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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Enna, nella persona del Giudice onorario Avv. Pier Maria Carà ha emesso la seguente SENTENZA Nella causa civile R.G. 488/2019 avente ad oggetto: opposizione avverso ordinanza ingiunzione PROMOSSA DA Ditta (...) nato a A. (E.) il (...) C.F. (...) in qualità di legale rappresentante della Società (...) s.r.l. P.Iva (...) con sede in A. via C., 291 rappresentato e difeso dall'avv. Sa.Ba. presso il cui studio in Leonforte via (...) è elettivamente domiciliato. - Opponente - CONTRO REGIONE SICILIANA - ASSESSORATO REGIONALE DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO- DIPARTIMENTO REGIONALE DEL LAVORO, DELL'IMPIEGO, DELL'ORIENTAMENTO, DEI SERVIZI E DELLE ATTIVITÀ FORMATIVE- SERVIZIO XII - DIREZIONE TERRITORIALE DEL LAVORO DI ENNA in persona del dirigente p.t. rappresentato e difeso dal Dirigente pro tempore. - Opposto - RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso del 23.09.2019 l'opponente, impugnava l'ordinanza ingiunzione di pagamento n. (...) prot. n. (...) del 21.02.2019 emessa e notificata il 27/02/2019 con la quale veniva ingiunto al ricorrente il pagamento dell'importo di Euro 4015,90 per la violazione delle disposizioni di cui all'art. 49 del D.Lgs. n. 81 del 2015. In seguito all'accesso ispettivo del 30/03/2017 in data 01/12/2017 veniva notificato il Verbale Unico di Accertamento e notificazione n. 17/217 prot. (...) in cui veniva contestato alla ditta (...) "la violazione delle disposizioni di cui all'art. 49 D.Lgs. n. 81 del 2015 per omessa comunicazione preventiva" irrogando la sanzione di Euro 9.625,00. L'Ispettorato, con il suddetto verbale, ha contestato alla ditta ricorrente di aver usufruito dei c.d. voucher omettendo di predisporre la comunicazione preventiva per i seguenti lavoratori: 1) Sig. (...); 2) Sig. (...); 3) Sig. (...); 4) (...); 5) (...); 6) (...); 7) (...); 8) Sig. (...); 9) Sig. (...); 10) (...). A sostegno dell'opposizione rileva come la presunta violazione dell'art. 49 cit non sussiste in quanto la sanzione si applica nell'ipotesi cui sia stata omessa la comunicazione del voucher e non nell'ipotesi di tardiva comunicazione come nel caso di specie. Il ricorrente rileva come lo stesso Ispettorato del lavoro con la Circolare n. 1 del 2016 ha specificato che la sanzione di Euro.400,00 si applica solo nell'ipotesi di omessa comunicazione disponendo che: "La violazione dell'obbligo di comunicazione in questione comporta l'applicazione della "sanzione amministrativa da euro 400 ad euro 2.400 in relazione a ciascun lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione" (art. 49, comma 3, D.Lgs. n. 81 del 2015)". Tuttavia quanto previsto nella circolare non è entrato a regime in quanto il D.L. n. 50 del 2017 convertito in Legge ha abrogato gli articoli del Jobs Act che regolamentavano l'utilizzo dei voucher motivo per cui in virtù del principio del favor rei ma anche in virtù delle indicazioni fornite dalla Circolare n 1 del 2016 l'Ispettorato non avrebbe potuto applicare tale sanzione. E per ultimo il D.L. 17 marzo 2017, n. 25, "Disposizioni urgenti per l'abrogazione delle disposizioni in materia di lavoro accessorio nonché per la modifica delle disposizioni sulla responsabilità solidale in materia di appalti", ha disposto, all'articolo 1, comma 1, l'abrogazione degli articoli 48, 49 e 50 del D.Lgs. n. 81 del 2015 relativi alla disciplina del lavoro accessorio. In ogni caso la suddetta comunicazione è stata regolarmente inoltrata sia all'Inps che all'Ispettorato per cui un semplice ritardo di 5/10 minuti nell'invio della comunicazione non può legittimare l'irrogazione di una sanzione pari ad Euro. 4.000,00 atteso che tale ritardo non ha arrecato alcun danno né all'erario né all'Ispettorato del Lavoro. In via preliminare eccepisce la mancata notifica del verbale nel termine dei 90 giorni. Nel caso di specie il controllo è iniziato il 30/03/2017 conseguentemente ai sensi dell'art. 14 L. n. 689 del 1981 i verbalizzanti avrebbero dovuto notificare il verbale entro 90 giorni dall'infrazione ossia entro il 30/06/2017, invece l'Ispettorato del Lavoro ha notificato il verbale il 01/12/2017 superando abbondantemente il termine consentito di 90 giorni previsto dall'art. 14 L. n. 689 del 1981, termine quest'ultimo ugualmente superato anche laddove l'attività ispettiva si consideri conclusa il 02/08/2017, con la consegna della documentazione da parte della società, come sostenuto dall'amministrazione resistente. Nel merito rileva l'omessa motivazione dell'ordinanza sulle ragioni per le quali l'Amministrazione non ha tenuto conto degli scritti difensivi presentati, nonché l'omesso contraddittorio e la mancata convocazione del ricorrente. Rileva altresì la violazione dell'art. 10 della L. n. 212 del 2000 non essendo stata presa in considerazione la buona fede dell'opponente, il quale ha fatto affidamento sulle disposizioni della circolare n. 1/2016 dell'ispettorato nazionale del Lavoro nonché del D.L. n. 50 del 2017 che ha abrogato gli articoli del job act che regolamentavano l'utilizzo dei voucher; peraltro la buona fede del ricorrente si ricava anche dalla circostanza che le comunicazioni sono state fatte seppure pervenute in ritardo ai competenti uffici. Si evidenzia la contraddittorietà tra la sanzione irrogata con il verbale unico di accertamento di Euro 9625,00 si contesta la violazione dell'art. 49 D.Lgs. n. 81 del 2015 per omessa comunicazione preventiva, mentre con l'ordinanza ingiunzione viene comminata la sanzione di Euro 4015,90 per la tardiva comunicazione dell'utilizzo dei voucher in violazione della medesima norma. Si costituiva ritualmente l'Amministrazione resistente sostenendo la legittimità del proprio operato sia con riferimento alla tempestività della notifica della violazione contestata che al merito della sanzione irrogata. Con riferimento al primo aspetto l'amministrazione resistente sostiene come nell'ispezione del lavoro la data dell'accertamento difficilmente può coincidere con quella dell'accesso ispettivo. il dies a quo per il computo del termine legale utile per la notificazione dell'illecito deve essere individuato al momento della conclusione dell'accertamento che non coincide con la percezione del fatto materiale ma un piena conoscenza di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi dell'infrazione amministrativa. Quanto al secondo profilo le comunicazioni di assunzioni dei lavoratori sono avvenute successivamente all'accesso ispettivo, ed in ogni caso oltre il termine previsto del giorno antecedente l'assunzione; quanto alla violazione contestata la normativa sui voucher di cui all'art. 49 c. 3 del D.Lgs. n. 81 del 2015 sostituito dall'art. 1 comma 1 lett. B. del D.Lgs. n. 185 del 2016, prevede la comunicazione all'Ispettorato Territoriale del Lavoro competente per territorio, almeno 60 minuti prima dell'inizio della prestazione. Tuttavia questa comunicazione non appare sufficiente a qualificare il rapporto di lavoro quale "lavoro necessario "attraverso l'utilizzo di voucher, ma è altresì, obbligo per il datore di lavoro, inoltrare all'INPS la dichiarazione d'inizio di attività da parte del committente. L'opposizione è infondata. La vicenda trae origine dall'accesso ispettivo effettuato in data 30/03/2017 presso la ditta (...) srl allorché venivano trovati, intenti al lavoro, n. 5 lavoratori, tali (...), (...), (...), (...), (...); gli stessi dichiaravano di essere tre dipendenti della società di che trattasi, 1 tirocinante, 1 socia lavoratrice della società. Nel corso dell'accesso verificato che la ditta aveva fatto ricorso a prestazioni di lavoro accessorio di cui agli artt.li 48 e 49 del D.Lgs. n. 81 del 2015 (cd. voucher) veniva richiesta la relativa documentazione per il periodo da ottobre 2016 a marzo 2017. A seguito dell'accertamento veniva rilevata l'irregolarità sulla comunicazione dei voucher riguardante i lavoratori 1) Sig. (...); 2) Sig. (...); 3) Sig. (...); 4) (...); 5) (...); 6) (...); 7) (...); 8) Sig. (...); 9) Sig. (...); 10) (...). Quanto all'intervenuta estinzione dell'obbligo di pagare la sanzione amministrativa per superamento del termine previsto dall'art. 14 L. n. 689 del 1981, occorre richiamare il costante orientamento della Suprema Corte, secondo cui, in tema di sanzioni amministrative, i limiti temporali entro i quali, a pena di estinzione dell'obbligazione di pagamento, l'amministrazione procedente deve provvedere alla notifica della contestazione (art. 14, commi secondo e sesto della L. n. 689 del 1981) devono ritenersi collegati all'esito del procedimento di accertamento (la legittimità della cui durata va valutata in relazione al caso concreto e sulla base della complessità delle indagini) e non anche alla data di commissione della violazione, dalla quale decorre il solo termine iniziale di prescrizione di cui all'art. 28 della legge citata. (Cass. civ., sez. lav., 24 maggio 2007 n. 12093). Nel caso de quo la ditta veniva diffidata in data 15/05/2017 all'esibizione della documentazione , parte della stessa veniva consegnata il 22/05/2017, della restante su richiesta del consulente veniva prorogata la data di esibizione. Successivamente con nota del 01/08/2017 la società veniva diffidata ad esibire le comunicazioni di inizio attività inviate all'Inps per l'attivazione dei buoni lavoro, che veniva consegnata dal consulente a mezzo email il 29/09/2017; quindi in data 01/12/2017 veniva notificato il verbale unico di accertamento, entro il termine dei 90 giorni previsto. Quanto al merito occorre anzitutto la disciplina in materia di lavoro accessorio è stata oggetto di un travagliato iter legislativo che ha visto l'abrogazione della disciplina di cui al D.Lgs. n. 81 del 2015 e poi la reintroduzione della stessa, in forma rimodulata, in successivi decreti legge. Invero originariamente fu inserita nel D.Lgs. n. 81 del 2015, che nel riformulare in un'unica fonte tutte le tipologie contrattuali esistenti, ha altresì abrogato parte consistente del D.Lgs. n. 276 del 2003. La disciplina del lavoro accessorio è stata di conseguenza inserita negli artt. 48-50 del succitato D.Lgs. del 2015. Invero, il legislatore delegato, nel mantenere quasi immutata la disciplina risultante dalla modifica del 2013 (ciò che appare modificata è la modalità di acquisto e di controllo sull'utilizzo dei voucher lavoro), ha tuttavia ulteriormente innalzato il limite dei compensi complessivi percepibili entro l'anno solare, portandoli ad euro settemila. Nel tentativo di prevenirne e contrastarne l'utilizzo abusivo, il decreto correttivo del Jobs Act n. 185/2016, è intervenuto anche in materia di lavoro accessorio introducendo obblighi più stringenti a carico del datore di lavoro che intendesse avvalersene. In linea generale è stato previsto che il datore di lavoro (imprenditore non agricolo o professionista) debba comunicare, almeno 60 minuti prima dell'inizio della prestazione, alla sede territoriale competente dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro, mediante sms o posta elettronica, i dati relativi al lavoratore nonché il luogo, il giorno e l'ora di inizio e di fine della prestazione. Nel caso dei committenti imprenditori agricoli, tuttavia, l'arco temporale disponibile per la comunicazione dei dati era invece di tre giorni. In questo modo, oltre a garantire una piena tracciabilità dei voucher, si era cercato di evitare che gli stessi venissero utilizzati per coprire, a posteriori, il ricorso al lavoro nero . La sanzione amministrativa prevista nel caso in cui non fosse dichiarato preventivamente l'utilizzo del buono, ammontava ad un importo variabile tra Euro 400,00 e Euro 2.400,00 per ciascun lavoratore per il quale era stata omessa la comunicazione. Peraltro l'Ispettorato Nazionale del Lavoro aveva precisato (con Circolare n. 1/2016) che la nuova comunicazione preventiva non faceva venire meno l'obbligo per il committente di presentare la dichiarazione di inizio attività all'INPS, nel momento in cui si attivava il rapporto. Ed anzi, nel caso in cui, oltre a mancare la comunicazione preventiva, avesse difettato anche la dichiarazione di inizio attività all'Inps, veniva applicata la maxi sanzione per lavoro nero, di entità ben superiore. Con il D.L. n. 25 del 17 marzo 2017, sono state abrogate le disposizione in materia di lavoro accessorio (voucher). L'articolo 1 del D.L. 17 marzo 2017, n. 25 a far data dal 17 marzo 20117 dispose l'abrogazione degli articoli 48, 49 e 50 del D.Lgs. n. 81 del 25015 e, pertanto, l'abrogazione della fattispecie del lavoro accessorio (voucher). Contestualmente, il secondo comma dell'art. 1 prevedeva l'istituzione di un periodo transitorio, in scadenza il 31 dicembre 2017, entro il quale i committenti potranno utilizzare, secondo le normali procedure, i buoni lavoro eventualmente già richiesti alla data di entrata in vigore del decreto in esame (17 marzo 2017) ma ancora non utilizzati. Tuttavia da un canto si previde la possibilità dell'utilizzo dei voucher sino al 31.12.2017 dall'altro in presenza dell'abrogazione degli artt.li 48, 49, 50 del D.Lgs. n. 15 del 2015 nulla era stato previsto per le procedure di comunicazione durante il periodo transitorio, per cui per i buoni ancora validi, non si comprendeva quali dovrebbero essere le procedure di attivazione, ma - soprattutto - ci si chiese se doveva essere effettuata la comunicazione preventiva prevista dal comma 3 dell'articolo 49 del D.Lgs. n. 81 del 2001, ritenendosi da parte di alcuni che non essendo più vigente la suddetta norma, fosse scomparsa anche la sanzione prevista per l'eventuale omissione (da 400 a 2.400 euro in relazione a ciascun lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione). Il vuoto derivato dalla abrogazione dei voucher è stato successivamente colmato con l'art. 54-bis della D.L. n. 50 del 2017 (c.d. Manovra Correttiva) convertito in L. n. 96 del 2017 che ha introdotto l'istituto del lavoro occasionale, a sua volta articolato nelle due versioni del "Contratto di prestazione occasionale" (c.d. PrestO) e del "Libretto di Famiglia". Dette tipologie di contratto di lavoro, ognuna delle quali si riferisce a diverse categorie di datori di lavoro, presenta profili di specificità in relazione all'oggetto della prestazione, alla misura minima dei compensi e dei connessi diritti di contribuzione sociale obbligatoria, nonché alle modalità di assolvimento degli adempimenti informativi verso l'Istituto. Ai fini dell'accesso alle prestazioni, prestatori e utilizzatori devono, attraverso l'apposita piattaforma telematica predisposta sul sito INPS, registrarsi e scegliere se accedere al Libretto Famiglia o al Contratto per prestazioni occasionali. Tale disciplina inoltre è stata ulteriormente rivisitata con il c.d. Decreto Dignità n. 87/2018, convertito nella L. n. 96 del 2018, pubblicata in Gazzetta Ufficiale ed è entrata ufficialmente in vigore il 12 agosto 2018. Con tale normativa sono stati reintrodotti i voucher. Ed invero, da più parti la disciplina dei voucher, contenuta nell'articolo 54-bis del D.L. n. 50 del 2017, era stata considerata estremamente fallimentare, poiché le nuove regole avevano rischiato di trasformarsi in un nuovo stimolo allo svolgimento di attività professionali in nero. Di recente la L. n. 215 del 2021, di conversione del D.L. n. 146 del 2021, ha introdotto a far data dal 21 dicembre u.s. un nuovo obbligo di comunicazione finalizzato a "svolgere attività di monitoraggio e di contrastare forme elusive" nell'impiego di lavoratori autonomi occasionali. In particolare, al comma 1 dell'art. 14 del D.Lgs. n. 81 del 2008 - come modificato dall'art. 13 del D.L. n. 146 del 2021 definitivamente convertito dalla L. n. 215 del 2021 - si prevede che: "con riferimento all'attività dei lavoratori autonomi occasionali, al fine di svolgere attività di monitoraggio e di contrastare forme elusive nell'utilizzo di tale tipologia contrattuale, l'avvio dell'attività dei suddetti lavoratori è oggetto di preventiva comunicazione all'Ispettorato territoriale del lavoro competente per territorio, da parte del committente, mediante SMS o posta elettronica. Si applicano le modalità operative di cui all'articolo 15, comma 3, del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81. In caso di violazione degli obblighi di cui al secondo periodo si applica la sanzione amministrativa da euro 500 a euro 2.500 in relazione a ciascun lavoratore autonomo occasionale per cui è stata omessa o ritardata la comunicazione. Non si applica la procedura di diffida di cui all'articolo 13 del D.Lgs. 23 aprile 2004, n. 124. Così ricostruito il lungo e articolato iter della disciplina oggetto di disamina nel presente giudizio, occorre soffermarsi sulle conseguenze derivanti dall'abrogazione della D.Lgs. n. 81 del 2015 avvenuta proprio coevemente all'accesso ispettivo, avvenuto il 30/03/2017 da cui è scaturita l'ordinanza ingiunzione oggetto di impugnazione. Ed infatti l'articolo 1 del D.L. 17 marzo 2017, n. 25 a far data dal 17 marzo 2017 dispose l'abrogazione degli articoli 48, 49 e 50 del D.Lgs. n. 81 del 2015, peraltro non prevedendo una disciplina transitoria quanto al regime di comunicazione preventiva, per l'utilizzo, consentito dal secondo comma dell'art. 1 per i buoni lavoro eventualmente già richiesti alla data di entrata in vigore del decreto in esame (17 marzo 2017) ma ancora non utilizzati. E' indubbio e notorio che l'improvvisa abrogazione della disciplina causò sia una certa confusione fra i committenti utilizzatori dei voucher, che generalizzati disservizi del portale Inps sul quale non era più possibile attivare i buoni lavoro. Come sopra evidenziato anche l'ultima riforma della disciplina introdotta dalla L. n. 215 del 2021, di conversione del D.L. n. 146 del 2021 prevede la sanzione amministrativa da euro 500 a euro 2.500 in relazione a ciascun lavoratore autonomo occasionale per cui è stata omessa o ritardata la comunicazione equiparando le due fattispecie quanto al regime sanzionatorio. Orbene nel caso di specie è pacifico che le comunicazioni all'Ispettorato del Lavoro competente e all'Inps furono sì fatte per tutti i lavoratori, ma con ritardo rispetto a quanto previsto dalla richiamata normativa all'epoca vigente; il ritardo nella comunicazione peraltro riguarda anche le prestazioni lavorative avvenute nell'anno 2016 e comunque prima dell'abrogazione della citata normativa. Sotto tale aspetto pertanto non può sottacersi che la preventiva comunicazione mira ad evitare abusi e il pericolo di elusione dell'istituto in questione, come verificatosi in passato. Il fatto che successivamente all'abrogazione della disciplina si siano verificati disservizi sulla piattaforma dell'Inps non giustifica le violazioni commesse nel corso dei mesi da ottobre 2016 a marzo 2017, come risulta dalla documentazione in atti. Per le sanzioni amministrative, com'è noto la L. 24 novembre 1981, n. 689, che per prima intervenne in maniera sistematica nella conversione di alcuni reati in illeciti amministrativi, all'art. 1 sancisce il principio del tempus regit actum: "Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati". Esistono talune eccezioni al sistema della L. n. 689 del 1981, che prevedono invece l'applicazione dei principi penalistici favorevoli al sanzionato. Esse riguardano tuttavia, sostiene la Corte, quelle singole e specifiche discipline sanzionatorie che, pur qualificandosi come amministrative in senso lato, abbiano caratteristiche punitive tali, soprattutto agli occhi dell'ordinamento comunitario, da costituire sanzioni afflittive e de facto penali. Vi rientrano le violazioni tributarie, valutarie e quelle derivanti dalla violazione delle norme previste in materia di antiriciclaggio. Nel caso di specie deve trovare applicazione quanto stabilito in via generale dall'art. 1 della L. n. 689 del 1981, per cui tenuto conto della disciplina vigente al momento della commissione delle violazioni, il ritardo nell'invio della comunicazione, rientra fra le ipotesi sanzionate, qualora non venga rispettato il termine di 60 minuti prima dell'inizio della prestazione, dovendo equipararsi il ritardo all'omissione, quanto al regime sanzionatorio. In ragione della particolarità delle questioni trattate e del non univoco orientamento della giurisprudenza, le spese si dichiarano compensate ex art. 92 c.p.c.. P.Q.M. il Tribunale, definitivamente pronunciando nella causa iscritta al n. 488/2019 del R.G. Tribunale di Enna, - rigetta l'opposizione; - nulla sulle spese. Così deciso in Enna il 24 marzo 2022. Depositata in Cancelleria il 28 marzo 2022.
REPUBBLICA ITALIANA TRIBUNALE DI ENNA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il giudice dott. Mario Mascimino ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 229/2014 R.G., avente ad oggetto: altre ipotesi di responsabilità extracontrattuale TRA (...) nato (...) difeso e rappresentato dall'avv. RU.AN. giuste procure in atti; - attore - CONTRO (...) rappresentata dalla mandataria (...), in persona del rispettivo leg. rappr. p.t., difesa e rappresentata dall'avv. (...) - convenuta - RAGIONI IN FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con atto di citazione notificato in data 08.02.2014, parte attrice ha esposto: - di essere amministratore unico con poteri di rappresentanza, nonché socio per la quota nominale di Euro 9.800,00, a fronte del capitale sociale di Euro 10.000,00, di (...) S.r.l.; - di avere percepito, fino a tutto l'anno 2013, il reddito di Euro (...) lordi, quale compenso annuale per la carica di amministratore unico della (...) S.r.l.; - di avere prestato garanzie personali in favore della Società per Euro (...) e di non essere mai stato segnalato nel Bollettino dei protesti, né a sofferenza presso la Centrale Rischi della Banca d'Italia, ad eccezione della segnalazione oggetto di causa; - (...) S.r.l. almeno fino all'anno 2012, ha avuto un fatturato annuo di Euro (...); tre lavoratori alle sue dipendenze e ha goduto di cospicui affidamenti bancari; - che con racc. a.r. ricevuta in data 11.06.2013, (...) SpA, quale mandataria di (...) lo ha diffidato al pagamento della somma di Euro 2.993,92; - di avere contestato, con racc. a.r. del 17.06.2013, la debenza della somma asseritamente dovuta, ritenendo chiusa la questione; - di essere stato convocato presso la Filiale di (...) a cui aveva richiesto la concessione di un affidamento, laddove gli è stato comunicato che la pratica era stata sospesa in quanto il suo nominativo risultava segnalato sin dal mese di Giugno 2013 presso la Centrale Rischi della Banca d'Italia; - che, richiesto in data 27.08.2013, gli è stato trasmesso dalla Centrale Rischi della Banca d'Italia un prospetto aggiornato a detta data, da cui è risultato che (...) agli inizi del mese di Giugno 2013, aveva segnalato a "sofferenza" il suo nominativo per il debito di Euro 2.883,00; - che, in data 05.09.2013, Banca (...) avendo appreso della sua segnalazione a sofferenza, ha inviato a (...) S.r.l. una lettera con cui ha richiesto il sollecito rientro dall'esposizione; - che, a seguito di ricorso ex art. 700 c.p.c. depositato in data 08.10.2013, il Tribunale di Enna, con ordinanza emessa in data 03.12.2013, ha ordinato a (...) e (...) di richiedere alla Banca d'Italia la cancellazione della relativa posizione a sofferenza; - che, nonostante la comunicazione dell'esito del ricorso d'urgenza, (...) non ha più concesso l'affidamento bancario a suo tempo richiesto. Ciò premesso, ha domandato: "A) accertare e dichiarare che (...) in persona del suo legale rapp.te p.t., o comunque che (...) nella persona della mandataria esclusiva responsabile della illegittima segnalazione presso la Centrale Rischi della Banca d'Italia del (...) per il credito asseritamente vantato nei suoi confronti e, per l'effetto, B) condannare la stessa al risarcimento in favore della parte attrice, e per la causale di cui in premessa, del danno patrimoniale, che viene quantificato (...), salvo quella diversa somma che sarà accertata in corso di Giudizio a mezzo di CTU che si da ora si chiede, oltre che del danno non patrimoniale, che si quantifica in Euro (...), salvo quella diversa somma che verrà specificata nel corso del Giudizio o che il Tribunale riterrà giusta ed equa, oltre gli interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data del fatto all'effettivo soddisfo; C) condannare parte convenuta al pagamento delle spese e compensi professionali,oltre rimborso spese generali, epa ed iva come per Legge, con attribuzione ai sottoscritti difensori antistatari. Con comparsa del 29.05.2014, si è costituita (...) e per essa la mandataria, (...), contestando le allegazioni attoree e domandando: In via preliminare ritenere e dichiarare la propria incompetenza territoriale, dichiarando che la competenza è quella del Tribunale del luogo ove risiede il titolare del trattamento dei dati; - Nel merito ritenere e dichiarare, comunque, che (...) ha agito correttamente e che la segnalazione nella sezione "Sofferenze - Crediti passati a perdita" presso la Centrale Rischi è stata fatta, comunque dal creditore cedente, in osservanza delle disposizioni delle circolari emanate dalla Banca D'Italia in materia; - Rigettare, perché infondate in fatto ed in diritto, oltre che sfornite della benché minima prova, le domande di risarcimento del danno avanzate con l'atto di citazione introduttivo nei confronti di (...) - Condannare l'attore al pagamento delle spese delle due fasi di giudizio". Assegnati i termini ex art. 183, c. 6, c.p.c. all'udienza del 03.06.2014 e depositate memorie dalle parti, con ordinanza del 20.07.2015 il G.I. ha ammesso in parte la prova testimoniale formulata da parte attrice. Escussi i testi, con ordinanza del 24.01.2017, il G.I. allora assegnatario "rilevato che il danno può essere liquidato su base indiziaria ed in via equitativa, data la peculiarità dell'oggetto del presente accertamento" ha rigettato al richiesta attorea di nomina di CTU e ha rinviato il giudizio le precisazione delle conclusioni. Riassegnato il fascicolo, all'udienza le parti hanno concluso come da verbale di causa e il giudizio è stato assunto in decisione con l'assegnazione del termine di sessanta giorni per il deposito di comparse conclusionali e di successivi venti giorni per memorie di replica. 1. Con l'ordinanza ex art. 700 c.p.c. depositata in data 03.12.2013, notificata al procuratore della Società resistente in data 07.01.2014. non reclamata, il Tribunale di Enna "in accoglimento del ricorso, ordina alla resistente di richiedere alla Banca d'Italia la cancellazione della posizione a sofferenza nella centrale rischi di (...) per il credito dalla stessa vantato nei confronti del ricorrente; condanna la resistente alla rifusione delle spese del presente giudizio sostenute da parte ricorrente e le liquida in complessivi Euro (...) di cui Euro (...) per spese ed Euro (...) per compensi professionali, oltre ad IVA, se dovuta, e CPA". Parte convenuta domanda la revoca dell'ordinanza cautelare, ritenendo infondate le ragioni per cui il Tribunale ha accolto l'istanza del ricorrente e lamentando anche il rigetto dell'eccezione di incompetenza territoriale da parte del Giudice cautelare, eccezione che ripropone in questo giudizio. Come noto, con L. n. 80/2005 il legislatore ha modificato l'originario art. 669 octies c.p.c., come introdotto dalla L. n. 353/90, innovando il rapporto tra la fase cautelare e il giudizio di merito, mediante l'introduzione del regime c.d. a strumentalità attenuata. In particolare e per quel che qui interessa, a seguito di detto intervento normativo, i provvedimenti di urgenza emessi ante causam ai sensi dell'art. 700 c.p.c., di natura cd. anticipatoria, quale è quello emesso inter partes dal Tribunale di Enna, sono idonei a conservare la propria efficacia a prescindere dall'instaurazione, entro un certo termine, del giudizio di merito, la cui introduzione costituisce una facoltà della parte interessata e il cui mancato esercizio non incide, dunque, sull'efficacia della misura. Rimanendo possibile, per quanto facoltativa, l'introduzione del giudizio di merito al fine della stabilizzazione del dictum cautelare anticipatorio e permanendo la possibilità di reclamo, la L. n. 80/2005 ha regolamentato i rapporti tra i due mezzi processuali. Il primo comma dell'art. 669 decies c.p.c., condiziona espressamente la proposizione dell'istanza di revoca o modifica nel giudizio di merito al fatto che non sia stato proposto reclamo, strumento prevalente per la revisione dell'ordinanza cautelare. Proposto il reclamo, l'istanza di riesame innanzi al Giudice del merito potrà fondarsi, però, su fatti nuovi o successivamente conosciuti, allorché questi ultimi o la loro conoscenza intervengano una volta esaurita la procedura di reclamo ovvero risulti ormai preclusa la sua esperibilità. Nel presente giudizio, tuttavia, la convenuta non pone a fondamento dei suoi rilievi nei confronti dell'ordinanza fatti nuovi, né circostanze preesistenti alla definizione dell'oggetto della controversia cautelare e solo successivamente conosciute, ma ripropone fatti e circostanze, nonché eccezioni, già scrutinate nella fase cautelare, la cui pertinente sede di riesame rimane quella del non proposto reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c.. L'istanza di revoca è. dunque, inammissibile. 1.1 L'eccezione di incompetenza territoriale in favore del "Il Tribunale del luogo in cui ha sede il titolare del trattamento dei dati" proposta con riferimento al presente giudizio è inammissibile, perché tardiva. Parte convenuta, a fronte della data di citazione fissata per il giorno 03.06.2014, si è costituita in data 29.05.2014, decadendo dalla proposizione delle eccezione ai sensi degli artt. 38 e 167 c.p.c.. In ogni caso, l'eccezione è infondata, in quanto la domanda ha ad oggetto il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali conseguenti alla illegittima segnalazione a sofferenza presso la Centrale rischi, e non quello proprio dell'azione di cui all'art. 152 del Dlt n. 196/03, relativa all'illegittimo trattamento dei dati da parte del titolare. 2. La condotta lesiva di cui si duole l'attore è quella della violazione di quanto prescritto dalla Banca d'Italia alle banche, agli intermediari finanziari e alle società di cartolarizzazione con la circolare n. 139 del 19.02.1991, successivamente modificata e aggiornata, in relazione al funzionamento della Centrale dei rischi dall'Istituto gestita. Com'è noto, la Centrale dei rischi raccoglie i dati comunicati dagli intermediari creditizi e finanziari in ordine agli affidamenti concessi ai singoli clienti e rende disponibile agli intermediari il quadro riassuntivo dei crediti dei cliente censiti, nonché dei soggetti coobbligati, con indicazione dei rispettivi importi globali accordati e utilizzati (c.d. posizione globale di rischio). Prevede la suindicata circolare, al punto 1.5 della sezione 2, che "l'appostazione a sofferenza implica una valutazione da parte dell'intermediario della complessiva, situazione finanziaria del cliente e non può scaturire automaticamente da un mero ritardo di quest'ultimo nel pagamento del debito", né dalla contestazione del credito. Invero, la segnalazione di una posizione "in sofferenza" richiede una valutazione, da parte dell'intermediario, riferibile alla complessiva situazione finanziaria del debitore, e risulta giustificata dal riscontro di una situazione patrimoniale' deficitaria, caratterizzata da una grave e non transitoria difficoltà economica equiparabile, anche se non coincidente, con la condizione d'insolvenza (v. Cass. Civ. n. 15609/14). Parte convenuta, a fronte del credito vantato di Euro 2.823,00, ha provveduto alla segnalazione del nominativo dell'attore sulla base della mera constatazione del suo inadempimento, e senza assumere una propria specifica ed apposita delibera di classificazione del credito come irrecuperabile o di non conveniente recupero, come richiesto dal punto 5.5, sezione 2, della stessa Circolare. In ogni caso, al punto 1.5 della Circolare è previsto l'obbligo per l'intermediario di informare per iscritto il debitore e degli eventuali coobbligati in occasione della prima segnalazione a sofferenza, obbligo che qui, incontestatamente, non è stato assolto. Deve ritenersi, pertanto, che la segnalazione del nominativo dell'attore è stata effettuata in violazione di quanto disposto dalla Circolare summenzionata. Dichiara lo stesso attore che la segnalazione presso la Centrale rischi è stata cancellata, su richiesta della convenuta, in data 14.02.2014. 2. L'attore ha lamentato, in primo luogo, "danni all'immagine e alla reputazione, sia di natura personale che commerciale", affermandone la sussistenza in re ipsa. La giurisprudenza di legittimità ha affermato che il danno non patrimoniale, come qualsiasi altro tipo di danno, non può mai ritenersi in re ipsa, con la conseguenza che la relativa prova, anche presuntiva, deve essere offerta da chi invochi il risarcimento, neppure potendosi identificarsi il danno con la stessa lesione della situazione giuridica vantata. In altri termini, il danno all'immagine ed alla reputazione, in quanto costituente "danno conseguenza", non può ritenersi sussistente "in re ipsa", dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento (v. Cass. Civ. n. 7594/18). L attore ha prodotto la lettera del 22.07.2013, con cui è stato invitato a prendere contatto con la Filiale (...) "... per informazioni riguardanti l'esito della richiesta di affidamento pervenutaci", richiesta poi rigettata. Il teste (...), dipendente della (...) all'epoca del fatto, ha riferito "io collaboravo anche a livello amministrativo ed accompagnavo spesso in banca (...) ho saputo della circostanza direttamente dal direttore della Banca un giorno che ho accompagnato il (...)", confermando la circostanza che l'attore, nel mese di Luglio 2013, è stato convocato presso la Filiale (...), per comunicazioni riguardo alla richiesta di un finanziamento di (...) e che, in tale occasione, il Direttore della Filiale lo ha informato del diniego del finanziamento, poiché risultava a suo carico una segnalazione a sofferenza presso la Centrale Rischi della Banca d'Italia. Parte attrice ha prodotto la lettera del 05.09.2013 con cui Banca (...) ha richiesto, per il tramite del legale dello stesso attore, alla Società garantita il sollecito rientro dalla esposizione in essere, in conseguenza della notizia della segnalazione del suo nominativo presso la Centrale Rischi della Banca d'Italia. Deve concludersi che l'attore ha effettivamente patito una lesione alla sua reputazione di soggetto affidabile nei confronti del sistema creditizio, lesione che deve ritenersi cessata a seguito della cancellazione dell'iscrizione a sofferenza. Infatti, come risulta dalla guida allegata al prospetto sintetico al 30.11.2013, prodotto dallo stesso attore, nell'ipotesi di iscrizione errata e, evidentemente, cancellata, le segnalazioni errate vengono fornite al solo soggetto erroneamente segnalato, specificandosi che "Se un intermediario chiede informazioni sul signor Rossi la Centrale dei rischi risponde che non è segnalato". Di conseguenza, l'esposizione negativa del nominativo dell'attore, nell'ambito del circuito del credito, è realizzata dal mese di giugno 2013 al mese di febbraio 2014, in cui, come risulta in via istruttoria, è stato effettivamente percepito come soggetto non affidabile da parte, evidentemente, non della generalità dei soggetti operanti e, tanto meno, della collettività, ma certamente da parte degli istituti bancari con cui era in contatto, vale a dire (...) i quali, com'è comprovato, hanno indirizzato in senso negativo la loro considerazione nei confronti dell'attore, assumendo le iniziative descritte nei confronti della Società di capitale per cui aveva prestato garanzie. Riguardo alla quantificazione del danno così determinato, occorre ricorrere alla liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c., come già osservato dal G.I. allora assegnatario con I ordinanza del 24.01.2017. L'esercizio del potere discrezionale del Giudice di liquidare il danno in via equitativa, ricorrendo alla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, di cui agli artt. 1226 e 2056 c. c., presuppone I impossibilità di provare l'ammontare preciso del danno, seppure in senso relativo e ritenendosi sufficiente anche una difficoltà solo di un certo rilievo, con il limite che il Giudice non può surrogare il mancato accertamento della responsabilità del debitore o il mancato conseguimento della prova del danno nella sua esistenza (v. Cass. Civ. sent. n. 20990/11). Tenuto conto del contesto circoscritto in cui si è diffusa la notizia, limitato dalle modalità riservate di accesso all'informazione erronea; del numero ridotto degli operatori economici che, in concreto, ne sono venuti a conoscenza; dell'ampiezza del lasso di tempo, suddiviso in reports mensili, in cui l'errata segnalazione è risultata iscritta e accessibile, ritiene questo Giudice che il danno patrimoniale va liquidato nella misura di Euro 1.000,00, comprensiva di accessori di legge, per ogni mensilità dall'iscrizione nel mese di giugno 2013 alla richiesta di cancellazione in quello di febbraio 2014 e, dunque, nella somma di Euro 9.000,00, comprensiva della rivalutazione monetaria e degli interessi maturati alla decisione (v. Cass. Civ. n. 2771/11). 3. L'attore ha domandato, altresì, il risarcimento del danno patrimoniale, lamentando la mancata percezione del reddito di amministratore unico della (...) per, almeno, i tre anni successivi all'illegittima segnalazione e per effetto della conseguente riduzione di redditività della Società; il "mancato reddito scaturente da mancati finanziamenti personali per acquisto di beni mobili e immobili, nonché quello scaturente dalla totale indisponibilità a prestare garanzie di ogni tipo il danno da mancato accesso al credito e per la necessità di prestare garanzie sostitutive di quelle esistenti. Quanto alla situazione economica della Società, dal cui andamento negativo conseguente all'ingiusta segnalazione sarebbe derivato, in primo luogo, la mancata percezione del compenso annuale, va osservato che il mero dato del fatturato, sottolineato da parte attrice in atto introduttivo al fine di dimostrare la solidità societaria, non risulta di per sé decisivo. D'altronde, lo stesso attore, nella "Relazione' a sua firma allegata alla produzione, riferisce della crisi attraversata dal mercato nel 2013 e, inoltre, il bilancio 2012 è stato chiuso con la perdita di esercizio Euro 12.222,00, che, nelle note esplicative in calce al documento contabile, si dichiara essere conseguenza della crisi del settore. Ciò posto, con riferimento alla mancata percezione del compenso di amministratore, parte attrice ha prodotto la CU2013, relativa all'anno fiscale precedente, da cui risulta la corresponsione del compenso annuale di Euro (...). Tuttavia, sono depositate in atti le buste paga relative al compenso, sempre pari a (...) mensili per tutto l'anno 2013 e fino al mese di Luglio 2014. Il teste di parte attrice (...) ha dichiarato che I attore "... dopo quanto accaduto ha cercato di pagare i fornitori e il dipendente rimasto prendendo quei due - trecento Euro al mese che gli servivano per le spese vive non percependo più lo stipendio di Amministratore; questo nel 2013; forse nel 2014 ha percepito qualcosa in più ma non sicuramente lo stipendio di amministratore. Il suo unico CUD derivava dall'essere amministratore della (...)". Tuttavia, parte attrice non ha prodotto le CU relative alle annualità interessate dalla sua domanda, con la necessaria certificazione dell'importo in ogni caso corrisposto, né i bilanci della Società, documenti da cui sarebbe emersa con certezza la sussistenza o meno del lamentato danno, di cui non può ritenere conseguita la prova. Infatti, appare contraddittorio quanto dichiarato dalla teste, commercialista della Società, che ha provveduto, come risulta dall'annotazione in calce alle stesse, alla periodica redazione delle suddette buste paga per l'intero compenso a fronte di un menzionato pagamento ridotto. Per quel che attiene alle altre voci di danno patrimoniale, le stesse, oltre che generiche, appaiono del tutto carenti di prova da parte dell'attore e, al riguardo, risulta condivisibile la decisione del G.I. di rigettare la richiesta attorea di CTU, che avrebbe avuto natura palesemente surrogatoria dell'onere della prova ed esplorativa. Conseguentemente, deve rigettarsi la domanda relativa al danno patrimoniale. 4. Parte convenuta, stante la soccombenza, va condannata alla rifusione delle spese del giudizio in favore dell'opponente, che tenuto conto del decisum e dei parametri di cui al D.M. 55/04, si liquidano in (...) per compenso (...), C.P.A. e I.V.A. come per legge ed Euro (...) per spese, che si distraggono ex art. 93 c.p.c. in favore degli avv.ti An.Ru. dichiaratisi antistatari. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando nella causa iscritta al n. 229/2014 R.G.: - condanna (...), rappresentata dalla mandataria (...) in persona dei rispettivi leg. rappr. p.t., al pagamento in favore di (...) della somma di (...), oltre interessi al tasso legale sino al soddisfo. Rigetta il resto. Condanna (...) rappresentata dalla mandataria (...) in persona dei rispettivi leg. rappr. p.t., alla refusione in favore di (...) delle spese del giudizio, che liquida in Euro (...) per compenso, oltre S.G. 15%, C.P.A. e I.V.A. come per legge per spese, e che distrae ex art. 93 c.p.c. in favore degli avv.ti An.Ru. e (...) dichiaratisi antistatari. Così deciso in Enna il 27 luglio 2020. Depositata in Cancelleria il 28 luglio 2020.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI ENNA Il giudice Eleonora (...) Guarnera ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 303/2015 R.G., promossa da (...), nata a P. il (...), ivi res. in V.le (?), c.f. (...), rappr. e dif., per mandato in calce all'atto di appello, dall'avv. Ro.Fr., presso il cui studio in Pietraperzia, via (?), è elettivam. dom.; - Appellante - contro (...) S.p.a. Assicurazioni, con sede in R., via C. P. n. 385, c.f. (...), nella persona del procuratore speciale dr (?), dom. in Enna, via Giuseppe Marchese n. 2, presso lo studio legale associato (...), rappr. e dif., per procura in calce alla copia notificata dell'atto di citazione del giudizio di primo grado, dagli avvocati Ca.Ma., Sa.Ma. e Ma.Gi.; - Appellata (...) S.p.A., con sede in M., via M. U. T. n. 18, nella persona del suo legale rappresentante pro tempore, dr (...), rappr. e dif., giusta procura in atti, dall'avv. Giuseppe Gioia, presso il cui studio in Enna, viale della Provincia n. 86, è elettivam. dom.; - Appellata (...), nato a P. il (...), ivi res. in via T. G. s.n., c.f. (...); - Appellato contumace Oggetto: Appello. Risarcimento danni da sinistro stradale. MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto di citazione regolarmente notificato, il signor (...) conveniva dinanzi al giudice di pace di Barrafranca l'odierna appellante e (...) S.p.A., chiedendo la condanna della sola società assicuratrice (c.d. indennizzo diretto ex art. 149 del Codice delle Assicurazioni) al risarcimento dei danni materiali subiti dalla autovettura (?) tg. (...), di sua proprietà (assicurata per la r.c.a. da (...)), in conseguenza del sinistro stradale verificatosi il 28.01.2010 in Pietraperzia, per responsabilità esclusiva della (...), conducente e proprietaria dell'autovettura (?), tg. (...); l'odierna appellante spiegava domanda riconvenzionale per ottenere, nei confronti di I. e della propria società assicuratrice (...) S.p.A. - che veniva autorizzata a chiamare in causa - il risarcimento dei danni (fisici e materiali) a sua volta patiti. Con sentenza n. 59/14 del 20.07.2014, depositata il 23.07.2014, il Giudice di Pace di Barrafranca, dichiarando cessata la materia del contendere in relazione alla pretesa risarcitoria formulata dall'(...) nei confronti di (...) S.p.A., ha rigettato la domanda riconvenzionale avanzata dalla (...), ritenendo quest'ultima esclusiva responsabile del sinistro. Tale sentenza viene ora impugnata dalla (...), la quale a fondamento del gravame allega che il giudice di pace ha erroneamente rigettato la propria domanda risarcitoria basandosi sulle risultanze - fuorvianti e contraddittorie - della consulenza tecnica d'ufficio modale a firma del p.a. (...) ed omettendo di fornire motivazione in ordine all'accertamento dell'esclusiva responsabilità in capo alla stessa. Proponendo il presente appello, la (...) ha altresì chiesto, in riforma dell'impugnata sentenza, la condanna in solido dei "convenuti" al risarcimento di tutti i danni da ella patiti. Costituendosi, (...) S.p.A. ha eccepito l'inammissibilità dell'impugnazione nonché l'inammissibilità della richiesta risarcitoria formulata nei propri confronti, non sussistendo nella fattispecie i presupposti per l'operatività del c.d. indennizzo diretto; nel merito, ha dedotto l'infondatezza del gravame, eccependo il concorso di colpa della (...) per il mancato uso delle cinture di sicurezza e contestando l'entità e la quantificazione dei danni operata in domanda. Anche (...) S.p.A. si è si è costituita, eccependo, ai sensi dell'art. 345 c.p.c., l'inammissibilità della domanda risarcitoria formulata nei propri confronti, comunque insuscettibile di accoglimento, stante l'assolvimento del proprio obbligo risarcitorio per effetto dell'intervenuta transazione con il proprio assicurato. Nonostante la regolarità della notificazione dell'atto di appello, (...) è rimasto contumace. Ciò premesso, l'appello è parzialmente fondato e va accolto soltanto nei limiti di seguito esposti. Preliminarmente, va respinta l'eccezione di inammissibilità del gravame sollevata dalla difesa di (...) S.p.A., che riposa, nella mancanza dei requisiti che deve contenere l'atto a mente dell'art. 342 c.p.c. (oltre che ai sensi dell'art. 348 bis c.p.c.). In linea generale, va ricordato che l'inammissibilità dell'appello, per carenza dei requisiti indicati nell'art. 342 c.p.c., va valutata in modo ragionevolmente restrittivo, nel senso che essa può essere pronunciata solo quando l'atto impugnatorio non contenga elementi tali da risalire agevolmente ai fatti di causa ed agli specifici motivi su cui si fonda l'impugnazione e dunque alle ragioni per le quali il provvedimento è stato impugnato; al contempo, tali principi interpretativi meno restrittivi non possono in ogni caso prescindere dalla necessità che i motivi di appello siano delineati in modo chiaro e preciso e non semplicemente attraverso richiami o rinvii o generiche argomentazioni difensive non strettamente collegate al ragionamento del primo giudice che viene censurato. Segnatamente, con sentenza n. 10916 del 5 maggio 2017, la Suprema Corte ha affermato testualmente che "l'art. 342 c.p.c., come novellato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54: - non esiga dall'appellante alcun "progetto alternativo di sentenza"; - non esiga dall'appellante alcun vacuo formalismo fine a se stesso; - non esiga dall'appellante alcuna trascrizione integrale o parziale della sentenza appellata o di parti di essa. Il novellato art. 342 c.p.c. esige invece dall'appellante: - la chiara ed inequivoca indicazione delle censure che intende muovere alla sentenza appellata, tanto in punto di ricostruzione dei fatti, quanto in punto di diritto. Tali argomenti ovviamente dipenderanno dalla specificità dei singoli giudizi, ma in linea generale essi consisteranno: - nel caso di censure riguardanti la ricostruzione dei fatti, nell'indicazione delle prove che si assumono trascurate, ovvero di quelle che si assumono malamente valutate; - nel caso di censure riguardanti questioni di diritto, nell'indicazione della norma che si sarebbe dovuta applicare, ovvero dell'interpretazione che si sarebbe dovuta preferire; - nel caso di censure riguardanti errores in procedendo, nell'indicazione del fatto processuale malamente valutato dal giudice, e dalla diversa scelta processuale che avrebbe dovuto compiere". Nel caso di specie, nonostante la reiterazione delle censure proposte in primo grado avverso la relazione di ctu (cfr le note conclusionali depositate nel giudizio svoltosi innanzi al Giudice di Pace), deve ritenersi che i motivi addotti a sostegno dell'appello soddisfino i requisiti di cui al nuovo art. 342 c.p.c.: i difetti che, a detta dell'appellante, viziano il ragionamento del giudice di primo grado risultano, infatti, prospettati in modo tale che è possibile enucleare i punti la decisione ritenuti erronei, le critiche formulate dall'appellante ed i supporti motivazionali ritenuti carenti, dandosi così corpo agli argomenti su cui questo giudice di secondo grado è chiamato a pronunciarsi. L'appellante non ha dunque violato i principi dettati dall'art. 342 c.p.c. Sempre in via preliminare, va dichiarata l'inammissibilità, ai sensi dell'art., 345 c.p.c., della domanda risarcitoria proposta dalla (...) nei confronti di (...) S.p.A. in quanto - come fondatamente eccepito dal procuratore di quest'ultima - tale domanda è stata formulata per la prima volta solo in questa sede. Ed invero, nel giudizio di primo grado l'originaria convenuta - ed attrice in via riconvenzionale - ha rivolto le proprie pretese risarcitorie nei confronti della propria società assicuratrice, (...) S.p.A. - ai sensi dell'art. 149 del D.Lgs. n. 209 del 2005 - e nei confronti di (...) - ai sensi dell'art. 2054 c.c. Ne deriva che la domanda oggi spiegata nei confronti della società assicuratrice dell'(...) è domanda nuova e, come tale, inammissibile ai sensi dell'art. 345 c.p.c. Passando al merito, è fondato il motivo con cui l'appellante lamenta l'illegittimità della decisione impugnata in base ad una articolata serie di censure (avverso la consulenza tecnica d'ufficio espletata in primo grado), sostanzialmente sintetizzabili nell'errata ed immotivata imputazione della esclusiva responsabilità del sinistro ad essa appellante. Sul punto, la laconica motivazione del Giudice di Pace si limita a richiamare - in maniera del tutto generica - le risultanze della relazione predisposta dal Ctu, disattendendone, tuttavia, il contenuto e fondando l'accertamento della totale responsabilità nella causazione del sinistro in capo alla (...) sulla scorta del fatto che quest'ultima abbia attinto l'autovettura dell'(...) che "aveva già superato il centro dell'incrocio" (cfr pag. 4 della sentenza, in atti). Ciò posto, va innanzitutto evidenziato che - diversamente da quanto ritenuto dal primo Giudice e dalla difesa della stessa appellante (le cui censure si concentrano su alcune imprecisioni contenute della relazione, evidentemente dovute a meri refusi) - le risultanze della ctu non consentono affatto di affermare la responsabilità esclusiva della (...): come si evince dalla lettura della relazione in atti, il p.a. (...) non ha mai affermato ciò, neppure implicitamente. Piuttosto è da dire che la ricostruzione della dinamica del sinistro offerta dal Consulente nominato dal primo giudice sulla scorta del rapporto di servizio redatto dagli Ispettori del Comando di Polizia Municipale di Pietraperzia e dell'allegata planimetria, in atti (cfr i documenti allegati al fascicolo di parte di primo grado della (...)), dei danni riportati dai mezzi coinvolti nonché delle fotografie dello stato dei luoghi, inducono a ritenere la concorrente responsabilità di entrambi i conducenti nella causazione del sinistro, a nulla rilevando, in contrario, che l'urto fra le autovetture sia avvenuto quando l'(...) aveva oltrepassato il centro del crocevia. Ed invero, occorre innanzitutto evidenziare la caratteristica dell'intersezione fra la via K., percorsa dall'(...), e la via (...), posta a destra della prima, da cui proveniva la (...): si tratta, infatti, di un incrocio con un campo visivo molto limitato, per cui, come anche evidenziato dal Ctu, "i conducenti si potevano avvistare solo quando erano prossimi all'incrocio" (cfr pag. 21 della relazione in atti e relative foto nn. 23 e 31, nonché planimetria redatta dai VV.UU.). Tale caratteristica imponeva, con tutta evidenza, di adoperare la massima attenzione e prudenza e di giungere in prossimità dell'incrocio a velocità particolarmente moderata. Nel caso di specie, invece, sia la (...) che l'(...) hanno impegnato quell'incrocio senza tenere in alcuna considerazione l'ipotesi che ad esso potessero giungere da una delle altre strade che vi confluiscono altri veicoli e/o, comunque, senza adottare alcuna cautela che consentisse, in una ipotesi del genere (poi disgraziatamente verificatasi), di evitare l'incidente. L'(...), inoltre, ha omesso di dare la precedenza dovuta alla (...), che proveniva dalla sua destra. Prescrive il 1 comma dell'art. 145 del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, che "i conducenti, approssimandosi ad una intersezione, devono usare la massima prudenza al fine di evitare incidenti". E, parlando dei "conducenti" si riferisce a tutti, sia quelli che provengono da destra che quelli che provengono da sinistra. E se è vero che il secondo comma di quella norma prevede un diritto di precedenza di chi proviene da destra, è pacifico che il secondo comma non contraddice il primo e la titolarità del diritto di precedenza non esonera il conducente del veicolo favorito dall'obbligo di impegnare l'incrocio con la massima cautela, tenendo in conto la possibilità che il veicolo antagonista non rispetti l'obbligo di dargli la precedenza. Quest'ultimo obbligo, infatti, ha come fine quello di dare ordine alla circolazione, fissando un criterio di precedenze che consenta un più regolare scorrimento del traffico e non può essere inteso, invece, né come elidente del disposto del primo comma della stessa norma né come attributivo del diritto, a chi proviene da destra, di attraversare l'incrocio senza tenere in conto la possibilità del sopraggiungere di altro veicolo da altra strada che confluisce nell'incrocio medesimo. Anche il conducente del veicolo che proviene da destra deve approssimarsi all'incrocio con le cautele necessarie a evitare lo scontro, ove, da qualunque direzione, all'incrocio giungessero insieme al suo altri veicoli che, per qualsiasi ragione, non gli dessero la precedenza. Così agendo, la violazione, da parte di uno dei conducenti, dell'obbligo di dare la precedenza all'altro provocherà soltanto un certo disordine nel fluire del traffico e non anche, invece, come nel caso di specie, uno scontro tra i veicoli. Conferma della correttezza di tale interpretazione si ha dalla costante giurisprudenza della Corte Suprema, la quale ha statuito, fra l'altro, che "poiché le norme sulla circolazione stradale impongono severi doveri di prudenza e diligenza proprio per fare fronte a situazioni di pericolo, anche quando siano determinate da altrui comportamenti irresponsabili, la fiducia di un conducente nel fatto che altri si attengano alle prescrizioni del legislatore, se mal riposta, costituisce di per sé condotta negligente. (Nella fattispecie, la ricorrente aveva dedotto che, giunta con l'auto in prossimità dell'incrocio a velocità moderata e, comunque, nei limiti della norma e della segnaletica, aveva confidato che l'autista del mezzo che sopraggiungeva arrestasse la sua corsa in ossequio all'obbligo di concedere la precedenza)" (Cass. Pen., Sez. IV, 28 marzo 1996, n. 4257). E ancora: "La materia della precedenza in crocevia, sia sotto il codice della strada abrogato (art. 105, comma 1) che sotto quello attualmente vigente (art. 145, comma 1), è assoggettata alla regola generalissima della massima prudenza da usare al fine di evitare incidenti, con ciò intendendo che nei crocevia, e in tutti i casi in cui si pongano problemi di precedenza, debba adoperarsi un grado elevatissimo di cautela ed avvedutezza, affinché non vi siano collisioni tra veicoli" (Cass. Pen., Sez. IV, 31 gennaio 1995, n. 2648). E infine: "In materia di responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli, l'accertamento in concreto della colpa di uno dei soggetti coinvolti nel sinistro non esclude la presunzione di colpa concorrente dell'altro ove non sia stata da questo fornita la prova liberatoria, che non può derivare dal maggior grado di certezza raggiunto in ordine alla colpa del conducente antagonista ma richiede il positivo accertamento, in concreto, della assenza di ogni possibile addebito" (Cass. Civ., Sez. III, 26 ottobre 1992, n. 11610). D'altra parte, se il legislatore avesse inteso disporre cosa diversa, avrebbe messo al primo comma dell'art. 145 del c.d.s. l'obbligo di dare la precedenza a chi proviene da destra e avrebbe inserito nel secondo comma della norma l'obbligo di "usare la massima prudenza al fine di evitare incidenti", riferendolo non già a "i conducenti" indeterminatamente, ma a quelli provenienti da sinistra. Dunque, nel caso di specie, entrambi i conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro hanno violato la disposizione di cui al 1 comma dell'art. 145 del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, e l'(...) ha violato anche quella di cui al 2 comma dello stesso articolo. Ciò posto in diritto, in fatto, nulla è stato poi provato in ordine alle concrete condotte adottate dai due conducenti al momento dello scontro, dovendosi invece ritenere, sulla scorta delle concrete caratteristiche dell'impatto e dei danni conseguentemente riportati dai mezzi coinvolti nel sinistro (che dopo l'impatto hanno proseguito la loro marcia per svariati metri) che entrambi abbiano tenuto una condotta di guida inadeguata ed imprudente, attraversando l'incrocio in questione ad una velocità non consona alle sue specifiche caratteristiche. Alla stregua di quanto sopra evidenziato con riferimento alla concreta dinamica del sinistro e alle caratteristiche dell'incrocio nel quale si è verificato l'incidente, il rilievo causale prevalente va dato alla violazione - da parte di entrambi i conducenti - della disposizione di cui al più volte citato primo comma dell'art. 145 del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, e la responsabilità del sinistro va ascritta a entrambi i conducenti antagonisti, in concorso di colpa fra loro, con una percentuale di responsabilità in capo all'(...) per l'80% e in capo alla (...) per il 20%, atteso che anche quest'ultima era tenuta a procedere con le dovute cautele e ad una velocità prudenziale che gli consentisse di frenare per tempo onde evitare l'impatto. Così stando le cose, il primo giudice non avrebbe dovuto rigettare tout court la domanda risarcitoria spiegata dall'odierna appellante, bensì accoglierla nei confronti dell'(...), nei limiti della responsabilità a quest'ultimo ascrivibile, pari, come detto all'80%. Venendo alla domanda spiegata dalla (...) nei confronti del proprio assicuratore (ai sensi dell'art. 149 del D.Lgs. n. 206 del 2005) va invece premesso che, contrariamente a quanto ritenuto da questo giudice in seno all'ordinanza del 07.06.2016 (che sul punto va revocata), nessun giudicato implicito è intervenuto al riguardo. Infatti, posto che alcun giudicato può verificarsi sulle affermazioni contenute nella mera premessa logica della statuizione adottata dal primo giudice ove quest'ultima sia oggetto del gravame, nel caso specifico deve ritenersi che l'accertamento della esclusiva responsabilità della (...) nella causazione del sinistro costituisca l'implicito presupposto della pronuncia di rigetto adottata dal giudice di pace. Ed invero, la procedura di risarcimento diretto di cui ha inteso avvalersi l'originaria convenuta ed attrice in via riconvenzionale (c.d. indennizzo diretto), opera unicamente in caso di sinistro tra due veicoli a motore identificati ed assicurati per la responsabilità civile obbligatoria; riguarda solo i danni al veicolo nonché i danni alle cose trasportate di proprietà dell'assicurato o del conducente e, nel caso di lesioni, si applica solo al danno alle persone subito dal conducente non responsabile, posto che questo danno rientri tra lesioni di lieve entità di cui all'articolo 139. Dunque, nel giudizio intrapreso nei (soli) confronti della compagnia di assicurazione del danneggiato, quest'ultimo dovrà solo provare: a) che, il sinistro si sia verificato tra due veicoli a motore, identificati ed assicurati per la responsabilità civile obbligatoria; b) che, egli non sia responsabile del sinistro neanche in minima parte. Nel caso di specie, atteso il concorso di colpa ascrivibile alla (...), quest'ultima non ha diritto ad ottenere alcun risarcimento da parte della propria compagnia assicurativa ((...) S.p.A.. Ne consegue che, sul punto, la sentenza impugnata è corretta (pur dovendosi integrare la relativa motivazione con le considerazioni sopra svolte, cfr sul punto, Cass. civ., sez. 1, Sentenza n. 4945 del 06/06/1987, Rv. 453567). Passando alla liquidazione dei danni, la (...) ha diritto di ottenere l'80% del risarcimento dei danni subiti. Il consulente tecnico dell'ufficio, dr ssa Romina (...) ha accertato e riferito che a seguito del sinistro oggetto del contendere (...) ha riportato lesioni consistenti in un trauma distorsivo da contraccolpo al rachide cervicale ("compatibile anche con il corretto indosso della cintura di sicurezza", cfr pagg. 5-6 della relazione, in atti). Ha stimato che tali lesioni hanno determinato un periodo di inabilità temporanea parziale al 75% di giorni dieci, al 50% di ulteriori giorni dieci e al 25% di giorni quindici, ed hanno comportato, altresì, postumi permanenti nella misura dell'1%. La relazione della dr.ssa (...) è motivata congruamente e in maniera del tutto coerente con le risultanze della visita medico legale effettuata, sicché i suoi esiti vanno condivisi. Non vi infatti motivo di disattenderle le conclusioni del Ctu, tanto più ove si consideri che il procuratore dell'appellante non ha mosso alcuna specifica censura avverso le stesse, limitandosi a contrapporre alla quantificazione dei danni operata dalla dr.ssa (...) gli esiti delle valutazioni compiute dal proprio consulente di parte, asseritamente compiute sulla scorta di "più accreditati" ma del tutto imprecisati barèmes di riferimento (cfr pag. 4 della comparsa conclusionale del 29.11.2018). Infine, con riferimento alle osservazioni svolte dalla difesa della società assicuratrice (...) in relazione alla risarcibilità del danno biologico conseguente alle lesioni "di lieve entità" riportate dalla (...) - alla luce delle modifiche apportate al comma 2 dell'art. 139 del Codice delle Assicurazioni dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27, e di quanto stabilito dal comma 3 quater di quest'ultima normativa - va per completezza evidenziato che la valutazione del Ctu in ordine all'esistenza di postumi permanenti e temporanei appare coerente con le concrete caratteristiche dell'impatto (come sopra evidenziate, anche in relazione alla eccesiva velocità dei veicoli); del resto, "In tema di risarcimento del danno da cd. micropermanente, ai sensi dell'art.139, comma 2, del D.Lgs. n. 209 del 2005, come modificato dall'art. 32, comma 3-ter, del D.L. n. 1 del 2012, inserito dalla legge di conversione n. 27 del 2012, l'accertamento della sussistenza della lesione dell'integrità psicofisica deve avvenire con criteri medico-legali rigorosi ed oggettivi; al riguardo l'esame clinico strumentale non è l'unico mezzo utilizzabile, salvo che ciò si correli alla natura della patologia" (cfr Cass., 19.01.2018, n. 1272). Tanto chiarito, il danno biologico va liquidato secondo i criteri di cui all'art. 5 della L. 5 marzo 2001, n. 57, (tenendo conto del D.M. 109 gennaio 2019, che da ultimo ha aggiornato gli importi indicati in quella norma). Dunque, per un punto di invalidità permanente andrà pagata alla (...) la somma di Euro 661,75, già ridotta con il coefficiente di riferimento per l'età della danneggiata (considerato che al momento del sinistro la stessa aveva 45 anni e 10 mesi e si trovava nel suo 46 anno di età). Tale voce di danno considerato il concorso di colpa dell'appellante, va, quindi, liquidata nell'importo complessivo di Euro 513,25. Per ciascun giorno di invalidità temporanea assoluta va liquidato, utilizzando il criterio tabellare predetto, un importo di Euro 47,07. Per l'invalidità temporanea parziale la liquidazione della diaria viene fatta in misura proporzionale alla percentuale di invalidità riconosciuta per ciascun giorno. Dunque, operate le dovute decurtazioni, ne consegue che: - per dieci giorni di I.T.P. al 75% va liquidata la somma di complessivi Euro 353,03; - per dieci giorni di I.T.P. al 50% va liquidata la somma di complessivi Euro 235,35; - per quindici giorni di I.T.P. al 25% va liquidata la somma di complessivi Euro 176,51. In ragione del concorso colposo della danneggiata, il danno biologico ammonta quindi a complessivi Euro 1.141,31 (pari all'80% di Euro 1.426,64), dovendosi precisare che nel caso specifico ulteriori eventuali conseguenze non patrimoniali delle lesioni patite dalla (...) - neppure specificamente dedotte dal suo procuratore, che nell'atto di appello ha fatto esclusivamente riferimento al "danno biologico" conseguente alle "lesioni fisiche" (cfr anche la comparsa conclusionale del 29.11.2018) - appaiono essere quelle normali con riferimento alle lesioni in questione e non è stata mai provata e neppure allegata alcuna circostanza che consenta di individuare e risarcire profili particolari e personali del danno qui in discussione. Alla signora (...) vanno rimborsate le spese che egli ha documentato di avere sostenuto con riferimento alle patologie che il consulente tecnico dell'ufficio ha ritenuto causate dal fatto oggetto del contendere nonché congrue. Tali spese ammontano a complessivi Euro 594,45 di cui in dettaglio: - Euro 20,91 pagati il 20.1.2010; - Euro 20,91 pagati il 23.02.2010; - Euro 101,81 pagati il 09.3.2010; - Euro 121,81 pagati il 09.03.2010; - Euro 16,32 pagati il 28.01.2010; - Euro 16,31 pagati l'01.02.2010; - Euro 300,00 pagati il 30.03.2010; Pertanto, considerato il concorso colposo dell'attore, il danno in questione è pari ad Euro 478,45 (pari all'80% di Euro 598,07). In ordine alla liquidazione dei danni materiali subiti dall'autovettura della (...), può farsi riferimento alla non contestata quantificazione operata dal Ctu nominato dal Giudice di Pace, che ha stimato in complessivi Euro 4.444,46 il costo delle riparazioni necessarie, considerando altresì la svalutazione commerciale ed il c.d. fermo tecnico (cfr pagg. 33-34 della relazione a firma del p.a. T.). La suddetta somma, decurtato l'importo di Euro 653,40, dovuto a titolo di fermo tecnico, si riduce in ragione del concorso di colpa ad Euro 3.032,84. In ordine al c.d. fermo tecnico, infatti, ritiene questo giudice di dover aderire all'indirizzo espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 20620 del 14.10.2015, secondo cui "Il danno da fermo tecnico di veicolo incidentato deve essere allegato e dimostrato e la relativa prova non può avere ad oggetto la mera indisponibilità del veicolo, ma deve sostanziarsi nella dimostrazione o della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo, ovvero nella perdita subita per la rinuncia forzata ai proventi ricavabili dall'uso del mezzo" (cfr, nello stesso senso, Cass., ord. n. 15089 del 17.07.2015). Tale indirizzo interpretativo appare maggiormente condivisibile perché - anche a prescindere dalla considerazione che non esiste alcun danno che possa considerarsi in re ipsa - il fermo tecnico non è in sé un danno, ma una circostanza di fatto astrattamente idonea a produrre danni (anche di genere molto diverso fra loro). Orbene, nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza (art. 116 c.p.c.) rendono edotti che il temporaneo fermo di un veicolo può non di rado rappresentare in un fatto privo di qualsiasi conseguenza negativa sul patrimonio del proprietario (si pensi all'ipotesi di chi possieda o disponga di più veicoli). Dunque, chi chiede il risarcimento di un danno non può chiedere che esso riguardi un danno imprecisato e solo astrattamente ipotizzabile, ma deve indicare in maniera specifica il concreto danno che assume di avere patito e del quale chiede il risarcimento. Questa indicazione specifica del danno concretamente patito serve al duplice scopo di consentire al giudice di verificare la fondatezza della domanda e, prima ancora, alla controparte di difendersi, contestando, se del caso, i presupposti del risarcimento richiesto (così, per esempio, nel il danneggiante potrebbe eccepire al danneggiato la disponibilità di una seconda auto). Solo in presenza di una specifica allegazione e di una concreta prova dell'esistenza del danno e della sua concreta natura, sarà possibile chiedere e ottenere una liquidazione equitativa dello stesso. A scopo meramente esemplificativo, il giudice potrà liquidare equitativamente il danno consistito nell'incomodo di usare un mezzo pubblico (il costo vivo dell'uso del mezzo pubblico sarà ordinariamente compensato dal corrispondente risparmio di benzina del mezzo privato), ma dovrà esigere riscontri probatori per il danno consistito nel noleggio di un'auto. Puntuale al riguardo è la motivazione della sentenza n. 20620/2015 (di cui sopra è stata sopra riportata la massima), alla quale in questa sede integralmente si rinvia, anche in ordine alle condivisibili considerazioni critiche mosse avverso l'indirizzo giurisprudenziale favorevole alla liquidazione equitativa di tale danno in favore del proprietario del veicolo, anche in assenza di prova specifica in ordine al medesimo. Infine, va osservato, con riferimento alle istanze di equità verosimilmente sottese all'orientamento meno rigoroso sopra evocato in materia di danno da fermo tecnico, che, se è certamente doveroso - e quindi anche equo - liquidare equitativamente danni non facilmente quantificabili dal danneggiato (per esempio, quello corrispondente all'incomodo di prendere un mezzo pubblico per andare in ufficio), non vi è ragione di esonerare il danneggiato dall'onere di almeno indicare le concrete caratteristiche del danno asseritamente patito e di offrire di esso le prove agevolmente reperibili. Per queste ragioni, nel caso di specie, in mancanza di qualunque allegazione e prova in ordine al danno patito dall'odierna appellante in conseguenza del fermo tecnico della propria autovettura nessuna somma può esserle liquidata a tale titolo. Le somme come sopra liquidate (che costituiscono crediti di valore, in conseguenza della natura risarcitoria delle corrispondenti obbligazioni) vanno rivalutate dalle date in cui sono state monetariamente determinate (c.d. aestimatio) fino alla data odierna della loro liquidazione definitiva (c.d. taxatio). La rivalutazione va effettuata applicando sulle somme gli indici della rivalutazione monetaria ricavati dalle pubblicazioni ufficiali dell'ISTAT. Gli indici presi in considerazione sono quelli del c.d. costo della vita, ovverossia del paniere utilizzato dall'ISTAT per determinare la perdita di capacità di acquisto con riferimento alla tipologie dei consumi delle famiglie di operai ed impiegati (indice F.O.I.). Tale rivalutazione viene operata per ciascuna delle voci di cui si compone la liquidazione complessiva del danno, con decorrenza dall'evento (28.01.2010) per il danno non patrimoniale e per quello al mezzo e dagli esborsi per quello relativo alle spese mediche. Sulle somme come sopra liquidate sono dovuti alla (...), dalle date per ciascuna somma pure sopra indicate e fino alla data della presente sentenza, gli interessi c.d. "compensativi", che possono fissarsi equitativamente nel tasso degli interessi legali (cfr Cass. Sez. Unite, 17 febbraio 1995, n. 1712), e valgono a compensare il danneggiato del mancato godimento delle somme stesse nel periodo considerato. E infatti, poiché il diritto al conseguimento del risarcimento è sorto in capo alla vittima primaria dell'illecito al momento della cessazione della condotta illecita, va pure risarcito, sempre in via equitativa, il danno riconducibile al decorso del tempo intervenuto tra quel giorno e il giorno dell'avvenuta liquidazione. Invero, nell'ipotesi di somma di denaro dovuta a titolo di risarcimento del danno gli interessi compensativi integrano una componente necessaria (cfr. Cass. II, sent. 24858 del 25.112005, rv. 585440). In altre parole: "Poiché il risarcimento del danno da fatto illecito extracontrattuale costituisce un tipico debito di valore, sulla somma che lo esprime sono dovuti interessi e rivalutazione dal giorno in cui si è verificato l'evento dannoso. La rivalutazione ha la funzione di ripristinare la situazione patrimoniale di cui il danneggiato godeva anteriormente all'evento dannoso, mentre il nocumento finanziario (lucro cessante) da lui subito a causa del ritardato conseguimento del relativo importo, che se corrisposto tempestivamente avrebbe potuto essere investito per lucrarne un vantaggio economico, può essere liquidato con la tecnica degli interessi; questi ultimi, peraltro, non vanno calcolati né sulla somma originaria né su quella rivalutata al momento della liquidazione, ma computati sulla somma originaria rivalutata anno per anno, ovvero sulla somma rivalutata in base ad un indice medio" (cfr. Cass. III, sent. 5234 del 10.3.2006, rv. 588243). Come sopra evidenziato, dunque, gli interessi compensativi non vanno calcolati né sul valore iniziale del danno (e cioè sulle somme non rivalutate), né sulle somme risultanti dalla rivalutazione relativa all'intero periodo di mora del debitore, bensì sul valore che si ricava dalla rivalutazione calcolata anno per anno. Il calcolo della rivalutazione può essere fatto - per semplicità - anno per anno alla data convenzionale del 31 dicembre ed in quella data vanno computati gli interessi che, poi, sono improduttivi di ulteriori interessi e non vengono capitalizzati in alcun modo. Il calcolo della rivalutazione e di questi interessi c.d. compensativi si arresta alla data odierna, perché, come costantemente affermato dalla Corte Suprema, "gli interessi compensativi relativi a debiti di valore, destinati a coprire una componente del danno globale da risarcire e dovuti dalla data dell'evento dannoso a quella della pronuncia giudiziale di liquidazione, anche se comprensiva della rivalutazione monetaria, non sono in realtà veri e propri interessi ma soltanto uno dei possibili mezzi tecnici pretoriamente adottato dalla giurisprudenza per ristorare il danneggiato della perdita delle utilità economicamente apprezzabili che, nell'intervallo tra la consumazione dell'illecito e la liquidazione finale, il medesimo (danneggiato) avrebbe potuto trarre dal bene (se non ne fosse stato privato e alla cui restituzione in natura avrebbe diritto) o dall'equivalente monetario del bene stesso se tempestivamente conseguito" (Cass. Sez. I, 1 dicembre 1992, n. 12839) e, quindi, "la sentenza che liquidi il danno per fatto illecito, attribuendo gli interessi cosiddetti compensativi a partire dal fatto stesso, costituisce un'obbliga-zione di valuta, come tale produttiva degli interessi di pieno diritto previsti dall'art. 1282 c.c. per i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro, anche con riguardo all'importo rappresentato da detti interessi compensativi, i quali rappresentano una componente del debito complessivo, non un autonomo debito di interessi, e, quindi, si sottraggono alle disposizioni dell'art. 1283 c.c. in tema di anatocismo" (Cass. Sez. III, 14 dicembre 1991, n. 13508). Peraltro, è da sempre pacifico che "la liquidazione del maggior danno che il creditore di una somma di danaro provi di aver subito per effetto del ritardo nel pagamento (art. 1224, comma 2, c.c.) va compiuta dal giudice di merito con riferimento alla data della decisione che chiude il giudizio davanti a sé. E la liquidazione determina la trasformazione dell'obbligazione risarcitoria da obbligazione di valore in obbligazione di valuta, che la sentenza rende esigibile, sicché sulla somma risultante dalla liquidazione sono dovuti, dalla data della sentenza, gli interessi al saggio legale" (Cass. Sez. III, 9 gennaio 1996, n. 83. Nello stesso senso, fra le altre, Sez. III, 6 novembre 1996, n. 9648; Sez. III, 17 ottobre 1994, n. 8465; Sez. III, 14 dicembre 1991, n. 13508; e Sez. III, 26 ottobre 1992, n. 11616). Le spese processuali seguono la soccombenza dell'(...) e vengono liquidate, per il primo grado di giudizio, sulla base del D.M. n. 140 del 2012, tenendo conto della natura e del valore della causa, nonché dell'attività difensiva effettivamente espletata, in complessivi Euro 400,00 per compensi professionali (di cui Euro 120,00 per la fase di studio, Euro 80,00 per la fase introduttiva Euro 80,00 per la fase istruttoria ed Euro 120,00 per la fase decisoria), oltre IVA e CPA come per legge, e per il presente grado di giudizio, sulla base del D.M. n. 55 del 2014, tenendo conto della natura e del valore della causa, nonché dell'attività difensiva effettivamente espletata, in complessivi Euro 1.400,00 di cui Euro 400,00 per spese ed Euro 1.000,00 per compensi professionali (di cui Euro 250,00 per la fase di studio, Euro 250,00 per la fase introduttiva ed Euro 500,00 per la fase decisionale), oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA come per legge. Alla (...) andranno rimborsate dall'(...) anche le spese sostenute per la consulenza tecnica d'ufficio medico-legale espletata in questo grado, nella misura liquidata con decreto emesso il 04.10.2018 e poste provvisoriamente a carico dell'appellante. Nei rapporti con le società assicuratrice le spese processuali del presente grado di giudizio - in mancanza di appello incidentale per la regolamentazione relativa al primo grado - seguono invece la soccombenza dell'appellante. Dette spese vengono liquidate, sulla base del D.M. n. 55 del 2014, tenendo conto della natura e del valore della causa, nonché dell'attività difensiva effettivamente espletata, in complessivi Euro 810,00 (così ripartiti Euro 202,50 per la fase di studio, Euro 202,50 per la fase introduttiva ed Euro 405,00 per la fase conclusionale) in favore di ciascuna delle società assicuratrici. P.Q.M. Il giudice accoglie in parte l'appello proposto da (...) avverso la sentenza n. 59/14 depositata il 23.07.2014 dal Giudice di Pace di Barrafranca, e, per l'effetto, in riforma dell'impugnata sentenza, dichiara (...) responsabile in misura pari all'80% del sinistro e per cui è causa e lo condanna a corrispondere in favore di (...) la somma di Euro 4.652,80, oltre interessi e rivalutazione come in parte motiva; Condanna (...) a rifondere a (...) le spese di entrambi i gradi di giudizio, come sopra liquidate, per il primo grado in complessivi Euro 400,00, oltre IVA e CPA, e per il presente grado in complessivi Euro 1.400,00, oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA; Condanna, altresì, (...) a rimborsare a (...) le spese della consulenza tecnica d'ufficio espletata nel presente grado di giudizio, nella misura liquidata con decreto emesso il 04.10.2018, in atti; Condanna (...) a rimborsare a (...) S.p.A. e a (...) S.p.A. le spese del presente grado di giudizio, come sopra liquidate in complessivi Euro 810,00 in favore di ciascuna, oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Enna il 19 aprile 2019. Depositata in Cancelleria il 23 aprile 2019.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI ENNA composto dai magistrati dr Cesare Zucchetto - Presidente dr ssa Marika Motta - Giudice dr ssa Eleonora N. V. Guarnera - Giudice rel./est. ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 1113/15 R.G., promossa DA (...), nato a N. il (...), ivi res. in via (...) M. n. 13, c.f. (...), rappr. e dif., giusta procura in atti, dall'avv. Gi.Ge., presso il cui studio in Nicosia, via (...), è elett.te dom.; Ricorrente CONTRO (...), nata a N. il (...), ivi res. in via S. M. n. 13, c.f. (...), rappr. e dif., giusta procura in atti, dall'avv. Fr.Ge., presso il cui studio in Nicosia via (...), è elett.te dom.; Resistente Oggetto: Divorzio. Con l'intervento del pubblico ministero. MOTIVI DELLA DECISIONE Con ricorso depositato in data 21.08.2015, (...) ha chiesto a questo Tribunale la pronuncia della cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con il rito concordatario, in Nicosia, il 17 settembre 1992, con (...), dalla unione con la quale sono nati i figli (...) (n. a N. il (...)), A. (n. a N. il (...)) e (...) (nata a N. il (...)). Al riguardo, ha dedotto che in data 22/23 marzo 2011 il Tribunale di Nicosia aveva omologato la loro separazione consensuale e di non essersi più riconciliato con la moglie. La resistente, costituitasi in giudizio, mentre ha aderito alla domanda di divorzio, ha insistito nell'obbligo dell'A. di corrisponderle un assegno divorzile nonché un assegno a titolo di contributo per il mantenimento dei figli. Con ordinanza presidenziale emessa in data 21.12.2015 è stato disposto l'affidamento condiviso della figlia minore (...), con collocazione presso la madre, regolamentazione del diritto di visita del padre e obbligo per quest'ultimo di contribuire al mantenimento dei tre figli, versando alla (...) un assegno mensile di complessivi Euro 500,00, da rivalutarsi annualmente, oltre al 50% delle spese straordinarie. Ciò premesso, ricorrono le condizioni fissate dagli artt. 2 e 3 n. 2 lett. b) della L. 1 dicembre 1970, n. 898, così come modificata dalla L. 6 maggio 2015, n. 55, per la proponibilità e l'accoglimento della domanda di divorzio. Lo stato di separazione sussistente tra i coniugi per il periodo prescritto, infatti, risulta dimostrato dalla produzione della copia del decreto di omologa emesso dal Tribunale di Nicosia, ormai irrevocabile, mentre la protrazione di tale regime, per un periodo stabilito dalla legge deve presumersi, non essendone stata eccepita l'interruzione. L'impossibilità della ricostruzione della comunione spirituale e materiale tra le parti, del resto, si desume dal periodo di separazione trascorso e dalle ragioni addotte a sostegno della domanda oggi in esame, sintomi univoci della definitiva e irreversibile frattura del consorzio coniugale. Va, pertanto, pronunciata la cessazione degli effetti civili del matrimonio che unisce religiosamente le odierne parti. In mancanza di nuovi elementi - non dedotti dalle parti - e, dunque, nella sostanziale identità del quadro fattuale emerso in sede di udienza presidenziale, vanno confermate le statuizioni di cui all'ordinanza del 21.12.2015 in ordine al mancato riconoscimento di un assegno in favore della (...). Al riguardo, va ricordato che la concessione dell'assegno di divorzio trova presupposto nell'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente o nell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontato al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Nel caso specifico, nulla è stato dimostrato su quale fosse il pregresso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, solo evincendosi dalle dichiarazioni rese in sede di udienza presidenziale che in costanza di matrimonio entrambi i coniugi hanno sempre lavorato, traendo dalle rispettive attività ingenti guadagni. La (...) è certamente dotata di capacità di guadagno (in considerazione della sua età anagrafica e dell'esperienza lavorativa maturata come parrucchiera nel salone di cui è titolare) e solo afferma di versare allo stato in "condizioni precarie", evocando l'esistenza, in generale, di uno stato di crisi, senza nulla specificare in concreto sul piano delle ragioni effettive di tale precarietà economica; la stessa, inoltre, risulta titolare di un terreno produttivo, a differenza del marito, che, invece, non ha altri immobili (ad eccezione della quota in comproprietà, con la moglie e altri soggetti, della casa familiare). Anche in relazione all'affidamento e al collocamento della figlia minore (...) vanno confermate le statuizioni di cui all'ordinanza presidenziale del 21.12.2015, con affidamento condiviso della minore ad entrambi i genitori e collocamento presso la madre, con la quale la minore ha sempre convissuto. In ragione di ciò, poi, la casa familiare deve pertanto restare assegnata alla signora (...). L'assegnazione della casa familiare, infatti, ha come presupposto quello di tutelare i figli minori o i figli maggiorenni non ancora autonomi, in modo da evitare loro, quando interviene la separazione dei genitori, di dover mutare anche le loro abitudini di vita (ex multis Cass. n. 1491 del 2011 e n. 2134 del 2013). Relativamente all'assegno per il mantenimento della prole convivente con la madre, ritiene il Collegio di dover elevare - pur di poco - l'importo stabilito in sede presidenziale, in ragione delle accresciute esigenze dei figli (atteso il lungo lasso di tempo trascorso dall'epoca dell'adozione dell'ordinanza presidenziale). Al riguardo, giova ricordare che l'aumento delle esigenze della prole è, per consolidato e condivisibile orientamento giurispudenziale, "notoriamente legato alla crescita e non ha bisogno di specifiche dimostrazioni" (cfr Cass. n. 17055/07). Del resto, la Suprema Corte ha avuto costantemente modo di evidenziare come la misura del contributo al mantenimento dei figli minori possa dal giudice essere "legittimamente correlata non tanto alla quantificazione delle entrate derivanti dalla attività professionale svolta dal genitore non convivente, quanto piuttosto ad una valutazione complessiva del minimo essenziale per la vita e la crescita" dei beneficiari (cfr Cass. 8.11.1997 n. 11025; Cass. 19.3.2002 n. 3974). Non esiste poi alcun elemento che possa giustificare l'esclusione dell'obbligo di provvedere anche al mantenimento di A., non essendo stata fornita prova che lo stesso svolga realmente attività lavorativa come apprendista e che riceva in ragione di ciò una remunerazione (della quale, perlatro, non è stato neppure indicato il presumibile ammontare, così da rendere impossibile qualunque valutazione in ordine all'effettivo raggiungimento dell'autosufficienza economica da parte del giovane, che, oerlatro, ancora coabita con la madre, per come è pacifico tra le parti). Infatti, il dovere dei genitori di mantenere i figli non cessa automaticamente al raggiungimento della maggiore età, ma perdura finché questi non si trovino avviati ad un effettivo lavoro che garantisca loro l'autonomia economica, a meno che non risulti che il genitore abbia messo il figlio nelle concrete condizioni di assumere tale idoneo lavoro o di conseguire un titolo sufficiente ad esercitare un'attività lucrativa ovvero che il figlio versi in colpa per non essersi messo in condizione o per essersi rifiutato di procurarsi un proprio reddito, mediante l'espletamento di attività lavorativa. Sotto il profilo probatorio, queste circostanze - costituendo fatti estintivi dell'obbligo di mantenimento - devono essere allegate e provate dal genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell'obbligo (Cass. 30 agosto 1999, n. 9109; Cass. 11 marzo 1998, n. 2670; Cass. 20 settembre 1996, n. 8383; Cass. 2 settembre 1996, n. 7990). Appare pertanto congruo stabilire in Euro 250,00 mensili l'importo del contributo dovuto per il mantenimento di G. - da continuare a versare alla (...), che continua ad anticiparne il relativo onere economico - in Euro 200,00 mensili quello dovuto per il mantenimento di (...) ed in Euro 200,00 quello dovuto per il mantenimento di A., oltre al 50% delle spese straordinarie, stabilendo la decorrenza di tali disposizioni, per la parte in cui modificano le statuizioni provvisorie, dalla data della presente decisione. Irrilevante è poi l'asserito stato di disoccupazione dell'A., il quale appare certamente dotato di concreta capacità lavorativa, avendo maturato una lunga esperienza come cuoco professionista ed essendosi limitato ad affermare (peraltro già in sede di udienza presidenziale) di essere privo di occupazione, senza però fornire alcun concreto elemento delle effettive ragioni dell'asserito stato di disoccupazione nonostante la propria qualifica lavorativa. Infine, attesa la mancanza di accessorietà e la specialità del rito, va dichiarata l'inammissibilità della domanda di divisione formulata dall'A. (da ritenersi peraltro abbandonata, in quanto non riproposta nei propri scritti conclusivi). Com'è noto, infatti, le uniche domande ammissibili nel giudizio di di divorzio (e si separazione) sono quelle strettamente attinenti all'oggetto del giudizio, in quanto consequenziali alle statuizioni ivi emanate in tema di rapporti personali tra le parti e di rapporti tra queste e la prole, con conseguente inammissibilità delle domande che esulano dall'oggetto tipico dei provvedimenti riguardanti i coniugi e la prole in conseguenza della separazione; come costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, "la trattazione congiunta di cause soggette a riti diversi è consentita, ai sensi dell'art. 40 c.p.c., solo nei casi di cui agli artt. 31, 32, 34 e 36 c.p.c.", sicché "le uniche domande, di contenuto patrimoniale, ammissibili nel giudizio di divorzio (o di separazione), sono quelle strettamente attinenti all'oggetto del giudizio, in quanto conseguenziali alle statuizioni ivi emanande in tema di rapporti personali tra le parti e di rapporti tra questi e la prole" (Cass. civ., sez. I, 21.5.2009, n. 11828; Cass. civ., 15.5.2001, n. 6660; Cass. civ., 12.1.2000, n. 266). Ai fini della regolamentazione delle spese del giudizio, attesa la natura della causa e considerata la reciproca soccombenza delle parti in ordine alle rispettive richieste economiche, appare congruo disporne l'integrale compensazione. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente decidendo, pronuncia la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con rito concordatario in Nicosia, in data 17.09.1992, tra (...) e (...), trascritto nel registro degli atti di matrimonio dello stato civile del Comune di Nicosia, dell'anno 1992, al N. 66 della Parte II Serie A. Ordina all'Ufficiale di stato civile del Comune di Nicosia di procedere all'annotazione della presente sentenza. Rigetta la domanda della (...) volta ad ottenere la corresponsione di un assegno divorzile; Dispone l'affidamento condiviso ad entrambi i genitori della figlia (...) (n. a N. il (...)) con collocazione presso la madre e diritto del padre di incontrarla e tenerla con sé, tenuto conto delle esigenze e degli impegni della minore, e, comunque, in mancanza di accordi diversi tra i coniugi, per due giorni la settimana, di cui uno coincidente preferibilmente con la domenica, dalle ore 09.00 alle ore 20.00, da concordare, in ogni caso, di volta in volta, con la madre, nonché per cinque giorni consecutivi, sempre da concordare con la madre, nelle festività natalizie e pasquali e per trenta giorni consecutivi nel periodo estivo preferibilmente nei mesi di luglio e/o agosto, sempre da concordare con la madre; Pone a carico di (...) l'obbligo di corrispondere a (...) entro giorno 5 di ogni mese, un assegno dell'ìmporto complessivo di Euro 650,00 mensili per il mantenimento dei figli (in ragione di Euro 250,00 per (...) e di Euro 200,00 ciascuno per (...) ed (?), oltre il 50% delle spese straordinarie, da adeguarsi automaticamente ogni anno con riferimento agli indici ISTAT, con decorrenza dalla data di pubblicazione della presente sentenza (valendo per il pregresso quanto disposto con ordinanza presidenziale del 21.12.2015). Compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio. Così deciso in Enna l'11 aprile 2019. Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2019.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI ENNA composto dai magistrati dr Cesare Zucchetto - Presidente dr Marika Motta - Giudice dr Eleonora N. V. Guarnera - Giudice rel./est. ha emesso la seguente SENTENZA Nel procedimento civile iscritto al n. 503/15 R.G., avente ad oggetto separazione personale promossa DA (...), nata a M. (T.) il (...), res. in C., via (...), c.f. (...), rappr. e dif., giusta procura in atti, dall'avv. Elena Cassella del foro di Catania, presso il cui studio in Catania, viale (...), è elettivam. dom.; Ricorrente CONTRO (...), nato a C. il (...), ivi res. in via I. n. 15, c.f. (...), rappr. e dif., giusta procura in atti, dall'avv. Ma.Ru., presso il cui studio in Regalbuto, via (...), è elettivam. dom.; Resistente Oggetto: Separazione personale. Con l'intervento del pubblico ministero. RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso depositato il 10.04.2015, (...) ha chiesto pronunciarsi la sua separazione personale da (...), con il quale aveva contratto matrimonio in Centuripe il 18.12.1997, e dalla cui unione sono nati i figli (...) (n. il (...)) ed (...) (n. il (...)); la ricorrente ha inoltre chiesto porsi a carico del marito un assegno a titolo di contributo per il proprio mantenimento e per quello della figlia, con ella convivente, con affido congiunto ad entrambi i genitori della minore e dell'altro figlio, F., rimasto a vivere con il padre. Si è costituito il signor (...), che, senza opporsi alla domanda di separazione, ha dedotto che il fallimento dell'unione coniugale era da ascriversi al comportamento della moglie, la quale, refrattaria ai doveri coniugali e dal temperamento irrequieto, aveva deciso di trasferirsi a Catania, abbandonando la casa familiare. Ha chiesto, pertanto, pronunciarsi la separazione con addebito alla moglie, aderendo alla richiesta di affidamento congiunto dei figli, con collocazione di F. presso di sé e di (...) presso la madre, assegnazione in proprio favore della casa familiare e regolamentazione del diritto di visita di entrambe le parti. Rimasto vano il tentativo di conciliazione delle parti, con ordinanza presidenziale del 03/07.7.2015, i coniugi sono stati autorizzati a vivere separatamente, i figli sono stati affidati ad entrambi i genitori e collocati l'una presso la madre e l'altro presso il padre (cui è stata assegnata la casa familiare); è stato inoltre disposto a carico del (...) l'obbligo di versare alla moglie un assegno mensile, pari, complessivamente, ad Euro 600,00 di cui, Euro 400,00 per il mantenimento della moglie ed Euro 200,00 a titolo di contributo per il mantenimento della figlia. Ciò premesso, la domanda di separazione è fondata e deve essere accolta. Invero, la separazione di fatto tra i coniugi, l'insuccesso del tentativo di conciliazione, la natura delle doglianze esposte ed il comportamento mantenuto da entrambe le parti in corso di causa sono tutti elementi che comprovano la sussistenza di una situazione tale da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza. Tuttavia, non vi sono elementi in giudizio che consentano di assumere a carico della (...) la responsabilità della separazione. In generale, deve rammentarsi che, per consolidata giurisprudenza del Supremo Collegio, ai fini della pronuncia di addebito, oltre alla dimostrazione dell'avvenuta violazione dei doveri inerenti allo status personale di coniuge ex art. 143, co. 2, cc, è altresì necessaria la sussistenza di un nesso causale tra la violazione medesima ed il fallimento del matrimonio, con esclusione di ogni automatismo (cfr Cass. civ., sez. I , 11 agosto 17193 con specifico riferimento alla violazione del dovere di fedeltà e, in generale, Cass., 28 settembre 2001, n. 12130, Cass. civ., sez. I, 11 giugno 2005 n. 12383 e Cass. civ., sez. I, 16 novembre 2005, n. 23071). L'interpretazione rigorosa di tale principio comporta che l'attitudine euristica delle prove debba essere valutata sotto il profilo della sussistenza di entrambi i presupposti. La gravità delle conseguenze di una pronuncia di addebito nei confronti del coniuge che ne risulta destinatario, infatti, impone un accertamento scrupoloso, il cui onere probatorio deve gravare anche sulla parte che deduce l'avvenuta violazione dei doveri coniugali. Da ciò si deduce che il coniuge che agisce in giudizio, chiedendo l'addebito della separazione all'altro, non possa limitarsi a dimostrare l'avvenuta violazione dei doveri coniugali, ma debba, altresì, provare l'esclusiva riferibilità ad essa del fallimento del rapporto. Infatti, secondo quanto precisato dalla giurisprudenza di legittimità, grava sulla parte che chiede l'addebito della separazione "...l'onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza...." (cfr. Cass. civ., n. 2059/12). In buona sostanza, deve sussistere un nesso causale tra i comportamenti costituenti violazione dei doveri coniugali, accertati a carico di uno o di entrambi i coniugi, e l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza, restando irrilevanti i comportamenti successivi al verificarsi di tale situazione; va, poi, precisato che l'accertamento dell'efficacia causale delle suddette violazioni dei doveri coniugali sul fallimento del matrimonio postula una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, potendo i comportamenti dell'uno influire sull'efficacia causale dei comportamenti dell'altro (cfr. Cass. 10682/2000 ; 12 gennaio 2000, n. 279; 18 marzo 1999, n. 2444). Ai fini della dichiarazione di addebito della separazione, bisogna quindi fornire la prova che la irreversibile crisi coniugale sia ricollegabile esclusivamente al comportamento volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri nascenti dal matrimonio di uno o di entrambi i coniugi, ovverosia che sussista un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell'intollerabilità della ulteriore convivenza, dovendo, in mancanza, pronunciarsi separazione senza addebito (vedi Cass. sent. n. 14840 del 27/06/2006). Nel caso specifico, le istanze di ammissione dei mezzi istruttori orali (interrogatorio formale e prove per testi) avanzate dal (...) - sui cui la relativa difesa ha insistito - appaiono inidonee a fornire una prova di tale natura, in quanto aventi ad oggetto circostanze generiche (perché formulate in modo tale da non enucleare precisi comportamenti asseritamente contrari ai doveri coniugali ovvero senza specifici riferimenti) ed in parte inconducenti (perché attinenti all'opera di collaborazione precedentemente prestata dalla (...) negli esercizi commerciali del marito). Peraltro, la (...) ha espressamente contestato la riconducibilità della crisi coniugale alla propria condotta, asserendo che, benché ella avesse sacrificato le proprie aspirazioni per adempiere ai propri doveri di moglie e di madre, il marito aveva assunto un atteggiamento sempre più autoritario e prepotente, estromettendola totalmente dalla gestione dell'attività commerciale, alla cui conduzione, peraltro, l'aveva costretta a collaborare gratuitamente e indefessamente sino a quando non l'aveva cacciata di casa. Ribadito il rigetto delle istanze istruttorie formulate dalla difesa del (...), la domanda di addebito dallo stesso proposta non può quindi essere accolta. In ordine ai provvedimenti relativi alla prole, posto che nelle more del giudizio F. è divenuto maggiorenne, va confermato quanto stabilito con l'ordinanza presidenziale in ordine al regime di affidamento condiviso ed alla collocazione presso la madre della figlia (...), ancora minorenne, nonché in relazione alla regolamentazione del diritto di visita del padre. In punto di oneri economici per il mantenimento di (...), ritiene il Collegio di dover stabilire in Euro 250,00 (ossia in un importo superiore a quello stabilito in sede presidenziale) l'assegno dovuto dal (...) alla moglie a titolo di contributo per il mantenimento della figlia, e, ciò, in considerazione delle accresciute esigenze della minore (che all'epoca del deposito del ricorso aveva appena dieci anni e che quest'anno ne compirà quattordici). Ed invero, premesso che la misura di tale assegno deve essere rispondente alle esigenze della prole - in funzione del suo preminente interesse - l'aumento delle relative esigenze è, per consolidato e condivisibile orientamento giurisprudenziale, "notoriamente legato alla crescita e non ha bisogno di specifiche dimostrazioni" (cfr Cass. n. 17055/07). Il padre va inoltre obbligato a partecipare, in misura pari al 50%, alle spese straordinarie che si rendessero necessarie per la figlia, tra le quali ricorrono, a titolo semplificativo, le spese mediche relative a prestazioni sanitarie non assicurate dal Servizio Sanitario Nazionale, nonché quelle scolastiche e universitarie. Con specifico riferimento alla richiesta di contributo che la ricorrente ha svolto per sé medesima, deve premettersi che l'accertamento del diritto all'assegno di mantenimento va effettuato verificando l'inadeguatezza dei mezzi (o l'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive) del coniuge richiedente, raffrontate a un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del rapporto. È necessaria a tal fine una duplice indagine attinente all'an e al quantum, nel senso che occorre prima ponderare la situazione della parte richiedente (ossia dei redditi, cespiti patrimoniali e altre utilità di cui possa disporre) e la sua idoneità a preservare un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio (non richiedendosi affatto uno stato di bisogno dell'avente diritto, il quale può essere anche economicamente autosufficiente, rilevando, invece, l'apprezzabile deterioramento, in dipendenza della separazione, delle precedenti condizioni economiche) e quindi fissarne la misura in rapporto alle sostanze dell'obbligato, alla sua condizione personale e alla sua capacità di reddito. Orbene, anche con riferimento a tale statuizione, in linea con quanto già disposto con l'ordinanza di cui all'art. 708 c.p.c. e in difetto di elementi ulteriori - non acquisiti nel corso del giudizio (e, dunque, nella sostanziale "identità" della situazione fattuale) - va confermato l'assegno in favore della moglie stabilito in sede presidenziale, attesa la sperequazione economica esistente tra le parti; ed invero, pur non potendosi negare che la (...) sia dotata di concreta capacità lavorativa, la stessa ha sempre svolto attività di commessa, mentre il (...), quale imprenditore commerciale, ha certamente una capacità di reddito più elevata di quella della moglie (non essendovi prova, peraltro, che lo stesso abbia dismesso i propri esercizi commerciali, come asserito dalla sua difesa). Valutata, pertanto, ogni circostanza (ivi compresa la piena proprietà, in capo al (...), dell'immobile adibito a casa familiare in costanza di matrimonio nonché di uno dei due locali dove esercita la sua attività commerciale, laddove la (...) , invece, non è proprietaria di alcun immobile e conduce in locazione l'appartamento in cui vive con la figlia), deve ritenersi congruo l'importo di Euro 400,00 mensili, da rivalutarsi annualmente secondo gli indici Istat. Quanto alle spese di lite, le stesse vanno compensate in ragione di un mezzo, considerata, da un lato, la natura della causa e tenuto conto, dall'altro, del fatto che è stata respinta la richiesta di addebito del (...). Il pagamento della rimanente metà di tali spese, liquidato per l'intero nella misura di cui in dispositivo, va eseguito in favore dello Stato, ai sensi dell'art. 133 del D.P.R. n. 115 del 2002, risultando la signora (...) ammessa al patrocinio a spese dello Stato (cfr delibera dell'Ordine degli Avvocati di Enna dell'11.02.2015, in atti). P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente decidendo, così statuisce: - pronuncia la separazione personale dei coniugi (...), nata in M. il (...) e (...), nato a C. il (...); - ordina all'Ufficiale di Stato civile del Comune di Centuripe di annotare la presente sentenza a margine dell'atto di matrimonio dei predetti coniugi, atto di matrimonio trascritto al n. 11, parte I, anno 1997, del registro degli atti di matrimonio del Comune predetto; - rigetta la domanda del (...) in ordine all'addebito della separazione; - dispone l'affidamento condiviso ad entrambi i genitori della figlia (...) (n. a C. il (...)), con collocazione presso la madre; - dispone che il (...) possa vedere e tenere con sé la figlia, salvo diversi accordi fra i coniugi, ogni fine settimana, dalle ore 15,00 del sabato alle ore 20,00 della domenica; continuativamente, per trenta giorni nel periodo estivo; per sette giorni, comprensivi ad anni alterni della festività del Natale o di quella del Capodanno, nel periodo natalizio; per tre giorni, comprensivi ad anni alterni della festività della (...) o di quella del lunedì dell'(...), nel periodo pasquale; - pone a carico di (...) l'obbligo di versare a (...), entro il giorno 5 di ogni mese, la somma complessiva di Euro 650,00,di cui Euro 400,00 per il mantenimento della stessa ed Euro 250,00 per il mantenimento della figlia, con decorrenza dalla data della presente sentenza (valendo per il pregresso quanto disposto con l'ordinanza Presidenziale), con rivalutazione annuale secondo gli indici ISTAT, oltre il 50% delle spese straordinarie; - condanna (...) a rifondere allo Stato la metà delle spese del giudizio che si liquidano per l'intero - già dimidiate ex art. 130 del D.P.R. n. 115 del 2002 - in Euro 1.700,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA come per legge; compensa tra le parti il restante mezzo. Cosi deciso in Enna l'11 aprile 2019. Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2019.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI ENNA Il giudice Eleonora N. V. Guarnera ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 1333/2014 R.G., promossa da (...), nato a Piazza (...) l'(...), ivi res. in via Gen. M. n. 31, c.f. (...), rappr. e dif., giusta procura in atti, dall'avv. Ga.Di., presso il cui studio in Piazza (...), via (...), è elettivam. dom.; - Opponente - contro (...) S.p.A., con sede in M., via (...), in persona del legale rappresentante pro tempore, c.f. (...), rappr. e dif., giuste procure in atti, dagli avvocati Leopoldo Conti del foro di Genova e Gi.Ca. del foro di Roma, elettivam. dom. in Roma, via (...), presso lo studio del secondo; - Opposta - Oggetto: Opposizione a decreto ingiuntivo. MOTIVI DELLA DECISIONE Il presente giudizio trae origine dal decreto ingiuntivo n. 206/2014, emesso da questo Tribunale il 14 maggio 2014, depositato il giorno successivo e notificato in data 11.06.2014, su istanza e a favore di (...) S.p.A., con il quale veniva ingiunto a (...) e a (...) (recte: (...)) il pagamento di Euro 32.840,00, oltre interessi e spese della procedura monitoria. Tale somma era stata richiesta a titolo di pagamento delle rate insolute del mutuo chirografario che (...) aveva concesso a (...) - in relazione al quale (...) aveva assunto la qualità di coobbligato - credito poi ceduto pro soluto alla Banca odierna opposta. Proponendo opposizione avverso il predetto decreto ingiuntivo, (...) ha preliminarmente eccepito il difetto di rappresentanza in capo al soggetto che ha rilasciato la procura alle liti in calce al ricorso per decreto ingiuntivo, deducendo, nel merito, l'insussistenza dei presupposti per l'emissione del decreto ingiuntivo e l'erroneità della somma ingiunta. Radicatosi il contraddittorio, si è costituita la Banca (divenuta, come detto, cessionaria del credito) che ha contestato l'opposizione, chiedendone il rigetto perché destituita di fondamento. Tanto premesso, va innanzitutto respinta l'eccezione con cui l'opponente lamenta il difetto di rappresentanza in capo al soggetto che ha rilasciato la procura alle liti in calce al ricorso per decreto ingiuntivo; ed invero, l'asserita illeggibilità della sottoscrizione ivi apposta non può in alcun modo inficiare la procura in questione, atteso che il nome del sottoscrittore (dr.ssa (...)) risulta espressamente indicato nel testo della procura stessa e che il relativo potere rappresentativo è peraltro documentato dalla procura a rogito del Notaio (...) di (...) - (...) n. (...) rep., prodotta in atti. Anche il motivo attinente alla mancata notificazione all'opponente della cessione del credito per cui è causa è smentito dalla documentazione versata in atti dalla Banca opposta, comprovante l'avvenuta comunicazione della cessione al debitore ceduto (cfr doc. 6 e 7 del fascicolo di parte opposta). Quanto al merito della pretesa creditoria, giova ricordare che il decreto ingiuntivo è un accertamento anticipatorio con attitudine al giudicato e che, instauratosi il contraddittorio a seguito dell'opposizione, si apre un giudizio a cognizione piena caratterizzato dalle ordinarie regole processuali (cfr. art. 645, 2 comma, c.p.c.) anche in relazione al regime degli oneri allegatori e probatori (cfr. Cass. 17371/03; Cass. 6421/03), con la conseguenza che oggetto del giudizio di opposizione non è tanto la valutazione di legittimità e di validità del decreto ingiuntivo opposto, quanto la fondatezza o meno della pretesa creditoria, originariamente azionata in via monitoria, con riferimento alla situazione di fatto esistente al momento della pronuncia della sentenza (cfr. Cass. 15026/05; Cass. 15186/03; Cass. 6663/02); quindi, il diritto del preteso creditore (formalmente convenuto, ma sostanzialmente attore) deve essere adeguatamente provato, indipendentemente dall'esistenza -ovvero dalla persistenza- dei presupposti di legge richiesti per l'emissione del decreto ingiuntivo (cfr., Cass. 17.02.2004 n. 2997; Cass. 24.06.2004 n. 11762). Va ancora evidenziato che il criterio di riparto degli oneri assertivi e probatori dell'azione contrattuale spiegata dalla Banca è quello derivante dal combinato disposto degli artt. 1218 e 2697 c.c., in base a cui il creditore è tenuto a provare soltanto l'esistenza della fonte (negoziale o legale) del suo diritto e la scadenza del termine per l'adempimento, ma non anche l'inadempimento da parte dell'obbligato, che va meramente allegato, dovendo infatti essere quest'ultimo, cioè il debitore convenuto (ovvero l'opponente, nel caso di specie), a provare il fatto modificativo, impeditivo o estintivo dell'altrui pretesa (cfr. Cass. SU 13533/01; Cass. 9439/08; Cass. 15677/09; Cass. 3373/10). Sempre ai fini dell'onere della prova, va infine ricordato che, per effetto dell'art. 115 c.p.c., la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l'effetto della relevatio ab onere probandi per la controparte: la norma sancisce espressamente che il giudice ponga a fondamento della decisione i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita (cfr., fra le tante, Cass. civ., sez. VI, 21.08.2012 n. 14594). Orbene, nel caso di specie, incontestato, oltre che documentalmente provato, il contratto di finanziamento in forza del quale è stato emesso il decreto ingiuntivo opposto, nessuna specifica contestazione in relazione all'importo ingiunto è stata sollevata dall'opponente, il quale si è limitato, del tutto genericamente, ad asserire di aver effettuato "numerosi pagamenti", di cui, però, non ha fornito alcuna prova. D'altro canto, la Banca ha dimostrato di aver tenuto conto di tutti i pagamenti ricevuti (cfr doc. n. 3) e n. 4) allegati al fascicolo di parte opposta), senza che l'opponente abbia mai mosso rilievi in ordine alle poste annotate sull'estratto conto. Infine, priva di pregio è la contestazione afferente la mancata sottoscrizione, da parte del (...), del piano di ammortamento del mutuo, in relazione al quale appare infondata anche la doglianza - peraltro sollevata per la prima volta solo in seno alla seconda memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. - concernente il metodo c.d. "alla francese". Ed invero, come statuito su punto da copiosa giurisprudenza di merito, il cui orientamento si condivide pienamente, "Nel caso di mutuo con ammortamento rateale cosiddetto "alla francese", il meccanismo di ammortamento prevede una rata costante che si compone di una quota di interessi e di una quota di capitale. L'importo della rata costante di ammortamento è calcolato sulla base della somma dovuta per capitale, del tasso d'interesse e del numero delle rate, attraverso l'impiego del principio dell'interesse composto. Tale sistema non determina alcun fenomeno anatocistico, in quanto gli interessi vengono calcolati unicamente sulla quota capitale via via decrescente e per il periodo corrispondente a quello di ciascuna rata" (cfr, (così, fra le più recenti, Tribunale Bologna, sez. IV, 24/06/2017, n. 1292 e Tribunale Monza, sez. I, 19/06/2017, n. 1911). Le spese processuali, ai sensi dell'art. 91 c.p.c., seguono la soccombenza e vengono liquidate, sulla base dei parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, tenuto conto della natura e del valore della causa nonché dell'attività difensiva effettivamente espletata, in complessivi Euro 4.500,00 per compensi professionali, così ripartiti: Euro 1.500,00 per la fase di studio, Euro 1.000,00 per la fase introduttiva, Euro 600,00 per la fase istruttoria ed Euro 1.400,00 per la fase decisionale, oltre rimborso forfetario delle spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge. P.Q.M. Il giudice rigetta l'opposizione proposta da (...) avverso il decreto ingiuntivo n. 206/2014 (n. 646/2014 R.G.), emesso da questo Tribunale il 14.05.2014, depositato il 15.05.2014 e notificato il 16.06.2014, su istanza e a favore di (...) S.p.A.; Condanna l'opponente al rimborso, in favore della BANCA opposta, delle spese del giudizio, come sopra liquidate in complessivi Euro 4.500,00 (quattromilacinquecento/00), oltre rimborso forfetario delle spese generali, I.V.A. e C.P.A., come per legge. Così deciso in Enna il 3 aprile 2019. Depositata in Cancelleria il 5 aprile 2019.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Enna nella persona del Giudice onorario avv. Pier Maria Cara' ha pronunciato la seguente SENTENZA Nella causa civile R.G. 1086/2013 avente ad oggetto: risoluzione contratto di locazione per uso abitativo, risarcimento del danno, promossa da (...) nato a Piazza (...) il (...) C.F. (...), rappresentato e difeso giusto mandato a margine del ricorso introduttivo dall'avv. Fr.Az. - Ricorrente - CONTRO (...) nata a Piazza (...) il (...) C.F. (...) rappresentata e difesa giusta procura in atti dall'avv. Ga.Di. -Resistente - RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso del 13.09.2013 il ricorrente chiedeva di accertarsi e dichiararsi l'inadempimento della convenuta (...) in riferimento al contratto di locazione per uso abitazione registrato in Enna il 11.06.2010, dell'immobile sito a Piazza (...), 2, e 3 piano composto da vani 10 cat (...) censito in catasto al foglio (...) part. (...) sub. (...). A sostegno del ricorso deduceva che il contratto di locazione stipulato per la durata di anni quattro veniva anticipatamente risolto dalla signora (...) che con nota del 10.12.2011 comunicava l'intenzione di rilasciare l'immobile sulla scorta di pregressi accordi, ritenuti inesistenti. Chiedeva quindi la condanna della convenuta al pagamento della somma complessiva di Euro 3962,61, di cui Euro 1500,00 per canoni non pagati, Euro 126,61 a titolo di imposta di registro non corrisposta per gli anni 2011,2012,2013 oltre il risarcimento del danno per il mancato rispetto del termine di preavviso semestrale pari ad Euro 1800,00. Si costituiva la convenuta, la quale preliminarmente eccepiva l'inapplicabilità del rito locatizio, nel merito l'infondatezza della domanda, chiedeva il rigetto della richiesta di compensazione del maggior credito vantato dal ricorrente con le somme versate a titolo di deposito cauzionale, spiegando domanda riconvenzionale per l'importo complessivo di Euro 1766,50. Con ordinanza del 22.07.2014 rigettata l'eccezione in punto di rito, veniva ammessa la prova per testi chiesta da parte resistente. Esaurita l'istruttoria e mutata la persona del giudice, all'udienza del 21.03.2019 i procuratori delle parti discutevano la causa e concludevano riportandosi ai rispettivi scritti difensivi. Preliminarmente non può trovare accoglimento l'eccezione sull'inapplicabilità del rito locatizio alla presente controversia, per intervenuta risoluzione del rapporto contrattuale. La "materia di locazione" - cui fa riferimento il novellato art.447 bis (al comma 1, come sostituito dall'art.87 del D.Lgs. n. 51 del 1998) c.p.c. - sia ricomprensiva di qualunque pretesa collegata ad un contratto, per quanto lo stesso - non più efficace o esistente - ne costituisca mero antefatto storico (cfr. Trib Catanzaro del 2002, secondo cui deve ritenersi che l'art. 447 bis c.p.c. "riguardi pur sempre rapporti locativi, sia in corso, che già risolti, essendo rilevante il collegamento genetico della domanda dedotta in giudizio ad un contratto di locazione immobiliare, nonché agli obblighi in questo previsti o a questo conseguenti"); nell'ampia nozione di cause relative a rapporti di locazione di immobili urbani sono da ricomprendere tutte le controversie comunque riferibili ad un contratto di locazione, che attengano, cioè , non solo alla sua esistenza, validità ed efficacia, ma altresì a tutte le altre possibili sue vicende e segnatamente a quelle che involgano l'adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto, in base alla disciplina codicistica o a quella di settore della legislazione speciale (Cass. n. 10070/2001). Venendo alla domanda del locatore è certamente, quanto meno in parte, fondata. Premesso infatti che in tema di inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisce in giudizio per l'adempimento (così come per la risoluzione del contratto o per il risarcimento del danno) deve solo provare la fonte, negoziale o legale, del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dall'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'adempimento (Cass. Sez. U, 30.10.2001 n. 13533; Cass. Sez. III, 28.1.2002 n. 982), va rilevato anzitutto che il mancato pagamento del canone nei periodi indicati dalla locatrice non è contestato, avendo il convenuto provveduto alla riconsegna delle chiavi dell'appartamento soltanto in data 30.12.2011, mediante consegna alla Stazione Carabinieri di Piazza (...). Pertanto risulta dovuta la somma per i canoni dei mesi di agosto - dicembre 2011 pari a complessivi Euro 1500,00. Va tuttavia decurtato dall'ammontare dei canoni dovuti la somma di Euro 297,00 versata dalla convenuta in data 19/10/2011 a mezzo bonifico bancario in conto la mensilità novembre 2011. In relazione ai danni, premesso che al momento della stipula il conduttore attestava di avere visitato i locali e di averli trovati in buono stato locativo ed esenti da vizi che ne diminuissero la idoneità all'uso convenuto (clausola 7), va rilevato come dalla perizia del geom. C., effettuata a seguito di sopralluogo del 3 gennaio 2012, di poco successivo dunque alla riconsegna delle chiavi, avvenuta a fine dicembre (pacifico), emerge come l'immobile presentasse in corrispondenza del soffitto macchie di umidità abbastanza ampie ed evidenti bolle e screpolature della tinteggiatura derivanti da infiltrazioni di acqua sicuramente risalenti a diversi mesi orsono. Dette infiltrazioni sicuramente sono da attribuirsi ad una perdita proveniente dal soprastante servizio igienico. Dato il breve lasso di tempo trascorso tra la riconsegna e gli accertamenti del CTU è ragionevole riportare le condizioni dell'immobile alla incuria del conduttore che, tenuto altresì conto dell'obbligazione contrattuale che gli imponeva di rilasciare i locali "in perfetto stato, e nelle medesime condizioni in cui gli erano stati consegnati, dovrà pertanto corrispondere la somma indicata dal CTU, pari ad Euro 500,00. Non dovuta è invece l'indennità per il mancato preavviso nella misura di Euro. 1800,00 pari a sei mensilità del canone pattuito. Ai sensi della clausola 2 il conduttore aveva facoltà di recedere, qualora ricorressero giustificati motivi, previo avviso da recapitarsi a mezzo raccomandata almeno sei mesi prima della scadenza. Va rilevato che sebbene questo fu preannunciato a mezzo raccomandata soltanto in data 10.12.2011, dovendosi ritenere i pregressi accordi verbali sostenuti da parte convenuta, comunque invalidi in mancanza del rispetto della forma scritta contrattualmente convenuta, alla riconsegna avvenuta con la restituzione delle chiavi in data 30.12.2011 seguì da parte del locatore l'immediato sopralluogo diretto alla verifica delle condizioni dell'immobile, rilasciato senza alcuna riserva, potendosene desumere, alla fine, la risoluzione per mutuo consenso. Peraltro l'onere di dimostrare l'inadempimento del conduttore e che l'immobile è rimasto libero e non utilizzato grava sul locatore (Cass. 530/2014; Cass. 5827/1993). Sul punto non è stata fornita prova dal locatore, mentre i gravi motivi che giustificavano il recesso della conduttrice derivavano dall'acquisto della casa (cfr. dichiarazione testimoniale sig. S.(...) resa all'udienza del 24/02/2015). Non sono dovute altresì le spese per l'imposta di registro degli anni 2012, 2013, trattandosi di somme richieste successivamente all'intervenuta risoluzione del contratto (30.12.2011) e quindi non imputabili al conduttore. E' invece dovuta la somma di Euro 36,00 per l'imposta di registro dell'anno 2011 e l'ulteriore somma di Euro 36,00 a titolo di differenza sui canoni versati pari ad Euro 297,00 mensili. Infatti il mezzo di pagamento a titolo oneroso, salvo diversa pattuizione, resta a carico dell'ordinante. Pertanto la convenuta resta obbligata al pagamento della differenza di Euro 3,00 che è stata detratta quale costo del bonifico su ciascuna mensilità che è stata versata. Va infine dichiarata la compensazione del credito di Euro 900,00 vantato da (...) a titolo di deposito cauzionale versato al momento della stipula del contratto di locazione, con il maggior credito vantato dal ricorrente per le ragioni di cui alla domanda. Non può essere accolta la domanda riconvenzionale rimasta non provata e labialmente dedotta. Peraltro il deposito cauzionale non può mai essere imputato in conto pigioni - secondo la giurisprudenza prevalente - ha infatti funzione di garanzia (costituendo "pegno irregolare"). Si veda, in questo senso, la giurisprudenza, secondo cui "il deposito cauzionale ha la funzione di garantire il locatore dell'adempimento di tutti gli obblighi che incombono al conduttore e, quindi, non soltanto per gli eventuali danni recati alla cosa locata, ma anche per l'integrale pagamento della pigione ed è legalmente commisurato all'ammontare del canone. Ma al di là di questa relazione, il deposito non può essere assimilato al canone, costituendo invece un pegno irregolare e, cioè, una somma di denaro che passa in proprietà del locatore e sulla quale il conduttore vanta un diritto di credito solo al momento in cui, essendo venuta meno la funzione di garanzia, può chiederne la restituzione" (Cassazione, 5 giugno 1992, n. 6941). In conclusione spetta al ricorrente a titolo di canoni non pagati la somma di Euro 1203,00; Euro 500,00 a titolo di risarcimento dei danni all'immobile al momento del rilascio, Euro 36,00 per quota parte imposta di registro anno 2011, Euro 36,00 per differenza sui canoni versati agosto 2010 - luglio 2011. Complessivamente quindi l'importo dovuto è pari ad Euro 1775,00 cui va detratta la somma di Euro 900,00 per il deposito cauzionale versato. P.Q.M. Il Tribunale di Enna, in persona del giudice onorario avv. Pier Maria Cara', definitivamente pronunciando nella causa n. 1086/2013 R.G. promossa da (...) contro (...) così decide : - in parziale accoglimento del ricorso, condanna (...) al pagamento della complessiva somma di Euro 875,00 oltre interessi dalla data di insorgenza del credito al soddisfo; - condanna (...) al pagamento delle spese di lite liquidate in complessive Euro 700,00 oltre rimborso forfettario 15 % iva e Cpa se dovute come per legge. - Fissa il termine di giorni trenta per la motivazione. Così deciso in Enna il 21 marzo 2019. Depositata in Cancelleria il 29 marzo 2019.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI ENNA Il Giudice, dott.sa Marika Motta, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 1665/2015 R.G.A.C., avente ad oggetto: "Bancari (deposito bancario, cassetta di sicurezza, apertura di credito bancario)", promosso da (...), c.f.: (...), parte elettivamente domiciliata in VIA (...) 94016 P. nonché rappresentata e difesa dall'avv. GU.CR., giusta procura in atti; parte attrice (...), c.f.: (...), parte elettivamente domiciliata in VIA (...) 94016 P. nonché rappresentata e difesa dall'avv. GU.CR., giusta procura in atti; parte attrice (...), c.f.: (...), parte elettivamente domiciliata in VIA (...) 94016 P. nonché rappresentata e difesa dall'avv. (...), giusta procura in atti; parte attrice (...), c.f.: (...), parte elettivamente domiciliata in VIA (...) 94016 P. nonché rappresentata e difesa dall'avv. (...), giusta procura in atti; parte attrice (...), c.f.: (...), parte elettivamente domiciliata in VIA (...) 94016 P. nonché rappresentata e difesa dall'avv. (...), giusta procura in atti; parte attrice (...), c.f.: (...), parte elettivamente domiciliata in VIA (...) 94016 P. nonché rappresentata e difesa dall'avv. (...), giusta procura in atti; parte attrice (...), c.f.: , parte elettivamente domiciliata in VIA (...) 94016 P. nonché rappresentata e difesa dall'avv. (...), giusta procura in atti; parte attrice contro E (...) SOC. COOP. , c.f.: (...), parte elettivamente domiciliata in C/O AVV. (...) VIA (...) 94100 E. e rappresentata e difesa dall'avv. MO.TI., giusta procura in atti; parte convenuta RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Conclusioni come da verbali ed atti di causa. Ha chiesto parte attrice la condanna della controparte al pagamento della somma di 284.430,68 euro a cagione del ritrovamento fortuito di un libretto di conto corrente intestato a (...), deceduto nel 2013, libretto la cui ultima annotazione di 2.404.393 lire (1.241,76 euro) risale al 1972. Giustifica la richiesta di una tale somma in considerazione degli interessi, capitalizzati trimestralmente, frattanto maturati e rivalutazione. Si è costituito l'Istituto di Credito il quale, premessa l'incompetenza territoriale, ha chiesto il rigetto della domanda. La domanda merita rigetto per le ragioni di seguito esposte. Premesso che la somma richiesta nel suo ammontare appare ingiustificabile alla luce delle norme giuridiche e dei principi del nostro ordinamento, in materia in particolare di prescrizione degli interessi, che, come noto, è quinquennale (art. 2948 c.c.), ed in considerazione del fatto che comunque non è stato prodotto alcun contratto per cui non si comprende né in base a quale tasso d'interesse "convenzionale" gli attori abbiano calcolato il saldo, atteso appunto che nessuna convenzione è nota né agli attori, né al loro legale né a questo Tribunale, né perché abbiano capitalizzato trimestralmente tale interesse atteso che nessuna convenzione o clausola contrattuale gli attori abbiano indicato per giustificare una tale operazione, né perché abbiano chiesto la rivalutazione monetaria atteso che nessun illecito è stato commesso. Ciò premesso, deve comunque osservarsi che l'Istituto di Credito ha eccepito la carenza di legittimazione attiva in capo agli attori, atteso che non sono indicati nel libretto dagli stessi prodotto i dati anagrafici del titolare, la cui identità è pertanto incerta. Ne consegue carenza di legittimazione in capo agli odierni attori che non hanno dato prova che effettivamente l'intestatario del libretto in conto corrente fosse il (...), loro dante causa. Né giova, all'uopo, la lettera inviata dall'Ufficio reclami dell'Istituto di Credito, in primo luogo in quanto non proveniente da chi può obbligarsi in nome e per conto dell'Ente, ed in secondo luogo perché non contiene alcun riconoscimento di debito. Infatti, il riconoscimento di debito deve provenire da chi può disporre del diritto (non dall'Ufficio Reclami), deve essere specifico e inequivocabilmente manifestante la volontà di assumersi debitori di una determinata obbligazione, priva di finalità diverse - quale quella transattiva - e non condizionata ("Il riconoscimento di debito, quale atto interruttivo della prescrizione, pur non avendo natura negoziale, nè carattere recettizio e costituendo un atto giuridico in senso stretto, non solo deve provenire da un soggetto che abbia poteri dispositivi del diritto, ma richiede altresì in chi lo compie una specifica intenzione ricognitiva, occorrendo a tal fine la consapevolezza del riconoscimento desunta da una dichiarazione univoca, tale da escludere che la dichiarazione possa avere finalità diverse o che lo stesso riconoscimento resti condizionato da elementi estranei alla volontà del debitore." Cass. Sez. L, Sentenza n. 10755 del 11/05/2009. Inoltre, deve essere rivolto a chi effettivamente è titolare del diritto vantato, cosa che nel caso di specie è, come detto, dubbio. In tal senso, infatti, la Suprema Corte ha precisato che la presunzione iuris tantum di cui all'art. 1988 c.c. - che riguarda la sola causa debendi e non anche i presupposti costitutivi del negozio ricognitivo (i quali vanno viceversa compiutamente dimostrati da chi lo deduce in giudizio) - non può essere pertanto invocata da colui che, pur in possesso del documento, non risulti esserne il destinatario (Cass. Sez. L, Sentenza n. 5106 del 11/06/1987, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 130 del 09/01/1998). La lettera in questione, invece, oltre a liquidare l'eventuale somma dovuta, invitava i richiedenti a produrre i titoli legittimanti la loro pretesa (libretto in originale e attestazioni anagrafiche) e non aveva alcun evidente intento vincolante, essendo inserita evidentemente in un procedimento ancora da concludere con l'accertamento dei presupposti di legge dopo la produzione della documentazione richiesta. Il riconoscimento della somma (peraltro di soli 1300,00 euro circa) quindi oltre a riguardare gli effettivi titolari del libretto, cosa che non è provata nel caso di specie, era in ogni caso condizionata, appunto all'accertamento di tale condizione a seguito della produzione della documentazione richiesta e tesa a transigere la questione, con assenza pertanto di intento seriamente ricognitivo. La domanda deve in conclusione essere rigettata. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e nella misura indicata in dispositivo devono essere poste a carico di parte attrice. P.Q.M. Il giudice, definitivamente pronunciando nella causa iscritta al n. 1665/2015 R.G., rigetta la domanda; condanna parte attrice al pagamento delle spese di lite sostenute da parte convenuta nel corso del presente giudizio che quantifica in 3780,00 Euro, oltre spese generali, iva e cpa se dovute. Così deciso in Enna il 25 marzo 2019. Depositata in Cancelleria il 26 marzo 2019.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI ENNA Il giudice onorario, dott.ssa Vincenza Maniaci, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 1038/2011 R.G.A.C. PROMOSSA DA AZIENDA (...), in persona del legale rappresentante pro-tempore (c.f.: (...)) con sede in E., Viale (...), ed elettivamente domiciliata presso il Servizio Legale sito in Enna Bassa, c.sa (...), rappresentata e difesa dall'avv. Ma.Fo., giusta procura a margine dell'atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, Opponente CONTRO (...), nato a C. (M.) il (...) (c.f.: (...)) ed ivi residente nella via K. n.8, rappresentato e difeso dall'avv. An.Mo., presso il cui studio in Enna, via (...), è elettivamente domiciliato, giusta procura a margine della comparsa di costituzione e risposta, Opposto OGGETTO: OPPOSIZIONE A DECRETO INGIUNTIVO CONCISA ESPOSIZIONE DEI MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Omesso lo svolgimento del processo, ai sensi del nuovo testo dell'art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c., introdotto dall'art. 45, comma 17 L. n. 69 del 2009, il presente giudizio trae origine dal decreto ingiuntivo n. 215/2011, emesso da questo Tribunale in data 17.08.2011, depositato il 19.08.2011 e notificato il successivo 09.09.2011, su istanza ed a favore di (...), con il quale è stato ingiunto all'(...) (ex (...)), in persona del legale rappresentante pro-tempore, il pagamento di Euro 51.775,19, oltre rivalutazione monetaria ed interessi di mora maturati dalla data di abbattimento degli animali sino all'effettivo soddisfo, ed oltre alle spese del giudizio monitorio, come liquidate, a titolo di indennità di abbattimento - per il periodo 2005-2011 - di n. 109 bovini risultanti infetti da tubercolosi o brucellosi ai controlli sanitari, spettante sia ai sensi della normativa nazionale (L. n. 815 del 1964, L. n. 33 del 1968 e L. n. 34 del 1968) sia ai sensi della L.R. Sicilia n. 12 del 1989. Ciò premesso, con l'atto di opposizione l'Azienda (...) ha contestato il credito azionato in sede monitoria, eccependo: la carenza dei presupposti ex art. 633 c.p.c. , il proprio difetto di legittimazione passiva, chiedendo l'integrazione del contraddittorio nei confronti dell'Assessorato Regionale per la Sanità, la non debenza delle somme sia ratione temporis sia in omaggio a disposizioni comunitarie. Si costituiva l'opposto contestando i motivi di opposizione e chiedendone il rigetto, con condanna anche ex art. 96 c.p.c.- L'opposizione è fondata e, come tale, va accolta. Incidentalmente rilevando che, frattanto, la Corte Costituzionale, con Sentenza n. 142/2018 del 24.01.2018, pubblicata il 05.07.2018, si è pronunciata sulla questione di legittimità Costituzionale dell'art. 2 della L. 02 agosto 2008, n. 130; art. 2, c. 3 e 3 bis, della L. 13 aprile 1988, n. 117, sollevata dal Tribunale ordinario di Enna con ordinanza del 14 marzo 2016. E' pacifico che, in tema di procedimento per ingiunzione, per effetto dell'opposizione non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti nel giudizio contenzioso, nel senso che il creditore mantiene la veste di attore e l'opponente quella di convenuto; ne consegue che, nell'ambito della ripartizione dell'onere probatorio, è il creditore opposto a dovere fornire la prova dell'esistenza del rapporto dedotto, della prestazione eseguita e dell'entità credito azionato. Giova ricordare, infatti, che il decreto ingiuntivo è un accertamento anticipatorio con attitudine al giudicato e che, instauratosi il contraddittorio a seguito dell'opposizione, si apre un giudizio a cognizione piena caratterizzato dalle ordinarie regole processuali (cfr. art. 645, 2 comma, c.p.c.) anche in relazione al regime degli oneri allegatori e probatori (cfr. Cass. 17371/03; Cass. 6421/03), con la conseguenza che oggetto del giudizio di opposizione non è tanto la valutazione di legittimità e di validità del decreto ingiuntivo opposto, quanto la fondatezza o meno della pretesa creditoria, originariamente azionata in via monitoria, con riferimento alla situazione di fatto esistente al momento della pronuncia della sentenza (cfr. Cass. 15026/05; Cass. 15186/03; Cass. 6663/02); quindi, il diritto del preteso creditore (formalmente convenuto, ma sostanzialmente attore) deve essere adeguatamente provato, indipendentemente dall'esistenza - ovvero dalla persistenza - dei presupposti di legge richiesti per l'emissione del decreto ingiuntivo. Ed invero, trattandosi di procedimento in contraddittorio a cognizione piena - in cui vigono le generali norme in materia di ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova - l'onere della prova del fatto costitutivo del diritto di credito consacrato dal decreto ingiuntivo continua a gravare ex art. 2697 c.c. sull'originario ricorrente, in virtù della domanda di pagamento da questi proposta. Ciò posto, non può non essere rilevato come, nella specie, parte opposta non abbia mai prodotto né il suo ricorso per decreto ingiuntivo, che si trova depositato unicamente agli atti del fascicolo di parte opponente, né il proprio fascicolo di parte prodotto in sede monitoria; fascicolo che, fermo restando il principio di "non dispersione della prova", nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo può essere depositato, al più tardi, con la comparsa conclusionale, per vero in questo caso non depositata dalla stessa parte opposta, non essendo soggetto alla disciplina in tema di preclusioni istruttorie (Corte di Cassazione, SS. UU., Sentenza n. 14475/2015). E' noto che la documentazione posta a fondamento del ricorso per decreto ingiuntivo (e, dunque, della domanda - in questo caso di pagamento - in esso contenuta) è destinata ad entrare nel fascicolo del ricorrente, restando a carico della parte l'onere di costituirsi in giudizio depositando il fascicolo contenente i documenti offerti in comunicazione. Ne consegue che, in difetto di tale produzione, il giudice - non potendo esaminarla per non averla nella propria sfera di cognizione - non può tenerne conto (Tribunale Catania, Sez. Quarta Civile, Sentenza 24.03.2014). Invero, al momento della decisione, i documenti posti a corredo della domanda di ingiunzione non sono stati rinvenuti, non risultano mai depositati in precedenza e di essi non vi è traccia di deposito in alcun atto del giudizio. Conseguentemente, tenuto conto della totale assenza di prova del credito azionato, il decreto ingiuntivo opposto non può che essere revocato. Le spese processuali seguono la soccombenza, ai sensi dell'art. 91 c.p.c., e, in mancanza di nota spese, tenuto conto della natura e del valore della causa, nonché dell'attività difensiva effettivamente espletata, della condotta delle parti e delle questioni trattate, vengono liquidate d'ufficio, sulla base dei parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, aggiornati al D.M. n. 37 dell'8 marzo 2018, in complessivi Euro 4.239,49, di cui Euro 267,49 per esborsi e, quanto ai compensi professionali, Euro 810,00 per la fase di studio, Euro 574,00 per la fase introduttiva, Euro 1.204,00 per la fase di trattazione/istruttoria ed Euro 1.384,00 per la fase decisionale, oltre rimborso forfetario delle spese generali 15%, C.P.A. ed IVA, quest'ultima se dovuta, come per legge. P.Q.M. il giudice, definitivamente decidendo, disattesa ogni altra domanda ed eccezione, ogni altra questione assorbita, accoglie l'opposizione proposta dall'Azienda (...) avverso il decreto ingiuntivo di questo ufficio n. 215/2011 D.I. e n. 8662011 R.G. del 17/19.08.2011, e, per l'effetto, ne dispone la revoca nei confronti della predetta opponente. Condanna (...) al rimborso ed al pagamento, in favore dell'AZIENDA (...), delle spese del giudizio, come sopra liquidate in complessivi Euro 4.239,49 (quattromiladuecentotrentanove/49), oltre rimborso forfetario delle spese generali 15%, C.P.A ed IVA come per legge. Così deciso in Enna il 25 marzo 2019. Depositata in Cancelleria il 26 marzo 2019.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tribunale di Enna Il Tribunale di Enna, nella persona del Giudice dott. Davide Giovanni Paolo Capizzello, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di primo grado iscritta al n. 277/2015 R.(...)C., avente per oggetto: "proprietà" PROMOSSA DA (...), nato ad A. (...) il (...), cod. fisc.: (...), elettivamente domiciliato in Enna, Via (...), presso lo studio dell'avv. Fr.Im., rappresentato e difeso dall'avv. Ra.Sp., giusta procura in atti; CONTRO (...), nato a C. il (...), cod. fisc.: (...), elettivamente domiciliato in Enna, Via (...), presso lo studio dell'avv. Pe.La., che lo rappresenta e difende, assieme agli avv.ti Ce.Ge., Ma.Cr. e Gi.De., giusta procura in atti; E CONTRO (...), nato ad A. (E.) l'(...), cod. fisc.: (...). RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Va preliminarmente dichiarata la contumacia del convenuto (...), essendo infatti regolari le notifiche nei suoi confronti. Nel merito, la domanda dell'attore volta a riconoscere il suo diritto alla prelazione agraria, ai sensi dell'art. 8 L. n. 590 del 1965 e dell'art. 7 L. n. 817 del 1971, con riferimento al fondo sito in A. (E.), C.da M., censito al catasto terreni di Agira, foglio (...), part. (...), (...), (...) e (...), e fabbricato censito al catasto fabbricati di Agira, foglio (...), part. (...), è infondata e va rigettata. Giova premettere che i sopra menzionati beni immobili, di proprietà del convenuto (...), sono stati conferiti da quest'ultimo in un trust, nel cui contesto è stato nominato trustee e beneficiario il convenuto (...), titolare della omonima ditta individuale avente ad oggetto attività agricola, come da atto di costituzione di trust del 24.2.2014, rogato dal notaio (...) di (...), n. rep. (...), n. racc. (...). Va rilevato che, in materia di prelazione agraria, l'art. 8 L. n. 590 del 1965, nel caso a mani da considerare congiuntamente all'art. 7 L. n. 817 del 1971, prevede, testualmente, che il retraente "coltivi il fondo stesso da almeno quattro anni, non abbia venduto, nel biennio precedente, altri fondi rustici di imponibile fondiario superiore a lire mille, salvo il caso di cessione a scopo di ricomposizione fondiaria, ed il fondo per il quale intende esercitare la prelazione in aggiunta ad altri eventualmente posseduti in proprietà od enfiteusi non superi il triplo della, superficie corrispondente alla capacità lavorativa della, sua famiglia". Ebbene, secondo la sopra riferita disposizione normativa, è stata prevista la condizione negativa della mancata vendita di altri fondi rustici da parte dell'avente diritto alla prelazione, condizione a sua volta mitigata da tre limitazioni: la prima di carattere temporale (applicazione della restrizione al solo biennio precedente), la seconda di carattere funzionale (esclusione delle vendite effettuate per motivi di ricomposizione fondiaria), la terza di valore (esclusione delle vendite di terreni di limitato valore, sulla base del parametro delle mille lire). Assorbente appare il rilievo che l'attore, assieme ad altre persone, ha alienato a tale (...) un fondo rustico sito in L. (E.), C.da C., censito al catasto terreni di Leonforte, foglio (...), part. (...), (...), (...), (...) e (...), nonché un fabbricato, censito al catasto fabbricati di Leonforte, foglio (...), part. (...) sub (...) e sub (...), come da atto di compravendita del 14.11.2012 rogato dal notaio (...) di (...), n. rep. (...), n. racc. (...), Orbene, secondo costante orientamento giurisprudenziale, "in tema di prelazione e riscatto di fondi rustici, sul confinante retraente incombe, secondo il principio generale di cui all'art. 2697 cod. civ., l'onere della prova dell'esistenza dei requisiti per l'esercizio del diritto di riscatto ex art. 7 L. n. 817 del 1971, tra cui quelli della mancata vendita dei fondi (che, quale condizione per l'insorgenza del diritto, rientra cogentemente nel "thema decidendum", essendo il giudice del merito tenuto "ex officio" alla verifica della relativa sussistenza in concreto), e della destinazione del terreno eventualmente diversa da quella agricola" (Cass. Civ., sez. III, 8.5.2003 n. 6980); e ancora, "il diritto di prelazione agraria previsto dall'art. 8 della L. 26 maggio 1965, n. 590 ed esteso al proprietario di terreni confinanti dall'art. 7, secondo comma, della L. 14 agosto 1971, n. 817, è sottoposto, fra l'altro, alla condizione negativa della mancata vendita di altri fondi rustici nel biennio precedente. Tale previsione - che si radica sulla necessità di favorire l'accorpamento dei fondi al fine di migliorare la redditività dei terreni, evitando, nel contempo, l'esercizio della prelazione con finalità speculative - va interpretata restrittivamente alla luce di un bilanciamento tra valori costituzionalmente rilevanti e, perciò, si applica anche al caso di vendita di quote in proprietà indivisa, a prescindere dalla percentuale delle medesime" (Cass. Civ., sez. III, 10.5.2011 n. 10220); e ancora, "la mancata vendita di fondi rustici nel biennio precedente costituisce condizione per l'insorgenza del diritto di prelazione e di riscatto in capo al coltivatore diretto proprietario del fondo confinante, sicché chi esercita il relativo diritto, salvo espresso riconoscimento della controparte, deve dimostrarne la sussistenza, senza che la prova sia territorialmente delimitata e senza che rilevi il carattere di fatto negativo della stessa, che comporta, solo la necessità di allegare fatti positivi contrari, la cui acquisizione può avvenire anche con testi e presunzioni, ivi compresi i certificati rilasciati dalla Conservatoria dei Registri Immobiliari e le visure richieste agli uffici territoriali della Agenzia delle Entrate" (Cass. Civ., sez. III, 27.3.2015 n. 6247). Con riferimento, poi, al profilo del previsto "imponibile fondiario superiore a lire mille" (art. 8, L. n. 590 del 1965), va rilevato che il legislatore, nel non aggiornare la sopra riferita previsione, ha implicitamente compiuto una scelta discrezionale, consistita nel sottrarre importanza alla limitazione relativa al valore della vendita (si v., all'uopo, Cass. Civ., sez. III, 25.8.2006 n. 18488). Orbene, secondo costante orientamento giurisprudenziale, "il richiamo, contenuto nell'art. 8 L. 26 maggio 1965, n. 590, all'imponibile fondiario dei fondi rustici ceduti dal prelazionante si riferisce sia al reddito fondiario che a quello agrario, che, in egual modo, costituivano, secondo la normativa tributaria vigente al momento dell'entrata in vigore della L. n. 590 del 1965 citata, la base di calcolo dell'imposta sui terreni. A questi redditi deve, conseguentemente, farsi riferimento, in sede di applicazione del citato art. 8, anche dopo l'abolizione dell'imposta fondiaria, perché essi, per quanto rappresentati da espressioni numeriche non più idonee, per difetto di aggiornamento, ad indicare direttamente la redditività complessiva dei fondi cui si riferiscono, costituiscono, pur sempre, in mancanza di nuovi criteri legali di valutazione, gli unici parametri cui la persistente vigenza della legge nel suo testo originario rimanda. Questa lettura, fedele al dato testuale della norma, non può essere corretta prendendo in considerazione il valore fondiario vigente all'epoca dell'entrata in vigore della L. n. 590 del 1965, perché nel sistema di tale legge non è istituita una relazione di proporzionalità fra i due indici (valore fondiario e limite di valore) destinata a rimanere costante nel tempo. Né, infine, tale interpretazione adeguatrice potrebbe essere giustificata da una lettura della norma del 1965 costituzionalmente conforme agli art. 3, 44 e 47 cost., poiché non sussistono profili di contrasto con le citate disposizioni costituzionali derivanti dal mancato adeguamento dell'art. 8 L. n. 590 del 1965, perdurando le limitazioni funzionali (esclusione delle alienazioni effettuate per motivi di ricomposizione fondiaria) e temporali (applicazione della restrizione al solo biennio precedente) che circoscrivono la condizione ostativa prevista dalla norma in questione e garantiscono ancora il soddisfacimento del "favor" costituzionale per la formazione e lo sviluppo della proprietà diretto-coltivatrice" (Cass. Civ., sez. III, 25.8.2006 n. 18488; si v., in senso conforme, Cass. Civ., sez. III, 7.7.2010 n. 16024, nonché Cass. Civ., sez. III, 30.7.2002 n. 11271, e Cass. Civ., sez. III, 16.8.1995 n. 8899). L'attore, dal canto suo, ha esposto di essere stato comproprietario solamente di una quota pari a 2/126 di del fondo rustico compravenduto in data 14.11.2012, e sopra menzionato. Tuttavia, in ragione di quanto riferito sopra in base agli orientamenti giurisprudenziali consolidati, la superiore deduzione appare essere irrilevante, in quanto, comunque, nel caso di specie si è dinanzi ad una vera e propria compravendita di fondo rustico. Quanto, poi, alla quantificazione dell'"imponibile fondiario superiore a lire mille", il convenuto S. ha prodotto le rendite catastali dei beni sopra menzionati: ebbene, dalla sommatoria del reddito dominicale e del reddito agrario di tutti i beni compravenduti in data 14.11.2012 si perviene alla somma di Euro 952,13, e pertanto la quota di 2/126 dell'attore può essere calcolata nella somma di Euro 15,11, quindi pari a L. 29.257,04 (utilizzando il tasso di cambio, a tutt'oggi vigente, di Euro uno per L. 1.936,27), pertanto superiore al limite quantitativo previsto dalla menzionata disposizione normativa. Giova, infine, considerare la circostanza che il convenuto (...), per come emerso dalle deposizioni testimoniali in atti (si v. le dichiarazioni dei testi (...) e (...) rese all'udienza del 20.10.2016), conduca da parecchi anni, e comunque almeno dal 2008, come coltivatore diretto, il fondo per cui è causa, e pertanto, in base a quanto previsto dall'art. 7, comma primo, L. n. 817 del 1971, non vi sono i presupposti per poter esercitare la prelazione agraria. I profili esaminati appaiono del tutto assorbenti delle altre questioni proposte. Le spese vanno poste a carico del soccombente attore nei confronti del convenuto (...), unico convenuto costituitosi in giudizio, mentre nulla va disposto con riferimento al convenuto contumace (...). P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da (...) contro (...) e (...), ogni altra domanda, eccezione e conclusione disattesa, così provvede: - rigetta la domanda; - condanna (...) al pagamento delle spese di giudizio in favore di (...), che liquida in Euro 5.000,00 per compenso di avvocato, oltre I.V.A., c.p.a. e rimborso delle spese generali nella misura del 15% del compenso; - nulla provvede in ordine alle spese di giudizio con riferimento al convenuto (...). Così deciso in Enna il 24 marzo 2019. Depositata in Cancelleria il 26 marzo 2019.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI ENNA Il Giudice, dott.sa Marika Motta, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 749/2015 R.G.A.C., avente ad oggetto: "Indebito soggettivo - Indebito oggettivo", promosso da COMUNE DI BARRAFRANCA , c.f.: (...), parte elettivamente domiciliata in VIA (...) nonché rappresentata e difesa dall'avv. ME.PA., giusta procura in atti; parte attrice contro E (...), c.f.: (...), parte elettivamente domiciliata in VIA (...) e rappresentata e difesa dall'avv. BE.AL., giusta procura in atti; parte convenuta RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Conclusioni come da verbali ed atti di causa. Ha proposto opposizione il Comune di Barrafranca avverso il decreto ingiuntivo n. 104/15 emesso dal tribunale di Enna con cui il Comune è stato condannato al pagamento di 35.358,65 euro in favore del (...). Lamenta parte opponente che l'incarico conferito con ordinanza del sindaco era stato affidato non al (...) ma alla ditta (...) e contesta anche l'entità e le maggiorazioni arbitrariamente apportate al corrispettivo dall'opposto per il servizio di necroforo svolto in favore del comune. Lamenta inoltre la carenza di legittimazione del Comune avendo agito il sindaco non in veste di rappresentante dell'Ente ma in quanto ufficiale del governo ex art. 54 del D.Lgs. n. 267 del 2000. Eccepisce quindi che il contratto non sarebbe comunque stato stipulato per iscritto come è invece previsto per l'assunzione delle obbligazioni a carico degli enti pubblici. Eccepisce altresì la mancanza nel caso di specie dell'impegno di spesa. Si è costituito l'opposto il quale ha chiesto il rigetto dell'opposizione. L'opposizione deve essere accolta per le ragioni di seguito esposte. Deve in primo luogo premettersi che le funzioni attinenti alla polizia mortuaria, alla sepoltura dei defunti e ai servizi cimiteriali spettano al Comune. In ogni caso anche a voler ricondurre l'attività di cui è procedimento alle funzioni attinenti all'igiene pubblica, anche questa è ai sensi dell'art. 50 c. 5 una competenza del sindaco in quanto rappresentante della Comunità locale. Dunque, in tutte le ipotesi appena considerate, l'attività posta in essere dal sindaco è riconducibile all'Ente locale dallo stesso rappresentato. Ciò premesso, deve rilevarsi che parte convenuta non contesta, anzi ammette espressamente, che non sia stato stipulato alcun il contratto/convenzione sulla base del quale ha chiesto gli odierni compensi per l'erogazione del servizio per cui vengono chiesti i compensi. Non risulta inoltre che vi era impegno di spesa per l'erogazione dei servizi per cui chiede il corrispettivo. Peraltro, lo stesso opposto produce un bando di gara del Comune per l'affidamento del servizio di necroforo per sei mesi ma non prova che tale servizio sia stato poi in effetti affidato allo stesso sula base di quella gara pubblica. Deve inoltre osservarsi che la circostanza secondo cui l'oggetto del rapporto fra l'opposto e il Comune sia disciplinato dalla legge non esclude che a monte tale rapporto debba instaurarsi secondo le inderogabili norme che disciplinano la stipula dei contratti pubblici secondo le regole di contabilità pubblica; né la circostanza che l'attività sia stata prestata in seguito ad ordinanza sindacale deroga o abroga la disciplina in materia di contabilità pubblica (e neanche potrebbe, atteso che quest'ultima è di origine nazionale/comunitaria e costituisce fonte sovraordinata anche per le regioni). Invece, in senso contrario, a quanto ritenuto dall'opposta deve rilevarsi che la legge regola dettagliatamente i modi di assunzione di obbligazioni da parte della pubblica amministrazione. In particolare, la pubblica amministrazione può essere vincolata a rapporti di natura contrattuale privatistica solo con contratti aventi la forma scritta e dopo l'adozione, da parte dei competenti organi dell'ente, dei provvedimenti amministrativi previsti dalla legge. A tal proposito l'art. 191 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, intitolato "Regole per l'assunzione di impegni e per l'effettuazione di spese", dispone, fra l'altro, che "gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria di cui all'art. 153, comma 5. Il responsabile del servizio, conseguita l'esecutività del provvedimento di spesa, comunica al terzo interessato l'impegno e la copertura finanziaria contestualmente all'ordinazione della prestazione, con l'avvertenza che la successiva fattura deve essere completata con gli estremi della suddetta comunicazione. Fermo restando quanto disposto al comma 4, il terzo interessato, in mancanza della comunicazione, ha facoltà di non eseguire la prestazione sino a quando i dati non gli vengano comunicati" e che "nel caso in cui vi è stata l'acquisizione di beni e servizi in violazione dell'obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell'art. 194, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura. Per le esecuzioni reiterate o continuative detto effetto si estende a coloro che hanno reso possibili le singole prestazioni". L'impegno di spesa appare pertanto una condizione necessaria per ottenere le prestazioni da pare dei privati che abbiano contrattato con la PA, a prescindere dal tipo di prestazioni rese e della natura del servizio, anche eventualmente attinente a servizi necessari in materia di igiene pubblica, ciò in considerazione del necessario bilanciamento dei principi in materia di igiene con quelli altrettanto rilevanti per l'ordinamento in materia di controllo della spesa pubblica. Peraltro, il rispetto delle norme in materia di contabilità pubblica risponde ai principi di trasparenza dell'attività della PA, che deve contrattare con soggetti selezionati in modo oggettivo, trasparente e concorrenziale al miglior prezzo offerto dal mercato. In tal senso, il sindaco, in caso di necessità, avrebbe dovuto rivolgersi a soggetti che in base a pubbliche selezioni avevano sottoscritto la convenzione di cui al bando prodotto dallo stesso opposto, impegnandosi appunto ad intervenire in caso di richiesta sindacale. Ancora, in tema di necessario impegno di spesa la Suprema Corte ha pure precisato che "il funzionario pubblico che abbia attivato un impegno di spesa per l'ente locale senza l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione dello stesso (ossia al di fuori dello schema procedimentale previsto dalle norme cd. di evidenza pubblica), risponde - ai sensi dell'art. 23, comma 4, del D.L. n. 66 del 1989, conv., con modif., dalla L. n. 144 del 1989 - degli effetti di tale attività di spesa verso il terzo contraente, il quale è, pertanto, tenuto ad agire direttamente e personalmente nei suoi confronti e non già in danno dell'ente, essendo preclusa anche l'azione di ingiustificato arricchimento per carenza del necessario requisito della sussidiarietà, che è esclusa quando esista altra azione esperibile non solo contro l'arricchito, ma anche verso persona diversa. Né può ipotizzarsi una responsabilità dell'ente ex art. 28 Cost., in quanto tale norma presuppone che l'attività del funzionario sia riferibile all'ente medesimo, mentre la violazione delle regole contabili determina una frattura del rapporto di immedesimazione organica con la pubblica amministrazione." (Cass. Sez. 1 - , Sentenza n. 80del04/01/2017). Nel caso di specie, seppure il sindaco avesse pure ordinato che agli adempimenti collaterali, quali quelli relativi alla regolarizzazione contabile dell'intervento, provvedesse il Responsabile dell'Unità di Progetto, non risulta che tali necessari adempimenti siano stati posti in essere. Deve inoltre osservarsi che l'art. 23 del D.L. 2 marzo 1989, n. 66, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, L. 24 aprile 1989, n. 144 (oggi sostituito dall'art. 191 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267), secondo il quale l'ente pubblico non risponde dell'attività posta in essere dal proprio funzionario senza l'osservanza delle regole procedimentali ivi previste, si applica anche ai Comuni della Regione Sicilia, a prescindere dal suo formale recepimento nella legislazione regionale, in quanto norma destinata ad incidere sull'efficacia del contratto e, quindi, relativa all'area dell'ordinamento civile riservata alla competenza esclusiva della legislazione statale ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lett. l), Cost. (Cass. Sez. U, Sentenza n. 26657 del 18/12/2014, Cass. Sez. 1 - , Ordinanza n. 6970 del 20/03/2018). Inoltre, per le stesse ragioni, in materia di rapporti con la P.A., il contratto, fonte delle obbligazioni inter partes, deve essere redatto per iscritto a pena di nullità - non essendo, peraltro, equiparabili al contratto le deliberazioni degli organi dell'Ente, in quanto atti interni - ( Cass. Sez. 1, Sentenza n. 1167 del 17/01/2013, Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7297 del 26/03/2009, Cass. Sez. 1, Sentenza n. 15296 del 06/07/2007) e provenire dal legale rappresentante dell'Ente. I contratti stipulati dalla P.A. a trattativa privata ai sensi dell'art. 17 del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, pur richiedendo in ogni caso la forma scritta "ad substantiam", possono anche non risultare da un unico documento, ove siano stipulati secondo l'uso del commercio e riguardino ditte commerciali. Peraltro, occorre in ogni caso che il perfezionamento del contratto risulti dallo scambio di proposta e accettazione, non potendo ritenersi sufficiente che la forma scritta investa la sola dichiarazione negoziale della Amministrazione, né che la conclusione del contratto avvenga per "facta concludentia", con l'inizio dell'esecuzione della prestazione da parte del privato attraverso l'invio della merce e delle fatture, secondo il modello dell'accettazione tacita previsto dall'art. 1327 cod. civ. (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 12316 del 15/06/2015). Nel caso di specie non vi è nessun contratto neanche a formazione progressiva né derivante dallo scambio a distanza di proposta ed accettazione. Le norme in materia di nullità per mancanza della forma pubblica nei contratti della PA e di mancanza di impegno di spesa, proprio perché sono posti a tutela della trasparenza della PA e della concorrenza, volte quindi ad impedire che gli amministratori locali possano scegliere in modo arbitrario e clientelare soggetti non previamente selezionati in base a criteri oggettivi e in modo rispondente all'effettivo interesse dell'Ente pubblico all'efficienza ed economicità della sua azione non possono produrre gli effetti invocati dalla parte opposta, quale la non declaratoria della nullità per avervi concorso l'ente pubblico, né i principi di correttezza civilistici. E' evidente infatti che comminare la sanzione della nullità in caso di mancata stipulazione per iscritto del rapporto con la pa e in caso di mancanza di rispetto delle regole dell'impegno di spesa è proprio un modo per imporre allo stesso privato che contratta con la PA di vigilare che l'Ente rispetti le regole in materia di trasparenza e contabilità pubblica, pena l'impossibilità di ottenere il pagamento del corrispettivo dallo stesso ente. D'altra parte se così non fosse il privato che avesse beneficiato della mancata applicazione da parte della PA delle regole di trasparenza economicità e concorrenza di matrice costituzionale e comunitaria finirebbe per non subire alcuna conseguenza negativa dalle previste nullità previste dalla legge in materia. La Suprema Corte sul punto ha precisato che "Tali regole formali sono funzionali all'attuazione del principio costituzionale di buona amministrazione in quanto agevolano l'esercizio dei controlli e rispondono all'esigenza di tutela delle risorse degli enti pubblici contro il pericolo di impegni finanziari assunti senza l'adeguata copertura e senza la valutazione dell'entità delle obbligazioni da adempiere." (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6555 del 20/03/2014). Inoltre, in tema di contratti degli enti pubblici territoriali, la regola generale secondo la quale gli eventuali vizi della deliberazione di autorizzazione a contrarre hanno rilievo esclusivamente nell'ambito interno all'organizzazione dell'ente, ma non incidono sulla validità ed efficacia del contratto privatistico di prestazione d'opera professionale, non esclude che il legislatore possa dettare, anche in questo campo, delle norme imperative, le quali trovano applicazione nei rapporti intersoggettivi, e condizionano pertanto la stessa validità dei contratti di diritto privato stipulati dalla Pubblica Amministrazione. Tal è il caso dell'art. 23 del D.L. 24 aprile 1989, n. 66, convertito in L. 3 febbraio 1989, n. 144 e successive modificazioni (v. artt. 153, 191 e 194 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267), il quale, subordinando l'effettuazione di qualsiasi spesa ad una deliberazione autorizzativa adottata nelle forme di legge e divenuta o dichiarata esecutiva, nonché all'impegno contabile registrato sul competente capitolo del bilancio di previsione, da comunicare ai terzi interessati, detta una disposizione che incide anche sui rapporti tra l'Amministrazione ed i terzi e riguarda anche le ipotesi in cui la PA interviene in condizioni di urgenza. Sul punto la Suprema Corte ha precisato che "In tema di finanza degli enti locali, l'art. 55 L. n. 142 del 1990 - che prevede la nullità degli impegni di spesa assunti senza preventiva attestazione della copertura finanziaria - disciplina anche la materia delle spese relative ad incarichi attribuiti per risolvere situazioni di evidente necessità ed urgenza" (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4248 del 14/05/1997, Cass. Sez. U, Sentenza n. 13831 del 28/06/2005) e che "In tema di contratti stipulati dai comuni, è principio inderogabile quello della necessità dell'impegno di spesa, già ai sensi degli artt. da 284 a 288 del R.D. n. 383 del 1934, e succ. mod., la cui violazione, comportando radicale nullità del contratto, si ha non soltanto quando l'indicazione della spesa e dei mezzi per farvi fronte sia omessa del tutto nella delibera che autorizza il ricorso all'appalto, ma anche quando i relativi importi, per cui l'onere finanziario è assunto, risultino inferiori (nella specie, del 14%) a quelli per i quali è stipulato il relativo contratto che, per l'eccedenza, è invalido." (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 24303 del 18/11/2011). Peraltro, pure nelle ipotesi eccezionali in cui il legislatore prevede la possibilità che l'ente pubblico in caso di urgenza possa ricorrere al cottimo fiduciario in assenza di contratto comunque il pagamento del corrispettivo è subordinato pur sempre, non alla semplice avvenuta esecuzione del lavoro da parte del privato, ma all'assunzione dell'impegno di spesa da parte dell'Ente (v. artt. dall'art. 70 R.D. 25 maggio 1895, n. 350, artt. 49 e 50 del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, nonché degli artt. 269 e 270 del regolamento approvato con R.D. 23 maggio 1924, n. 827). Si veda in tal senso Cass. Sez. 1, Sentenza n. 14647 del 30/07/2004. Né può invocarsi nel caso di specie l'ingiustificato arricchimento della PA e l'azione di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. in considerazione del fatto che il privato ha un'azione concorrente (natura sussidiaria dell'azione ex art. 2041 c.c.) nei confronti del funzionario con cui ha contrattato o comunque con il funzionario inadempiente ("In tema di assunzione di obbligazioni da parte degli enti locali, qualora le obbligazioni siano state assunte senza un previo contratto e senza l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione dello stesso, al di fuori delle norme c.d. ad evidenza pubblica, insorge un rapporto obbligatorio direttamente tra chi abbia fornito la prestazione e l'amministratore o il funzionario inadempiente che l'abbia consentita. Ne consegue che, potendo il terzo interessato agire nei confronti del funzionario, per la mancanza dell'elemento della sussidiarietà, non è ammissibile l'azione di ingiustificato arricchimento nei confronti dell'ente locale", Cass. Sez. 1 - , Ordinanza n. 30109 del 21/11/2018). Per tutte le superiori ragioni il decreto ingiuntivo deve quindi essere revocato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e nella misura indicata in dispositivo devono essere poste a carico di parte opposta. P.Q.M. Il giudice, definitivamente pronunciando nella causa iscritta al n. 749/2015 R.G., revoca il decreto ingiuntivo opposto; condanna parte opposta al pagamento delle spese di lite sostenute da parte attrice nel corso del presente giudizio che quantifica in 1780,00 euro, oltre spese generali, iva e cpa se dovute. Così deciso in Enna il 25 marzo 2019. Depositata in Cancelleria il 26 marzo 2019.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI ENNA Il giudice Eleonora N. V. Guarnera ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 443/2015 R.G., promossa da (...), nato in S. il (...) e res. in T., via (...), (...), nata (...), via (...), e (...), nata a T. il (...), ivi res. in via (...), c.f. (...), tutti elettivam. dom. in Troina, via Marx n.2, presso lo studio dell'avv. An.Ma., che li rappr. e dif. per mandato a margine dell'atto di citazione; Attori contro (...), nato a T. l'(...), ivi res. in via (...), c.f. (...), elettivam. dom. in Troina, via (...), presso lo studio dell'avv. Gi.Vi., che lo rappr. e dif. per mandato a margine in calce alla comparsa di costituzione e risposta; Oggetto: Usucapione. contro (...), nato a T. il (...), ivi res. in via (...); (...), nata a T. il (...), ivi res. in via (...); (...), nata a T. il (...), res. in S. H. 4/a A.; (...), nato a T. il (...), res. in S., via (...); (...), nato a T. il (...), ivi res. in C.da M.; (...), nato a T. il (...), res. a M. (L.) via (...); (...), nata in P. il (...), res. in V. N. de Foz C. , R. est S. n. 42; (...), nato in P. il (...), res. in V. N. de Foz C., R. est S. n. 42; (...), nato in P. il (...), res. in V. N. de Foz C., R. est S. n. 42; - Convenuti contumaci - MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto di citazione ritualmente notificato, gli attori, premesso di trovarsi da oltre vent'anni nel possesso del terreno sito in T., C.da M., riportato al (...) del predetto Comune al foglio (...), p.lle (...), (...), (...) e (...), hanno chiesto dichiararsi, nei confronti dei convenuti, l'intervenuta usucapione del diritto di proprietà del predetto immobile. Nonostante la regolarità della notificazione nei confronti di tutti i convenuti, solo (...) si è costituito, chiedendo il rigetto della domanda. Ciò premesso, la domanda di usucapione è infondata e, come tale, va rigettata. È principio giurisprudenziale pacifico (Cass. 28.1.2005 n. 1741; Cass. 7.9.2004 n. 17980, ed altre) che l'erede, ovvero, se più sono, i coeredi, subentrando al de cuius in universum ius, gli subentrano pure, per il solo effetto dell'apertura della successione, anche nel possesso dei beni di cui egli era possessore, e ciò senza necessità di una materiale apprensione dei beni stessi. Perciò, è irrilevante, ai fini dell'acquisizione del possesso, il fatto che il bene comune, tanto se immobile, quanto se mobile, venga materialmente appreso (l'immobile, per esempio, attraverso la presa delle chiavi, il mobile usandolo, o continuando ad usarlo, a proprio comodo) da uno solo dei coeredi: il possesso lo acquistano tutti, perché, indipendentemente da chi ne prenda la chiave o intaschi l'oggetto, tutti subentrano, in quanto eredi, nel possesso che il de cuius ne aveva. La materiale disponibilità della cosa, ovvero il godimento da parte del coerede, isolatamente, può durare decenni, ma questo non significa che gli altri siano esclusi dal possesso. Godere un immobile, percepirne i frutti, amministrarlo è una cosa, possederlo giuridicamente è un'altra cosa. Pertanto, affinché il possesso diventi esclusivo, occorre o l'interversione del possesso, cioè il sopraggiungere di un titolo che, sovrapponendosi al titolo costituito dalla successione ereditaria, configuri in capo al coerede una situazione possessoria sua propria e non comune agli altri, oppure occorre un atto di perdita del possesso da parte degli altri eredi e cioè un comportamento qualificabile come atto di spoglio da parte di un coerede nei confronti degli altri. Fin tanto che non ci sia lo spoglio, ossia l'atto esteriore, esplicito o implicito, la "guerra" - dichiarata o proditoria - che inibisca in modo non equivoco al coerede di esercitare, ove lo voglia, le sua facoltà di fatto sul bene comune, tutti i coeredi rimangono compossessori del bene comune, anche senza averlo mai visto o senza neppure sapere dove esso si trovi. Dunque, se non prova l'interversio possessionis, il coerede, che da compossessore si vanta di essere divenuto possessore esclusivo, deve almeno dimostrare come e quando spogliò gli altri eredi dal loro compossesso: occorre, insomma, individuare e dimostrare l'atto volitivo esteriorizzato in un comportamento incompatibile con il perdurare del compossesso altrui, e non limitarsi a dare sfogo alla riserva mentale di un animus rem sibi habendi noto a lui solo e mai tradotto in un comportamento avverso all'interesse dei coeredi. Nella specie, gli attori non hanno neppure indicato, prima ancora che cercare di provare, quale sarebbe stato l'atto ed il momento in cui avrebbero estromesso dal compossesso del terreno i coeredi. Al riguardo, ferma restando l'inammissibilità delle circostanze tardivamente dedotte nell'istanza di anticipazione del 12.05.2017 (ossia dopo il maturarsi delle preclusioni assertorie ed istruttorie) va confermata, anche in questa sede, l'inammissibilità dell'interrogatorio formale e della prova testimoniale articolati da parte attrice nella relativa memoria istruttoria, e, ciò per i motivi già espressi nelle ordinanza del 30.04.2017 e del 20.10.2017. Va dunque ribadito che i capitoli di prova formulati nell'atto introduttivo del giudizio si limitano ad indicare una generica condotta di possesso ultraventennale dell'immobile in questione, formulata peraltro in modo da richiedere ai testimoni di esprimere valutazioni di carattere giuridico - evidentemente inammissibili - ovvero in termini tali da risultare intrinsecamente contraddittorie, e, comunque, senza alcuna precisa indicazione temporale. Segnatamente l'allegazione di una generica condotta di coltivazione del terreno (e financo di recinzione del fondo, di cui peraltro non risulta neppure indicata l'epoca della relativa installazione) non è incompatibile con il compossesso dei convenuti. Ed invero, eventuali atti di ordinaria o straordinaria amministrazione - quali la coltivazione del fondo e l'eventuale esecuzione di interventi migliorativi - non possono qualificarsi come "atti di signoria esclusiva", tali da rendere manifesta la volontà sia di possedere autonomamente l'immobile sia di escludere dal godimento dello stesso gli altri coeredi, trattandosi di attività per le quali sussiste una presunzione iuris tantum che l'agente le abbia poste in essere nella sua qualità di coerede e ne abbia anticipato le spese anche relativamente alla quota degli altri coeredi. Così è stato affermato che "Uno o più compossessori possono usucapire la quota del bene comune degli altri comproprietari, anche senza un atto formale di interversione del possesso, sempre che l'esercizio della loro signoria di fatto sul bene in termini di esclusività non sia dovuto alla mera astensione dall'uso degli altri partecipanti alla comunione e, risultando inconciliabile con la possibilità di godimento di questi ultimi, manifesti in modo inequivoco la volontà di possedere uti dominus e non più "uti condominus"" (cfr Cass. 7221/2009, Cass. 12775/2008, Cass. 9903/2006, Cass. 12260/2002). "Il comproprietario può usucapire le quote degli altri comproprietari estendendo la propria signoria di fatto sulla res communis, ma a tal fine non è sufficiente che gli altri comproprietari si siano limitati ad astenersi dall'uso della cosa, occorrendo al riguardo che il suddetto proprietario ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui" (cfr. Cass. civ., n. 5006/93, n. 7075/1999, n. 8120/2000, n. 19478/2007). Orbene, anche le circostanze articolate dagli attori in seno al capitolo n. 4) della memoria ex art. 183, comma 6, n. 2) c.p.c., su cui è stato dedotto il chiesto interrogatorio formale del convenuto contumace, (...), sono inidonee a fornire la prova in questione: per stessa ammissione degli attori il predetto convenuto avrebbe avuto le chiavi del lucchetto del cancello posto all'inizio della stradella che conduce al fondo. Va poi evidenziato che l'interrogatorio formale è un mezzo diretto a provocare la confessione giudiziale di fatti sfavorevoli al confidente e ad esclusivo vantaggio del soggetto deferente, "con la conseguenza che, in un rapporto processuale con una pluralità di parti, l'interrogatorio non può essere deferito da una parte all'altra su un punto dibattuto, nel medesimo processo, tra il deferente e il terzo, non potendosi riconoscere alcun valore confessorio all'eventuale risposta affermativa dell'interrogato, né potendosi trarre elementi di prova dalla mancata risposta per ritenere accertati fatti che si risolvano a svantaggio dell'altra parte processuale" (Cass. civ., n. 1088/1995). In conclusione, la domanda va rigettata. In virtù del principio della soccombenza, gli attori vanno condannati al pagamento, in favore dell'unico convenuto costituito, delle spese processuali. Ai sensi dell'art. 133 del D.P.R. n. 115 del 2002, il pagamento delle stesse, liquidate come in dispositivo, va eseguito in favore dello Stato, che le ha anticipate per il convenuto (...), ammesso al patrocinio a spese dello Stato (vedi attestazione, in atti, del 14.10.2015 del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Enna, in atti). P.Q.M. Il giudice rigetta la domanda di usucapione proposta dagli attori e li condanna a corrispondere all'Erario le spese processuali, ai sensi dell'art. 133, del D.P.R. n. 115 del 2002, che si liquidano, già dimidiate, in complessivi Euro 1.050,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali IVA e CPA come per legge. Così deciso in Enna il 28 gennaio 2019. Depositata in Cancelleria il 31 gennaio 2019.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI ENNA Il Tribunale di Enna, nella persona del Giudice Unico dott. Davide Giovanni Paolo Capizzello, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di primo grado iscritta al n. 1457/2013 R.G.A.C., avente per oggetto: "altri istituti e leggi speciali - controversie in materia contrattuale" PROMOSSA DA (...), nata ad A. (E.) l'(...), cod. fisc.: (...), elettivamente domiciliata in Agira (EN), Via (...), presso lo studio dell'avv. Ma.Gr., che la rappresenta e difende, giusta procura in atti; CONTRO (...) S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, cod. fisc.: (...), elettivamente domiciliata in Valguarnera Caropepe (EN), Via (...), presso lo studio dell'avv. Gi.Be., che la rappresenta e difende, giusta procura in atti. RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Nel merito, la domanda dell'attrice (...), nei confronti della convenuta (...) S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, è parzialmente fondata, e va accolta per quanto di ragione. L'attrice ha prodotto in atti, in originale, il contratto concluso il 23.5.2005 con la convenuta avente ad oggetto l'acquisto di beni mobili di arredamento, per il prezzo complessivo di Euro 3.990,00: nello specifico, l'attrice ha inteso acquistare i beni mobili di arredamento della cucina, della camera da letto, del salotto, una c.d. parete attrezzata oltre ad altri complementi di arredo come sedie e tavoli. Appare pacifica la circostanza che l'attrice, per l'acquisto dei sopra detti beni mobili, abbia concluso un contratto di finanziamento con la finanziaria (...) il 31.5.2005: la copia del contratto, recante il numero di pratica (...), è stata prodotta dalla convenuta con la memoria del 22.4.2014, e reca la sottoscrizione dell'attrice e del legale rappresentante pro tempore della convenuta; l'attrice ha, da parte sua, prodotto idonea documentazione, dalla quale si evince che l'importo finanziato è stato pari a Euro 3.000,00. L'avvenuto pagamento di una parte consistente del prezzo è stata, poi, dimostrata dall'attrice mediante la produzione delle ricevute di pagamento delle singole rate, recanti il sopra detto numero di pratica (...), per l'importo complessivo di Euro 3.373,65, importo determinato dalla sommatoria delle ricevute prodotte, e verosimilmente comprensivo di interessi e spese del contratto di finanziamento. Appaiono, del pari, altrettanto pacifiche due circostanze: la prima, consistente nel mancato pagamento, e quindi nell'inadempimento, da parte dell'attrice, dell'intero prezzo, seppure in misura ormai decisamente contenuta; la seconda, consistente nella mancata consegna, e quindi nell'inadempimento, da parte della convenuta, dei beni compravenduti. La convenuta ha invocato l'eccezione di inadempimento, ai sensi dell'art. 1460 c.c.; tuttavia, non ricorrono, nel caso di specie, i presupposti per invocare il principio inadimplenti non est adimplendum. Infatti, come detto sopra, appare pacifica la circostanza che la convenuta non abbia consegnato all'attrice, neppure parzialmente, i beni compravenduti: del resto, il teste (...), fratello del legale rappresentante pro tempore della convenuta, escusso all'udienza del 16.2.2015, ha dichiarato di aver ricevuto "la somma di Euro 3.000,00 da parte di società finanziaria, di cui non conosco il nome ... la somma di Euro 1.000,00 (mille/00) era il saldo dei mobili acquistati. I 3.000,00 Euro sono rimasti presso la Società (...)" (così testualmente). Orbene, secondo la giurisprudenza, "nel caso di domanda di risoluzione del contratto per inadempimento, ove la controparte invochi l'eccezione di inadempimento, il giudice deve procedere ad una valutazione comparativa ed unitaria dei comportamenti di entrambe le parti onde accertare la sussistenza degli inadempimenti reciprocamente lamentati ed apprezzarne l'effettiva gravità ed efficienza causale rispetto alla finalità complessiva del contratto ed alla realizzazione degli interessi rispettivamente perseguiti" (Cass. Civ., sez. II, 28.3.2001 n. 4529); e ancora, "nei contratti con prestazioni corrispettive, in caso di denuncia di inadempienze reciproche, è necessario comparare il comportamento di ambo le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ed abbia causato il comportamento della controparte, nonché della conseguente alterazione del sinallagma. Tale accertamento, fondato sulla valutazione dei fatti e delle prove, rientra nei poteri del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato" (Cass. Civ., sez. II, 30.5.2017 n. 13627) Nel caso di specie, appare evidente che l'attrice ha solo parzialmente adempiuto la sua prestazione, versando comunque buona parte del prezzo di acquisto dei sopra detti beni mobili, mentre appare altrettanto evidente che la convenuta non ha adempiuto, in quanto non ha mai consegnato i beni compravenduti, neppure parzialmente. Orbene, a questo punto, sembra potersi concludere che entrambe le parti abbiano sostanzialmente manifestato la convergente volontà di sciogliersi dal contratto attraverso le domande introdotte in causa: del resto, i mobili compravenduti non sono mai stati consegnati, e l'attrice non ha alcuna intenzione di pagare il residuo del prezzo precedentemente concordato. Pertanto, va dichiarata la risoluzione del contratto del 23.5.2005 per inadempimento di entrambe le odierne parti in giudizio. Va, poi, effettuata una valutazione unitaria e comparativa dei rispettivi comportamenti nel loro rapporto di dipendenza sul piano causale e di proporzionalità nel quadro della funzione economica e sociale del contratto, per stabilire quale sia l'inadempimento colpevole che possa giustificare l'inadempimento dell'altro contraente. Ebbene, appare incontestata la circostanza che l'attrice non abbia corrisposto, nei fatti, esclusivamente la somma che aveva promesso in acconto, peraltro dell'importo di circa Euro 1.000,00, e che verosimilmente avrebbe pagato in contanti al momento della consegna dei beni compravenduti che, si ripete, non sono mai stati consegnati all'attrice, neppure parzialmente. Va considerato che la valutazione della colpa nell'inadempimento, infatti, deve avere carattere unitario e l'inadempimento deve essere addebitato esclusivamente a quel contraente che, con il proprio comportamento colpevole prevalente, abbia alterato il nesso di reciprocità delle obbligazioni assunte con il contratto, dando causa al giustificato inadempimento dell'altra parte. Pertanto, va ritenuto che l'inadempimento debba essere addebitato alla convenuta che, pur avendo ricevuto la somma di Euro 3.000,00 attraverso il sopra menzionato contratto di finanziamento, e quindi a fronte del parziale ma comunque rilevante adempimento dell'attrice, e pur avendo trattenuto la superiore somma, come si evince dalle sopra riportate dichiarazioni del teste (...), non ha adempiuto la sua prestazione. Di conseguenza, la convenuta deve restituire all'attrice la somma di Euro 3.373,65: infatti, pur essendo la somma originariamente finanziata di Euro 3.000,00, occorre ritenere che la somma ulteriore di 373,65 riguardi interessi e spese del contratto finanziamento stesso che l'attrice non avrebbe concluso se non avesse voluto, come in effetti voleva, acquistare i beni mobili sopra detti presso la convenuta. Alla superiore somma vanno aggiunti gli interessi di mora al tasso legale dalla data di deposito della citazione, integrante messa in mora, oltre la rivalutazione, sino al soddisfo. Va, invece, rigettata la domanda dell'attrice volta a condannare la convenuta per il risarcimento dei danni subiti, quantificati nella somma di Euro 5.000,00, in quanto la domanda presuppone che l'attrice debba dare prova effettiva della esistenza di un danno, che invero non è stata data: l'attrice, infatti, nulla ha argomentato in ordine ai danni subiti, né ha dimostrato di aver affrontato altre e ulteriori spese in conseguenza dell'inadempimento della convenuta, né in ordine ad un decremento del patrimonio eventualmente subito. Del resto, secondo la giurisprudenza, "la domanda di risarcimento dei danni per inadempimento contrattuale può essere proposta congiuntamente o separatamente da quella di risoluzione, poiché l'art. 1453 c.c., facendo salvo, in ogni caso, il diritto al risarcimento, esclude che la relativa azione presupponga il necessario esperimento dell'azione di risoluzione, che costituisce un rimedio a tutela dell'equilibrio sinallagmatico del contratto e non ha funzione accertativa dell'inadempimento, il quale sussiste o meno - con tutte le conseguenze sul piano del diritto al risarcimento del creditore della prestazione inadempiuta - indipendentemente dall'eventuale pronuncia di risoluzione" (Cass. Civ., sez. III, 19.7.2008 n. 20067). Le questioni esaminate risultano assorbenti anche della domanda riconvenzionale proposta dalla convenuta, volta a condannare l'attrice al risarcimento dei danni subiti, quantificati nell'importo di Euro 5.000,00. La natura della causa e la complessità delle questioni giuridiche affrontate consentono di compensare per metà le spese di giudizio tra le parti, ponendo a carico della convenuta il pagamento dell'altra metà delle spese, nell'importo liquidato in dispositivo; esse vanno liquidate ex D.M. 10 marzo 2014, n. 55 con riferimento alle fasi di studio, introduttiva, istruttoria e decisionale, e con riferimento al valore individuato nella somma complessivamente liquidata, e vanno liquidate in favore dell'Erario, in quanto l'attrice è stata ammessa in via provvisoria al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, e la somma viene già in questa sede dimidiata, ai sensi degli artt. 82 e 130 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda, eccezione e conclusione disattesa, così provvede: - accoglie la domanda e per l'effetto condanna la convenuta (...) S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento, in favore di (...), della complessiva somma di Euro 3.373,65, oltre gli accessori come sopra determinati; - rigetta le altre domande; - compensa per metà le spese di giudizio e condanna la (...) S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento delle spese di giudizio in favore dell'Erario, che liquida in complessivi Euro 400,00 per compenso di avvocato, oltre I.V.A., c.p.a. e rimborso delle spese generali nella misura del 15% del compenso. Così deciso in Enna il 31 maggio 2018. Depositata in Cancelleria il 6 giugno 2018.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI ENNA Il giudice Eleonora N. V. Guarnera ha emesso la seguente SENTENZA nelle cause civili riunite iscritte ai nn. 689/2013 e 1633/2014 R.G., promossa da (...), nato a E. il (...), res. in E., via (...), c.f. (...), rappr. e dif., giusta procura in atti, dall'avv. Fi.Ma., presso il cui studio i Enna, C.da (...), è elettivamente dom.; - Opponente e convenuto - contro (...), nato a C. il (...), res. in E., via (...), c.f. (...), rappr. e dif., giusta procura in atti, dall'avv. An.Vi., presso il cui studio in Enna, C.so (...) (Studio Associato In.), è elettivam. dom.; - Opposto e attore - Oggetto: Opposizione a decreto ingiuntivo e simulazione. MOTIVI DELLA DECISIONE Il presente giudizio trae origine dal decreto ingiuntivo n. 174/13, emesso da questo Tribunale in data 27.03.2013, depositato il 06.04.2013 e notificato il 23.4.2013, su istanza e a favore di (...), con il quale è stato ingiunto a (...) il pagamento di Euro 69.300,00, oltre interessi legali e spese della procedura monitoria, quale credito per il mancato pagamento di quattro assegni bancari prescritti, emessi per far fronte al residuo dovuto in forza di precedente rapporto contrattuale intercorso fra le parti. Con l'atto di opposizione, il (...) ha contestato la sussistenza del credito azionato in sede monitoria, sostenendo l'inidoneità dei titoli prescritti a valere anche solo come mera promessa di pagamento; infatti, il debito assunto nei confronti del (...), in forza del contratto con cui quest'ultimo gli aveva ceduto l'azienda di cui era titolare - costituita d un esercizio di rivendita di tabacchi e altri generi di monopolio - per il prezzo di Euro 50.00,00 (giusta atto di vendita rogato il 09.3.2007 dal Notaio Sa.Am. di Enna), era stato già estinto mediante il pagamento del prezzo pattuito in contratto, per come poteva evincersi dallo stesso rogito notarile; gli assegni emessi erano stati consegnati unicamente a garanzia dell'obbligazione di pagamento, ma dopo il relativo adempimento erano rimasti nella disponibilità del venditore. Si è costituito il (...), contestando l'opposizione, di cui ha chiesto il rigetto ed eccependo la simulazione relativa oggettiva della cessione aziendale - di cui ha chiesto l'accertamento in via riconvenzionale - atteso che le parti si erano in realtà accordate per un prezzo diverso da quello rappresentato in contratto; segnatamente, in virtù del diverso accordo dissimulato intervenuto tra i contraenti e posto a base delle promesse di pagamento azionate in sede monitoria, il debito residuo del (...) ammontava ad Euro 90.000,00, da saldare in quattro rate dilazionate, a sei, dodici, ventiquattro e trentasei mesi successivi al subingresso (effettivamente avvenuto nel 2007) nell'attività di rivendita, giusta autorizzazione dell'A.A.M.S.; gli assegni erano stati emessi dal (...) sì con funzione di garanzia, ma per garantire il pagamento del prezzo dissimulato, o, meglio della parte di esso rimasta ancora da saldare al momento del rogito, tant'è che i titoli in questione avevano tutti scadenza successiva all'atto; dal maggio del 2008 al maggio del 2011 l'acquirente, però, aveva corrisposto somme per un importo complessivo di Euro 20.700,00, sicché residuava il pagamento della somma richiesta in sede monitoria. Con separato atto di citazione, il (...), premessa l'esistenza del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo promosso nei suoi confronti dal (...) e premesso l'indirizzo giurisprudenziale contrario alla proponibilità di domande riconvenzionali da parte dell'opposto, ha convenuto l'opponente chiedendo accertarsi - previa riunione delle due cause - la simulazione del prezzo della cessione di azienda stipulata tra le parti. Con ordinanza emessa all'udienza del 28.10.2015, il suddetto giudizio - in cui il convenuto si è costituito, eccependo preliminarmente l'inammissibilità dell'azione di simulazione promossa dal (...) per violazione del divieto di bis in idem e spiegando, nel merito, le medesime difese svolte nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo - è stato riunito a quello precedentemente incoato dal (...). Preliminarmente, va confermato il provvedimento con cui è stata disposta la riunione delle cause indicate in epigrafe, trovando detta ordinanza fondamento nella accertata sussistenza dei presupposti di identità di parti, causa petendi e petitum, previsti dall'art. 273 c.p.c. (in relazione alle domande proposte da (...) in entrambe le cause), non essendo tutelato dall'ordinamento l'interesse al mantenimento della situazione patologica determinata dalla coesistenza di cause relative allo stesso oggetto che potrebbero portare ad un conflitto di giudicati. Al contempo, va dichiarata l'inammissibilità della domanda riconvenzionale spiegata dall'opposto nel giudizio a cognizione piena instauratosi a seguito dell'opposizione a decreto ingiuntivo promossa dal (...). Ed invero, come già rilevato con ordinanza del 25.08.2015, emessa nel giudizio al n. 689/2013, chiedendo l'accertamento dell'intervenuta simulazione del contratto di cessione d'azienda stipulato tra le parti in data 09.3.2007, con riferimento al prezzo ivi pattuito, l'opposto ha proposto una vera e propria domanda riconvenzionale - e non una semplice eccezione riconvenzionale (cfr ex multis, Cass. Sez. 3, n. 15271 del 2006) - che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, è inammissibile; ed invero, quand'anche possa ritenersi non del tutto condivisibile, l'indirizzo pacifico espresso dalla Suprema Corte è nel senso che "nell'ordinario giudizio di cognizione, che si instaura a seguito dell'opposizione a decreto ingiuntivo, l'opposto, rivestendo la posizione sostanziale di attore, non può avanzare domande diverse da quelle fatte valere con l'ingiunzione, potendo a tale principio derogarsi solo quando, per effetto di una riconvenzionale formulata dall'opponente, la parte opposta si venga a trovare a sua volta in una posizione processuale di convenuto cui non può essere negato il diritto di difesa, rispetto alla nuova o più ampia pretesa della controparte, mediante la proposizione di una "reconventio reconventionis" (cfr., per tutte, Cass. n. 22754/2013); Del resto, proprio nella consapevolezza di tale orientamento della giurisprudenza di legittimità, il procuratore del (...) ha introdotto autonomo giudizio volto ad accertare la simulazione relativa al prezzo del contratto di cessione d'azienda intercorso tra le parti. Sempre in via preliminare, va rilevato che mai nessuna domanda di "ingiustificato arricchimento" è stata formulata dall'opposto, sicché le relative doglianze dell'opponente e convenuto appaiono del tutto insensate. Ciò premesso, l'opposizione è infondata e, come tale, va rigettata, essendo, di contro, fondata la domanda di simulazione proposta dal (...). Ed invero, premesso che il (...) non ha mai contestato di aver emesso e consegnato gli assegni in questione a garanzia del pagamento del corrispettivo pattuito per la cessione dell'azienda, deve ritenersi che tale prezzo non fosse quello di Euro 50.000,00, indicato nell'atto pubblico di vendita sottoscritto dalle parti, bensì quello maggiore risultante dalla sommatoria dell'ulteriore importo di Euro 90.000,00, garantito con la dazione dei quattro assegni (di cui i primi due di Euro 20.000,00 e gli altri due di Euro 25.000,00), recanti, rispettivamente, le scadenze dell'01.10.007, 01.4.2008, 01.04.2009, 01.04.2010 (prodotti in copia ed allegati al fascicolo della fase monitoria). A tale conclusione univocamente convergono: la considerazione che il (...) non avesse motivo di emettere detti assegni in garanzia se, come da egli sostenuto, aveva già corrisposto l'intero prezzo della cessione (e in ogni caso, poi, non si comprende perché detti assegni - emessi oltretutto per un importo complessivo superiore a quello del corrispettivo per la cessione indicato in contratto - siano rimasti dopo il saldo del prezzo ancora nella disponibilità del (...)); l'esistenza di un preliminare tra le parti - prodotto in atti (cfr. doc. 1) della produzione del (...) nel giudizio n. 1633/14 R.G.) e mai disconosciuto dal (...) - in cui figura un prezzo di Euro 170.000,00 (di gran lunga superiore a quello indicato nell'atto notarile), con modalità di pagamento rateizzate secondo scadenze perfettamente sovrapponibili a quelle dei titoli di credito in questione; infine, il contenuto della corrispondenza telematica intercorsa tra le parti (doc. 7 della produzione del (...) nel giudizio n. 1633/14 R.G.) in cui viene riconosciuta l'esistenza di un credito in capo all'odierno opposto nonché attore. Tanto evidenziato, deve rilevarsi che lo scrivente giudicante ritiene di aderire all'indirizzo giurisprudenziale in virtù del quale: "nell'ipotesi di simulazione relativa parziale, il contratto conserva inalterati i suoi elementi, ad eccezione di quello interessato dalla simulazione, con la conseguenza che, non essendo il contratto nullo né annullabile, ma soltanto inefficace tra le parti, gli elementi negoziali interessati dalla simulazione possono essere sostituiti o integrati con quelli effettivamente voluti dai continenti. Pertanto, la prova per testimoni della pattuizione di celare una parte del canone di un contratto non incontra fin le parti i limiti dettati dall'art. 1417 cod. civ., né contrasta c. 1 divieto posto dall'art. 2722 cod. civ., in quanto una tale pattuizione non può essere equiparata, per mancanza di una propria autonomia strutturale o funzionale, all'ipotesi di dissimulazione del contratto, sicché la prova relativa ha scopo e natura semplicemente integrativa e può a tale stregua risultare anche da deposizioni testimoniali o presunzioni" (Cass. 2.3.2007 n. 4901). Dall'applicazione del suddetto principio, consegue che la prova indiretta (ovvero per presunzioni) della simulazione parziale del contratto di vendita di azienda stipulato tra le parti, in relazione il prezzo pattuito come corrispettivo, deve ritenersi ammissibile, risultando irrilevante a tal fine che l'art. 2556 cod. civ. preveda che i contratti che ineriscono all'azienda ed al trasferimento dei relativi beni devono essere provati per iscritto, posto che in caso di simulazione parziale del contratto la volontà dei contraenti deve essere indagata con riferimento al contratto dissimulato ed al relativo elemento oggetto della simulazione e non a quello apparente, per il quale le parti hanno concluso il relativo negozio. In conclusione, accertata la simulazione del prezzo della vendita, l'opposizione va rigettata ed il decreto ingiuntivo va confermato. Ed invero, giova ricordare che il decreto ingiuntivo è un accertamento anticipatorio con attitudine al giudicato e che, instauratosi il contraddittorio a seguito dell'opposizione, si apre un giudizio a cognizione piena caratterizzato dalle ordinarie regole processuali (cfr. art. 645, 2 comma, c.p.c.) anche in relazione al regime degli oneri allegatori e probatori (cfr. Cass. 17371/03; Cass. 6421/03), con la conseguenza che oggetto del giudizio di opposizione non è tanto la valutazione di legittimità e di validità del decreto ingiuntivo opposto, quanto la fondatezza o meno della pretesa creditoria, originariamente azionata in via monitoria, con riferimento alla situazione di fatto esistente al momento della pronuncia della sentenza (cfr. Cass. 15026/05; Cass. 15186/03; Cass. 6663/02); quindi, il diritto del preteso creditore (formalmente convenuto, ma sostanzialmente attore) deve essere adeguatamente provato, indipendentemente dall'esistenza - ovvero dalla persistenza - dei presupposti di legge richiesti per l'emissione del decreto ingiuntivo. Nel caso in esame, il decreto ingiuntivo è stato richiesto ed ottenuto sulla base degli assegni sopra indicati, utilizzati come promesse di pagamento. Ed invero, nella richiesta di decreto ingiuntivo fondata su titolo di credito scaduto o assegno bancario non valevole come tale (come nel caso di specie) - e quindi utilizzato unicamente quale prova del credito - è implicita anche la proposizione dell'azione causale, derivante dal rapporto sottostante, mediante l'utilizzo del titolo medesimo quale promessa di pagamento ai sensi dell'art. 1988 c.c. A nulla rileva la contestazione dell'esistenza e del valore probatorio di tali promesse di pagamento, poiché a fronte delle contestazioni mosse dall'opponente/convenuto in ordine alla persistenza di un rapporto di credito/debito tra le parti, il valore di promessa di pagamento di detti titoli è stato integrato dall'opposto/attore mediante la dimostrazione dell'esistenza del rapporto causale sottostante (ossia della sussistenza dell'obbligazione pecuniaria residua, del cui adempimento, di contro, non è stata fornita prova alcuna da parte del (...)). Com'è noto, infatti, il creditore è tenuto a provare soltanto l'esistenza della fonte (negoziale o legale) del suo diritto e la scadenza del termine per l'adempimento, ma non anche l'inadempimento da parte dell'obbligato, che va meramente allegato, dovendo infatti essere quest'ultimo, cioè il debitore convenuto (ovvero l'opponente, nel caso di specie), a provare il fatto modificativo, impeditivo o estintivo dell'altrui pretesa, costituito -quest'ultimo- dall'avvenuto adempimento (cfr. Cass. SU 13533/01; Cass. 9439/08; Cass. 15677/09; Cass. 3373/10). Le spese processuali, ai sensi dell'art. 91 c.p.c., seguono la soccombenza e vengono liquidate d'ufficio, in assenza di nota, sulla base dei parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, tenuto conto della natura e del valore delle cause nonché dell'attività difensiva effettivamente espletata, in complessivi Euro 10.300,00 di cui Euro 800,00 per spese ed Euro 9.500,00 per compensi professionali, così ripartiti: Euro 2.400,00 per la fase di studio, Euro 1.500,00 per la fase introduttiva, Euro 1.600,00 per la fase istruttoria ed Euro 4.000,00 per la fase decisionale, oltre rimborso forfetario delle spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge. P.Q.M. Il giudice dichiara la simulazione del prezzo in relazione al contratto di vendita di azienda stipulato tra le parti il 09.3.2007 e rigetta l'opposizione proposta avverso il decreto ingiuntivo di questo ufficio n. 174/13 D.I. e n. 337/13 R.G. del 27.03/06.04.2013; Condanna (...) al rimborso, in favore di (...), delle spese del giudizio, come sopra liquidate in complessivi Euro 10.300,00 (diecimilatrecento/00), oltre rimborso forfetario delle spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge. Così deciso in Enna il 20 febbraio 2018. Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2018.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI ENNA Il giudice Eleonora N. V. Guarnera ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 399/2013 R.G., promossa da (...), nato a (...), c.f. (...) e (...), nata a (...) il (...), c.f. (...), entrambi res. in T., C.so (...), rappr. e dif., per mandato a margine dell'atto di citazione, dall'avv. Fr.Az., presso il cui studio in Piazza (...), via (...), sono elettivam. dom.; - Attori - contro (...), nato a (...) il (...), c.f. (...) e (...), nata a (...) l'(...), c.f. (...), entrambi res. in (...) A., via (...), rappr. e dif., per mandato in calce alla comparsa di costituzione e risposta, dall'avv. Al.Di., presso il cui studio in Piazza (...), Piazza (...), sono elettivam. dom.; Oggetto: Inadempimento contrattuale. - Convenuti ed attori in via riconvenzionale - MOTIVI DELLA DECISIONE I coniugi (...) - (...) hanno convenuto in giudizio i coniugi (...) - (...), deducendo che, in forza di preliminare stipulato nel 2002, i convenuti avevano promesso loro in vendita alcuni immobili; nonostante il versamento delle somme pattuite a titolo di prezzo, secondo le modalità e i tempi contrattualmente previsti (residuando solo l'importo da corrispondere al momento della stipula del definitivo) e nonostante la diffida ad addivenire alla stipula dell'atto pubblico di vendita, inviata con raccomandata del 03.10.2011, ricevuta dai convenuti il 05.10.2011, questi ultimi non si erano presentati dinanzi al Notaio ivi indicato, asserendo, di contro, di aver già essi diffidato i promittenti acquirenti alla stipula del definitivo, giusta raccomandata del 28.04.2004, che gli attori hanno contestato di aver mai ricevuto. Ciò posto, parte attrice ha chiesto, previa declaratoria di risoluzione del contratto per inadempimento dei convenuti, la condanna di questi ultimi alla restituzione delle somme già versate e al pagamento della penale pattuita, di importo pari alle somme corrisposte al momento dell'inadempimento (nella specie Euro 39.493,94). Si sono costituiti i coniugi (...) - (...), che hanno constato la domanda ed hanno eccepito il proprio diritto alla ritenzione, a titolo di penale, delle somme loro corrisposte dai promittenti acquirenti, essendosi il contratto risolto per inadempimento di questi ultimi (cui, infatti, era stata inviata diffida ad adempiere con racc. a.r. del 28.04.2004, non ritirata dai destinatari e restituita per compiuta giacenza); i convenuti hanno quindi chiesto dichiararsi la risoluzione del preliminare per scadenza del termine essenziale ovvero per inadempimento degli attori, e, in subordine, la loro condanna al risarcimento del danno in proprio favore, con compensazione fra il maggior credito vantato a titolo risarcitorio e le somme eventualmente spettanti agli attori. Tanto premesso, va preliminarmente dichiarata l'inammissibilità della domanda riconvenzionale di accertamento della risoluzione per scadenza del termine essenziale e per inadempimento degli attori, di quella di risarcimento del danno nonché delle eccezioni riconvenzionali di inadempimento. Come fondatamente eccepito dal procuratore di parte attrice, infatti, i convenuti, costituendosi solo in data 03.07.2013 (ovvero solo cinque giorni prima dell'udienza indicata in citazione e quindi oltre il termine fissato di cui all'art. 166 c.p.c.), sono decaduti dalla facoltà di proporre domande riconvenzionali e di sollevare eccezioni, che, come quelle di specie, non siano rilevabili d'ufficio. In proposito, va precisato che ricorre l'ipotesi della domanda riconvenzionale quando il convenuto, traendo occasione dalla domanda contro di lui proposta, opponga una contro - domanda e cioè chieda un provvedimento positivo sfavorevole all'attore, che va oltre il rigetto della domanda principale; resta invece nell'ambito dell'eccezione l'istanza del convenuto diretta a far valere un suo diritto al solo scopo di escludere l'efficacia giuridica dei fatti o titoli dedotti dall'attore, ossia al fine di ottenere il rigetto della domanda (Cass. n. 2860/1997 e n. 23341/2006). Nel caso di specie, i convenuti hanno chiesto, in via principale, il rigetto della domanda di parte attrice, chiedendo accertarsi la risoluzione del preliminare intercorso tra le parti per scadenza del termine essenziale ovvero per inadempimento degli attori, di cui, in via subordinata, hanno chiesto la condanna al risarcimento del danno in proprio favore. Orbene, quanto all'eccezione di inadempimento degli attori - su cui i convenuti fondano anche le domande riconvenzionali di accertamento della risoluzione del contratto inforza di tale inadempimento e del conseguente diritto a ritenere le somme incassate a titolo di penale - deve osservarsi che la reciprocità degli inadempimenti, per cui il giudice sia tenuto a valutare unitariamente il comportamento dei contraenti al fine di stabilire quale, tra gli inadempimenti reciprocamente contestati, sia il più grave ai fini della risoluzione, non può essere rilevata di ufficio, ma deve essere esplicitamente dedotta come contenuto di una domanda riconvenzionale del convenuto di risoluzione del contratto per inadempimento dell'attore ovvero come contenuto di una eccezione di inadempimento dello stesso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8344 del 17/08/1990, rv. 468884/01). Ne consegue che l'eccezione formulata in via principale dai convenuti va qualificata come eccezione riconvenzionale di inadempimento (presupponendo, del resto, il diritto alla ritenzione delle somme già incassate l'esercizio di un diritto potestativo, integrante, appunto, un'eccezione in senso stretto), come tale soggetta alle preclusioni di cui agli artt. 166 e 167 c.p.c., dalla quale i coniugi (...) - (...) sono decaduti per tardività della relativa costituzione in giudizio. Quanto alla compensazione va rilevato, solo per completezza - attesa la rilevata inammissibilità della domanda risarcitoria formulata dai convenuti -, che la relativa eccezione non sarebbe preclusa dalla tardiva costituzione dei convenuti, trattandosi di compensazione non tecnica, ma atecnica, afferente cioè il calcolo tra poste attive e passive dello stesso rapporto, che va effettuato a prescindere da un'eccezione in senso stretto; ed invero, in tema di obbligazioni, è configurabile la cosiddetta compensazione atecnica allorché i crediti abbiano origine da un unico rapporto - la cui identità non è esclusa dal fatto che uno di essi abbia natura risarcitoria derivando da inadempimento - nel qual caso la valutazione delle reciproche pretese comporta l'accertamento del dare e avere, senza che sia necessaria la proposizione di un'apposita domanda riconvenzionale o di un'apposita eccezione di compensazione, che postulano, invece, l'autonomia dei rapporti ai quali i crediti si riferiscono (cfr. Cass. n. 14688 del 29/08/2012; Cass. n. 28855 del 05/12/2008). Nel merito, la domanda degli attori è fondata. Il negozio di cui alla scrittura privata prodotta in atti (documento n. 2 del fascicolo di parte attrice e n. 1 di quello di parte convenuta) configura un impegno a trasferire il bene. Risulta documentalmente provato (e non è mai stato oggetto di contestazione) che gli attori hanno versato le somme pattuite, con le modalità e le scadenze indicate nel preliminare stipulato tra le parti (ad eccezione della somma residua, da versare al momento della stipula del contratto di compravendita), per un importo complessivo di Euro 39.493,94. Risulta inoltre provato che gli attori hanno diffidato i convenuti ad addivenire alla stipula del rogito notarile con raccomandata del 03.10.20011, ricevuta il 05.10.2011. Di contro, non si ha contezza del contenuto della missiva inviata agli attori con raccomandata del 28.04.2004. Né tale contenuto avrebbe potuto essere provato a mezzo dell'interrogatorio formale degli attori, per come richiesto dai convenuti, attesa l'assoluta genericità del relativo capitolo (non essendo stato neppure indicato a quale adempimento ovvero dinanzi a quale Notaio per la stipula del rogito i promittenti acquirenti sarebbero stati invitati presentarsi - cfr. sull'inidoneità di una diffida generica, Cass., 13.02.1976, n. 466, rv. 379116). Neppure è possibile ritenere che il termine del 10 dicembre 2003, fissato per la stipula del definitivo, fosse essenziale. Occorre infatti ricordare che, per condivisibile giurisprudenza, il termine per l'adempimento può essere ritenuto essenziale ai sensi e per gli effetti dell'art. 1457 c.c., solo quando, all'esito di indagine, da condurre alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e, soprattutto, della natura e dell'oggetto del contratto, risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di ritenere perduta l'utilità economica del contratto con l'inutile decorso del termine medesimo. Tale volontà non può desumersi solo dall'uso dell'espressione "entro e non oltre" (laddove, peraltro, nel preliminare in questione l'avverbio utilizzato è solo il primo), quando non risulti dall'oggetto del negozio o da specifiche indicazioni delle parti che queste hanno inteso considerare perduta l'utilità prefissasi nel caso di conclusione del negozio stesso oltre la data considerata (cfr. Cass. Civ. Sez. II, n. 5797/2005; nello stesso senso Cass. Civ. n. 3645/07). Inoltre, secondo la giurisprudenza di legittimità, la previsione di una clausola penale è compatibile con la previsione di un termine non essenziale (cfr., in tal senso, Cass., 03.04.1979, n. 1890, rv. 398281) In ogni caso, poi, si osserva che la rilevata inammissibilità dell'eccezione di inadempimento della parte promissaria acquirente, sollevata dai convenuti, rende del tutto ultroneo l'esame della relativa questione. A fronte del dedotto inadempimento dei convenuti e della diffida ad adempiere loro intimata, i coniugi (...)-(...) non hanno offerto prova di aver adempiuto (ovvero di essersi presentati dinanzi al Notaio indicato dai promissari acquirenti per la stipula del contratto definitivo). Né può dubitarsi della "non scarsa importanza" dell'inadempimento posto in essere dai promittenti venditori, essendo pacifico che gli attori avevano già provveduto a versare tutte le rate del prezzo dovute sino al 31.05.2003, ad eccezione della somma residua che avrebbe dovuto essere corrisposta al momento del rogito del definitivo. Ne consegue la declaratoria di risoluzione del contratto preliminare per inadempimento dei convenuti e la loro condanna alla restituzione delle somme ricevute (pari a complessivi Euro 39.493,94), nonché all'ulteriore somma di pari importo prevista a titolo di penale -"non riducibile dal magistrato"- il tutto maggiorato dei soli interessi legali (trattandosi di debiti di valuta) dalla data della domanda (26.3.2013) all'effettivo soddisfo Ed invero, come osservato dal procuratore dei convenuti nella stessa comparsa di costituzione e risposta (cfr pagg. 3-6) la clausola penale dispensa la parte non inadempiente dall'onere di provare il danno, limitando il risarcimento all'ammontare della somma pattuita. Le spese processuali, ai sensi dell'art. 91 c.p.c., seguono la soccombenza. Dette spese, in mancanza di nota, vengono liquidate d'ufficio, sulla base dei parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, tenuto conto della natura e del valore della causa nonché dell'attività difensiva effettivamente espletata, in complessivi Euro 6.000,00 di cui Euro 700,00 per spese ed Euro 5.300,00 per compensi professionali, così ripartiti: Euro 1.600,00 per la fase di studio, Euro 1.150,00 per la fase introduttiva, Euro 550,00 per la fase istruttoria ed Euro 2.000,00 per la fase decisionale, oltre rimborso forfetario delle spese generali, I.V.A. e C.P.A., come per legge. P.Q.M. Il giudice dichiara che il preliminare stipulato tra le parti si è risolto per inadempimento dei convenuti e condanna questi ultimi a pagare la somma complessiva di Euro 78.987,88 (settantottomilanoveceventoottantasette/88) in favore di (...) e (...), oltre interessi legali dal 26.3.2013 all'effettivo pagamento. Condanna altresì i convenuti a rimborsare agli attori le spese del giudizio come sopra liquidate in complessivi Euro 6.000,00 (seimila//00), oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA come per legge. Così deciso in Enna il 19 febbraio 2018. Depositata in Cancelleria il 20 febbraio 2018.
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