto di fatto con la res non può derivare da atti di mera tolleranza. Pertanto, l'uso del bene conseguente a "mera tolleranza" da parte di altro soggetto (anche un familiare) titolare del diritto di proprietà (e/o comproprietà) sul bene oggetto della domanda di usucapione, determina "equivocità del possesso" e non è idoneo ai fini del possesso e dell'usucapione. Come sottolineato dalla giurisprudenza di legittimità, gli atti di tolleranza traggono origine da rapporti di familiarità (o amicizia) che, da un lato, giustificano la permissio ma, dall'altro, conducono ad escludere l'acquisto del possesso da parte dell'agente, implicando un elemento di transitorietà e saltuarietà caratteristici di "un godimento di modesta portata" (Cass. Civ. n. 8194/2001). 4. Nella questione che ci occupa, si verte in ipotesi di "compossesso di beni" in comunione ereditaria tra più soggetti e pertanto non basta il godimento esclusivo della cosa da parte di uno o alcuni dei compossessori al fine di far ritenere tale stato di fatto "funzionale all'esercizio del possesso ad usucapionem", potendo lo stesso essere ricondotto e conseguire anche ad un atteggiamento tollerante da parte degli altri compossessori, soprattutto qualora questi ultimi siano familiari della parte agente; la particolare posizione dell'attore che quale comproprietario di un bene comune invoca il riconoscimento di un acquisto a titolo originario per maturata usucapione, postula un quid pluris non essendo sufficiente il mero godimento esclusivo della cosa comune - che potrebbe apparire equivoca - ragion per cui la manifestazione del dominio, in termini di esclusività sulla cosa da parte dell'interessato, deve essere caratterizzata da una attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, la cui prova rigorosa deve essere data da chi invoca l'usucapione. Tuttavia, dovendosi valorizzare il possesso ad usucapionem, valgono principi noti con l'implicita esclusione della rilevanza del possesso da parte del (com)proprietario che agisce in giudizio che non abbia detenuto il bene per almeno venti anni escludendo gli altri comproprietari. Per valorizzare la posizione del comproprietario che assume di aver usucapito le altre quote è necessario l'atto di interversione del titolo di possesso di cui all'art. 1164 c.c., oppure, in via gradata, un altro comportamento (arg. ex art. 1102, comma 2, c.c.) che consente al compossessore di estendere il suo possesso esclusivo sul bene comune senza necessità di fare opposizione al diritto degli altri comproprietari (come invece necessario nell'ipotesi di interversio possessionis) purchè l'esercizio della signoria di fatto sull'intera proprietà comune non sia dovuto alla mera astensione degli altri comproprietari dall'uso della cosa comune occorrendo invece che l'invocato esercizio del diritto esclusivo sul bene da parte dell'usucapiente (dunque, anche alle quote idealmente appartenenti agli altri comproprietari) risulti inconciliabile con la possibilità di godimento da parte degli altri quotisti e sia idoneo ad escludere esplicitamente o implicitamente il possesso di questi ultimi (In senso conforme, Cass. Civ., n. 24214/14 cit.; Cass. Civ., sez. II, 10.11.2011 n. 23539; Cass. Civ. sez. II, 25.03.2009 n. 7221, Cass. Civ. sez. II, 20.05.2008 n. 12775). "In tema di comunione, il comproprietario che sia nel possesso del bene comune può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri comunisti, senza necessità di interversione del titolo del possesso e, se già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, a tal fine occorrendo che goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare in modo univoco la volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", senza che possa considerarsi sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall'uso della cosa comune" (Cass. civ., sez. 6-2, ordinanza 09.02.2018, n. 3238). In regime di comunione su un bene, ogni contitolare è proprietario di ogni frazione del bene comune ed il possesso è riferito - per ognuno di essi - all'intero bene. Il presupposto della comproprietà è il "compossesso" tanto che ogni comproprietario ha il diritto di agire ad atti lesivi di terzi, indipendentemente dalla porzione e dalla quantità di bene oggetto dell'aggressione e ciò in quanto, prima dello scioglimento della comunione con divisione formale del bene, ogni comproprietario è titolare di ogni frazione della cosa e anche il possesso è riferito all'interezza della cosa stessa con la conseguenza che il comproprietario che agisce per la dichiarazione di usucapione, è già possessore ed è proprio questa la ragione per cui, ai fini dell'accoglimento della domanda, occorre quel richiamato "quid pluris" rappresentato dalla esclusività del possesso (dell'intero) nei modi e nei termini sopra delineati. Dove esiste una situazione condivisa di possesso non è infatti necessaria l'interversione del titolo del possesso cui all'art. 1141 c.c. (cfr. Cass. n. 24214/2014 cit.) e in tema di comunione, anche ereditaria, non è ipotizzabile un mutamento della detenzione in possesso né un'interversione nel possesso nei rapporti tra comproprietari, in quanto, ai fini della decorrenza della usucapione è idoneo soltanto un atto (o un comportamento) il cui compimento da parte di uno dei coeredi comproprietari realizzi, per un verso, l'impossibilità assoluta per gli altri partecipanti di proseguire il rapporto materiale con il bene - e cioè un comportamento in aperto contrasto con detti partecipanti aventi pari diritti sui beni - e, per altro verso, denoti inequivocabilmente l'intenzione di possedere il bene in maniera esclusiva e ciò si realizza o con il sopraggiungere di un titolo che attribuisca al detentore una situazione possessoria esclusiva ed autonoma rispetto a quella ereditaria, oppure un atto di spoglio del detentore che privi del possesso gli altri coeredi. In tale ultimo caso lo spoglio deve essere manifestato con un atto esteriore - equiparabile a quello di cui alla lettera c) delle quattro condizioni essenziali sopra descritte - esplicito o implicito, che inibisca in modo non equivoco ai coeredi di esercitare la loro facoltà di fatto sul bene. In sintesi, il contitolare del bene che si intende usucapire il quale, come detto, parte già da una situazione di possesso - o meglio, di compossesso "animo proprio" in quanto condiviso con altri contitolari e compossessori - deve riuscire a dimostrare l'estensione del suo possesso escludendo il possesso degli altri contitolari e, quindi, che il possesso che esercita sul bene è esclusivo e non deriva solo dal possesso esercitato in quanto "contitolare pro quota" del bene. "Il godimento del bene comune può essere invocato dal comproprietario, al fine dell'usucapione della proprietà dello stesso, solo quando si traduca in possesso esclusivo con riguardo sia al corpus che all'animus incompatibile con il permanere del compossesso altrui" (cfr. Cass. del 26.06.1999 n. 6382) o che "per il combinato disposto dell'art. 1102, c. 2 c.c. e 1141, comma 2 c.c. con riferimento ai beni in comunione non è sufficiente il solo possesso perché possa maturare l'usucapione a favore di uno dei compartecipanti occorrendo un comportamento materiale che esteriorizzi sin dall'inizio in maniera non equivoca l'intento di possedere il bene in maniera esclusiva" (cfr. Cass. del 29.09.2000 n. 12961). Occorre, dunque, la prova rigorosa che possa fare ragionevolmente ritenere che l'agente comproprietario sia stato il solo ad aver avuto l'autonomo godimento della cosa e quindi una relazione con il bene comune (corpus) e l'unico tra i comproprietari a comportarsi all'esterno come proprietario esclusivo (animus possidendi) non in termini di comproprietà bensì di proprietà nella sua interezza trattandosi di parti (le quote di proprietà) non divisibili o comunque "indivise". Nella vicenda che ci occupa la prova rigorosa che l'attore avrebbe dovuto offrire - ma che non ha offerto - avrebbe dovuto essere quella di aver sottratto il bene all'uso comune ed esteso il dominio anche alle quote a lui non appartenenti, per il tempo richiesto dalla legge, nonché di aver manifestato all'esterno i comportamenti tipici "di chi" eserciti un potere di signoria sulla cosa, estromettendo gli altri proprietari dal compossesso del bene immobile. Inoltre, proprio in virtù del rigore della prova, alcun rilievo di fondatezza della domanda può derivare dalle dichiarazioni testimoniali ove riguardino il fatto che "l'attore sia apparso loro come proprietario" rendendosi invece necessario dimostrare di aver posto in essere atti univoci diretti contro gli altri compossessori in modo da rendere a questi ultimi evidente l'intenzione di possedere in via esclusiva l'intera proprietà indivisa, con conseguente loro "esclusione" dal possesso (cfr, Cass. Civ. sez. II, 18.12.2013 n. 28346). Sugli esposti principi, ove si intenda invocare un acquisto della res a titolo originario mediante il compimento dell'usucapione, grava sull'istante fornire adeguata prova del possesso utile ad usucapire ex art. 1158 c.c. ed in particolare l'onere di provare sia il momento iniziale del possesso ad usucapionem, sia la decorrenza del ventennio e, quindi, di aver acquistato il possesso di cosa altrui in modo pacifico, pubblico, inequivoco e di averlo esercitato in continuità per almeno venti anni, senza interruzione, ponendo in essere tutte quelle attività corrispondenti al diritto di proprietà o di altro diritto reale, tramite il compimento di atti conformi alla qualità ed alla destinazione del bene, tali da rivelare sullo stesso, anche esternamente, un'indiscussa e piena signoria. La Suprema Corte ha ritenuto che ai fini dell'usucapione "Per la relativa prova non è sufficiente aver svolto sul fondo che si asserisce usucapito l'attività di coltivazione, in quanto detta attività non comporta di per sé una situazione oggettivamente incompatibile con la proprietà altrui" (cfr. Cass. civ., sez. II, 26.04.2011, n. 9235) ciò significando che il dominio esclusivo sul bene da parte del preteso possessore deve essere esternato con un'attività assolutamente incompatibile con l'altrui possesso accompagnata da indizi capaci di fornire la prova presuntiva che tale attività è esercitata "uti dominus" (Cass. civ., n. 18215/2013) e non uti condominus: "Il coerede che dopo la morte del de cuius sia rimasto nel possesso del bene ereditario, può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo di possesso; a tal fine egli, che già possiede "animo proprio" ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere "uti dominus" e non più "uti condominus", non essendo sufficiente che gli altri partecipanti si astengano dall'uso della cosa comune. (Cass. sez. 2, n. 7221 del 25.3.2009; sez. 2, n. 13921 del 25.9.2002)" (Corte d'Appello Napoli, sez. 6, 1.6.2018, n. 2616). In caso di eredità indivisa il coerede può usucapire la quota degli altri eredi divenendo l'unico proprietario della res qualora sussistano 4 condizioni essenziali: -) possesso prolungato per almeno 20 anni; -) manifestazione della volontà di possesso anche all'esterno attraverso la volontà di possedere il bene non come semplice coerede ma come vero e proprio proprietario, esercitando, dunque, sullo stesso i diritti e le facoltà che tipicamente spettano per legge solo al proprietario; -) godimento del bene in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui che si concretizza con l'esclusione degli altri coeredi dall'uso dell'immobile, abitandolo, impedendo agli altri di usufruirne (che è questione totalmente diversa dall'astensione da parte degli altri coeredi di utilizzo dell'immobile); -) riconoscibilità del possesso, nel senso che il possesso deve essere riconoscibile dagli altri coeredi i quali devono essere a conoscenza della situazione di fatto rimanendo "inerti" dinanzi al comportamento prevaricatore del loro coerede, disinteressandosi completamente del bene che hanno ereditato. Da tanto discende che il godimento esclusivo da parte di uno dei coeredi del bene in comunione indivisa entrato in successione, non è sufficiente a determinare l'usucapione. Del resto, con l'apertura della successione comprensiva di un bene immobile, ogni coerede acquista anche il possesso dei beni posseduti dal defunto, senza necessità di una materiale apprensione e anche senza aver mai visto il bene o sapere dove esso concretamente si trovi e anche se il bene è detenuto da un solo erede, gli altri non sono esclusi dal possesso: godere di un immobile e amministrarlo è fatto e questione totalmente diversa dal possederlo giuridicamente. Ve.Gi. non ha offerto alcuna dimostrazione di quanto meramente allegato non avendo individuato quale sia stato il comportamento - o comunque l'atto volitivo - e il momento in cui ha estromesso i coeredi dal compossesso dell'immobile, con la conseguenza che la prescrizione acquisitiva non è mai avvenuta ed ha dunque agito nel giudizio che ci occupa senza essere titolare del diritto di proprietà sul bene rivendicato come proprio. 4.1. Occorre aggiungere che l'esercizio di un'attività corrispondente al diritto di proprietà presuppone che chi lo invoca abbia assunto i relativi diritti e facoltà ma anche i corrispettivi obblighi ed oneri e tra questi rientra l'assolvimento dei pagamenti delle imposte ed oneri fiscali connessi all'esercizio del diritto dominicale (IMU, Tasi, Tari, ecc.), così da determinare l'esternazione dell'animus possidendi ovvero dell'animus rem sibi habendi, salvo che il (com)proprietario non li esegua a titolo di anticipazione anche per gli altri comunisti chiedendone poi il rimborso pro quota. Parte attrice non ha nemmeno dedotto - né tantomeno provato per tabulas - di aver assolto nel corso di almeno 20 anni ai suddetti pagamenti continuativi dovuti sulla proprietà (caratteristica ineludibile del "comportamento da proprietario"), circostanza questa che, secondo la giurisprudenza "esclude in capo allo stesso la sussistenza dell'intenzione, al di là del fatto materiale del godimento della cosa, di comportarsi "uti dominus", così venendo meno "un presupposto necessario all'acquisto della proprietà per usucapione dei beni immobili, ovvero il mancato esercizio dei diritti connessi alla proprietà dell'immobile da parte del proprietario stesso" (Trib. Ascoli Piceno, 21 giugno 2011, in Redazione Giuffrè 2011). Ulteriore defezione probatoria dell'attore si riscontra nell'aver omesso di offrire prova documentale attestante le spese eventualmente sostenute per i lavori di manutenzione asseritamente eseguiti sull'immobile nel corso del periodo ventennale. Altresì, il Ve. sostiene che nell'anno 1997 avrebbe provveduto al pagamento delle utenze domestiche ed a conforto ha prodotto "una" ricevuta di pagamento dell'utenza telefonica asservita all'immobile sito in via (...) n. 2; ai fini che ci occupano tale isolato pagamento è del tutto ininfluente e irrilevante in quanto ben altri sono i presupposti - del resto ampiamente delineati - idonei a ritenere l'acquisto della proprietà attraverso l'avveramento dell'usucapione. Ai fini dell'accertamento di un possesso utile ai fini dell'usucapione non rilevano comportamenti, quali la residenza o l'attivazione di utenze ad opera di chi assume tale esercizio del possesso, in quanto potenzialmente identificabili anche con una mera detenzione, qualificata o non qualificata (cfr. Cass. civ., sez. 2, ord. 27.8.2019, n. 21726). Appare dirimente a scongiurare e contrastare gli assunti attorei in ordine al preteso diritto di proprietà dell'intero immobile e l'asserito suo dominio esclusivo sul bene, la testimonianza resa da D'A.Lu. (udienza 19.10.2017), tra l'altro indifferente alle parti, il quale interrogato sui capitoli di prova articolati dalla parte attrice - nei limiti dell'ordinanza ammissiva del 17.3.2017 - ha reso le dichiarazioni che seguono: - cap. 7) (Vero che il sig. Ve.Gi. si è avvalso dell'aiuto del sig. D'A.Lu. per riparare il tetto dell'immobile sito in Via (...) Luco dei Marsi...): "Confermo la circostanza, personalmente ho sistemato il tetto dell'immobile per cui è causa, presumibilmente 10 anni fa. Sono stato aiutato nella riparazione del tetto dal sig. Ve.Gi. e dal sig. Ve.Ma.. ... Preciso inoltre che mi sono recato altre due volte per ultimare i lavori, alla presenza di Gi. e di Ma."; - cap. 12) (Vero che l'immobile oggetto di contestazione è stato riparato dal sig. Ve.Gi. personalmente e dal sig. D'A.Lu. circa 15 anni fa ed ha provveduto al pagamento dei materiali occorrenti per la predetta riparazione): "...Preciso di essere stato pagato in parte dal sig. Giovannino e in parte dal sig. Marcello. Questi ultimi hanno provveduto anche al pagamento dei materiali occorrenti per lo svolgimento del lavoro". Tanto denota e dimostra che almeno fino all'anno 2007 (epoca quest'ultima determinata a ritroso in base a quanto dichiarato dal teste D'A. all'udienza del 19.10.2017 che ha ricondotto "presumibilmente 10 anni fa" i lavori di riparazione del tetto e il pagamento ricevuto da Ve.Gi. e Ve.Ma.) l'attore non si era contrapposto agli altri eredi in qualità di proprietario dell'intero, avendo condiviso con l'altro erede comproprietario il pagamento dei materiali utilizzati per la riparazione del tetto dell'immobile e il pagamento del corrispettivo in favore dell'esecutore D'A.Lu. e tali fatti sono del tutto incompatibili con un "possesso" esclusivo" con l'affermazione del "diritto di proprietà in quota unitaria", con l'asserita "piena ed esclusiva disponibilità" ed ancor più incompatibile con un'eventuale acquisto della proprietà a titolo originario, per decorsa usucapione. Emerge, dunque, anche a fronte di tale evidenza il difetto del requisito dell'animus possidendi in capo all'attore di possedere il bene nella sua interezza avendo condiviso con altro comproprietario del bene i costi necessari per la riparazione del tetto così rappresentandosi un ulteriore fatto che, già di per sé, è incompatibile con un possesso uti dominus e di converso si caratterizza come un comportamento uti condominus, ingenerando fondatamente il dubbio sul titolo di disponibilità dell'immobile che, a tutto voler concedere, va ricondotto a mera detenzione con la tolleranza da parte degli altri comproprietari e da tanto consegue che l'inerzia di questi ultimi o anche di uno solo non conduce e non comporta per gli stessi la perdita e/o la rinuncia del diritto di proprietà per sua natura imprescrittibile, salvo che altri - anche se comproprietario - eserciti il possesso protratto nel tempo prescritto dalla legge con i requisiti già in precedenza illustrati. In ogni caso, non avrebbe nemmeno valore decisivo la circostanza che uno dei coeredi - per ipotesi lo stesso Ve.Gi. - si sia occupato dei lavori ed opere interessanti l'immobile dove lo stesso viveva e abbia provveduto al pagamento dei corrispettivi spettanti all'esecutore, in quanto, allorché un coerede utilizzi ed amministri un bene ereditario - qual è il bene rispetto al quale il Ve. si dichiara unico proprietario - sussiste la presunzione iuris tantum che egli agisca in qualità di coerede e che anticipi le spese anche relativamente alla quota degli altri coeredi: il coerede che invochi l'usucapione ha l'onere di provare che il rapporto materiale con il bene si è verificato in modo da escludere gli altri coeredi dalla possibilità di instaurare un analogo rapporto con il bene ereditario (Cass. civ. sez. 2, 13.11.2014, n. 24214; Cass. civ., sez. 2, 12.4.2002, n. 5226). In tema di compossesso, il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all'esercizio del possesso ad usucapionem e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte degli altri compossessori, risultando necessario, ai fini dell'usucapione, la più volte citata manifestazione del dominio esclusivo sul res communis da parte dell'interessato attraverso un'attività durevole, apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l'onere della relativa prova su colui che invochi l'usucapione del bene (Cass. civ. n. 24214/2014 cit.; Cass. sez. 2, 25.3.2009, n. 7221). Il silenzio e l'inerzia da parte degli altri eredi comproprietari del medesimo bene in uso ad uno di essi, benché protratto per molti anni, non può mai far ritenere la dismissione dell'animus o denotare rinuncia, ancorché tacita, al possesso, se non accompagnato da atti o fatti che in modo certo rivelino la volontà di cessare la relazione di carattere possessorio con il bene da parte del titolare/contitolare del relativo diritto. Nel caso di specie tali atti e fatti non si sono verificati, tant'è che Ve.Ma. ha partecipato (nell'anno 2007, come ha dichiarato il teste D'A.), unitamente all'attore, alle spese per l'acquisto dei materiali necessari per la riparazione del tetto e al pagamento del corrispettivo dovuto al prestatore d'opera D'A.Lu., tanto basta per ritenere che non vi sia stata alcuna dismissione da parte del comproprietario Ve.Ma. dell'animus possidendi ovvero rinuncia al possesso, e, di converso, che Ve.Gi. non era, come non è, proprietario per l'intero del bene oggetto della domanda. Né l'attore, del resto, ha dimostrato di aver estromesso dal godimento del bene l'altro comproprietario Ve. Lucio fino alla data di decesso di questi (19.12.1993) ovvero di aver estromesso i suoi eredi Fa.Ma. ed i figli, ma in ogni caso anche la prova positiva non avrebbe sortito l'effetto auspicato tenuto conto che, si rammenta, fondamento dell'azione di chi agisce in rivendica è il titolo di proprietà e non quello inerente un limitato diritto di comproprietà oltretutto per quote indivise. L'ipotesi di un acquisto a titolo originario in capo all'attore per intervenuta usucapione non appare avverata nè perseguibile al cospetto di quella che appare una mera detenzione e comunque un uso della res per iniziale residenza e poi per spirito di tolleranza per comprovate ragioni di parentela tra gli altri gli eredi comproprietari (Cass. Civ., Sez. I, 20 dicembre 2016, n. 26327). Né può essere valorizzata ai fini probatori la circostanza, vera o meno nel caso che ci occupa, della mancata disponibilità in capo a Ve.Ma. e a Ve. Lucio delle chiavi dell'abitazione di Via (...) e ciò in primo luogo per il fatto che Ve.Gi. - che già abitava con i genitori l'immobile e quindi aveva le chiavi del medesimo abbia continuato ad essere il solo ad averne la disponibilità anche per il tempo successivo - non indica, di per sé, il possesso esclusivo dell'immobile necessario per l'acquisto della proprietà del bene a titolo originario. "Diverso valore, invece, può avere (...) la sostituzione della serratura (...) anche se per tale ipotesi, devesi, comunque, provare che l'azione sia stata voluta e manifestata al fine d'escludere il compossesso dei coeredi e non piuttosto a fini d'ordinaria manutenzione o di migliore preservazione dell'immobile e di quanto in esso contenuto (Cass. 1370/1999)" (Cass. civ., sez. 2, ordinanza 8.4.2021, n. 9359). In ogni caso dalle risultanze in atti e dalla stessa circostanza - pacificamente ammessa da tutte le parti in causa - che l'immobile sia stato alienato ad un terzo, non rende nemmeno verosimile che l'attore sia stato il solo ad avere la disponibilità delle chiavi della res che invece, è evidente, fossero nella disponibilità anche degli altri coeredi, tanto che Fabiani Maria Santa (coniuge di Ve. Lucio) con atto stipulato in data 8.4.2015 ha venduto "per possesso" l'immobile oggetto di causa a Ri.Fa. dovendosi quantomeno desumere che l'alienante era nel possesso delle chiavi di accesso. 4.2. Nella imprecisa e disordinata allegazione di parte attrice quanto ai modi e ai termini in base ai quali sostiene di essere titolare del diritto di proprietà dell'immobile oggetto della domanda di rivendica, trovano applicazione i principi ripetutamente affermati in sede di legittimità, vale a dire che la presunzione del possesso in colui che esercita un potere di fatto non opera, a norma dell'articolo 1141 c.c., quando la relazione con il bene (da parte di Ve. Giovanni) non consegua ad un atto volontario di apprensione ma derivi, come nella specie, da un iniziale atto o fatto del proprietario-possessore (il padre, Ve.Fr.), perché, in tal caso, l'attività del soggetto che dispone della cosa (l'attore), configurabile come semplice detenzione o precario, non corrisponde all'esercizio di un diritto reale, non essendo svolta in opposizione al proprietario: in tal caso, la detenzione non qualificata di un bene immobile può mutare in possesso solamente all'esito di un atto d'interversione idoneo ad escludere che il persistente godimento sia fondato sul consenso, sia pure implicito, del proprietario concedente (Cass. n. 5551 del 2005; conf., Cass. n. 14593 del 2011; Cass. n. 21690 del 2014). Il solo fatto della convivenza dell'attore (componente il nucleo familiare di Ve.Fr.), in effetti, non pone di per sè in essere, nelle persone che convivono con chi possiede il bene, un potere sulla cosa che possa essere configurato come possesso sulla medesima (Cass. n. 1745 del 2002; Cass. n. 21023 del 2016 in motiv.) ovvero come una sorta di compossesso (Cass. n. 8047 del 2001). Nella concreta fattispecie, pur non essendo necessaria la prova degli atti di interversione del possesso i quali non sono richiesti ai fini dell'usucapione di cespiti rientranti nell'asse ereditario, ciò che l'attore non ha dimostrato è il possesso ad excludendum, ossia una situazione in cui il possesso esercitato sul bene ereditario abbia privato gli altri eredi dalla possibilità di godere del medesimo bene. Con una recente ordinanza i giudici di legittimità (Cass. civ,, sez. II, 16.1.2019, n. 966) hanno confermato il principio secondo il quale il coerede che, in seguito alla morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima che intervenga la divisione, acquistare per usucapione la quota degli altri eredi, senza che sia necessaria l'interversione del titolo del possesso, ed invero tanto è confermato dal disposto normativo di cui all'art. 714 c.c.; "a tal fine, egli, che già possiede animo proprio ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus. A tale riguardo non è univocamente significativo che egli abbia utilizzato ed amministrato il bene ereditario e che i coeredi si siano astenuti da analoghe attività, sussistendo la presunzione iuris tantum che abbia agito nella qualità e operato anche nell'interesse anche degli altri coeredi (ex plurimis, Cass. 04/05/2018, n. 10734; Cass. 25/03/2009, n. 7221)". Peraltro va sottolineato che il vincolo di parentela che intercorre tra i soggetti eredi del de cuius (Ve.Gi., Ve.Ma. e i suoi eredi, Ve. Lucio e i suoi eredi tra i quali la convenuta Fa.) consente di ritenere che il possesso integrale dei beni sarebbe stato consentito all'attore dagli altri coeredi per mera tolleranza anche in mancanza delle ordinarie caratteristiche della breve durata e della limitata incidenza del godimento asserito dall'attore, proprie degli atti di tolleranza che riguardano soggetti diversi (rapporti di mera amicizia o buon vicinato) da quelli invece legati da vincolo di parentela, tenuto conto che in relazione ai primi, di per sé labili e mutevoli, è più improbabile il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo (cfr. Cass. civ., sez. 2, 4.8.2015 n. 16371; Cass. civ., sez. 2, 20.2.2008, n. 4327) ma non nei casi di vincoli di parentela nei quali è plausibile il mantenimento di un atteggiamento tollerante anche per un lungo periodo temporale (cfr. Cass. sez. 2, 3.5.2018, n. 10512; Cass. civ. 18.6.2001, n. 8194). Da ultimo ma non per questione di importanza, non corrisponde al vero che Ve. Giovanni abbia risieduto in Luco dei Marsi, Via (...) "sino al 1998 e successivamente alla morte del de cuius Ve.Fr., ne ha avuto la piena ed esclusiva disponibilità..." e tanto si desume dalla produzione documentale della stessa parte attrice (sub doc. 7) dal cui esame è dato rilevare che diverse sono state le interruzioni dell'attore nell'occupazione dell'immobile che, del resto, era quello di residenza della famiglia di Ve.Fr.: - l'attore, dall'età di 7 anni, ha stabilito la propria residenza in Rione Casette Sismiche in data 13.4.1960 ed ivi è rimasto fino al 23.4.1964 (utilizzo 4 anni); - a far data 24.8.1964 si è trasferito in Avezzano fino al 17.8.1968 (interruzione 4 anni); - a far data 18.9.1968 e fino al 14.2.1983 ha risieduto in Luco dei Marsi in Via (...) n. 2 (utilizzo circa 15 anni); - a far data 15.2.1983 e fino al 16.5.1995 ha variato indirizzo in via (...) in Luco dei Marsi (interruzione 12 anni); - a far data 17.5.1995 e fino al 5.7.1998 ha variato indirizzo in via (...) n. 2 (utilizzo 3 anni); - a far data 6.7.1998 e fino al 20.4.2015 (data del rilascio del certificato di residenza) ha variato indirizzo in Via (...) (interruzione 17 anni). Pertanto, quando è intervenuto il decesso del proprietario del bene Ve.Fr. (30.10.2003), l'attore non aveva affatto, come sostiene, il godimento del bene essendosi trasferito altrove già dal mese di luglio 1998. 5. Di nessun pregio e rilievo giuridico assumono le dichiarazioni rese dai testimoni escussi dalle quali non emerge alcuna circostanza dalla quale inferire conclusioni diverse rispetto a quelle fin qui delineate. Seppur è vero che la prova per testimoni può costituire lo strumento per la dimostrazione del possesso valido ai fini dell'usucapione, granitica giurisprudenza afferma che una testimonianza, per quanto possa essere precisa, mai potrà essere presa in considerazione dal giudice, nel caso in cui ci siano rapporti di amicizia o inimicizia con una delle parti. Si ritiene dunque che la prova, per essere ritenuta apprezzabile, debba essere oltre che rigorosa resa da un soggetto estraneo alla vicenda ed ai soggetti coinvolti e tale testimonianza deve risultare sufficientemente completa e indicare con certezza il termine iniziale di decorrenza dell'usucapione (cfr. in tal senso Tribunale Milano, sez. IV, 23.2.2009, n. 2433; Tribunale Salerno, sez. II, 14.6.2010, n. 1380; Tribunale Cassino, sentenza n. 823/2011). I testimoni (Pr.Ma. (cognata dell'attore), Ve.Fr. (nipote dell'attore), An.Bo. e Ri.Gi. (genitori del convenuto Ri.Fa.), Ve.Ba. e Ve.Ma. (figlie dell'attore), D'A.Lu. (indifferente), Di.Ma. (indifferente)) massimamente legati da rapporto di parentela con le parti in causa - ad esclusione di D'A. e Di. sulla cui attendibilità non vi è motivo di dubitare - hanno reso, per un verso, dichiarazioni de relato actoris (cfr. Ve.Ba., ed in parte Ve.Ma., udienza 7.2.2018, e Pr.Ma., udienza 22.6.2017) e, per altro verso, dichiarazioni contrastanti, equivoche, imprecise o comunque riferite a dati poco incisivi da cui non può senz'altro ricavarsi l'esistenza dl corpus "e dell'animus in capo all'attore. In ordine alla valutazione delle prove si rammenta che per orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità "l'esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. Sez. L, Sentenza n. 17097 del 21/07/2010; Sez. 1, Sentenza n. 16056 del 02/08/2016)" (così Cass. Civ., Sez. I, 24 maggio 2019, n. 14333). Pertanto, la valutazione delle risultanze delle prove e il giudizio sull'attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili. Le circostanze sulle quali i testi di parte attrice hanno deposto, come articolate nelle memorie ex art. 183, co. 6, c.p.c., ammesse nei limiti di cui all'ordinanza istruttoria 17.3.2017 (capp. 1, 4, 5, 6, 7, 8, 10, 12, 13) ed altresì le risposte dell'attore all'interrogatorio libero (udienza 16.10.2019) non hanno offerto alcun significativo contributo all'accertamento della domanda svolta dal Ve. e tantomeno all'accertamento favorevole del reclamato diritto di proprietà esclusiva del bene immobile per acquisto a titolo originario che, si rammenta, è da accertare in virtù degli elementi costitutivi del possesso (potere di fatto e animus possidendi) e dei suoi caratteri (continuità, assenza di interruzione, mancanza di violenza o clandestinità) nonché della sua durata (venti anni), presupposti che il giudice ha il potere-dovere di verificare in ogni caso, anche d'ufficio e indipendentemente dall'attività processuale del convenuto, e di rigettare la domanda di accertamento dell'avvenuto acquisto della proprietà ove rilevi ex actis la mancanza di uno di loro (cfr. Cass. civ., sez. 2, 30.9.2005, n. 19186). Giova inoltre evidenziare che il tenore ed il contesto della richiamata ordinanza ammissiva dei mezzi istruttori denota palesemente che l'ammissione dei capitoli di cui sopra pare giustificata "e sottesa" proprio al fine di consentire all'attore di dimostrare il titolo di proprietà necessario ed indispensabile ai fini di una valida azione di rivendica e quindi per dimostrare di aver agito quale proprietario esclusivo del bene per acquisto a titolo originario - come del resto il Ve. ha specificamente richiesto nelle proprie conclusioni: ". accertata la verità dei fatti rappresentata, dichiarare Ve.Gi. legittimo ed esclusivo proprietario dell'immobile sito in Via (...) n. 2 Luco dei Marsi (AQ); ..." - attraverso un possesso esercitato ed esteso anche alle quote di comproprietà indivisa degli altri eredi del de cuius. Le risultanze del compendio probatorio, anche documentale, acquisito al processo, il giudizio negativo sulla attendibilità e credibilità dei testi - tutti legati da rapporto di parentela con l'attore, ad esclusione dei soli due testi già sopra citati - non consentono, dunque, di valutare positivamente il raggiungimento della prova in ordine alla esistenza, validità e rilevanza del titolo dedotto dall'attore a fondamento della propria pretesa che, quindi, implica, il rigetto della domanda di rivendicazione. 6. Consequenziale al rigetto della domanda principale, è la superfluità dell'esame di ogni altra domanda, anche in via di eccezione preliminare e pregiudiziale, rispettivamente proposta dalle parti convenute, con conseguente assorbimento delle stesse alla luce del principio della ragione più liquida, in base al quale la domanda può essere decisa sulla scorta della soluzione di una questione assorbente senza che sia necessario esaminare previamente tutte le altre: "In applicazione del principio processuale della "ragione più liquida" - desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost. - deve ritenersi consentito al giudice esaminare un motivo di merito, suscettibile di assicurare la definizione del giudizio, anche in presenza di una questione pregiudiziale" (Cass. S.U. 8.5.2014 n. 9936); "Il principio della "ragione più liquida", imponendo un approccio interpretativo con la verifica delle soluzioni sul piano dell'impatto operativo, piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica, consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell'ordine delle questioni da trattare, di cui all'art. 276 cod. proc. civ., in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dall'art. 111 Cost., con la conseguenza che la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione - anche se logicamente subordinata - senza che sia necessario esaminare previamente le altre" (Cass. sez. 6 - L. 28.5.2014 n. 12002, conf. a Cass. S.U. n. 9936/2014 cit.). Alla luce del prefato principio, la domanda deve essere rigettata per mancato assolvimento dell'onere della prova, gravante su parte attrice, dei fatti posti a fondamento della domanda, con assorbimento di ogni ulteriore questione, anche di carattere pregiudiziale e preliminare, sollevata dalle parti del giudizio. 7. Le spese di lite seguono strettamente la soccombenza e si liquidano, come da dispositivo, ai sensi del DM. 10.3.2014, n. 55, come modificato dal D M. 08.03.2018, n. 37, in favore delle parti convenute e a carico della parte attrice, sulla base dei parametri indicati dall'art. 4 D.M. 55/2014, causa di valore fino a Euro 26.000,00, tenuto delle questioni trattate, dell'attività difensiva concretamente svolta (fasi di studio, introduzione, istruttoria e decisoria), valori medi di riferimento con riduzione nel limite massimo del 50%), oltre al 15% del compenso per rimborso forfetario spese generali, IVA (se ed in quanto dovuta) e C.P.A.. P.Q.M. Il Tribunale di Avezzano, definitivamente pronunciando nella causa iscritta al n. 791/2016 R.G., ogni contraria istanza, difesa, eccezione e deduzione disattesa, respinta o assorbita, così provvede: 1) Rigetta le domande proposte dalla parte attrice Ve.Gi.; 2) Dichiara assorbite le domande rispettivamente proposte dalle parti convenute Fa.Ma. e Ri.Fa. nei confronti dell'attore; 3) Condanna la parte attrice Ve.Gi. alla refusione, in favore delle parti convenute, delle spese di lite, che liquida, quanto a Fa.Ma. in Euro 4.200,00 e quanto a Ri.Fa. in Euro 3.700,00 per compensi, oltre al rimborso forfetario al 15%, oneri accessori se dovuti nella misura di legge. Così deciso in Avezzano il 10 aprile 2021. Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI AVEZZANO SEZIONE LAVORO Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Antonio Stanislao Fiduccia ha pronunciato la seguente SENTENZA Nel giudizio di opposizione ex art. 1, comma 51, L. n. 92 del 2012, iscritto al n. 732/2018 R.G. promosso da: (...), (...), (...), (...), (...), (...), (...), con il patrocinio dell'avv. Fr.Ra. RICORRENTI - OPPONENTI contro (...) S.r.l., in persona del legale rappresentante p.t., con il patrocinio degli avv.ti Gi.Sm. e Pa.Lo. RESISTENTE-OPPOSTO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso ex art. 1, comma 48, L. n. 92 del 2012, iscritto al n. 374/2018 R.G., (...), (...), (...), (...), (...), (...), (...), adivano l'intestato Tribunale per ivi proporre impugnazione avverso il licenziamento collettivo intimato da (...) S.r.l. con distinte lettere del 29.12.2017, chiedendo la reintegra nel posto di lavoro ed il pagamento di indennità risarcitoria; o, in subordine, il pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata fra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita. I ricorrenti esponevano di essere stati tutti assunti da (...) S.r.l. con qualifica di operai livello A1, addetti allo stiro (ad eccezione del (...), con qualifica di operaio livello A1, addetto alla cernita, e del (...), con qualifica di operaio livello A3, addetto alla cernita); che (...) S.r.l. inviava il 20.11.2017 alle Organizzazioni Sindacali, alle Rappresentanze Sindacali Aziendali, alla Direzione Territoriale del Lavoro, alla Provincia di L'Aquila e alla Regione Abruzzo, comunicazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo ai sensi dell'art. 4, L. n. 223 del 1991, con la quale segnalava un esubero di 9 unità su 74 occupati, indicando i seguenti motivi determinanti: ristrutturazione del ciclo produttivo a seguito dell'implementazione di un nuovo macchinario al reparto stiro a maglieria apportate nel ciclo di lavorazione; abolizione del doppio turno di lavorazione con produzione effettuata su un solo turno; continuo e persistente calo del fatturato che nell'ultimo biennio aveva comportato una riduzione di oltre il 10%; che il 28.11.2017, all'esito di incontro tra la datrice di lavoro e FILCTEM-CGIL, si perveniva ad una dichiarazione di mancato accordo con le OO.SS.; che, pertanto, la procedura di licenziamento proseguiva dinnanzi alle sedi istituzionali: il 18.12.2017, presso la sede della Provincia di L'Aquila - Settore Politiche Sociali del Lavoro, venivano resi noti i criteri adottati dei carichi di famiglia, anzianità ed esigenze tecnico-produttive ed organizzative, evidenziandosi quanto segue: "Nello specifico si è tenuto conto dei seguenti pesi e indicatori: a) carichi di famiglia in virtù delle informazioni presenti in azienda e desunte dalla documentazione relativa alla richiesta degli Assegni per il Nucleo Familiare - ANF - e delle detrazioni per familiari a carico. Il peso del presente criterio è pari a massimo il 30% del totale. b) Anzianità di servizio. Il peso del presente criterio è pari a massimo il 20% del totale. c) Esigenze tecnico-produttive ed organizzative: il presente criterio è stato calcolato utilizzando la media di due diversi indicatori con medesimo peso e incidenza complessiva per il massimo il 50% del totale. Nella fattispecie si è fatto riferimento: 1. Alla valutazione del Responsabile di settore con riferimento alla precisione e affidabilità nell'esecuzione dei compiti assegnati, alla puntualità, alla presenza al lavoro e alla propensione al lavoro di gruppo. 2. Esigenze aziendali in virtù del ruolo ricoperto e del settore di competenza con riferimento alla fungibilità delle mansioni". Esponevano, quindi, i ricorrenti che al termine della procedura venivano individuati quali destinatari del provvedimento di licenziamento, in quanto assegnatari dei seguenti punteggi: - (...), totale 50 (di cui 30 per carichi di famiglia, 20 per anzianità di servizio, 0 per valutazione dei responsabili, 0 per esigenze tecniche); - (...), totale 50 (di cui 30 per carichi di famiglia, 20 per anzianità di servizio, 0 per valutazione dei responsabili, 0 per esigenze tecniche); - (...), totale 20 (di cui 0 per carichi di famiglia, 20 per anzianità di servizio, 0 per valutazione dei responsabili, 0 per esigenze tecniche); - (...), totale 50 (di cui 30 per carichi di famiglia, 20 per anzianità di servizio, 0 per valutazione dei responsabili, 0 per esigenze tecniche); - (...), totale 50 (di cui 30 per carichi di famiglia, 20 per anzianità di servizio, 0 per valutazione dei responsabili, 0 per esigenze tecniche); - (...), totale 32,5 (di cui 0 per carichi di famiglia, 20 per anzianità di servizio, 12,5 per valutazione dei responsabili, 0 per esigenze tecniche); - (...), totale 32,5 (di cui 0 per carichi di famiglia, 20 per anzianità di servizio, 12,5 per valutazione dei responsabili, 0 per esigenze tecniche); - (...), totale 50 (di cui 30 per carichi di famiglia, 20 per esigenze di servizio, 0 per valutazione dei responsabili, 0 per esigenze tecniche). Tanto premesso i ricorrenti deducevano l'illegittimità del provvedimento espulsivo, da un lato, per l'assoluta prevalenza assegnata al criterio delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative, rispetto agli altri due criteri (carichi di famiglia e anzianità di servizio); dall'altro lato, per la carente indicazione delle modalità applicative dei criteri di scelta, non avendo l'azienda indicato né il soggetto valutatore né i parametri oggettivi della valutazione, così da rendere la scelta dei lavoratori da licenziare affidata all'assoluta discrezionalità del datore di lavoro. I ricorrenti contestavano, inoltre, l'indicazione dei motivi di esubero posti a base della procedura di licenziamento collettivo, con particolare riferimento alle modifiche del ciclo produttivo e al calo del fatturato. Si costituiva nella prima fase sommaria (...) S.r.l. resistendo al ricorso e chiedendone il rigetto in quanto infondato. La società resistente, in particolare, deduceva la corretta applicazione dei tre criteri legali (carichi di famiglia, anzianità di servizio ed esigenze tecnico-produttive ed organizzative), le cui modalità di applicazione erano state esaurientemente esplicate con specifica indicazione del peso attribuito a ciascuno di essi e, quanto al criterio delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative, con specifica indicazione di due indicatori (valutazione del responsabile di settore con riferimento alla precisione e affidabilità nell'esecuzione dei compiti assegnati, puntualità, presenza al lavoro e propensione al lavoro di gruppo; esigenze aziendali in virtù del ruolo ricoperto e del settore di competenza, con riferimento alla fungibilità delle mansioni). Di contro, i ricorrenti avevano formulato censure del tutto generiche, senza dedurre i motivi per i quali la loro posizione dovesse essere preferita . a quella degli altri lavoratori mantenuti in servizio. Per altro verso, (...) S.r.l. osservava la piena legittimità della scelta datoriale di accordare preferenza al criterio delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Contestava, altresì, quanto dedotto dai ricorrenti circa l'insussistenza delle ragioni poste a base della procedura di licenziamento collettivo, osservando che la stipulazione, successivamente al licenziamento, di contratti a termine con 7 degli 8 ricorrenti, avvenuta nei mesi di febbraio e marzo 2018, non poteva assurgere ad indice della mancanza delle ragioni a base del licenziamento collettivo, ma dimostrava, all'opposto, la mancanza di qualsivoglia pregiudizio o preclusione nei confronti dei lavoratori individuati in esubero. Il ricorso ex art. 1, comma 48, L. n. 92 del 2012 veniva respinto dal Tribunale con ordinanza n. 2925/2018 del 23.4.2018. Avverso tale ordinanza proponevano ricorso in opposizione ex art. 1, comma 51, L. n. 92 del 2012, i dipendenti (...), (...), (...), (...), (...), (...), (...). Resisteva, anche nella fase di opposizione, (...) S.r.l. La causa veniva istruita sulla documentazione ritualmente depositata dalle parti. MOTIVI DELLA DECISIONE L'opposizione è fondata e merita accoglimento nei limiti di quanto segue. Giova preliminarmente osservare che la procedura dei licenziamenti collettivi delineata dalla L. n. 223 del 1991 deve logicamente scindersi in due fasi: una prima riferibile più propriamente alla scelta imprenditoriale di riduzione del personale ed una seconda deputata, invece, alla individuazione dei lavoratori da licenziare. Non è revocabile in dubbio che, con riguardo alla prima fase (quella delle c.d. comunicazioni iniziali ex art. 4, comma 2, L. n. 223 del 1991), la disciplina di cui alla L. n. 223 del 1991 ha segnato il passaggio da un controllo giudiziale ex post ad un controllo sindacale (e pubblico) ex ante, con l'effetto di procedimentalizzare il potere di recesso, vincolandolo non nell'an, ma piuttosto nel quomodo, per mezzo di rigorosi adempimenti formali ed il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali nonché delle istituzioni pubbliche. Corollario di tale scelta legislativa è rappresentato da una limitazione del sindacato giurisdizionale sul merito delle scelte imprenditoriali di riduzione del personale, rientrando tale aspetto nella libertà di iniziativa economica garantito dall'art. 41 Cost.: le cause a monte della procedura del licenziamento collettivo ai sensi della L. n. 223 del 1991 non sono sottoposte a controllo giudiziale proprio in quanto su di esse si svolge quello preventivo sindacale. Il controllo giudiziale non può avere ad oggetto i motivi specifici della riduzione del personale, ma soltanto la correttezza procedurale dell'operazione e non possono formare oggetto di cognizione giudiziaria tutte le censure a mezzo delle quali - senza che siano fatte valere violazioni degli artt. 4 e 5 della predetta legge e comunque senza che sia offerta prova della dolosa elusione dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle stesse procedure di mobilità al fine di effettuare discriminazioni fra i lavoratori - si intenda investire l'Autorità giudiziaria di un'indagine sull'effettiva esigenza di riduzione o trasformazione dell'attività (Cass., Sez. Lav. 5.12.2017, n. 29047). In altri termini, i residui spazi devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi di riduzione del personale, ma unicamente la correttezza procedurale dell'operazione. Non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dagli artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisca per investire l'autorità giudiziaria di un'indagine sulla presenza di effettive esigenze di riduzione o trasformazione dell'attività produttiva. Ne discende che condotte datoriali - quali la richiesta di svolgimento di straordinario, l'assunzione di nuovi lavoratori, successive al licenziamento collettivo - non sono suscettibili di incidere sulla validità del licenziamento stesso una volta che la procedura si sia svolta nel rispetto dei vari adempimenti previsti (Cass., Sez. Lav. 26.8.2013, n. 19576). Sotto tale profilo, pertanto, non può ritenersi fondata la doglianza degli odierni opponenti relativa alla presunta insussistenza dei motivi determinanti la situazione di esubero del personale, con particolare riferimento delle modifiche del ciclo produttivo e al calo del fatturato, che la (...) S.r.l. ha posto a base della comunicazione iniziale della procedura ai sensi dell'art. 4, comma 2, L. n. 223 del 1991, non potendosi ritenere dimostrata alcuna condotta datoriale, nell'avvio della procedura di licenziamento e nella stessa decisione a monte di ridurre il personale, integrante maliziosa elusione dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali né delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, e non potendo, in particolare, ritrarsi elementi sintomatici di tale condotta dalla circostanza che i ricorrenti (...), (...), (...), (...), (...), (...) e (...) siano stati richiamati in servizio dall'azienda, successivamente al loro licenziamento, con contratti a tempo determinato. Nondimeno, se le ragioni della riduzione di personale dichiarate a monte da datore di lavoro si collocano un'area di discrezionalità garantito dal principio della libera iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), la seconda fase - quella della concreta scelta dei lavoratori da licenziare, una volta individuata e discussa in sede sindacale o istituzionale ogni questione relativa all'eccedenza di personale - è invece improntata al rispetto da parte dell'imprenditore di principi fissati dalla legge o dalla contrattazione collettiva. In tale fase (delle c.d. comunicazioni finali ex art. 4, comma 9, L. n. 223 del 1991), pertanto, non hanno più ragion d'essere quegli stringenti limiti al sindacato giurisdizionale che si pongono in relazione alla prima fase (quella di individuazione e discussione delle esigenze datoriali di riduzione), atteso che, ormai risolta la questione della necessità e della entità della riduzione del personale, si pone il problema di verificare la legittimità delle ragioni poste a base del singolo licenziamento, ossia di correttezza dell'individuazione del lavoratore in esubero: in tale contesto, il giudice è chiamato a verificare la corretta attuazione dei criteri legali e convenzionali che si pongono quale oggettivo limite all'esercizio della scelta datoriale. Orbene, nelle menzionate comunicazioni finali, il datore di lavoro ha l'obbligo di indicare, tra gli altri dati, anche le modalità di applicazione dei criteri di scelta. L'art. 4, comma 9, L. n. 223 del 1991, come modificato dall'art. 1, comma 44, L. n. 92 del 2012, infatti, così dispone: "Raggiunto l'accordo sindacale ovvero esaurita la procedura di cui ai commi 6, 7 e 8, l'impresa ha facoltà di licenziare gli impiegati, gli operai e i quadri eccedenti, comunicando per iscritto a ciascuno di essi il recesso, nel rispetto dei termini di preavviso. Entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi, l'elenco dei lavoratori licenziati, con l'indicazione per ciascun soggetto del nominativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell'età, del carico di famiglia, nonché della puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma 1, deve essere comunicato per iscritto all'Ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione competente, alla Commissione regionale per l'impiego e alle associazioni di categoria di cui al comma 2". La disciplina dei criteri di scelta è a sua volta contenuta nell'art. 5, comma 1, L. n. 223 del 1991, a mente del quale "l'individuazione dei lavoratori da licenziare deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi, stipulati con i sindacati di cui all'articolo 4, comma 2, ovvero, in mancanza di questi contratti, nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: a) carichi di famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico-produttive ed organizzative". I criteri legali sono, dunque, suppletivi: la fonte primaria deputata alla individuazione dei criteri di scelta è quella della contrattazione collettiva e solo ove questa nulla preveda in tal senso trovano applicazione i criteri legali dei carichi di famiglia, dell'anzianità di servizio, delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative, in concorso tra loro. E', poi, assunto prevalente nella giurisprudenza di legittimità, da un lato, quanto ai criteri contrattuali, che l'autonomia collettiva può legittimamente individuare anche un unico criterio di scelta, dall'altro, quanto ai tre criteri legali, che, sebbene essi debbano operare in concorso tra loro, è tuttavia legittima la scelta di preferirne uno sugli altri, ed, in particolare, quello delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Si è così affermata la legittimità di un accordo sindacale che dia rilievo, ai fini della individuazione dei lavoratori da licenziare, alle sole esigenze tecnico-produttive, senza considerare i criteri del carico di famiglia e dell'anzianità di servizio, mentre, la stessa giurisprudenza, con riguardo ai criteri legali, ha chiarito che il principio previsto dall'art. 5, comma 1, L. n. 223 del 1991 - in base al quale i criteri di selezione del personale da licenziare, debbono essere osservati in concorso tra loro - se impone al datore di lavoro una valutazione globale dei medesimi, non esclude, tuttavia, che il risultato comparativo possa essere quello di accordare prevalenza ad uno di detti criteri e, in particolare, alle esigenze tecnico-produttive, essendo questo il criterio più coerente con le finalità perseguite attraverso la riduzione del personale, sempre che naturalmente una scelta siffatta trovi giustificazioni in fattori obiettivi, la cui esistenza sia provata in concreto dal datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie (Cass., Sez. Lav., 19.5.2006, n. 11886; in senso analogo: Cass., Sez. Lav., 16.3.2016, n. 5234). In altri termini, ciò che conta è che la comparazione delle diverse posizioni dei lavoratori sia stata effettuata nel rispetto del principio di buona fede e correttezza ex artt. 1175 e 1375 c.c. (Cass., Sez. Lav., 27.10.2015, n. 21864). Sotto questo profilo, pertanto, la scelta compiuta dalla (...) S.r.l. non può ritenersi censurabile per il fatto in sé di aver assegnato un peso prevalente al criterio delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative (in misura pari al 50%) rispetto agli altri due criteri legali soggettivi (anzianità di servizio e carichi di famiglia, valutati rispettivamente nella misura del 25%), tenuto conto, peraltro, che la scelta della riduzione del personale è originata, nel caso che occupa, da una crisi aziendale (non risolta dalla precedente procedura esperita per l'attivazione degli ammortizzatori sociali) e che, non ravvisandosi nel caso concreto intenti elusivi o ragioni discriminatorie, la tutela delle esigenze aziendali costituisce potenziale strumento di rilancio per restituire produttività all'impresa. Il vero punctum dolens del licenziamento collettivo intimato dalla resistente-opposta risiede piuttosto nella carente indicazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta (legali), ed, in particolare, proprio del criterio preponderante costituito dalle esigenze tecnico-produttive ed organizzative. In tema di specificità della comunicazione dei criteri di scelta e delle relative modalità applicative, la Suprema Corte ha ripetutamente affermato che, non essendo richiesti, per la legittimità del licenziamento collettivo, la giusta causa o il giustificato motivo e gravando sul lavoratore licenziato l'onere di allegare e provare la violazione dei criteri di scelta (legali o convenzionali), l'effettiva garanzia per il lavoratore licenziato è proprio di tipo procedimentale: il datore di lavoro comunica il criterio di selezione adottato con puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta ed il lavoratore può contestare che la scelta sia stata fatta in puntuale applicazione di tale criterio. Ma se il datore di lavoro non comunica alcun criterio ovvero ne comunica uno decisamente vago, il lavoratore è privato della tutela assicuratagli dalla legge predetta, perché la scelta in concreto effettuata dal datore di lavoro non è raffrontabile con alcun criterio oggettivamente predeterminato. Si finirebbe, in realtà, per predicare l'assoluta discrezionalità del datore di lavoro nell'individuazione dei lavoratori da licenziare e tale non è certamente l'impianto degli artt. 4 e 5 della L. n. 223 del 1991 (Cass., Sez. Lav., 23.12.2009, n. 27165, in senso analogo: Cass., Sez. Lav., 11.11.2016, n. 23100; Cass., Sez. Lav. 19.9.2016, n. 18306). Occorre, quindi, la puntuale indicazione, come prescrive l'art. 4, comma 9, L. n. 223 del 1991, dei criteri di scelta e delle modalità applicative, nel senso che il datore di lavoro non può limitarsi alla mera indicazione di formule generiche, ripetitive dei principi dettati in astratto dalla disciplina contrattuale e legislativa, sia pure specificamente riferiti ai singoli lavoratori che hanno impugnato il licenziamento, ma deve, nella comunicazione dallo stesso effettuata, operare una valutazione comparativa delle posizioni dei dipendenti potenzialmente interessanti al provvedimento, quanto meno con riguardo alle situazioni raffrontabili per livello di specializzazione (Cass. n. 27165/2009 cit.). In definitiva, dalla formulazione dei criteri di scelta, il lavoratore deve essere posto in grado di sapere se sarà o meno mantenuto in servizio o sarà posto in mobilità o licenziato, perché con i criteri di scelta debbono essere individuabili le posizioni di coloro che saranno eliminati, e l'indicazione dei criteri di scelta e delle loro modalità applicative deve essere effettuata in modo chiaro e trasparente (v. Cass., Sez. Lav., 13.12, 2016, n. 25554, in un caso in cui, in applicazione dei predetti principi, la Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata laddove aveva ritenuto incompleta la comunicazione ex art. 4, comma 9, L. n. 223 del 1991, in quanto non erano state indicate le concrete modalità con cui era stato attribuito il punteggio relativo ad un sottocriterio delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative relativo alla capacità professionale denominato "valutazione one skill professionalità", desumendo da ciò "la carenza di trasparenza delle scelte datoriali e un vulnus al pieno esercizio della funzione sindacale di controllo e valutazione, considerato, altresì, il peso ponderale del suddetto sottocriterio, che incideva nella misura del 25% della valutazione totale" e concludendo che "la carenza di puntuale indicazione "non tanto dei criteri di scelta utilizzati (che erano quelli legali), quanto piuttosto delle modalità con cui sono stati concretamente fatti interagire i suddetti criteri" non ha consentito di conoscere esattamente tutti gli elementi in base al quale era stato formulato un punteggio per ciascun lavoratore, impedendo l'esaustiva valutazione e controllo dell'applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da parte delle organizzazioni sindacali"). La stessa giurisprudenza che riconosce la possibilità per la contrattazione collettiva di fissare un unico criterio di scelta, precisa che tale possibilità è ammessa a condizione, però, che esso permetta di formare una graduatoria rigida e possa essere applicato e controllato senza alcun margine di discrezionalità da parte del datore di lavoro: premesso che la comunicazione scritta ex art. 4, comma 9, L. n. 223 del 1991, deve contenere la puntuale indicazione dei criteri di scelta dei lavoratori licenziati o posti in mobilità e le modalità applicative dei criteri stessi, anche quando il criterio di scelta sia unico, deve in ogni caso specificarne le modalità di applicazione affinché la comunicazione raggiunga un livello di adeguatezza idoneo a mettere in grado il lavoratore di comprendere per quale ragione lui, e non altri colleghi, sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo e quindi di poter contestare il recesso datoriale (Cass., Sez. Lav., 24.10.2017, n. 25152; Cass., Sez. Lav., 16.10.2017, n. 24352; Cass., Sez. Lav. 26.8.2013, n. 19576). Orbene, nel caso che occupa, deve ritenersi non rispettato da parte di (...) S.r.l. l'obbligo, previsto dall'art. 4, comma 9, L. n. 223 del 1991, di puntuale indicazione delle concrete modalità applicative dei criteri legali di individuazione dei lavoratori da licenziare, soprattutto per quanto attiene al criterio delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Tale obbligo è, nel caso di specie, tanto più stringente ove si consideri, per un verso, proprio la preponderanza (50%) accordata al criterio legale in questione rispetto agli altri due criteri (carichi di famiglia e anzianità di servizio) - aventi rispettivamente un peso pari alla metà di quello attribuito al primo (cioè 25%) - in grado così di incidere in maniera determinante sulla individuazione dei lavoratori da licenziare; per altro verso, che il criterio delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative è stato a sua volta suddiviso dal datore di lavoro in due sottocriteri, uno dei quali essenzialmente legato al rendimento (o performance) dei lavoratori, con il rischio di snaturare l'essenziale caratteristica di oggettività propria del criterio legale in questione. Nella comunicazione del 18.12.2017, infatti, la (...) S.r.l. ha enunciato che il criterio delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative "è stato calcolato utilizzando la media di due diversi indicatori con medesimo peso e incidenza complessiva per il massimo il 50% del totale". I due "indicatori" sono stati individuati dal datore di lavoro: 1) nella "valutazione del Responsabile di settore con riferimento alla precisione e affidabilità nell'esecuzione dei compiti assegnati, alla puntualità, alla presenza al lavoro e alla propensione al lavoro di gruppo"; 2) nelle "esigenze aziendali in virtù del ruolo ricoperto e del settore di competenza con riferimento alla fungibilità delle mansioni". Ebbene, il primo dei due indicatori (o sottocriteri) introduce dei parametri di selezione quanto mai vaghi ed indefiniti, quali la "precisione e affidabilità nell'esecuzione dei compiti assegnati", la "puntualità", la "presenza al lavoro", la "propensione al lavoro di gruppo", senza alcun ulteriore dettaglio delle specifiche attitudini professionali oggetto di scrutinio né degli specifici elementi e voci della valutazione affidata, peraltro, ad un non meglio precisato "responsabile di settore". Siffatta indeterminatezza delle modalità applicative del criterio legale in questione, soprattutto là ove vengono introdotti nell'ambito delle esigenze tecnico-produttive e organizzative aziendali dei sottocriteri che paiono adombrare elementi soggettivi di giudizio legati ad una sostanziale valutazione della professionalità del lavoratore (si pensi, in particolare, "precisione e affidabilità nell'esecuzione dei compiti assegnati"), non consente di operare alcun controllo sui criteri di individuazione dei lavoratori da licenziare, sul perché gli odierni ricorrenti e non altri dipendenti dell'azienda siano stati destinatari del provvedimento espulsivo, finendo così per lasciare al datore di lavoro una piena discrezionalità nell'individuazione dei lavoratori da licenziare, contraria alla logica degli artt. 4, comma 9, e 5, comma 1, L. n. 223 del 1991. Il riscontrato vizio della mancata puntuale indicazione delle modalità applicative dei criteri di scelta integra un'ipotesi di incompletezza della comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, L. n. 223 del 1991, che costituisce, ai sensi dell'art. 5, comma 3, "violazione delle procedure richiamate all'articolo 4, comma 12" e dà luogo al regime di cui all'art. 18, comma 7, terzo periodo, quindi, alla tutela indennitaria tra 12 e 24 mensilità, previa dichiarazione di risoluzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento (Cass. n. 25554/2006 cit.; C.App. Roma, Sez. Lav., 20.5.2020). Ne discende che il rapporto di lavoro degli odierni opponenti con (...) S.r.l. va dichiarato risolto dalla data del 29.12.2017. Tenuto conto della non elevata anzianità di servizio degli odierni opponenti, tutti assunti da (...) S.r.l. l'1.7.2015, ad eccezione di (...), assunto l'1.6.2016, e, di contro, delle dimensioni dell'attività economica e del cospicuo numero dei dipendenti occupati (74 occupati al momento dell'avvio della procedura di licenziamento collettivo, compresi i 9 individuati come esubero), si ritiene congruo fissare la misura dell'indennità risarcitoria per tutti i lavoratori nella misura di 18 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, ad eccezione del L. per il quale, considerata l'esiguità del periodo di servizio alle dipendenze della resistente (circa un anno e mezzo), si ritiene, invece, congrua la misura di 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza della resistente. P.Q.M. Il Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, ogni altra istanza, eccezione e deduzione disattese, così provvede: - in parziale accoglimento dell'opposizione all'ordinanza n. 2925/2018 emessa dal Tribunale di Avezzano il 23.5.2018, accerta l'illegittimità del licenziamento collettivo intimato da (...) S.r.l. ai dipendenti (...), (...), (...), (...), (...), (...), (...); - dichiara, per l'effetto, risolto il rapporto di lavoro dei predetti ricorrenti dalla data del licenziamento (29.12.2017); - condanna (...) S.r.l. al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva pari per ciascuno a 18 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto in favore rispettivamente di (...), (...), (...), (...), (...), (...) e pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto in favore di (...); - condanna (...) S.r.l. alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 10.094,00, di cui Euro 259,00 per spese effettive ed Euro 9.835,00 per compensi, oltre rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15% del compenso, IVA e CPA come per legge, da distrarsi in favore del procuratore dei ricorrenti, avv. Fr.Ra., dichiaratosi antistatario. Così deciso in Avezzano il 5 aprile 2021. Depositata in Cancelleria il 7 aprile 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI AVEZZANO SEZIONE LAVORO Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Antonio Stanislao Fiduccia ha pronunciato la seguente SENTENZA Nel giudizio civile di primo grado iscritto al n. 688/2018 R.G. promosso da: (...) (C.F. (...)), con il patrocinio degli avv.ti Alfredo Retico e Sandro Gallese RICORRENTE-OPPONENTE contro (...) S.p.A. (C.F. (...)), in persona del legale rappresentante p.t., con il patrocinio dell'avv. St.An. RESISTENTE-OPPOSTO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso ex art. 1, comma 48, L. n. 92 del 2012, iscritto al n. 13/2018 R.G., (...), premesso di aver lavorato alle dipendenze del (...) S.p.A. (di seguito (...)) senza soluzione di continuità dalla data del 3.10.2007, di assunzione con contratto a tempo indeterminato, con mansioni di operaio, livello 3 del CCNL per il settore Gas-Acqua, adiva il Tribunale di Avezzano, in funzione di Giudice del Lavoro, per ivi sentir dichiarare l'illegittimità del licenziamento senza preavviso, intimatogli da (...) con lettera del 10.7.2017, ricevuta il 13.7.2017, e, per l'effetto, condannare la società datrice di lavoro alla reintegra sul posto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni dovute dalla data del licenziamento a quello dell'effettiva reintegra; nonché dichiarare l'illegittimità, l'inefficacia e/o nullità della sospensione cautelare obbligatoria disposta ex art. 15, L. n. 55 del 1990, con condanna al pagamento delle retribuzioni non versate per i periodi in cui essa era stata applicata. Esponeva, in particolare, il ricorrente, che (...) aveva posto a base del licenziamento i tre arresti subiti dal ricorrente per detenzione a fini di spaccio nelle date del 5.6.2015, del 29.3.2016 e del 6.3.2017, assumendo che tali condotte fossero pregiudizievoli per l'immagine aziendale e tali da compromettere definitivamente il rapporto fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro, quindi integranti giusta causa di licenziamento. Il (...) contestava tale provvedimento datoriale, deducendone l'illegittimità per violazione dell'art. 21, n. 7, Capitolo V del CCNL per il settore Gas-Acqua, il quale, nel tipizzare le condotte suscettibili di licenziamento senza preavviso, espressamente individua la "condanna ad una pena detentiva con sentenza passata in giudicato, per azione commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, che lede la figura morale del lavoratore", fattispecie entro la quale non sarebbero sussumibili le condotte contestate in quanto non accertate con sentenza penale passata in giudicato e non lesive della figura morale del lavoratore. Osservava, inoltre, che rispetto ai primi due episodi la datrice di lavoro non aveva tempestivamente sollevato alcuna contestazione disciplinare, di tal che ne risultava violato il principio di immediatezza di cui all'art. 7, St. Lav., mentre rispetto al terzo episodio (arresto del 2017) la contestazione era stata all'opposto eccessivamente anticipata, non essendovi ancora stato l'eventuale rinvio a giudizio. Deduceva, altresì, l'insussistenza della giusta causa ex art. 2119 c.c. nonché la violazione del principio di proporzionalità della sanzione, osservando, peraltro, che, in casi analoghi, la datrice di lavoro era stata assai più indulgente mantenendo i lavoratori interessati nel loro posto di lavoro. Si costituiva nella prima fase il (...) resistendo al ricorso e chiedendone il rigetto in quanto infondato. Con ordinanza n. 2668 del 13.4.2018, depositata il 12.5.2018, il Tribunale di Avezzano rigettava il ricorso. Avverso tale ordinanza proponeva opposizione ai sensi dell'art. 1, comma 51, L. n. 92 del 2012, il (...), deducendo i seguenti motivi: 1) "Violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. in relazione all'art. 21 comma 7 del CCNL", in quanto, per i fatti di rilevanza penale posti a base del licenziamento, il lavoratore non aveva riportato alcuna condanna con sentenza passata in giudicato e l'ordinanza conclusiva della prima fase era errata là ove aveva ritenuto l'ultimo arresto del 6.3.2017 tanto grave da impedire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro, tenuto conto, peraltro, che tale misura non aveva riguardato fatti nuovi rispetto a quelli per i quali era stato arrestato il 29.3.2016, che si trattava di fatti risalenti nel tempo, che, in occasione dei precedenti due arresti del 2015 e del 2016, la datrice di lavoro non aveva neppure ritenuto di avviare un procedimento disciplinare, che, inoltre, il ricorrente, non più adibito a mansioni di letturista, non aveva neppure più contatti con gli utenti; 2) "Violazione e falsa applicazione dell'art. 5 L. n. 604 del 1966 in relazione all'art. 2697 c.c.", in quanto l'ordinanza opposta aveva erroneamente tratto la prova del fatto e della sua gravità unicamente dalla ordinanza G.I.P. che aveva disposto la misura cautelare della custodia in carcere, la quale, invece, non contiene - secondo l'opponente - elementi probatori idonei a fondare l'accertamento dei fatti né nel processo penale né in quello civile; in ogni caso, proprio in ossequio al principio di autonomia del giudizio civile, il giudice del lavoro non avrebbe potuto fondare la propria decisione sugli elementi mutuati dal processo penale che sono privi di valenza probatoria; 3) "Violazione dell'art. 2106 c.c. Nullità, illegittimità e inefficacia del licenziamento per violazione del principio di proporzionalità della sanzione", osservando, in particolare, che in circostanze analoghe (...) non aveva irrogato la sanzione più grave a due dipendenti individuati come responsabili di una serie di reati (tra cui lo spaccio di sostanze stupefacenti, la truffa in danno del (...), la tentata estorsione nei confronti dell'allora suo Presidente). Si costituiva anche nella fase a cognizione piena il (...) contestando la fondatezza dell'opposizione ex adverso proposta. La causa veniva istruita sulla documentazione ritualmente depositata dalle parti. MOTIVI DELLA DECISIONE L'opposizione è infondata e non può essere accolta. Con lettera raccomandata del 23.6.2017, ricevuta il 27.6.17, (...) contestava all'odierno opponente i seguenti fatti: "Egregio sig. (...), alla luce del provvedimento autorizzazione del Tribunale di Avezzano (AQ) del 29/05/2017 ricevuto in data odierna; tenuto conto che nei Suoi confronti vige il provvedimento di sospensione obbligatoria del 10/03/2017 protocollo (...) SpA n. (...); tenuto altresì conto che, in esecuzione del provvedimento restrittivo adottato dal Tribunale di Avezzano sempre nei Suoi confronti, questo Ente è stato impossibilitato alla emissione dell'avvio del procedimento disciplinare ai sensi dell'art. 21 del CCNL di settore e dell'alt 7 L. n. 300 del 1970; il (...) S.p.A. ravvisa nella Sua condotta una violazione dei doveri del dipendente di rilevanza disciplinare, che ha provocato un danno d'immagine dell'azienda (...) SpA. In particolare il comportamento a cui ci riferiamo riguarda i fatti qui di seguito riportati: - in data 05/06/2015 e successivamente in data 29/03/2016, Lei è stato arrestato per detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio e da informazioni assunte, anche condannato per tale reato. - in data 06/03/2017 la (...) è stata di nuovo arrestata dalla Polizia di Avezzano (AQ) per detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio; Tali fatti, integrano una responsabilità a Suo carico, per effetto della violazione delle prescrizioni che, a titolo meramente esemplificativo, vengono di seguito elencate: - norme disciplinari art. 7 della L. n. 300 del 1970; art. 21, sub (...) del vigente CCNL FEDEGAS ACQUA; - Codice Etico di comportamento adottato dal (...) S.p.A., che esige, da parte di tutti i dipendenti e collaboratori aziendali, quale standard di comportamento, il rispetto di tutte le leggi e normative. Si fa presente che ai sensi dell'art. 21, PROVVEDIMENTI DISCIPLINARI, del menzionato CCNL, il tipo e l'entità delle sanzioni saranno determinati in relazione ai criteri generali individuati nello stesso articolo, in relazione a quanto contestato con la presente ed a quanto emergerà nell'ambito delle audizioni. Riguardo ai fatti sopra rappresentati e in considerazione della gravità dei comportamenti posti in essere dalla (...), i sottoscritti Dirigenti, ai sensi dell'alt. 21 comma 2 (Norme Procedurali), la portano a conoscenza dell'avvio dell'azione disciplinare di cui è titolare. Pertanto, la (...), entro il termine di 5 giorni dal ricevimento della presente, potrà esibire le proprie giustificazioni per iscritto ovvero richiedere di discutere la contestazione stessa con la direzione, con l'eventuale assistenza di un procuratore legale ovvero di un rappresentante dell'associazione sindacale cui la (...) aderisce o conferisce mandato - sottoscritto in originale e accompagnato da fotocopia di un Suo documento di identità in corso di validità, che legittimi la persona scelta a rappresentarla. Qualora la (...) non intende presentarsi, potrà inviare memoria scritta o, in caso di grave ed oggettivo impedimento, formulare motivata istanza di rinvio del termine per l'esercizio della Sua difesa. Riguardo la sospensione obbligatoria adottata nei Suoi confronti ai sensi dell'art. 15 L. 19 marzo 1955, n. 55 e s.m.i., si comunica che la stessa è commutata in quella prevista dall' art. 21 comma 2 del CCNL FEDERGAS-ACQUA (sospensione cautelare)". Il lavoratore trasmetteva, quindi, alla società datrice di lavoro le proprie giustificazioni con lettera del 28.6.2017. Seguiva l'intimazione da parte del (...)M. del licenziamento, con lettera del 10.7.2017, ricevuta dal (...) il 13.7.2017, del seguente tenore: "Oggetto: provvedimento disciplinare derogazione del licenziamento senza preavviso - dipendente (...). RICHIAMATI: - l'art. 7 della L. n. 300 del 1970; - l'art. 21, sub 7 del vigente CCNL FEDERGASACQUA, che prevede la sanzione del licenziamento senza preavviso; - il Codice Etico di comportamento adottato dal (...) S.p.A., che esige, da parte di tutti i dipendenti e collaboratori aziendali, quale standard di comportamento, il rispetto di tutte le leggi e normative. - L'art. 2119 del Codice Civile, il quale prevede che le parti (ossia il datore di lavoro e il lavoratore) possano recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato senza necessità di preavviso qualora si verifichi, appunto, una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto medesimo. VISTI gli atti di: - richiesta del 07/03/2017 prot. n. (...) effettuata dalla Società (...) S.p.A. al Tribunale di Avezzano di informazioni sullo stato del procedimento penale e copia delle eventuali ordinanze di custodia cautelare adottate a carico del dipendente (...), a seguito della notizia apparsa sugli organi di stampa dell'arresto del dipendente sopra menzionato; - comunicazione di sospensione cautelare obbligatoria dal servizio a decorrere dal 06/03/2017 al dipendente (...) prot. n. (...) del 10/03/2017; - avvio del procedimento disciplinare ai sensi dell'art. 21 del CCNL e dell'art. 7 L. n. 300 del 1970, dipendente (...) (riferimento prot. n. (...) del 23/06/2017); - giustificazioni del dipendente (...) pervenute al (...) S.p.A. con raccomandata a.r. in data 03/07/2017 n. prot. (...); PREMESSO: - che il dipendente (...) è stato già arrestato dalla Polizia di Avezzano (AQ) in data 05/06/2015 e indagato per il reato di detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio così come da notifica del G.I.P. del Tribunale di Avezzano del 09/06/2015; - che a seguito della richiesta del 10/06/2015 prot. (...) di informazioni sullo stato del procedimento penale del dipendente (...) e copia della ordinanza di custodia cautelare dello stesso, il (...) S.p.A. aveva provveduto alla sospensione cautelare obbligatoria del lavoratore per il periodo 08/06/2015 e fino al 10/07/2015, per poi reintegrarlo al lavoro in data 13/07/2015 per effetto dell'istanza per la modifica della misura cautelare del 07/07/2015; - che il dipendente (...) è stato di nuovo arrestato per lo stesso motivo di cui sopra in data 29/03/2016 così come da comunicazione del Tribunale di Avezzano (AQ) - Ufficio del Giudice delle indagini preliminari e che di nuovo il (...) S.p.A. con atto n. (...) del 31/03/2016, ha provveduto alla sospensione cautelare obbligatoria per il periodo 29/03/2016 e fino al 18/05/2016 per essere poi reintegrato alla data del 19/05/2016 come da atto del 18/05/2016 prot. (...); - che (...) in data 06/03/2017 è stato arrestato dalla Polizia di Avezzano (AQ) per detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio; - che la Società (...) S.p.A. ha provveduto di conseguenza alla sospensione cautelare obbligatoria dal servizio del dipendente a decorrere dalla data del 06/03/2017; - che la sospensione di cui sopra è stata poi commutata in "sospensione cautelare" ai sensi dell'alt 21 comma 2 del CCNL FEDERGAS-ACQUA a far data del 23/06/2017; CONSIDERATO: - che dagli atti e fatti sopra richiamati è del tutto evidente e inconfutabile il danno d'immagine nei confronti dell'azienda (...) S.p.A. provocato dal dipendente (...); - che il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione lavorativa contrattualmente richiesta, ma anche a non porre in essere nella sua stessa vita privata, comportamenti che ledano gli interessi morali e materiali del datore di lavoro, nonchè l'immagine aziendale, compromettendone in maniera irreversibile il rapporto fiduciario; - che le notizie apparse sulla stampa locale per il comportamento peraltro reiterato del dipendente (...), ha sicuramente provocato una lesione dell'immagine stessa della Società in cui questi presta la propria opera lavorativa; - che dunque per quanto sopra detto, è venuto definitivamente meno l'elemento fiduciario che costituisce il presupposto fondamentale della collaborazione tra le parti del rapporto di lavoro e l'unica sanzione idonea a tutelare l'interesse aziendale è quella del licenziamento senza preavviso; - che le giustificazioni fornite dal dipendente (...), per il tramite della raccomandata a.r. pervenuta al (...) in data 03/07/2017 n. prot. (...), non sono sufficienti a chiarire la propria posizione alla estraneità dei fatti, arrecando così un danno d'immagine alla Società; pertanto, sulla base delle motivazioni ed argomentazioni sopra esposte, ritenuto di dover procedere alla irrogazione del licenziamento senza preavviso, ritenendola proporzionata alla gravità delle violazioni dei doveri di servizio perpetrate che sono tali da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro, visto l'art. 21, sub. (...), del vigente CCNL FEDERGAS-ACQUA, APPLICA al dipendente (...) la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso con effetto immediato, misura ritenuta proporzionata alla gravità della violazione dei dover di servizio come previsto dall'art.21 sub.(...) del vigente CCNL FEDERGAS-ACQUA". Risulta dagli atti prodotti sin dalla prima fase del presente giudizio che: - l'odierno opponente, in data 5.6.2015, veniva arrestato dalla Polizia di Avezzano ed indagato per il reato di detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio (in conseguenza di ciò (...) applicava la sospensione cautelare obbligatoria, reintegrandolo poi nel servizio in data 13.7.2015, per effetto della modifica della misura cautelare intervenuta il 7.7.2015); - in data 26.3.2016, il (...) veniva nuovamente arrestato dalla Polizia di Avezzano in flagranza di reato, poiché trovato in possesso di 1 Kg e 148 grammi di hashish oltre un piccolo quantitativo di cocaina ((...) procedeva, anche in tale occasione, alla sospensione cautelare obbligatoria durante la misura cautelare degli arresti domiciliari, con decorrenza dal 26.3.2016 e fino alla revoca della misura); - il G.I.P. di Avezzano emetteva ordinanza del 15.2.2017, con la quale, premettendo che la richiesta cautelare dovesse essere riferita ai soli episodi successivi all'arresto del 26.3.2016 (segnatamente la cessione di 15 grammi di cocaina avvenuta il 5.4.2017, di cui al capo 7) della richiesta del P.M.), applicava al (...) la misura della custodia cautelare in carcere; - in data 6.3.2017 (circostanza pacifica e non contestata dalle parti) veniva quindi eseguito un ulteriore arresto nei confronti del (...). Orbene, sostiene, innanzitutto, l'opponente che il licenziamento intimatogli sarebbe illegittimo in quanto posto in essere in violazione dell'art. 21, n. 7, Capitolo V del CCNL, norma contrattualcollettiva che, nel tipizzare le infrazioni che giustificano il licenziamento senza preavviso, fa riferimento alla "condanna a pena detentiva con sentenza passata in giudicato, per azione commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, che lede la figura morale del lavoratore", laddove, all'opposto, il (...) non ha subito alcuna condanna definitiva con sentenza passata in giudicato. La tesi non può essere condivisa. Giova, infatti, osservare che, in tema di licenziamento disciplinare, la tipizzazione delle cause di recesso contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante, potendo il catalogo delle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo essere esteso, in relazione a condotte comunque rispondenti al modello di giusta causa o giustificato motivo, o, viceversa, ridotto, se tra le previsioni contrattuali ve ne siano alcune non rispondenti al modello legale e, dunque, nulle per violazione di norme imperative; ne consegue che il giudice non può limitarsi a verificare se il fatto addebitato sia riconducibile ad una previsione contrattuale, essendo comunque tenuto a valutare in concreto la condotta addebitata e la proporzionalità della sanzione (Cass., Sez. Lav., 11.2.2020, n. 3283), ossia se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa attenzione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza (Cass., Sez. Lav. 5.7.2019, n.18195; v. anche Cass., Sez. Lav., 23.5.2019, n. 14063). La giusta causa è nozione legale ed il giudice, anche al di fuori delle ipotesi elencate, con valore meramente esemplificativo, dalla contrattazione collettiva, la può ritenere sussistente in ipotesi di grave inadempimento o di grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile allorché tale grave inadempimento o tale grave comportamento abbia fatto venir meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (Cass., Sez. Lav. 12.2.2016, n. 2830; Cass., Sez. Lav., 28.5.2015, n. 11056). Dei principi poc'anzi enunciati la Suprema Corte ha fatto applicazione anche nel caso di una norma contrattualcollettiva - analoga a quella prevista dall'art. 21, comma 7, del CCNL per il settore Gas-Acqua - che subordinava la sanzione più grave del licenziamento senza preavviso, in ipotesi di sottoposizione del lavoratore ad una misura restrittiva della libertà personale, al passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna, affermando che, in tali casi, l'esemplificazione delle condotte operata dal CCNL non né vincolante né tassativa, permanendo comunque, in capo al datore di lavoro, la facoltà di recesso ai sensi dell'art. 2119 c.c., alla luce della quale deve essere valutata l'idoneità della condotta del lavoratore ad integrare una causa che non consenta la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto, ossia ad incidere irrimediabilmente sul rapporto fiduciario, in quanto sintomo di inaffidabilità e scarsa rettitudine morale (Cass., Sez. Lav., 17.6.2004, n. 11369: nella specie, la lavoratrice - addetta ad un ufficio postale - era stata arrestata con l'accusa di concorso in detenzione a fini di spaccio di una rilevante quantità di droga sequestrata proprio nell'abitazione della stessa, dopo che aveva già subito due procedimenti per violazione della legge sugli stupefacenti, il primo concluso con sentenza di patteggiamento e il secondo con sentenza di condanna, e il giudice di merito aveva ricondotto all'art. 2119 c.c. la misura restrittiva ricollegata al particolare comportamento di rilievo penale, già posto in essere dalla lavoratrice in precedenza, considerando la peculiarità del contesto aziendale, nel quale anche semplici lettere possono contenere valori ed in cui non vi è una rigida divisione tra i vari ambiti lavorativi, tale da escludere qualsiasi ingerenza di un soggetto poco affidabile in settori delicati). La giusta causa di licenziamento ai sensi dell'art. 2119 c.c. costituisce, d'altra parte, nozione che la legge - allo scopo di adeguare le norme alla realtà sociale articolata e mutevole nel tempo - configura con disposizioni (ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Sulla scorta di tali premesse, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che l'uso e la detenzione, anche a fini di spaccio, di sostanze stupefacenti, non sono consoni, in base agli standard, conformi ai valori dell'ordinamento ed esistenti nella realtà sociale, allo svolgimento di una prestazione lavorativa implicante contatto con gli utenti da parte del dipendente inserito in un ufficio di rilevanza pubblica (Cass., Sez. Lav. 3.3.2020, n. 5897). Non è revocabile in dubbio, poi, il vincolo fiduciario posto a base del rapporto di lavoro possa essere leso irrimediabilmente, non solo in conseguenza di specifici inadempimenti contrattuali, ma anche in ragione di condotte extralavorative che, seppure tenute al di fuori dell'azienda e dell'orario di lavoro e non direttamente riguardanti l'esecuzione della prestazione, nondimeno possano essere tali da determinare un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto e compromettano le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell'obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività (Cass., Sez. Lav., 10.1.2019, n. 428; Cass., Sez. Lav., 24.11.2016, n. 24023; Cass., Sez. Lav., 18.8.2016, n. 17166). Si è, pertanto, affermato che "la detenzione, in ambito extralavorativo, di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti a fine di spaccio è idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento, poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da compromettere il rapporto fiduciario, il cui apprezzamento spetta al giudice di merito" (Cass., Sez. Lav. 1.12.2016, n. 24566; in senso analogo v. Cass., Sez. Lav. 9.3.2016, n. 4633 e Cass., Sez. Lav., 6.8.2015, n. 16524). L'onere di allegazione dell'incidenza irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extralavorativo del dipendente è assolto da datore di lavoro con la specifica deduzione del fatto in sé, quando lo stesso abbia un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto, perché di gravità tale, per contrarietà alle norme dell'etica e del vivere civile comuni, da connotare negativamente la figura morale del lavoratore, tanto più se inserito in un ufficio di rilevanza pubblica a contatto con gli utenti (Cass. n. 24023/2016 cit., nel caso di specie il fatto era costituito dalla detenzione e spaccio di rilevante quantità di sostanze stupefacenti del tipo marijuana, pari a 1.340,81 grammi suddivisi in due buste di plastica e da cui erano ricavabili 3.212 dosi medie, rinvenuti, al momento dell'arresto, con una bilancia da cucina recante ancora residui della sostanza e con un importo di Euro 23.100,00 in contanti). Orbene, nel caso che occupa, la verosimiglianza degli episodi di detenzione di sostanza stupefacente a fini di spaccio, si evince dagli elementi istruttori raccolti nel corso delle indagini penali a carico dell'odierno opponente. In particolare, in data 5.6.2015, il (...) veniva arrestato a seguito di perquisizione personale e domiciliare presso la sua abitazione. In tale occasione le Forze dell'Ordine trovavano l'opponente in possesso di 212,85 grammi di cocaina, di 4,97 grammi di hashish, di 21,41 grammi di mannite (sostanza da taglio), nonché di materiale da confezionamento (cellophane, nastro adesivo e bilancino di precisione) e denaro contante (Euro 700,00), come evidenziato nei verbali di perquisizione e di sequestro, nonché nel verbale di arresto. In relazione a tale il fatto, il G.I.P. di Avezzano, con ordinanza del 9.6.2015, applicava la misura degli arresti domiciliari. In data 26.3.2016, il (...), mentre era ancora sottoposto alla misura degli arresti domiciliari, veniva nuovamente arrestato in flagranza, in quanto trovato in possesso di 1.148,86 grammi di hashish e 5,03 grammi di cocaina (verbali di arresto, di perquisizione, analisi di laboratorio delle sostanze). Dalle intercettazioni eseguite pochi giorni prima (il 20.3.2016), emergevano conversazioni del (...) con altro soggetto, in cui l'odierno opponente si riferiva espressamente alla cessione di importanti quantitativi di droghe leggere e pesanti e dei guadagni così ottenuti, investiti nell'arredamento della propria abitazione. Ulteriori espliciti riferimenti a significativi quantitativi di droga detenuti e smerciati dall'opponente emergono anche dalle precedenti numerose intercettazioni relative a conversazioni intrattenute dall'opponente con altri soggetti nei mesi di febbraio e marzo 2016. Per entrambi i fatti poc'anzi esposti, il (...) veniva condannato dal Tribunale di Avezzano, con sentenza n. 382 del 2.8.2016, alla pena di anni 4 di reclusione e ad Euro 14.000,00 di multa. A quanto consta, avverso tale sentenza pende tuttora giudizio di appello. L'ulteriore arresto del 6.3.2017 si ricollega all'ordinanza del G.I.P. di Avezzano del 15.2.2017, con la quale è stata disposta la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti del (...) in relazione ai fatti di cui al capo 7) della richiesta del P.M., ossia la cessione di 15 grammi di cocaina ad opera del (...), avvenuta in data 5.4.2016. Più segnatamente, tale ulteriore episodio emerge dalle intercettazioni di una conversazione del (...) con altro soggetto, avvenuta all'interno dell'abitazione del (...), alla data del 5.4.2016: nella circostanza il (...) cedeva a tale altro soggetto il quantitativo di 15 grammi di cocaina verso corrispettivo di Euro 1.000,00, che il soggetto acquirente avrebbe poi pagato quando avesse a sua volta rivenduto la sostanza stupefacente. Sebbene nessuno dei fatti poc'anzi esposti sia stato accertato in sede penale con autorità di cosa giudicata (per i fatti che hanno dato luogo agli arresti del 5.6.2015 e del 26.3.2016, v'è infatti sentenza di condanna di primo grado, avverso la quale pende tuttora appello; mentre il fatto che ha dato luogo all'arresto del 6.3.2017, è oggetto dell'ordinanza del G.I.P. di Avezzano del 15.2.2017), nondimeno essi sono evincibili dal materiale probatorio emerso sin d'ora in sede penale, poc'anzi illustrato e, d'altra parte, valutato anche dal G.I.P. come integrante i gravi indizi di colpevolezza necessari per sostenere la misura applicativa della custodia cautelare in carcere. Giova, peraltro, osservare che il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, sancito dall'art. 27, comma 2, Cost., concerne le garanzie relative all'attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può, quindi, applicarsi, in via analogica o estensiva, all'esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del datore di lavoro che possa altresì integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna (Cass., Sez. Lav., 10.1.2019, n. 428). Se, poi, è vero che il Giudice del lavoro, davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare intimato per giusta causa a seguito di rinvio a giudizio del lavoratore con l'imputazione di gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario, deve accertare - autonomamente rispetto al Giudice penale - l'effettiva sussistenza dei fatti riconducibili alla contestazione, idonei ad evidenziare l'adeguato fondamento della sanzione espulsiva, nondimeno, il Giudice del Lavoro (ed in generale il Giudice civile) ben può porre a base della propria autonoma e specifica valutazione e decisione, quali argomenti di prova, le prove raccolte in un giudizio penale. Il Giudice civile, infatti, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, può liberamente utilizzare le prove raccolte in un diverso giudizio tra le stesse o tra altre parti, e può anche avvalersi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale (Cass., Sez. II, 20.1.2017, n. 1593). La gravità dei fatti oggetto dell'addebito disciplinare è, d'altra parte, accentuata dalla reiterazione e dalla pervicacia delle condotte illecite poste in essere dal (...): gli atti dell'indagine penale evidenziano, infatti, una dedizione abituale e professionale dell'odierno opponente alla detenzione ed allo spaccio di sostanze stupefacenti, attività proseguita, come emerge dall'episodio del 5.4.2016, anche successivamente agli arresti, per fatti analoghi, eseguiti il 5.6.2015 ed il 26.3.2016, e persino in costanza di applicazione della misura degli arresti domiciliari. Giova, poi, osservare che il ricorrente, assunto con contratto indeterminato nel III livello CCNL Gas-Acqua, ricopriva, prima dell'episodio del primo arresto del 5.6.2015, la mansione di letturista, comportante un continuo contatto con il pubblico, dovendo il lavoratore recarsi presso le abitazioni degli utenti per registrare la lettura dei contatori. Proprio in ragione dell'arresto del 5.6.2015, l'azienda decise, con delibera dell'Organismo di sorveglianza del 13.7.2015, di assegnare il lavoratore alla diversa mansione di addetto operativo alla depurazione, al dichiarato fine di "evitare il contatto con gli utenti" in un contesto nel quale era già avvertita una conseguente "perdita d'immagine dell'azienda (...)". Va, infine, osservato, per quanto tale aspetto risulti del tutto marginale a fronte della conclamata gravità degli addebiti, che l'opponente risulta essere destinatario di altro precedente disciplinare, essendogli stata irrogata sanzione della multa, con provvedimento datoriale del 2.3.2010, per assenza dalla residenza in periodo di malattia. Ancora per quanto attiene alla gravità degli addebiti, giova osservare che i due precedenti episodi che diedero origine agli arresti del 5.6.2015 e del 26.3.2016, pur a suo tempo non assunti dal datore di lavoro a motivo di contestazione disciplinare, contribuiscono senz'altro a connotare la gravità dell'addebito mosso con la contestazione disciplinare del 23.6.2017, seguita poi dall'intimazione del licenziamento, a base della quale è principalmente l'ulteriore arresto del 6.3.2017, per fatti illeciti della medesima natura (detenzione di sostanze stupefacenti a fini di spaccio). Non v'è dubbio, infatti, che condotte precedenti, anche disciplinarmente rilevanti, per le quali il datore di lavoro, tuttavia, non abbia ritenuto, nella sua autonomia, di irrogare sanzioni disciplinari, possano assumere valore quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione complessiva della gravità, sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio del datore di lavoro (v. per tutte Cass., Sez. Lav., 9.6.2017, n. 14453; Cass., Sez. Lav., 19.12.2006, n. 27104). La reiterazione di una condotta disciplinarmente rilevante, anche ove per la precedente infrazione la contestazione disciplinare sia mancata, non è irrilevante e può legittimamente essere considerata nella valutazione della gravità oggettiva e soggettiva del comportamento da ultimo messo in atto dal lavoratore, che, in quanto ripetuto nel tempo, realizza una più intensa violazione degli obblighi del lavoratore e può, pertanto, essere comunque sanzionato in modo più grave (Cass., Sez. Lav., 20.10.2009, n. 22162; Cass., Sez. Lav., 1.8.2000, n. 10082). La mera tolleranza manifestata dal datore di lavoro in occasione di precedenti mancanze del lavoratore non vale a rendere legittimi i relativi comportamenti lesivi e non preclude al datore di lavoro di mutare atteggiamento in occasione di successive mancanze, né esclude che le mancanze precedenti possano essere comprese in una valutazione globale del comportamento del dipendente, quale indice di idoneità del fatto per ultimo contestato a costituire giusta causa o giustificato motivo di recesso (Cass., Sez. Lav., 15.1.1997, n. 360). Per le stesse considerazioni, peraltro, deve ritenersi destituita di fondamento la censura dell'opponente in merito ad una presunta non tempestività della contestazione disciplinare relativamente agli arresti del 5.6.2015 e del 26.3.2016, posto che, nell'ottica della contestazione disciplinare che ha condotto al licenziamento del (...), tali episodi hanno contribuito ad accentuare il disvalore e la gravità dell'ultimo episodio che ha dato luogo all'arresto del 6.3.2017, in relazione al quale la contestazione disciplinare deve ritenersi tempestiva. Destituita di fondamento è anche la doglianza dell'opponente in merito ad una presunta disparità di trattamento, in quanto in analoghe situazioni altri due dipendenti, individuati come principali responsabili di una serie di reati (tra cui lo spaccio di sostanze stupefacenti, la truffa in danno del (...) e la tentata estorsione nei confronti dell'allora suo Presidente), non erano stati attinti da analoghi provvedimenti sanzionatori. (...) ha, infatti, dimostrato documentalmente la diversità delle situazioni afferenti ai dipendenti in questione ((...) e (...)). Risulta, in particolare, che al dipendente (...) il (...) abbia intimato licenziamento per giusta causa il 14.10.2010 la cui legittimità è stata definitivamente accertata con sentenza della Corte di Cassazione n. 27170/2017. La contestazione disciplinare mossa al dipendente (...), d'altro canto, era del tutto differente da quella mossa all'odierno opponente, come si evince dalla relativa lettera del (...) datata 12.11.2010, ed aveva ad oggetto l'esecuzione di lavori per conto proprio o di terzi in orario di servizio presso un'abitazione privata, avvenuta, peraltro, un anno addietro (10.12.2009). La infrazione contestata in quell'occasione al dipendente Testa non è in alcun modo comparabile a quella sottesa al licenziamento oggi impugnato, essendo, peraltro, il fatto addebitato di indubbia minore gravità. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza di (...). P.Q.M. Il Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, ogni altra istanza, eccezione e deduzione disattese, così provvede: - rigetta il ricorso proposto da (...); - condanna (...) alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 4.917,50, tutti per compensi, oltre rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15% del compenso, IVA e CPA come per legge, in favore di (...) S.p.A. Così deciso in Avezzano il 12 febbraio 2021. Depositata in Cancelleria il 12 febbraio 2021.

Ricerca rapida tra migliaia di sentenze
Trova facilmente ciò che stai cercando in pochi istanti. La nostra vasta banca dati è costantemente aggiornata e ti consente di effettuare ricerche veloci e precise.
Trova il riferimento esatto della sentenza
Addio a filtri di ricerca complicati e interfacce difficili da navigare. Utilizza una singola barra di ricerca per trovare precisamente ciò che ti serve all'interno delle sentenze.
Prova il potente motore semantico
La ricerca semantica tiene conto del significato implicito delle parole, del contesto e delle relazioni tra i concetti per fornire risultati più accurati e pertinenti.
Tribunale Milano Tribunale Roma Tribunale Napoli Tribunale Torino Tribunale Palermo Tribunale Bari Tribunale Bergamo Tribunale Brescia Tribunale Cagliari Tribunale Catania Tribunale Chieti Tribunale Cremona Tribunale Firenze Tribunale Forlì Tribunale Benevento Tribunale Verbania Tribunale Cassino Tribunale Ferrara Tribunale Pistoia Tribunale Matera Tribunale Spoleto Tribunale Genova Tribunale La Spezia Tribunale Ivrea Tribunale Siracusa Tribunale Sassari Tribunale Savona Tribunale Lanciano Tribunale Lecce Tribunale Modena Tribunale Potenza Tribunale Avellino Tribunale Velletri Tribunale Monza Tribunale Piacenza Tribunale Pordenone Tribunale Prato Tribunale Reggio Calabria Tribunale Treviso Tribunale Lecco Tribunale Como Tribunale Reggio Emilia Tribunale Foggia Tribunale Messina Tribunale Rieti Tribunale Macerata Tribunale Civitavecchia Tribunale Pavia Tribunale Parma Tribunale Agrigento Tribunale Massa Carrara Tribunale Novara Tribunale Nocera Inferiore Tribunale Busto Arsizio Tribunale Ragusa Tribunale Pisa Tribunale Udine Tribunale Salerno Tribunale Verona Tribunale Venezia Tribunale Rovereto Tribunale Latina Tribunale Vicenza Tribunale Perugia Tribunale Brindisi Tribunale Mantova Tribunale Taranto Tribunale Biella Tribunale Gela Tribunale Caltanissetta Tribunale Teramo Tribunale Nola Tribunale Oristano Tribunale Rovigo Tribunale Tivoli Tribunale Viterbo Tribunale Castrovillari Tribunale Enna Tribunale Cosenza Tribunale Santa Maria Capua Vetere Tribunale Bologna Tribunale Imperia Tribunale Barcellona Pozzo di Gotto Tribunale Trento Tribunale Ravenna Tribunale Siena Tribunale Alessandria Tribunale Belluno Tribunale Frosinone Tribunale Avezzano Tribunale Padova Tribunale L'Aquila Tribunale Terni Tribunale Crotone Tribunale Trani Tribunale Vibo Valentia Tribunale Sulmona Tribunale Grosseto Tribunale Sondrio Tribunale Catanzaro Tribunale Ancona Tribunale Rimini Tribunale Pesaro Tribunale Locri Tribunale Vasto Tribunale Gorizia Tribunale Patti Tribunale Lucca Tribunale Urbino Tribunale Varese Tribunale Pescara Tribunale Aosta Tribunale Trapani Tribunale Marsala Tribunale Ascoli Piceno Tribunale Termini Imerese Tribunale Ortona Tribunale Lodi Tribunale Trieste Tribunale Campobasso

Un nuovo modo di esercitare la professione

Offriamo agli avvocati gli strumenti più efficienti e a costi contenuti.