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TRIBUNALE DI LODI REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Lodi in composizione monocratica nella persona della dott.ssa Elena Giuppi, quale Giudice del lavoro, ha emesso la seguente SENTENZA Nella causa n. 586/2019 RG, discussa all'udienza del 1 febbraio 2022 promossa da: (...), rappresentata e difesa dall'avv. (...) con elezione di domicilio presso lo studio di quest'ultimo in (...) Ricorrente contro (...) SRL, (...) rappresentata e difesa dagli avv. M.G. e G.Be., con elezione di domicilio presso lo studio di quest'ultimo in Castiglione d'Adda, via (...) Resistente OGGETTO: disabile,licenziamento,superamento comporto. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO La ricorrente, con ricorso ex art. 414 c.p.c. depositato in data 7 ottobre 2019 ha impugnato il licenziamento intimato dalla convenuta in data 2 agosto 2019 per superamento del periodo di comporto ,chiedendo l'accoglimento delle seguenti conclusioni: A) Dichiarare, per tutti i motivi suesposti in fatto e in diritto, discriminatorio e/o nullo e/o annullabile e/o illegittimo e/o inefficace e/o annullare e/o comunque dichiarare privo di giusta causa o giustificato motivo il licenziamento intimato dalla (...) S.r.l. alla sig.a (...) con lettera del 2.8.2019; B) Conseguentemente, previo occorrendo l'accertamento della natura discriminatoria del licenziamento de quo e/o della sua nullità ex art. 2110, comma 2, c.c., condannare (...) S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, ai sensi dell'art. 2 del D.Lgs. n. 23/2015, a: - reintegrare la ricorrente nel posto di lavoro; - risarcire la ricorrente del danno subito in misura non inferiore a cinque mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr ed in ogni caso a detta retribuzione dalla data del licenziamento alla data dell'effettiva reintegra, nonché a versare i contributi assistenziali e previdenziali, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali; C) In via subordinata alla lett. B) e salvo gravame, ai sensi degli artt. 3, comma 1, e 7, D.Lgs. n. 23/2015, condannare (...) S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, a corrispondere alla ricorrente un'indennità pari a trentasei mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr, o quella diversa sommaritenuta di giustizia, oltre interessi e rivalutazione monetaria; D) Con vittoria di spese del giudizio; E) In via istruttoria: a) Ammettersi prova per interrogatorio formale e per testi sui capitoli da 1) a 20) di cui in Fatto, da intendersi qui integralmente trascritti e preceduti dalle parole: "Vero che". Si indicano a testimoni: b) Ammettersi a prova contraria con i testi già indicati sui capitoli che verranno eventualmente ex adverso dedotti ed ammessi; c) Disporsi C.T.U. diretta ad accertare quali malattie contratte dalla sig.a (...) dall'8.2.2017 al 6.8.2019 siano da ascrivere alle patologie per le quali la competente Commissione medica ha disposto il suo collocamento mirato, nonché se le malattie contratte dalla ricorrente nel predetto periodo siano riconducibili, in tutto o in parte, alle mansioni dalla medesima espletate in violazione delle prescrizioni date dalla predetta Commissione medica. La società (...) srl, costituendosi in giudizio, ha chiesto il rigetto del ricorso assumendone l'infondatezza in fatto e diritto. La causa è stata istruita con l'espletamento di una CTU medico legale e con l'assunzione di prove testimoniali. All'esito della discussione orale, all'udienza del 1 febbraio 2022 il Giudice ha pronunciato dispositivo dandone lettura in udienza. MOTIVI DELLA DECISIONE Legittimità del licenziamento Il licenziamento della ricorrente è stato motivato dal superamento del comporto e nella comunicazione di recesso sono indicati tutti i periodi di malattia della ricorrente, per complessivi 484 giorni nel periodo 8 febbraio 2017 - 6 agosto 2019 (si veda doc.3 ricorrente e doc.15 resistente). Non è in contestazione inter partes la complessiva durata della malattia tale da integrare in astratto il superamento del periodo di comporto previsto dal CCNL. A sostegno della domanda la ricorrente assume in via principale la nullità del licenziamento in quanto discriminatorio; in via subordinata ne ritiene la illegittimità in quanto la violazione delle prescrizioni imposte dal medico competente, con adibizione della lavoratrice a mansioni incompatibili con lo stato di salute, avrebbe dato causa alle assenze per malattia della lavoratrice,computate ai fini del superamento del comporto. Licenziamento discriminatorio. E' pacifico e documentale che la ricorrente, assunta in data 18 dicembre 2015 alle dipendenze della società con mansioni di operaia addetta al confezionamento, sia stata dichiarata invalida dalla commissione medica all'esito della visita in data 29 aprile 2015 (doc.14.ricorrente;prodotto in forma incompleta,dal quale non risulta il grado di invalidità accertato):la commissione sulla diagnosi "protusione ernarie multiple - osteocondrosi giovanile con deformazioni a cuneo multiple somatiche - esiti di intervento chirurgico di tunnel carpale dx;discopatia cervicale con spondilo-uncoartrosi di meniscec ginocchio sx", ha riconosciuto alla ricorrente lo stato invalidante utile ai fini del collocamento mirato. La Commissione per l'invalidità civile, all'esito della visita in data 29 aprile 2015 ha accertato l'invalidità civile in misura pari al 67% (doc. 14), grado di invalidità confermato nella visita del 28 marzo 2018 (doc.18 ricorrente); la competente commissione ha riconosciuto la ricorrente portatrice di handicap non in stato di gravità, sulla diagnosi di Fibromialgia,osteocondrosi giovanile-artropatia meccanodegenerativa, spondeiloentesopatia poliarticolare, depressione, esiti di capsulite spalle. Parte ricorrente, deducendo la discriminatorietà del licenziamento, assume che in quanto lavoratrice assunta ex lege 68/1999, ai fini del superamento del comporto non avrebbero dovuto computarsi i periodi di malattia riconducibili alle patologie che riguardano il suo stato di invalidità ed in relazione al quale era stata avviata al lavoro presso la società resistente. Nozione di lavoratore disabile. Non pare possa dubitarsi che la ricorrente rientri nella nozione di persona affetta da handicap secondo la nozione introdotta dalle norme sovranazionali ed eurounitarie: in particolare la Corte di Giustizia, nella decisione, 11.4.2013, HK Danmark C-335/2011, ha infatti affermato che la nozione di "handicap" debba "essere intesa nel senso che si riferisce ad una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Inoltre, dall'articolo 1, secondo comma, della Convenzione dell'ONU risulta che le menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali debbano essere "durature". La ricorrente ha dunque diritto a vedersi riconoscere tutti i benefici che le norme nazionali e sovranazionali riconoscono ai soggetti ,ed in particolare, ai lavoratori disabili. Discriminazione diretta ed indiretta Il tema posto da parte attrice a fondamento della impugnazione del licenziamento attiene alla sussistenza di una discriminazione nella condotta datoriale che procedendo al licenziamento non avrebbe tenuto in considerazione la disabilità della lavoratrice, operando così una discriminazione. Bisogna innanzitutto chiarire che nella fattispecie non si configura, in difetto di allegazione, una discriminazione diretta della lavoratrice: neppure parte ricorrente assume infatti che vi siano fatti dai quali desumere che la società abbia licenziato la ricorrente perché invalida e a causa della sua disabilità. Per completezza si richiamano le disposizioni che regolano la fattispecie. Il D.Lgs. n. 216 del 9 luglio 2003, di attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro all'art. 2, per quanto qui interessa, fissa la nozione di discriminazione e prevede che, salvo quanto disposto dall'articolo 3, commi da 3 a 6, per principio di parità di trattamento si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione,delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale. Alla lettera a) della stessa disposizione, poi, è definita la discriminazione diretta che si ravvisa "quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga". Alla successiva lettera b),poi, è data la definizione della nozione di discriminazione indiretta che sussiste nel caso in cui "una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone". Mentre nel caso di discriminazione diretta è la condotta, il comportamento tenuto, che determina la disparità di trattamento, nel caso di discriminazione indiretta la disparità vietata è l'effetto di un atto, di un patto di una disposizione di una prassi in sé legittima,di un comportamento che è corretto in astratto e che, in quanto destinato a produrre i suoi effetti nei confronti di un soggetto con particolari caratteristiche, nello specifico un portatore di handicap, determina invece una situazione di disparità che l'ordinamento sanziona. Sono perciò diversi i presupposti di fatto e, conseguentemente, le allegazioni che devono sorreggere una azione volta a far valere una discriminazione diretta rispetto a quelli necessari per sostenere una richiesta di accertare l'esistenza di una discriminazione indiretta. Nella fattispecie in esame la ricorrente, assumendo di essere stata assente nel periodo di riferimento per non meno di 160 giorni a causa di patologie che riguardano il suo stato di invalidità,sostiene la nullità del licenziamento per discriminazione indiretta, così argomentando (pag.9 del ricorso): "la norma contrattuale la quale limita a 15 mesi di assenza l'avvenuto superamento del periodo di comporto - e quindi rende legittima la risoluzione del rapporto di lavoro - non può trovare applicazione nel caso di specie in quanto sarebbe causa di una discriminazione indiretta. Infatti, pur essendo una disposizione di per sé neutra essa pone il portatore di handicap - in questo caso la ricorrente - in una condizione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori. E' infatti evidente che il portatore di handicap è costretto ad un numero di assenze di gran lunga superiore rispetto al lavoratore che limita le proprie assenze ai casi di contingenti patologie che hanno una durata breve o comunque limitata nel tempo. E' per tali soggetti che il termine di comporto è evidentemente previsto. Sicché una interpretazione della norma contrattuale rispettosa dei principi affermati dalla direttiva 2000/78, dal D.Lgs. n. 216/2003 e dalla sentenza della Corte di Giustizia sopra richiamata deve fare escludere dal computo del termine per il comporto i periodi di assenza che trovino origine diretta nella patologia causa dell'handicap (a tale conclusione era peraltro pervenuta la Corte di Giustizia con la sentenza del 2013 già citata). E' infatti evidente che il portatore di handicap aggiunge, ai normali periodi di malattia che subisce per cause diverse dall'handicap, quelle direttamente collegate a quest'ultimo: ma una parità di trattamento tra lavoratori esige che solo con riferimento alle prime i lavoratori portatori di handicap e tutti gli altri siano sottoposti al limite temporale del comporto. L'assunto attoreo non è condiviso dal giudicante per le ragioni di seguito esplicitate. In primis ,parte ricorrente non allega perché in concreto, nella fattispecie oggetto di giudizio la norma collettiva sul comporto che disciplina il diritto alla conservazione del posto abbia generato una discriminazione indiretta. E' vero che le norme che disciplinano il comporto (l'art.2110 c.c. e la norma della contrattazione collettiva applicabile nel caso in esame) non trattano diversamente la malattia legata alla disabilità né disciplinano in alcun modo differenziato la malattia del lavoratore disabile da quello che non è affetto da disabilità, tuttavia perché sussista discriminazione dovrebbe potersi dire che la norma collettiva è pregiudizievole per il lavoratore disabile. L'art. 2110 c.c. nel disciplinare il licenziamento per superamento del comporto, risponde alla finalità di consentire al lavoratore di mantenere il posto di lavoro anche durante la malattia sino a che non venga superato il limite di tollerabilità previsto dalla legge o dai contratti collettivi; la stessa norma tutela anche il datore di lavoro prevedendo che, oltre un certo limite temporale, possa risolvere il rapporto di lavoro in presenza di una morbilità eccessiva del lavoratore. Detta norma è pacificamente applicabile a tutti i lavoratori;la legge infatti non distingue fra categorie di lavoratori ma prevede che in presenza di una prolungata morbilità oltre il limite di legge (o di contratto collettivo) il datore di lavoro possa recedere dal contratto. Nessuna norma, neppure eurounitaria, disciplina espressamente il comporto dei disabili né prevede il divieto assoluto di licenziamento del lavoratore disabile: si pensi che la stessa disciplina sugli accomodamenti ragionevoli,pone a carico del datore di lavoro un obbligo di attivarsi per rendere possibile la prestazione lavorativa del disabile,ma non si spinge fino al divieto di licenziamento nel caso in cui sia divenuto impossibile consentire al disabile di lavorare in sicurezza per sé e gli altri lavoratori.. A parere del tribunale in linea generale ed astratta non vi sono ragioni nell'ordinamento italiano per trattare i lavoratori disabili diversamente dagli altri con riguardo particolare e specifico alle conseguenze sulla stabilità del rapporto legate alla durata della malattia: il disabile infatti non è di per sé necessariamente un lavoratore malato, affetto cioè da una patologia che imponga assenze "per malattia"; malattia e disabilità sono concetti differenti,così come lo sono il lavoratore malato e quello disabile;il lavoratore disabile non è un lavoratore malato. Occorre distinguere fra disabilità e malattia :la prima attiene alle difficoltà funzionali del lavoratore, difficoltà che lo pregiudicano nello svolgimento dell'attività lavorativa (in ragione di tale deficit funzionale sono previste le norme sul collocamento obbligatorio, il principio sul ragionevole accorgimento da adottare da parte del datore di lavoro per consentire l'espletamento dell'attività lavorativa ). La malattia riguarda lo stato morboso, stato temporaneo, che impedisce in assoluto al lavoratore di prestare la attività lavorativa. Non si condivide dunque l'assunto attoreo secondo il quale "è evidente che il portatore di handicap è costretto ad un numero di assenze di gran lunga superiore rispetto al lavoratore che limita le proprie assenze ai casi contingenti di patologie che hanno una durata breve o comunque limitata nel tempo". Per ipotizzarsi una discriminazione indiretta dovrebbe potersi dire che in generale il lavoratore disabile,quando si ammala,proprio a causa della sua disabilità viene trattato diversamente, meno favorevolmente, di un altro lavoratore. Tale affermazione non è vera. Vi sono infatti disabili che non sono affetti da patologie che comportino la necessità di assenze legate ad un particolare stato morboso:si pensi ai disabili non vedenti, non udenti,focomelici, privi di arti o ai disabili psichici o affetti da deficit cognitivo:si tratta di soggetti la cui disabilità di per sé non porta a stati morbosi e quindi alla necessità di assentarsi per malattia. D'altro canto, vi sono lavoratori, affetti da malattie croniche e/o gravi che non sono disabili e che proprio in ragione di tali patologie sono soggetti a periodi più o meno lunghi di malattia (si pensi ai malati oncologici, ai diabetici, ai soggetti che soffrono di emicrania o cefalea). Vi sono poi disabili, come la ricorrente, affetti da patologie che possono generare stati morbosi e dunque periodi di malattia. Quanto sopra, a parere del tribunale, porta a ritenere che la malattia del disabile non possa sempre ed aprioristicamente essere trattata in maniera diversa da quella del lavoratore non disabile: il discrimine ipotizzabile ai fini della durata del comporto quindi attiene alla tipologia di malattia e non allo status di disabilità. Occorre cioè valutare se in concreto quando si verifichi una assenza per malattia, tenuto conto della natura della malattia in relazione alla natura della disabilità, il licenziamento per superamento del comporto comporti una discriminazione del lavoratore. Taluni contratti collettivi prevedono infatti che la gravità della patologia od altre caratteristiche della malattia consentano un comporto prolungato e dunque distinguono la durata del comporto a seconda della gravità della patologia. Nella fattispecie oggetto di causa l'art. 77 CCNL Logistica prevede per i lavoratori un comporto di 15 mesi nell'arco degli ultimi 30 mesi (con assenze riferibili ad una pluralità di eventi morbosi): nel caso in esame il superamento del comporto si è verificato per una pluralità di eventi morbosi, di cui uno solo (quello del ricovero ospedaliero per la protesizzazione dell'anca) verosimilmente riconducibile alla disabilità (come emerge dalla Ctu espletata); ritiene invece il tribunale che i periodi di infermità per "algia"(si veda punto 16 del ricorso) non possano ricondursi con certezza alla disabilità in quanto attribuiti ad un sintomo (il dolore) riferito dal malato. A parere del tribunale per verificare se in concreto nel caso in esame la norma collettiva attui una discriminazione indiretta della lavoratrice in relazione al computo del comporto come disciplinato dalla contrattazione collettiva occorre valutare se tale disciplina sia penalizzante per la disabile in ragione della patologia che ha dato origine alla disabilità. Il tema non è stato affrontato in giudizio dalle parti e tuttavia a parere del giudicante sarebbe stato dirimente ai fini di causa. La disciplina del comporto nel caso di specie non è discriminante, tenuto conto della duplice finalità della norma volta a salvaguardare sia il diritto del disabile alla conservazione del posto sia il diritto del datore di lavoro di risolvere il contratto quando la malattia si protragga per un tempo così lungo da far venir meno l'interesse al rapporto di lavoro con il lavoratore: è previsto infatti che la lavoratrice,in relazione alla sua anzianità di servizio, potesse conservare il posto di lavoro a fronte di un periodo complessivo di malattia nei precedenti trenta mesi per una pluralità di eventi morbosi (riconducibili e non alla disabilità) di almeno 15 mesi: in sostanza la conservazione del posto è garantita se nel corso del triennio la lavoratrice abbia lavorato 1 giorno su 2. Ritiene il tribunale che a fronte di un così lungo comporto contrattuale, escludere dal computo i periodi malattia legati alla disabilità, si risolverebbe in un onere sproporzionato per il datore di lavoro, costringendolo a protrarre irragionevolmente il rapporto di lavoro con un lavoratore non in grado di garantire la prestazione per un periodo sufficientemente continuativo. Ragionando per ipotesi estreme, si potrebbe infatti arrivare a pensare, accogliendo la tesi della ricorrente, che il lavoratore che si ammali solo in ragione delle malattie riconducibili alla disabilità, non possa essere licenziato e che dunque, non applicandosi il periodo di comporto,il datore di lavoro debba rimanere vincolato a quel rapporto sine die; non solo si attuerebbe in favore del disabile una disparità di trattamento con gli altri lavoratori,la cui malattia potrebbe portare, superando il limite di legge, al licenziamento. In conclusione deve necessariamente ritenersi che: nella fattispecie oggetto di causa la malattia della disabile non possa ritenersi discriminata e meritevole di maggior favore rispetto a quella di un altro lavoratore del settore non disabile,affetto da una patologia cronica o sottoposto ad un intervento chirurgico assimilabile a quello della ricorrente; che in presenza di una durata del comporto che garantisca in presenza di una pluralità di eventi morbosi in un periodo di trenta mesi la conservazione del posto a fronte di una durata complessiva delle assenze per 15 mesi non può ritenersi discriminatorio applicare al lavoratore disabile il medesimo periodo di comporto del lavoratore non disabile, che abbia goduto di un analogo periodo di malattia. Licenziamento illegittimo Parte ricorrente, in via subordinata, deduce l'illegittimità del licenziamento perché la malattia e le relative assenze sarebbero state causate dalla illegittima adibizione della lavoratrice a mansioni incompatibili con il suo stato di disabilità e che erano state formalmente inibite (movimentazione manuale di carichi di peso superiore ai 5 chilogrammi nonché movimentazione di pesi oltre il piano delle spalle) e, in conformità alla costante giurisprudenza, le assenze dovute a malattie collegate con lo stato di invalidità non possono essere computate nel periodo di comporto se il lavoratore, invalido iscritti negli elenchi indicati dalla legge 482/1968 sia stato adibito a mansioni incompatibili con le condizioni di salute. Il Tribunale condivide il principio affermato dalla ricorrente, consolidato in giurisprudenza (principio che trova fondamento nella violazione da parte del datore di lavoro all'obbligo contrattuale sancito dall'art.2087 cc), tuttavia nel caso in esame l'istruttoria testimoniale non ha fornito prova che la ricorrente sia stata adibita a mansioni incompatibili con il suo stato di salute La ricorrente è stata assunta con la qualifica di operaia addetta al confezionamento: la ricorrente è stata addetta alla lettura dei codici a barre e alla etichettatura delle cassette di carne. Parte ricorrente ha descritto le mansioni svolte ai punti 8 e 9 del ricorso. La parte resistente ha eccepito che detta attività - svolta nell'Area Spedizioni - non prevedeva alcuna movimentazione manuale di carichi da parte della (...) che avrebbe lavorato con orario di lavoro su due turni con due pause "lunghe" di 20 minuti e ulteriori pause di 10 minuti ogni due ore di lavoro. Non è contestato che la ricorrente sia stata addetta alla etichettatura; tuttavia le mansioni come descritte nei punti 8 e 9 del ricorso non hanno trovato conferma nelle dichiarazioni dei testimoni. Non è provato che la lavoratrice abbia movimentato carichi oltre l'altezza delle spalle. Le dichiarazioni dei testimoni anche sulle modalità delle operazioni di etichettatura non sono state univoche, ma presentano contraddizioni che ne inficiano la piena attendibilità (occorre tuttavia sottolineare che la ricorrente ha lavorato nello stesso stabilimento ben prima dell'assunzione in (...) e dunque le dichiarazioni dei testi potrebbero, seppur inconsapevolmente, essere state condizionate dal tempo trascorso così da non distinguere nettamente i fatti accaduti prima del 2015 da quelli successivi). Tutti i testi hanno riferito che l'operazione di apposizione dell'etichetta avviene con un lettore che "spara" l'etichetta. Taluni testi hanno riferito che l'operazione avviene in squadra:nell'ambito della squadre alla quale era assegnata la ricorrente, i testi hanno riferito che la stessa, in conformità alle mansioni attribuite formalmente, ha svolto solo mansioni di etichettatura e rietichettatura. Quanto alla movimentazione di pesi (le scatole da etichettare) le dichiarazioni non sono state concordi: l'unico teste che ha riferito che le scatole nella postazione della ricorrente potessero avere anche un peso superiore ai 10 Kg è stato il teste (...), impiegato che si occupava nel reparto spedizioni del coordinamento e del lavoro d'ufficio: il teste ha lavorato per (...) fino al 2018 (il suo rapporto è cessato un anno prima di quello della ricorrente). Occorre precisare che il teste non ha riferito che la ricorrente movimentava scatole di 10 Kg e superiore("non so dire se la ricorrente svolgesse anche le mansioni di prelievo della scatola da etichettare e di riposizionamento della stessa sul bancale ") ma che in quella postazione si movimentavano scatole di peso superiore ai 10 Kg; le sue dichiarazioni sono state puntualmente e decisamente smentite dal teste (...) n. (che svolge il ruolo di RSSP dal 2009), il quale ha precisato che la ricorrente non movimentava scatole di peso superiore ai 3 Kg. Il teste ha dichiarato "Mi viene riferito dal Giudice ciò che ha dichiarato il teste precedente (teste (...) ndr). Io escludo che ciò (movimentazione di scatole di oltre 10 KG ndr) sia avvenuto quando la ricorrente lavorava come dipendente di (...). Quando la ricorrente era dipendente di (...) non ha etichettato scatole di 20 chilogrammi.". Il teste ha riferito inoltre "le scatole movimentate dalla ricorrente secondo la prescrizione del medico non dovevano avere un peso superiore ai 5 chilogrammi e, in ossequio a questa disposizione, la ricorrente non movimentava scatole di peso superiore". Il ricorrente (...), che lavorava nella squadra della ricorrente, ha riferito che la ricorrente era preposta soprattutto alla etichettatura della merce in entrata, mansione che svolgeva usando un lettore che spara l'etichetta sulla scatola; il teste ha riferito che la ricorrente lavorava in piedi, per lo più senza necessità che la scatola da rietichettare venisse tolta dal bancale. Ha inoltre escluso che la ricorrente prima di apporre l'etichetta dovesse procedere alla pesatura del pezzo. In sostanza la postazione della ricorrente non richiedeva per l'apposizione dell'etichetta che la confezione venisse tolta dal bancale. Le dichiarazioni del teste (...) trovano riscontro in quelle dei testi M. e (...) che hanno anch'essi escluso che l'operazione di etichettatura svolta dalla ricorrente richiedesse la movimentazione delle scatole. Quanto all'episodio del 1 agosto 2017 (capitolo 11 ricorso) non ha trovato conferma nelle dichiarazioni dei testi. In estrema sintesi, parte ricorrente non ha fornito prova, nemmeno indiziaria,che i periodi di malattia siano stati causati dall'inosservanza della datrice di lavoro alle prescrizioni impartite a tutela della salute della lavoratrice. Il ricorso deve essere rigettato. Le spese sono compensatela questione relativa al comporto dei disabili è infatti oggetto di contrasto giurisprudenziale di merito, senza che sia ancora intervenuta alcuna pronuncia della Cassazione; quanto all'illegittimità del licenziamento l'attività istruttoria ha fornito una ricostruzione dei fatti non univoca. Le spese di Ctu sono poste definitivamente a carico di parte ricorrente. P.Q.M. Rigetta il ricorso proposto da (...) contro (...) srl. Compensa integralmente fra le parti le spese di lite. Termine di 60 giorni per la motivazione. Così deciso in Lodi l'1 febbraio 2022. Depositata in Cancelleria il 12 settembre 2022.
TRIBUNALE ORDINARIO DI LODI Il Tribunale di Lodi in composizione collegiale nelle persone di Dott. Maria Teresa Latella - Presidente. Dott. Ada Cappello - Giudice Dott. Grazia C. Roca - Giudice Ha pronunciato la seguente SENTENZA Nella causa tra C.C. (CF (...)) Con l'aw....e... Contro C.R. (CF (...)) Con l'avv.... e ... C.L. (CF (...)) con gli avv .e ... Svolgimento del processo - Motivi della decisione L'attrice ha convenuto in giudizio i fratelli R. e L., eredi legittimi della sig. M.P., deducendo che a seguito della morte della madre, avvenuta il 9.1.2012 , ne veniva pubblicato il testamento olografo, su richiesta del fratello L. e con atto di notaio 11.4.2012, in cui la cuius diseredava la figlia C. e lasciava tutti gli arredi di casa al figlio L.. L'attrice, a seguito di perizia di parte, si avvedeva della "falsità" della grafia e della sottoscrizione del testamento, e, inutili i tentativi di accordi coi fratelli, procedeva con il presente giudizio per far dichiarare apocrifo il documento e comunque per accertarne l'invalidità per averla esclusa dalla successione in difetto dei presupposti ex art. 463 c.c. Evidenziava che l'asse era composto da una serie di immobili, beni mobili in parte descritti nella denuncia di successione e comunque nella disponibilità di R. e L., il 51% della farmacia S. di P.M. in C., denaro e azioni detenute presso il B. di B., infine un conto in Svizzera della Polenghi le cui somme erano a suo tempo transitate su altro conto schermato - definito "conto B." ma in realtà riconducibile a L. - presso la B.J.B.. Chiedeva pertanto, previ gli accertamenti di cui sopra, di procedere alla collazione delle somme e beni pervenuti a L.C. e quindi alla divisione nonché alla corresponsione dell'indennità di occupazione degli immobili da parte di entrambi i coeredi e, da parte di R.C., dei frutti civili della Farmacia goduti in via esclusiva a far data dalla successione. Si è costituito L.C. sostenendo la genericità ed inammissibilità delle ragioni e domande proposte dall'attrice; ha contestato l'esistenza di altri beni nell'asse ereditario al di fuori di quanto indicato nella denuncia di successione, nonché di un conto in Svizzera a sé intestato su cui fosse transitato denaro della madre. In via riconvenzionale ex art. 533 c.c. ha chiesto che R.C., quale coerede testamentaria, fosse dichiarata obbligata a restituirgli la quota del 50% di tutti i beni caduti in successione, in particolare la quota del 49% della farmacia imputabile in sede di collazione, nonché degli utili e delle quote "dalla disponibilità a favore della convenuta ad oggi". Si è costituita altresì C.R. affermando di non essere a conoscenza del testamento e rimettendosi in ordine alla decisione sulla falsità. Ha poi precisato che il compendio era costituito da beni mobili per i quali si era instaurato un procedimento ex art. 763 c.p.c. su istanza del fratello (ad eccezione di due arredi per il valore di 300.000,00 euro) e dei quali L. era in possesso. Dal canto proprio la convenuta aveva provveduto alla stima della quota di farmacia caduta in successione (pari ad euro 680.000,00) e provveduto alla denuncia di successione in capo a tutti e tre i fratelli. Nel corso del giudizio è stata disposta una rogatoria in Svizzera per accertare l'esistenza e la titolarità del conto B., la CTU calligrafica all'esito della quale il testamento è risultato apocrifo, ed infine sono stati ascoltati alcuni testi. All'udienza di precisazione delle conclusioni del 21.12.2021 il difensore di L.C. ha dato atto che "il proprio cliente ha reperito tra le carte un nuovo testamento della madre, anteriore, sul quale è stato acquisito un parere pro veritate di autenticità e autografia e del quale è stata chiesta la pubblicazione", ed ha quindi chiesto rinvio per procedere alla pubblicazione e produrlo. Previa opposizione delle controparti la richiesta è stata rigettata, e comunque riservata all'ulteriore valutazione del collegio, e la causa rimessa in decisione, dopodichè il convenuto ha comunque provveduto al deposito telematico della seconda scheda testamentaria. La domanda principale di accertamento della falsità del testamento può essere accolta. Premessa infatti l'ammissibilità e validità della domanda introduttiva, attesa sia da un lato la genericità delle eccezioni formulate del convenuto L.C. in proposito, sia la completezza dell'atto sotto il profilo sia del petitum che della causa petendi, deve ritenersi infondata anche la questione dal medesimo sollevata circa la mancata instaurazione del procedimento di verificazione della scheda testamentaria. Come noto il testamento olografo, cioè di pugno del testatore, è nullo e totalmente privo di inefficacia qualora difetti, o sia falso, uno dei suoi elementi essenziali, e cioè l'autografia o la sottoscrizione. La questione circa le modalità di prova del difetto o della falsità di tali elementi è stata oggetto di annose controversie - divise tra i sostenitori del procedimento di verificazione di scrittura privata o querela di falso -, con evidenti diverse conseguenze sotto il profilo probatorio. Con la pronuncia n. 12307 del 2015 la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha superato il contrasto (insorto tra l'altro, e tra le altre , tra la precedente pronuncia a Sezioni Unite n.15169 del 2010 e ad sezioni semplici n.28637 del 2011) e ,rifacendosi ad un risalente orientamento degli anni cinquanta , ha affermato il principio di diritto, ormai largamente acquisito nella giurisprudenza sia di legittimità che di merito - secondo cui " la parte che contesti l'autenticità del testamento olografo deve proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura e l'onere della relativa prova, secondo i principi generali in tema di accertamento negativo, grava sulla parte stessa". Con tale sentenza - come noto - la Cassazione dopo una lunga e minuziosa disamina dei due orientamenti e delle opposte criticità negli anni evidenziatisi, è pervenuta a tale conclusione in quanto maggiormente rispondente all'esigenza di circoscrivere definitivamente il testamento nell'alveo delle scritture private - evitando così di introdurre una distinzione con le scritture private a valenza probatoria con incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata - escludendo invece il testamento dall'alveo degli atti pubblici e dunque dal ricorso alla querela di falso. Ciò pur non dimenticando in più punti come il testamento si atteggi pur sempre a scrittura privata dotata di sue innegabili peculiarità, e garantita da una sua tutela civile e penale rafforzata in base ad esempio agli art. 491 del codice penale e (...) n. 6 del codice civile nonché dalla prescrizione di insanabilità del testamento nullo. Deve dunque procedersi, in virtù di tale insegnamento, con un'azione di accertamento negativo -tale da non gravare dell'onere probatorio solo l'attore che si afferma erede (a seguito del disconoscimento,) "evitando al contempo l'equiparazione del testamento ad una qualsiasi scrittura ma proveniente da terzi e non rinconducibile alle parti in causa", che come tale non è certo compatibile con il procedimento di verificazione. Ciò premesso, e ritenuta quindi infondata l'ulteriore eccezione del convenuto, il relativo onere probatorio dell'impugnante C.C. può ritenersi assolto, nel caso di specie, a fronte sia delle risultanze della CTU che di ulteriori emergenze processuali di cui si darà conto. Conclude il CTU, dopo un'ampia disamina le cui risultanze possono essere recepite in quanto non contraddittorie ed adeguatamente motivate - anche in relazione alle sia pur minime contestazioni di L.C. -, affermando la sussistenza di "incompatibilità dinamiche e morfodinamiche riscontrate nell'esame comparativo tra le firme autografe e la scheda testamentaria sottoscritta a nome M.P., nella sua totalità", tali da dimostrare che "l'intera scheda testamentaria e la sottoscrizione posta in calce non sono state redatte dalla de cuius quale autrice delle firme autografe di comparazione.." Oltre alle risultanze della perizia, coincidenti con un elaborato di parte prodotto dall'attrice, anche altri elementi consentono di pervenire all'accertamento della falsificazione del testamento - e di seguito anche alla pronuncia di indegnità - in primo luogo il comportamento processuale del convenuto L.C.. E' principio largamente consolidato in giurisprudenza, e riaffermato ancor di recente da una pronuncia della Cassazione penale (Cfr Cass. Pen 4.8.2021 n.30533), che negli accertamenti circa la veridicità di grafie e sottoscrizioni il giudice ha il potere dovere di formare il proprio convincimento su ogni altro elemento di prova obiettivamente conferente, senza essere vincolato ad alcuna graduatoria tra le fonti, la perizia grafologica non costituendo un mezzo imprescindibile, potendo addirittura evitare di farvi ricorso, , ove tale accertamento possa essere effettuato anche sulla base degli altri elementi acquisiti (Cfr ex multis Cass 12.2.2014 n.3207, Cass 28.4.2005 n.8881). Dunque nel caso di specie - e premesso che deve ritenersi inammissibile la produzione di un secondo testamento da parte di L.C. a seguito dell'udienza di precisazione delle conclusioni -, tale circostanza costituisce pur sempre un fatto processuale e dunque un elemento ulteriormente valutabile dal Collegio. Il documento non può certo essere ammesso al compendio probatorio, giacché tardivo, e la cui ritardata produzione il C. non ha in alcun modo giustificato sulla base di cause a sé non imputabili E ad egual conclusione si dovrebbe pervenire con riguardo alla domanda - a tale produzione conseguente- circa una diversa operatività delle regole successorie, domanda che le parti non hanno accettato. Tuttavia vi è il dato processuale della produzione della seconda scheda, del tutto scevra da indicazioni circa le circostanze - eventualmente anche sopravvenute all'instaurazione del processo, in cui L.C. avrebbe rinvenuto l'atto di mano della madre: di tali circostanze egli tace del tutto anche in comparsa conclusionale. Ma tutto ciò evidenzia in realtà che L.C. era in possesso di due schede e tuttavia nulla riferiva in proposito, né ai fratelli né in sede processuale, decidendo per la pubblicazione di quella evidentemente a sé più favorevole. Ed anzi, pur a fronte degli esiti della CTU calligrafica- che si è limitato a contestare -, ancora una volta L.C. nulla ha speso sulle modalità di acquisizione /ritrovamento neppure del primo testamento da lui pubblicato, comportamento processuale anch'esso valutabile dal Tribunale. A ciò si aggiunga, come correttamente osservato in giudizio, che effettivamente la sorella C. era stata diseredata con l'atto impugnato, la sorella R. se ne era dissociata presentando denuncia di successione per tutti e tre i fratelli, e non esistevano altri soggetti portatori di un legittimo interesse alla falsificazione. Inoltre anche il contenuto del testamento depone nel senso della falsificazione, e comunque dimostra l'uso anomalo della scheda da parte di L.C.: questi risulta infatti legatario dei beni mobili per un valore superiore rispetto alla quota di farmacia (stimata per 650.000,00 euro nella intera quota caduta in successione) che la sorella R. avrebbe avuto interesse a disporre in proprio favore, mentre L. non avrebbe potuto intestarsela in quanto non farmacista. Tutte le predette circostanze, ad avviso del Tribunale, concorrono, unitamente alle risultanze della CTU, nel senso sia della falsificazione della scheda testamentaria impugnata sia nell'individuazione in L.C. dell'autore della stessa, e comunque nella circostanza di averne fatto uso conoscendo l'apocrifia. R.C. ha svolto, in relazione ai fatti sopra evidenziati, domanda ai sensi dell'art. 463 n.5 c.c., (che prevede l'alterazione o soppressione della scheda). E' nota la distinzione giurisprudenziale tra le ipotesi di cui agli art. 463 n. 5 e 6 del codice civile in materia di indegnità. La prima fattispecie riguarda il caso in cui taluno ha soppresso, celato o alterato il testamento dal quale la successione sarebbe stata regolata, e dunque presuppone una scheda valida ed efficace nei suoi requisiti intrinseci ed estrinseci. La seconda prescinde totalmente da un precedente atto idoneo a manifestare validamente la volontà del testatore. Ma, con riferimento a questa seconda ipotesi, la formazione o l'uso consapevole di un testamento falso è causa di indegnità se colui che viene a trovarsi nella posizione di indegno non provi di non aver inteso offendere la volontà del de cuius, perché il contenuto della disposizione corrisponde a tale volontà ed il de cuius aveva acconsentito alla compilazione della scheda da parte dello stesso-nell'eventualità che non fosse riuscito a farlo di persona- ovvero che il de cuius aveva la ferma intenzione di provvedere in tal senso per evitare la successione ab intestato (da ultimo Cass sez.VI ord. 14.9.2020 n.19045). Neppure di tali circostanze L.C. ha fornito, o chiesto di fornire in istruttoria, alcuna dimostrazione. Potrebbe anche affermarsi che il C. abbia celato il secondo testamento, ma di questo- allo stato- non è possibile fornire un giudizio di veridicità. La domanda dunque - alla stregua di tutte le circostanze sopra evidenziate - può agevolmente essere riqualificata ai sensi dell'art. 463 n. 6 c., ed in tali termini accolta. Ciò attesa anche da un lato la natura dell'indegnità a succedere, operativa ipso iure - pur non essendo rilevabile d'ufficio - in quanto costituente non un'ipotesi di incapacità all'acquisto dell'eredità ma una qualifica di un comportamento all'interno dell'unitaria azione volta a farla valere; dall'altro la natura del diritto (autodeterminato) che l'azione mira a conseguire, "coincidente con la causa petendi" ed in relazione al quale l'allegazione dei fatti o degli atti da cui dipende è necessaria solo per provarne l'acquisto, costituendo gli stessi, fatti secondari la cui diversa qualificazione da parte del giudice non implica violazione del limite di cui all'art.112 c.p.c. (per tutte Cass sez. II, sent.31.3.2014 n. 7502). Accertata dunque, la falsità del primo testamento e dichiarata l'indegnità a succedere di L.C., va dichiarata aperta la successione legittima tra le due figlie e, sulla base delle domande e allegazioni formulate da C. e R.C., deve procedersi alla divisione previa collazione dei beni donati in vita- in particolar modo avendo riguardo alla domanda del 49% delle quote di farmacia e del denaro transitato sui conti svizzeri. Quanto alla farmacia, si osserva in primo luogo come la convenuta R.C. abbia eccepito l'inammissibilità della domanda di collazione proposta dall'attrice con riferimento alle quote a sé cedute dalla madre con l'atto di costituzione di società in nome collettivo del 9.12.2008, perché formulata solo con la memoria n.1. Mentre quanto ad analoga richiesta formulata da L.C. essa è divenuta improcedibile per difetto di interesse ad agire a seguito della pronuncia di indegnità. E' noto tuttavia, quanto alla domanda di collazione, che l'art. 737 c.c. obbliga i figli e loro discendenti ed il coniuge alla collazione di tutto quanto hanno ricevuto per donazione dal de cuius (dovendo intendersi tali donazioni come un'anticipazione dell'eredità) al fine di assicurare nella divisione il rispetto delle quote tra gli eredi medesimi. L'obbligo di collazione sorge dunque automaticamente ed è sufficiente, per chi ha interesse a farlo valere, invocare la divisione ed individuare i beni che debbono esserne oggetto. T. alla controparte dare prova del contrario, e cioè che mediante tali atti non è stata alterata la ripartizione delle quote (Cass. 15131/2005). In altre parole l'obbligo di collazione discende dalla legge, escludendo addirittura la necessità di una specifica domanda in proposito, essendo sufficiente negli atti di causa un semplice riferimento all'esistenza di pregresse donazioni a favore di uno dei soggetti tenuti alla collazione (Cass. 19.11.2004 n.21895) Oggetto di collazione sono poi solo le donazioni, dirette ed indirette, mentre non si considerano tali le somme derivanti dall'adempimento dell'obbligo di contribuzione tra coniugi, quelle erogate a titolo di obbligazione naturale, le liberalità d'uso e quelle sorrette da particolari causali (come ad esempio il pagamento di un debito), le spese ordinarie o per malattia. Infine sotto il profilo delle allegazioni e prove poste a carico di chi chiede la collazione, anche in tal caso per l'effetto automatico di cui sopra si è detto, questi è tenuto solo ad allegare l'esistenza di determinati beni (o denaro) nell'asse ereditario da ricostituire, e spetta alla parte che eccepisce un fatto ostativo alla collazione, l'onere di fornire la prova contraria nei confronti di tutti i condividenti (ex plurimis, Cass. 18.7.2005 n.15131, Trib. Milano 17.10.2016; Tribunale Vicenza 13.3.2017 con particolare riferimento agli effetti della non contestazione). Alla luce di tali principi deve in primo luogo ritenersi l'ammissibilità, nel caso di specie, della domanda di collazione formulata dall'attrice quanto al 49% delle quote della farmacia: la richiesta di accertamento di donazioni dirette o indirette in tal senso risulta infatti sicuramente ricompresa nella domanda di divisione ,e comunque sufficientemente allegata in citazione e poi più specificamente nella memoria n.1. Né può accedersi all'osservazione di R.C. per cui " anche qualora si trattasse di donazione si dovrebbe solo verificare se con tale lascito si è lesa la quota della disponibile, circostanza che riteniamo sia totalmente da escludere alla luce del valore dell'asse ereditario.." Poiché infatti la collazione ha la funzione di assicurare, nella divisione della massa attiva del patrimonio del de cuius, l'osservanza delle quote spettanti agli eredi - estendendo l'art. 737 c.c. ai figli, discendenti e coniuge l'obbligo del conferimento di ciò che anno ricevuto in vita dal defunto senza attribuire alcun rilievo alla loro qualità di legittimari o meno - l'istituto opera sia nella successione testamentaria che legittima, in questo caso prescindendosi da eventuali richieste di riduzione per lesione. Sgombrato dunque il campo dalle varie eccezioni di inammissibilità della domanda, si osserva nel merito che l'atto di notaio 9.12.2008- per la costituzione in società in nome collettivo dell'esercizio "Farmacia S. di ..."-, sulla premessa della essenziale collaborazione di R.C. all'impresa familiare sin dal 1976, dava atto di come le parti avessero in pieno accordo "stabilito i valori dei diritti di credito di R.C. per la pluriennale partecipazione all'impresa ex art. 230 bis c.c." .Sulla base di tali premesse dunque- sempre secondo il tenore della scrittura - R.C. provvedeva a conferire tali diritti- per l'importo di euro 97643,79 - ad integrale copertura della quota del 49% di partecipazioni ricevute dalla madre con il medesimo atto, previa cessazione del precedente rapporto di impresa familiare. Risulta peraltro dal precedente atto costitutivo di impresa familiare (doc. 23 parte R.C.) come M.P. già avesse dichiarato la partecipazione della figlia R. all'impresa familiare, attribuendole, per gli anni 1975-1976, una quota di utile nella misura del 30%. Alla luce di tale documentazione, unitamente alle testimonianze di due dipendenti e del marito di R., le due sorelle hanno attribuito opposta valenza all'atto di costituzione di snc ed intestazione delle quote a R.C., l'una con valore di donazione, l'altra di sostanziale reintegrazione nei crediti lavorativi maturati fin dall'inizio della collaborazione nell'impresa familiare ex art. 230 bis del codice civile. Quest'ultima interpretazione, in forza delle regole probatorie più sopra richiamate, appare la più convincente. L'attrice ha indicato il bene (la quota di farmacia) da conferire all'asse per effetto della collazione, ma la convenuta ha eccepito come l'attribuzione di tale bene si traducesse in realtà nell'adempimento di un debito pregresso (e reciproca rinuncia ad un credito) tra le parti. A dimostrazione di ciò ha prodotto proprio la scrittura del 9.12.2008 oltre ad alcune testimonianze, quelle del marito e di due dipendenti che hanno confermato il lavoro svolto (i secondi) ed i compensi solo parziali ricevuti dalla madre nel corso di lunghi anni (il primo) Invero l'atto di costituzione di società e attribuzione di quote a R.C. del 9.12.2008 costituisce - ad avviso del Collegio - atto (pubblico) a titolo oneroso da cui non emerge alcuna causa donandi. O.C.C. avesse voluto contestare l'esistenza di una donazione indiretta, ovvero di un atto simulato, avrebbe dovuto formulare, con apposita richiesta di accertamento incidentale ovvero in separato giudizio - la relativa domanda, che non può giammai ricomprendersi in quella di collazione ma è da essa autonoma e pregiudiziale (sul punto a partire da Cass.21.4.1998 n.4024, giurisprudenza conforme e da ultimo Cass.23.7.2019 n.19833) In difetto di ciò non può ritenersi che l'intestazione delle quote a R.C. costituisca una donazione neppure indiretta, e dunque la relativa domanda deve essere rigettata. Venendo alla richiesta di collazione del denaro (e valori per un importo di asseriti 2.722.162 F.) transitato dal conto in Svizzera di M.P. al noto conto "B. ", R.C., sulla scorta di quanto già affermato dalla sorella C. in citazione, documenta con l'atto di costituzione sia il relativo estratto patrimoniale, sia l'uscita del denaro dal conto ed il transito sul conto B. (doc.14,15 R.C.) L.C. non ha in alcun modo contestato ed impugnato, alla prima udienza utile del 9.6.2017, la valenza probatoria di detta documentazione limitandosi a lamentarne l'inidoneità probatoria quanto a suoi rapporti con il conto B. o con prelievi da esso stesso disposti. La circostanza della titolarità del conto svizzero in capo alla de cuius, e del transito dei relativi valori al conto B., può dunque ritenersi accertata in giudizio. Quindi la rogatoria effettuata in Svizzera presso il Tribunale di Zurigo- confermando quanto già relazionato da B.J.B. - ha consentito di accertare che L.C. risulta essere " l'unico avente diritto economico " del conto B.. A ciò si aggiunga che egli risulta firmatario del "modulo A secondo VSB 2016 del rapporto di conto (...) denominato B. (vedi esiti rogatoria e lettera B.J.B.) ed è colui che ha assistito all'apertura della cassetta di sicurezza presso la B.U. di L. (doc. 16) da cui proveniva il denaro, circostanze tutte in relazione alle quali , da un lato le sorelle hanno lamentato la mancata collaborazione del fratello nell'accedere alla documentazione bancaria , dall'altro ancora una volta, non è stata fornita adeguata spiegazione in giudizio da parte di L.. L'avente diritto di un conto economico- come risulta dalla normativa bancaria svizzera- è la persona o l'entità che possiede il patrimonio ed il reddito percepito sul conto, colui al quale verrebbe richiesto di pagare le imposte e che alla chiusura può esigerne il saldo. Può dunque ritenersi, sulla base di tutte le precedenti circostanze, che L.C. ha ricevuto il denaro della madre sul proprio conto cifrato e poiché nulla ha dimostrato quanto al titolo della dazione o ad un'eventuale controprestazione ad essa collegata, per le regole probatorie sopra richiamate egli è tenuto alla restituzione ed al conferimento alla massa a titolo di collazione. L.C., ai fini della divisione, è tenuto altresì alla restituzione dei mobili consegnatigli a seguito del procedimento di apposizione dei sigilli, e comunque in suo possesso, quali risultanti dalla documentazione in atti, e che dovranno essere oggetto di valutazione peritale, così come gli immobili ed altri valori risultanti dalla denuncia di successione - che costituiscono dunque il compendio ereditario insieme al 51 % delle quote della farmacia - nonché i relativi frutti ed interessi. A tal fine occorre infine rimettere la causa sul ruolo per le operazioni divisionali previa ammissione di CTU volta ad individuare i valori dei cespiti di cui sopra e per la formazione delle quote tra C. e R.C. (si rammenta che C.C. ha chiesto di essere liquidata in denaro) Infine, una volta dichiarato il testamento nullo per difetto di autografia e falsità della firma gli atti vanno trasmetti alla locale Procura della Repubblica ai sensi degli art. 491 e 493 bis del codice penale. Le spese di lite saranno liquidate al definitivo P.Q.M. Il Giudice, disattesa ogni diversa istanza, eccezione e deduzione, non definitivamente pronunciando, - DICHIARA la nullità ed inefficacia della scheda testamentaria 29.6.2008 a firma M.P. - pubblicata il 11.4.2012 notaio Rubinetti- disponendo la trasmissione di copia degli atti alla locale Procura della Repubblica - DICHIARA l'indegnità a succedere di L.C. per le ragioni di cui in parte motiva - DICHIARA aperta la successione legittima tra C. e R.C. in relazione all'eredità dismessa da M.P., e - PRONUNCIA lo scioglimento della comunione ereditaria tra C. e R.C. in relazione all'eredità, per le quote di 1/2 ciascuna - ACCERTA l'obbligo di L.C. di conferire al patrimonio ereditario i beni di cui in parte motiva - DICHIARA l'inammissibilità della produzione 7.1.2022 di parte L.C. - RIMETTE la causa in istruttoria come da separata ordinanza per gli ulteriori accertamenti in ordine al valore del compendio ereditario, come ricostruito in parte motiva, e per le operazioni divisionali - spese al definitivo Così deciso in Lodi nella camera di consiglio del 3 maggio 2022. Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2022.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI LODI SEZIONE CIVILE In funzione di giudice unico nella persona del dott.ssa Luisa Dalla Via ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al numero di ruolo sopra riportato, promossa da: (...) (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. SC.CE., elettivamente domiciliato presso il difensore in via (...), Lodi; - attore - CONTRO (...) (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. SO.SA., elettivamente domiciliato presso il difensore in Via (...), Codogno (LO); - convenuta - CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Per quanto riguarda il completo svolgimento del processo, ai sensi dell'art. 132 co. 2 n. 4 c.p.c., si fa rinvio agli atti delle parti e ai verbali di causa. 2. Oggetto del giudizio La presente controversia ha ad oggetto la domanda di accertamento dell'illecito concorrenziale ex art. 2598 c.c. posto in essere da (...), in qualità di titolare della ditta individuale (...), nei confronti di (...), e la conseguente domanda di risarcimento del danno patito da (...) per un importo pari a Euro 52.000,00. In particolare, con atto di citazione ritualmente notificato, parte attrice ha dedotto le seguenti circostanze a fondamento delle proprie domande: - la ditta (...) - Centro Assistenza Caldaie esegue il servizio di assistenza sulle caldaie per il riscaldamento degli immobili ad uso abitativo privato, commerciale e pubblico e per tale attività si avvale di personale dipendente costituito da tecnici specializzati nel settore caldaie. Tra questi dipendenti, la ditta si è avvalsa dal 2/02/2009 al 30/06/2016 del sig. (...) il quale svolgeva mansioni di tecnico per assistenza caldaie; - immediatamente dopo la cessazione del rapporto di lavoro, e precisamente in data 30/06/2016, il sig. (...) sottoscriveva con l'ex datore di lavoro un patto di non concorrenza; - in data 22/07/2016 il sig. (...) costituiva la ditta individuale (...) di (...) con la quale eseguiva attività di assistenza e manutenzione caldaie in favore dei clienti del suo ex datore di lavoro, ponendo in essere atti di concorrenza sleale in suo danno; - in particolare il sig. (...) avrebbe costantemente violato il divieto di utilizzare informazioni acquisite durante il suo rapporto di lavoro con la ditta (...), in alcun modo collegabili a sue capacità professionali o imprenditoriali; - la circostanza risulterebbe riscontrabile dall'esame del software gestionale "(...)", in uso presso la ditta (...), e dal c.d. CURIT, dai quali risulterebbe il nominativo di 42 degli attuali clienti del sig. (...), del tutto coincidenti con ex clienti dell'attore; - pertanto con lettera del 17/03/2017 la ditta (...) intimava al sig. (...) di cessare immediatamente la propria condotta di sviamento di clientela, cui parte convenuta non dava alcun seguito, persistendo nel proprio comportamento; - la condotta di concorrenza sleale tenuta dal sig. (...), consistita appunto in sviamento di clientela dell'ex datore di lavoro, abusando delle informazioni aziendali di cui era entrato in possesso nel corso del rapporto di lavoro con la ditta (...), avrebbe provocato un danno a quest'ultima per non meno di complessivi Euro 52.000,00. Si è costituito tempestivamente il sig. (...), in qualità di titolare della ditta individuale "(...) di (...)", chiedendo il rigetto della avversa domanda, in quanto infondata in fatto e in diritto. In particolare parte convenuta ha eccepito in primo luogo l'inesistenza e comunque nullità del patto di non concorrenza prodotto da parte attrice sub doc. 2 per la sua genericità e, comunque, per carenza della forma scritta, e degli ulteriori requisiti previsti dall'art. 2125 c.c.. Quanto all'asserita condotta di concorrenza sleale ex art. 2958 c.c., parte convenuta ha contestato la fondatezza della domanda di controparte, essendo del tutto carente la prova che il sig. (...) sia venuto in possesso di informazioni riservate della ditta (...) e che si sia servito delle stesse per porre in atto lo sviamento della clientela dello stesso, essendosi egli limitato ad avviare un'attività lavorativa solo parzialmente coincidente (in termini concorrenziali) con quella della ditta Nobili, effettuando anche lavori idraulici generici, in un'area geografica più limitata di quella nella quale opera parte attrice e pubblicizzando tale attività una attività di volantinaggio, distribuendo, spesso anche porta a porta, in tutta la zona limitrofa al proprio indirizzo di residenza volantini in cui venivano appunto indicati i recapiti della (...) e l'oggetto delle prestazioni fornite con i relativi prezzi indicativi. Quanto ai clienti asseritamente sviati, parte convenuta ha precisato che si tratterebbe di soggetti che, nella maggior parte dei casi, hanno chiamato il sig. (...) di loro iniziativa dopo aver reperito il volantino distribuito "a tappeto" dallo stesso alla propria area di residenza, altri sarebbero amici del convenuto, altri ancora lo avrebbero incontrato per caso e, riconosciutolo, avrebbero poi preso contatto con lui per la manutenzione della caldaia, altri sarebbero arrivati da lui tramite "passaparola", altri invece, non sono suoi clienti. 3. In seguito alla prima udienza di comparizione, venivano concessi i termini per il deposito delle memorie ex art. 183 VI co. c.p.c. Parte attrice depositava unicamente memoria ex art. 183 VI co. n. 1 c.p.c., mentre parte convenuta depositava le memorie ex art. 183 VI co. nn. 2 e 3 c.p.c.. All'udienza del 19/10/18, fissata per la discussione sulle istanze istruttorie, il Giudice precedente assegnatario del presente fascicolo, ritenuta la causa matura per la decisione, non ammetteva i mezzi di prova richiesti dalle parti e rinviava quindi per la precisazione delle conclusioni all'udienza del 18/10/19. Tale udienza veniva poi rinviata d'ufficio al 14/2/2020, quando le parti precisavano le proprie rispettive conclusioni e la causa veniva trattenuta in decisione (con sospensione del termine per il deposito delle comparse conclusionali e delle eventuali memorie di replica a seguito delle disposizioni legislative nazionali dettate per il contenimento del contagio da Coronavirus). Con provvedimento del 10/9/2020 il Giudice precedente assegnatario del fascicolo rimetteva in istruttoria la causa, ammettendo la prova per testi richiesta da parte convenuta, limitatamente al capitolo 1) della memoria ex art. 183 co. VI n. 2 c.p.c. e fissava quindi per l'assunzione della suddetta prova, limitatamente a tre testi, l'udienza del 4/12/2020, udienza che veniva poi anticipata al giorno 27/11/2020. A tale udienza veniva escusso un teste di parte convenuta, la causa veniva quindi rinviata alla successiva udienza del 3/2/2020 (poi rinviata al 26/03/2021 per il perdurare dell'emergenza pandemica) per l'escussione dei due testi rimanenti, nonché per l'escussione di due testi di parte attrice a favore della quale era stata ammessa la prova orale di cui al capitolo 1) dell'atto di citazione. A tale udienza venivano quindi escussi un teste per parte, in quanto il restante teste di parte attrice era nelle more deceduto, mentre per quanto riguarda l'escussione del rimanente teste di parte convenuta, ritenuta superflua, la causa veniva rinviata per la precisazione delle conclusioni all'udienza del 17/9/2021, poi rinviata d'ufficio al 17/12/2021, alla quale le parti con trattazione scritta, precisavano le rispettive conclusioni. La causa veniva quindi trattenuta in decisione, con concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. per il deposito delle rispettive comparse conclusionali ed eventuali memorie di replica. 4. La domanda di parte attrice è infondata e pertanto non meritevole di accoglimento per le ragioni che seguono. 4. a) Patto di non concorrenza Secondo la prospettazione di parte attrice, il convenuto sig. (...) avrebbe in primo luogo violato il patto di non concorrenza sottoscritto in data 30/06/2016. Trattasi tuttavia di deduzione infondata che non trova riscontro nella documentazione in atti. Infatti, il documento prodotto da parte attrice sub doc 2 risulta essere una mera missiva, recante intestazione "raccomandata A.R." (alla quale tuttavia non è allegata alcuna ricevuta di spedizione e/o di ricezione da parte del destinatario), avente ad oggetto il "rispetto del patto di non concorrenza", senza alcun ulteriore e più specifico richiamo al contenuto dello stesso, cui si affianca il rinvio all'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c., applicabile nell'ambito dei rapporti di lavoro, datore di lavoro e dipendente, che tuttavia era venuto oramai meno tra le parti alla data della comunicazione. Con detta comunicazione parte attrice intimava al sig. (...) di non utilizzare notizie o informazioni riservate. Risulta pertanto evidente come il documento in questione non presenti alcuno degli elementi di un preteso "patto" intercorso tra le parti, avendo piuttosto le caratteristiche di un atto unilaterale, e tantomeno i requisiti del patto di non concorrenza previsto dall'art. 2125 c.c. (forma scritta, previsione di un corrispettivo e termine di durata). 4. b) Concorrenza sleale: lo sviamento di clientela Secondo la ricostruzione di parte attrice, il convenuto avrebbe posto in essere atti di concorrenza sleale mediante sviamento della clientela. In particolare, il sig. (...), in seguito alla cessazione del rapporto di lavoro con la ditta (...), ne avrebbe contattato i clienti invitandoli a rivolgersi a lui per l'assistenza e manutenzione della caldaia. Per effetto della condotta del convenuto, deduce (...), che 42 suoi clienti sarebbero passati alla società convenuta, con grave pregiudizio economico dell'attore, quantificato nell'importo complessivo di 52.000,00. La responsabilità a titolo di concorrenza sleale, ai sensi dell'art. 2598 numero 3) c.c., al quale è possibile pacificamente ricondurre la fattispecie dello sviamento di clientela, presuppone che l'imprenditore si sia avvalso di un mezzo, non soltanto contrario ai principi generali della correttezza professionale, ma anche idoneo a danneggiare l'altrui azienda. Infatti, in tema di concorrenza sleale, quel che è inibito non l'esercizio della concorrenza in sé, anzi doverosa in un'economia di mercato, ma solo la concorrenza "sleale", sicché la prova di chi la invoca riguarda essenzialmente la dimostrazione del requisito della slealtà della condotta concorrenziale. Il tentativo di sviare la clientela (che non "appartiene" all'imprenditore) di per sé rientra nel gioco della concorrenza (che altro non è che contesa della clientela) sicché, per apprezzare nel caso concreto i requisiti della fattispecie di cui all'articolo 2598, n. 3, e ritenere illecito lo sviamento occorre che esso sia provocato, direttamente o indirettamente, con un mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale (intesa come il complesso di regole desunte dalla coscienza collettiva imprenditoriale di una certa epoca, socialmente condivise dalla categoria). Non è quindi sufficiente il tentativo di accaparrarsi la clientela del concorrente sul mercato nelle sue componenti oggettive e soggettive, ma è imprescindibile il ricorso ad un mezzo illecito secondo lo statuto deontologico degli imprenditori" (Cass. Civ. n. 18772 del 12 luglio 2019). La richiamata disposizione sanziona un contegno che oggettivamente inteso, ove contrario ai principi di correttezza professionale, sia in grado di danneggiare il concorrente. Tale fattispecie non può, pertanto, ricorrere nei casi in cui la condotta sia espressione della libertà d'iniziativa economica della parte, peraltro, costituzionalmente tutelata. In termini generali, integra una condotta contraria alla correttezza professionale qualsiasi comportamento attraverso il quale l'imprenditore si procuri la disponibilità delle informazioni aziendali senza il consenso del loro legittimo detentore e ne faccia uso per conseguire un vantaggio che non avrebbe ottenuto utilizzando le proprie risorse o che avrebbe conseguito in tempi molto più lunghi e con costi superiori, ovvero qualsiasi condotta che sfrutti parassitariamente l'iniziativa o i risultati altrui. Al fine di tale valutazione assumono rilevanza: il numero dei clienti contattati; il metodo adottato per convincere i clienti; l'immediata destinazione degli stessi alla attività dello sviatore. Tanto premesso, nel caso di specie non possono ravvisarsi condotte di concorrenza sleale in capo al convenuto. Nel caso in esame, sono state allegate genericamente e non provate le condotte di sviamento in concreto poste in essere dalla convenuta: parte attrice si è limitata a produrre la schermata del software gestionale "(...)", in uso presso la propria ditta, e la certificazione CURIT - Catasto Unico Regionale degli Impianti Termici, mettendo a confronto i quali sarebbe possibile evincere la corrispondenza dei nominativi di circa 40 clienti, attualmente rivoltisi al convenuto per il servizio di assistenza caldaia. Nessun ulteriore elemento probatorio è stato fornito da parte attrice, la quale nemmeno ha provveduto al deposito della memoria ex art. 183, sesto comma, n. 2 c.p.c.. Di contro, l'istruttoria orale ha consentito di ritenere escluso che il sig. (...) abbia posto in essere condotte di sviamento di clientela, come sopra intese alla luce della giurisprudenza richiamata, dal momento che i testi sentiti ((...) e (...)) hanno confermato, con dichiarazioni tra loro coerenti e non contraddittorie, di avere contattato loro stessi la ditta del sig. (...) dopo aver ricevuto il volantino di cui al doc. 1 di parte convenuta. Il solo teste (...), agente di commercio della ditta attrice da circa 14 anni, ha riferito di essere stato contattato telefonicamente una sola volta dal sig. (...), supponendo egli avesse il suo numero per aver eseguito precedentemente interventi di manutenzione presso la sua abitazione. Lo stesso altresì ha negato di aver visto volantini pubblicitari di (...) nella propria buca delle lettere, ammettendo d'altra parte che all'epoca della telefonata riferita era da poco residente presso quella abitazione. Tale circostanza, in assenza di ulteriori elementi di riscontro, idonei a determinare che in effetti il sig. (...) fosse entrato in possesso del numero di telefono del cliente con modalità scorrette e contrarie alla correttezza professionale, non risulta di per sé sufficiente a poter dire integrato l'illecito lamentato da parte attrice. Allo stesso modo, poi, il fatto che si siano rivolti alla ditta convenuta complessivamente 42 clienti, degli oltre 3.000 presso i quali parte attrice presta la propria attività (circostanza, questa, mai contestata da (...)), porta ad escludere in radice che vi sia stata una attività "sistematica" di distrazione di clientela in danno della stessa. Le condotte poste in essere da (...) non possono qualificarsi in termini di illeciti concorrenziali, difettando le stesse dell'elemento strutturale del danno - evento, ossia della lesione del diritto di parte attrice allo sfruttamento economico esclusivo. In particolare, parte attrice non ha fornito la prova dell'effettivo passaggio di un preciso numero di propri clienti (indicati alle pagine 3 - 22 dell'atto introduttivo) alla ditta di controparte, eziologicamente riconducibile alle condotte di sviamento, né tale circostanza avrebbe potuto essere provata mediante la prova orale, peraltro non formulata dall'attore. La mancata dimostrazione dell'acquisizione, da parte della ditta convenuta, di informazioni riservate (non meglio qualificate ed identificata da parte attrice) e di una quota della clientela dell'attore attraverso l'indebito impiego di informazioni a questa appartenenti comporta, al contempo, l'assenza di prova di un concreto danno - conseguenza ad essa causalmente riconducibile. La giurisprudenza, sia di legittimità (Cass. n. 7306/2009; Cass. n. 19430/2003), che di merito (Tribunale di Venezia, Sez. propr. industriale, e intellettuale, 10.2.2006; Tribunale Catania, Sez. proprietà industriale e intellettuale, 4.1.2007) ha, infatti, chiarito che, anche se, risulti accertata la concorrenza sleale, il danno non è in re ipsa, ma, essendo conseguenza diversa ed ulteriore dell'illecito anche rispetto alla distorsione della concorrenza da eliminare, comunque, richiede di essere provato secondo i principi generali che regolano le conseguenze del fatto illecito ex art. 2043 c.c., solo tale dimostrazione consentendo al giudice di passare alla liquidazione del danno, eventualmente facendo ricorso all'equità. La Suprema Corte ha anche di recente ribadito il principio affermando che "l'accertamento di concreti fatte materiali di concorrenza sleale comporta una presunzione di colpa, ex art. 2600 c.c., che onera l'autore degli stessi della dimostrazione dell'assenza dell'elemento soggettivo ai fini dell'esclusione della sua responsabilità; il corrispondente danno cagionato, invece, non é in re ipsa" ma, quale conseguenza diversa ed ulteriore rispetto alla distorsione delle regole della concorrenza, necessita di prova secondo i principi generali che regolano il risarcimento da fatto illecito, sicché solo la dimostrazione della sua esistenza consente l'utilizzo del criterio equitativo per la relativa liquidazione" (Cass. n. 25921/12015). Nel caso concreto il danno - conseguenza non può ritenersi validamente dimostrato, in difetto di qualsivoglia allegazione in ordine: a) al corrispettivo pattuito con i clienti asseritamente passati a (...); b) al loro stesso passaggio alla ditta convenuta c) e che detto passaggio fosse stato determinato non da una libera scelta, ma dalla segnalazione illecita del convenuto. Infine, parte attrice ha omesso di allegare circostanze indispensabili per pervenire a una ipotetica quantificazione del danno, limitandosi a fare riferimento alla perdita di 42 clienti che, teoricamente, sarebbero rimasti clienti della ditta Nobili per un ulteriore decennio, senza fornire alcun ulteriore plausibile criterio di calcolo. Nell'ottica di una quantificazione del danno, sia pure approssimativa e da effettuare in via equitativa, parte attrice avrebbe dovuto quantomeno allegare e provare la propria struttura dei costi e i margini usuali per la fornitura di servizi simili, producendo in giudizio dati analitici di contabilità, dai quali dedurre l'utile astrattamente ricavabile dal seguito del rapporto con i clienti asseritamente sottratti. Per i motivi esposti, deve rigettarsi la domanda risarcitoria ex art. 2598 n. 3 c.p.c.. 5. Spese di lite Le spese seguono la soccombenza e sono quindi poste a carico di parte attrice e liquidate in dispositivo, sulla scorta del D.M. 55/14, tenuto conto del valore della controversia e dell'attività espletata. P.Q.M. Il Tribunale di Lodi, definitivamente pronunciando, disattesa ogni altra istanza, eccezione o deduzione, così decide: 1) rigetta la domanda di parte attrice; 2) condanna (...) alla rifusione delle spese di lite in favore di controparte, che liquida Euro 8.637,50 per compensi, oltre rimborso spese generali al 15%, IVA e CPA sugli importi imponibili. Così deciso in Lodi il 6 aprile 2022. Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2022.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI LODI Il Tribunale, nella persona del Giudice dott.ssa Giulia Isadora Loi ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. (...) promossa da: (...), con il patrocinio dell'avv. AB.DA. OPPONENTE contro (...) OPPOSTA RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE Per quanto riguarda il completo svolgimento del processo, ai sensi del vigente art. 132 c.p.c., si fa rinvio agli atti delle parti e ai verbali di causa. 1. Oggetto della presente causa è l'opposizione proposta da (...) avverso il decreto ingiuntivo n. (...) del 1.3.2018, con il quale il Tribunale di Lodi ha ingiunto alla predetta società il pagamento di Euro 2.629.734,48, oltre interessi e spese, a favore di Banca (...) pagamento dovuto a seguito del passaggio a sofferenze del conto corrente n. (...) in relazione al quale in data 27.4.2005 (...) aveva sottoscritto con l'istituto di credito un contratto di apertura di credito in conto corrente, assistito da garanzia ipotecaria. 2. Innanzitutto, occorre dare atto che parte opponente, con la memoria ex art. 183 co. 6 n. 1 c.p.c., ha parzialmente modificato le domande formulate con l'atto di citazione, domandando - in luogo della mera revoca del decreto ingiuntivo - l'accertamento della nullità del contratto di conto corrente n. (...) delle clausole contenute nel contratto di apertura di conto corrente, nonché degli addebiti e delle operazioni effettuate. 2.1 Al fine di verificare l'ammissibilità delle domande di parte opponente così come modificate con la prima memoria ex art. 183 co. 6 c.p.c., occorre richiamare la sentenza n. 22404/2018 con cui la Suprema Corte, a Sezioni Unite, risolvendo una vexata questio, ha delineato in modo chiaro i confini tra mutatio ed emendatio libelli. La Corte di legittimità, infatti, mutando il proprio orientamento in tema di modifica della domanda e pur mantenendo fermo il divieto di nova in corso di lite, ha ampliato notevolmente il diametro dello ius variandi, proponendo un'impostazione più elastica, incentrata sull'intera vicenda sostanziale intercorsa tra le parti. Più in particolare, la Corte di Cassazione, pur riconoscendo che si ha mutamento della domanda quando variano il petitum e/o la causa petendi, ha ammesso la proposizione della domanda nuova con la memoria ex art. 183 co. 6 n. 1, c.p.c. quand'essa sia inerente alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, oppure sia connessa a quella in origine proposta, ovvero non comporti la compressione del diritto di difesa avversario o un allungamento eccessivo dei tempi processuali. Tale principio è stato ripreso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 32146 del 2018: "Esorbita dai limiti di una consentita "emendatio libelli" il mutamento della "causa petendi" che consista in una vera e propria modifica dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, tale da introdurre nel processo un tema di indagine e di decisione nuovo perché fondato su presupposti diversi da quelli prospettati nell'atto introduttivo del giudizio, così da porre in essere una pretesa diversa da quella precedente". 2.2 Facendo applicazione di tali principi al caso in esame, appare evidente che la modificazione operata da parte opponente non costituisce una mutatio libelli non consentita. Ed infatti, la domanda, integrata parzialmente nel petitum, oltre che nella causa petendi, ha alla base gli stessi fatti costitutivi dei quali viene data una diversa qualificazione giuridica (Cass. civ. n. 18235 del 2008). 3. Venendo al merito, si precisa che la questione dell'effettiva sussistenza ed adeguata prova del credito vantato dalla banca a titolo di saldo debitorio del contratto di conto corrente n. (...) del tutto preordinata rispetto alle ulteriori e plurime doglianze nel merito proposte dalla società opponente. 3.1 Come noto nel processo civile vale il noto brocardo onus probandi incumbit ei qui dicit. Tale principio è sancito - con assoluta chiarezza - dall'art. 2697 c.c., ove si afferma che "chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono fondamento", mentre "chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda". La norma in esame distribuisce tra le parti le conseguenze negative che derivano dalla mancata prova dei fatti: sarà soccombente la parte che non ha fornito la dimostrazione dei fatti che aveva l'onere di provare. Ciò posto, occorre ricordare che ai fini della ripartizione dell'onere della prova è sempre necessario tener presente chi ha intrapreso l'iniziativa giudiziaria, essendo evidente che, a seconda che l'iniziativa giudiziaria venga presa dalla banca (proponendo un'azione di recupero credito) o dal cliente (proponendo un'azione di ripetizione di indebito), l'onere della prova sarà destinato a ripartirsi in maniera diversa tra le parti. Quando, infatti, è la banca ad agire in giudizio per domandare il pagamento delle somme che le sono dovute, l'onere di dimostrare la fondatezza delle proprie pretese, tramite la produzione tanto del contratto quanto dell'integralità degli estratti conto, grava sull'istituto di credito, mentre a soluzione opposta si deve pervenire nel caso in cui sia il correntista ad agire per ottenere l'accertamento delle somme indebitamente riscosse dalla banca. Per quanto qui specificamente interessa, l'onere probatorio incombente sulla banca vale anche nel caso in cui la banca agisca in qualità di attrice in sede monitoria. Sul punto, infatti, la giurisprudenza di Cassazione ha affermato che "nei rapporti bancari in conto corrente, la banca non può sottrarsi all'onere di provare il proprio credito invocando l'insussistenza dell'obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni dalla data dell'ultima registrazione, in quanto tale obbligo volto ad assicurare una più penetrante tutela dei terzi estranei all'attività imprenditoriale non può sollevarla dall'onere della prova piena del credito vantato anche per il periodo ulteriore" (Cass. civ. n. 1842 del 2011). Tale onere probatorio - come anticipato - va assolto mediante la produzione del contratto di conto corrente e degli estratti conto relativi a tutto il rapporto contrattuale per cui è causa, atteso che soltanto la produzione del contratto, unitamente all'intera sequenza degli estratti conto ordinari, consente di ricostruire in maniera puntuale il rapporto intercorso tra le parti e, quindi, di verificare, ad esempio, la pattuizione e la concreta applicazione di interessi anatocistici e/o usurari e la loro eventuale illegittimità (cfr. Cass. civ. 12845 del 2018; Trib. Bari n. 2855 del 5.7.2018; Trib. Roma n. 18496 del 2.10.2017). Appare pertanto evidente che la certificazione ex art. 50 TUB rappresenta un privilegio probatorio di cui la banca può valersi solo in sede monitoria. Infatti, una volta instaurata la fase di merito con l'opposizione a decreto ingiuntivo, incombe sulla banca, attrice in senso sostanziale, l'onere di provare rigorosamente il credito vantato in sede monitoria, producendo in giudizio tutti gli estratti conto integrali dalla data di inizio del rapporto alla chiusura dello stesso, al fine di fornire giustificazione del saldo come dalla stessa calcolato. Il saldo finale, infatti, deve essere determinato sulla base degli estratti conto a partire dall'apertura del medesimo, così effettuandosi l'integrale ricostruzione del dare e dell'avere, "sulla base di dati contabili certi in ordine alle operazioni ivi registrate, inutilizzabili, invece, rivelandosi, a tal fine, criteri presuntivi od approssimativi" (cfr. Cass. civ. n. 20693 del 2016, nonché più di recente sul punto anche Cass. civ. n. 1 1543 del 2019 e Cass. civ. n. 1077 del 2021). A quest'ultimo riguardo occorre rammentare che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte (cfr. Cass. civ. 21466 del 2013), nei rapporti bancari in conto corrente la mancata produzione degli estratti conto dalla data di insorgenza del rapporto (anche se risalente ad oltre un decennio anteriore, atteso che non si può confondere l'onere di conservazione della documentazione contabile ex art. 2220 c.c. con quello di prova del proprio credito), impedendo di verificare la giustificazione contabile del saldo richiesto e di depurarlo dagli interessi ultralegali ed anatocistici e dalle commissioni di massimo scoperto, non dovuti, deve imporre il rigetto della domanda. Tale principio è stato di recente ribadito dalla Suprema Corte la quale ha affermato che "qualora una banca intenda far valere un credito derivante da un rapporto di conto corrente deve provare l'andamento dello stesso per l'intera durata del suo svolgimento, dall'inizio del rapporto e senza interruzioni" (cfr. Cass. n. 23856 del 3.09.2021). In definitiva, in caso di mancata integrale e continuativa produzione degli estratti conto dalla data di insorgenza del rapporto contrattuale alla chiusura dello stesso, la domanda di pagamento formulata originariamente dalla banca in sede monitoria deve essere rigettata, non potendosi verificare la giustificazione contabile del saldo richiesto e depurarlo dagli interessi e dagli altri addebiti illegittimi eventualmente posti in essere. 3.2 Nel caso in esame, la Banca (...) (attrice in senso sostanziale) ha prodotto solo il contratto di apertura di credito in conto corrente e gli estratti conto relativi al periodo 30.11.2016 -12.12.2017 (cfr. doc. 3 fascicolo monitorio). La omessa (pressoché totale) produzione degli estratti conto da parte della banca impedisce di verificare la correttezza del saldo richiesto, così come risultante dalla certificazione ex art. 50 TUB. Tale carenza non è superabile neppure facendo riferimento agli estratti conto relativi al periodo 2012 -2017 allegati dall'opponente alla citazione (doc. 10-15 parte opponente). Dall'esame degli estratti conto allegati, infatti, emerge già alla data del 31.12.2011 l'esistenza di un importo a debito per Euro 2.456.1 16,35; somma di cui non è possibile verificare la giustificazione contabile, mancando gli estratti conto relativi al periodo 2005-2012. 3.3 In accoglimento dell'opposizione pertanto deve essere revocato il decreto ingiuntivo n. (...) del 1.3.2018. 4. Quanto alla domanda di ripetizione delle somme illegittimamente addebitate, formulata da parte opponente, la stessa deve essere rigettata, non avendo parte opponente provato la corresponsione delle somme non dovute. Ed infatti, in caso di indebito oggettivo, l'inesistenza della causa debendi, unitamente all'avvenuto pagamento e al collegamento causale, sono elementi costitutivi della domanda ex art. 2033 c.c., la cui prova - come visto - incombe sulla parte che domanda la ripetizione delle somme illegittimamente addebitate. Prova che anche in questo caso avrebbe dovuto essere data mediante l'allegazione completa degli estratti conto. 5. Analogamente deve concludersi con riguardo alla domanda risarcitoria avanzata da parte opponente, non avendo (...) né specificamente allegato né tanto meno provato i danni subiti a causa della condotta di (...). Tale carenza probatoria, incidendo sull'ai del risarcimento, non può essere superata neanche attraverso il potere del giudice di determinarne il quantum in via equitativa, posto che "L'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli arti. 1226 e 2056 cod. civ., espressione del più generale potere di cui all'art. 115 cod. proc. civ., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, presuppone che sia provala l'esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare; non è possibile, invece, in tal modo surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza" (Cass. n. 10607 del 2010). 6. Le spese di lite, liquidate come da dispositivo, in base al disposto normativo di cui all'art. 91 c.p.c., seguono la soccombenza. Atteso, tuttavia, il parziale rigetto quantitativo delle domande di parte opponente, le spese processuali vanno compensate nella misura di 1/3 tra opponente e opposto e poste per la restante quota a carico di quest'ultimo, con distrazione delle stesse a favore del procuratore di parte opponente, dichiaratosi antistatario. Omissis P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, disattesa ogni altra istanza eccezione e deduzione, così dispone: - in accoglimento della opposizione proposta da revoca il decreto ingiuntivo n. (...) del 1.3.2018; - rigetta ogni altra domanda, anche istruttoria, delle parti; - compensa per 1/3 le spese di lite tra parte opponente e parte opposta e condanna Banca (...) al pagamento di restanti 2/3 delle spese di lite a favore di (...) che si liquidano per l'intero (100%) in complessivi Euro 870,00 per spese ed Euro 12.000,00 per compensi, oltre iva, epa e 15% spese forfettarie; con distrazione delle stesse a favore del procuratore di parte attrice, dichiaratosi antistatario. Così deciso in Lodi l'11 marzo 2022. Depositata in Cancelleria il 21 marzo 2022.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI LODI Il Giudice unico in persona della dott.ssa Maria Teresa Latella ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di II Grado iscritta al n.688/2020. avente per oggetto: accertamento della proprietà e usucapione promossa da: Condominio (...) viale R. 38 ( CF (...)) Con l'avv A.Ma. PARTE ATTRICE contro (...) ( CF (...)) Con l'avv. P.Er. e C.Ro. PARTE CONVENUTA MOTIVI IN FATTO E DIRITTO Con citazione del 18.11.2019 il Condominio (...) conveniva in giudizio la sig. (...) chiedendo di accertare in proprio favore la proprietà della cantina identificata al Ct al F.(...), p.lla (...) sub (...) occupata abusivamente dalla convenuta almeno dal 2005. Ne chiedeva pertanto il rilascio con condanna ad un'indennità di occupazione pari ad Euro 7000,00 Si è costituita la (...) con comparsa del 2.3.2020 in primo luogo provvedendo direttamente all'iscrizione a ruolo del giudizio, quindi eccependo nel merito di aver acquistato, in forza di usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c., o comunque di usucapione ventennale (per addizione nel possesso del proprio dante causa (...)) almeno dal 1979 la cantina medesima . Alla luce della richiesta riconvenzionale di accertamento dell'usucapione di un bene condominiale chiedeva di essere autorizzata ad integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i condomini, effettuando la notifica per pubblici proclami atteso il numero elevato degli stessi. Il giudice con Provv. 6 aprile 2021 autorizzava la chiamata e la notifica mediante pubblici proclami Quindi con comparsa del 1.10.2020 il Condominio si costituiva con nuovo difensore espressamente dichiarando di provvedere in tale sede alla precisazione e modificazione delle domande consentite in prima udienza. Dunque con la comparsa rinunciava espressamente alla domanda principale di accertamento della proprietà ed insisteva invece nella domanda di rilascio e pagamento dell'indennità, così come autorizzato nell'assemblea del 22.9.2020 In particolare, opponendosi sotto un profilo processuale all'istanza di chiamata e comunque alla notifica per pubblici proclami ( di cui sarebbero difettati i presupposti), sosteneva nel merito che l'occupazione da parte della (...), così come quella del suo dante causa, non poteva ritenersi utile all'usucapione ( né in tale senso potevano leggersi alcuni atti e comunicazioni indicate dalla (...) ). Disposto lo scambio di memorie istruttorie, all'udienza di discussione parte attrice chiedeva ordinarsi l'esibizione dell'anagrafe condominiale ai fini della notifica ex art. 150, parte convenuta insisteva nell'eccezione di difetto di jus postulandi di parte attrice e chiedeva la remissione in decisione solo in subordine insistendo nelle prove orali. Parte attrice aderiva chiedendo la remissione in decisione su tutte le questioni. Deve preliminarmente decidersi in ordine alle questioni di validità della notifica dell'atto di chiamata in causa dei condomini, chiamata giustificata, come correttamente osservato da parte convenuta, dalla necessita di integrazione del contraddittorio legata alla richiesta di accertamento dell'usucapione di un bene condominiale (Cfr. Cass. 15.1.2019 n.848), domanda quest'ultima a sua volta legittimamente avanzata da parte convenuta. E' pacifico in giurisprudenza che il difetto dei presupposti per l'autorizzazione alla notifica ex art. 150 c.p.c. costituisce causa di inesistenza della notifica rilevabile in ogni stato e grado del procedimento (Cfr. ex multis Cass. 27520 del 19.12. 2011); ed altresì che il giudice del merito che ha autorizzato tale modalità può rivalutare la sussistenza di tali presupposti non essendovi in caso contrario strumento per un'impugnazione immediata del relativo decreto Si rammenta poi che la mancata specificazione delle generalità dei destinatari comporta l'inesistenza dell'atto, e della relativa vocatio in ius ,tutte le volte in cui tale tipo di notifica sia reso necessario da difficoltà nell'elevato numero dei destinatari, ma non anche quando essa sia conseguente a difficoltà nella identificazione stessa di tutti i possibili destinatari (Cfr. Cass. n. 6507 del 3.7.1998 e successive conformi) Dunque nel caso di specie parte attrice - pur dopo aver sottolineato la inammissibilità, ma anche la non opportunità sotto un profilo di spese processuali - della chiamata in causa di oltre cento condomini , ne ha evidenziato la nullità per mancata identificazione dei destinatari in quanto comunque identificabili , e successivamente all'autorizzazione giudiziale, ha prodotto il registro dell' anagrafe condominiale. Va detto in proposito che alla notifica ex art. 150 c.p.c. si è proceduto anteriormente alla nuova costituzione in giudizio del Condominio . E tuttavia un ordine di esibizione dell'anagrafe condominiale ,o comunque l'acquisizione delle relative visure catastali, avrebbe consentito a parte convenuta- con l'esercizio della normale diligenza , l'identificazione dei condomini. E dunque sotto tale profilo la notifica deve ritenersi nulla per mancata indicazione dei nominativi degli stessi. Tuttavia non può che convenirsi sulla sussistenza del diverso presupposto dell'esistenza di un numero elevato di contraddittori- come ammette anche parte attrice - tale da giustificare le forme ex art. 150 c.p.c., così che sotto tale altro profilo andrà nuovamente disposta la notifica con la regressione del giudizio in tale fase. Si osserva a questo punto che deve fin d'ora procedersi a valutazione - ex officio - circa un'ulteriore questione di nullità emersa, e cioè quella della modifica della domanda effettuata da parte attrice con la comparsa di intervento di nuovo difensore del 1.10.2020 Con l'originario atto introduttivo del 18.11.2019 era stata infatti introdotta, sia pure ai soli fini della interruzione della prescrizione, una domanda "reale" di accertamento della proprietà ( e conseguente indebita occupazione della convenuta) da ricondursi all'ipotesi ex art. 948 c.c.. Con la comparsa in parola - e la "rinuncia"alla domanda di accertamento della proprietà - è stata introdotta ( modificata in ) un'azione personale di restituzione. La Corte di Cassazione con una non lontana pronuncia a sezioni ( Cass.sez.unite 28.3.2014 n.7305) è intervenuta nei difficili intrecci tra le due azioni pronunciandosi sulla questione - per quanto è in questa sede di interesse-, se l'azione esercitata nei confronti di chi non accampa alcun titolo a giustificazione della materiale disponibilità del bene oggetto della controversia ( il possessore/detentore sine titulo) debba inquadrarsi nell'una o nell'altra categoria. "...l'azione di restituzione- afferma la Corte - è destinata ad ottenere l'adempimento dell'obbligazione di ritrasferire una cosa che è stata in precedenza volontariamente trasmessa dall'attore al convenuto in forza di negozi quali la locazione, il comodato il deposito e così via, che non presuppongono necessariamente nel tradens la qualità di proprietario. Essa non può pertanto surrogare l'azione di rivendicazione , con elusione del relativo onere probatorio quando la condanna al rilascio o alla consegna venga chiesta nei confronti di chi dispone di fatto del bene nell'assenza anche originaria di ogni titolo In questo caso la domanda è tipicamente di rivendicazione poiché il suo fondamento risiede non in un rapporto obbligatorio personale inter partes ma nel diritto di proprietà tutelato erga omnes". Ciò premesso - chiosa poi la corte - spetta al giudice correttamente inquadrare, sulla base dei fatti dedotti, la qualificazione giuridica dell'azione promossa nell'una o nell'altra categoria con le relative conseguenze in tema di prescrizione e prova. Parte attrice qualifica il rapporto, a pag.2 di detta comparsa, quale " scambio di utilizzi delle due cantine (quella oggetto del giudizio e quella del custode) da parte del Condominio e del M., nel cui possesso o detenzione sarebbe subentrata la (...): rapporto che , secondo la prospettazione di parte attrice, pare meglio qualificarsi alla stregua di un comodato. Ne deriva la nullità dell'"emendatio" effettuata - con la totale modifica del fatto costitutivo sotteso alla originaria domanda (Cfr. sul punto da ultimo Cass. sez. lavoro 15.1.2019 n.834 e Cass. 16.2.2021 n. 4031)- nullità sulla quale dovrà essere provocato il contraddittorio tra le parti nel proseguio del giudizio. Tutte le altre questioni, processuali circa la procura, e di merito potranno essere valutate e decise all'esito dell'ulteriore corso. P.Q.M. Non definitivamente pronunciando, dichiara la nullità della notifica ex art. 150 c.p.c. rimette la causa in istruttoria sulle ulteriori questioni come da separato provvedimento. Così deciso in Lodi il 24 gennaio 2022. Depositata in Cancelleria il 27 gennaio 2022.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI LODI Sezione Civile In funzione di giudice unico nella persona del dott.ssa Luisa Dalla Via ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al numero di ruolo sopra riportato, promossa da: (...) (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. SC.CR., elettivamente domiciliato in via (...), Lodi, presso il difensore - attore - CONTRO COMUNE DI SECUGNAGO (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. PI.MI., elettivamente domiciliato in Via (...), Milano presso il difensore - convenuto - E CONTRO AGENZIA DI TUTELA DELLA SALUTE DELLA CITTA' METROPOLITANA DI MILANO C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. VI.PA., elettivamente domiciliato in Piazza (...), Milano, presso il difensore - convenuta - E NEI CONFRONTI DI XL INSURANCE COMPANY SE (C.F. (...)) con l'avv. Me.Tr., elettivamente domiciliato in via (...), Milano, presso il difensore - terza chiamata - CONCISE RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Per quanto riguarda il completo svolgimento del processo, ai sensi dell'art. 132 co. 2 n. 4 c.p.c., si fa rinvio agli atti delle parti e ai verbali di causa. 2. Oggetto del giudizio Con atto di citazione regolarmente notificato il sig. (...) adiva questo Tribunale per chiedere la condanna del Comune di Secugnago e dell'(...), esponendo che in data 13/03/2016, verso le ore 14,00, mentre si trovava sul retro della propria abitazione sita in Secugnago (LO) via Della Stazione n. 4, in compagnia del sig. (...), veniva avvicinato da un cane meticcio di grossa taglia e di colore scuro che, libero ed incustodito, senza museruola e/o guinzaglio, gli si scagliava addosso azzannandolo alla mano sinistra e strattonandolo con forza. Le urla di dolore del sig. (...) e quelle di paura del sig. (...) mettevano in fuga l'animale, che si allontanava nella campagna adiacente. Il sig. (...) veniva quindi soccorso nell'immediatezza dalla vicina di casa, sig.ra (...), per poi essere trasportato, presso il Pronto Soccorso dell'Ospedale di Codogno, dove gli veniva riscontrata "frattura esposta pluriframmentaria 1 falange mignolo sin" con ""parziale amputazione falange prossimale V dito mano sx". L'attore, atteso che nonostante rituali diffide, nessuno dei convenuti aveva inteso risarcire i danni, ne chiedeva la condanna al risarcimento di tali danni, che venivano quantificati in complessivi Euro 12.370,00, oltre a rivalutazione monetaria dall'evento al saldo (di cui: Euro 6.983,00 per danno biologico permanente oltre ad Euro 2.327,67 per danno morale su biologico permanente; Euro 2.711,25 per danno biologico temporaneo oltre ad Euro 903,75 per danno morale su biologico temporaneo), sull'assunto che fossero stati provocati dall'omesso controllo e vigilanza sul randagismo da parte degli enti convenuti. Si costituivano ritualmente i convenuti, insistendo ciascuno per il rigetto della domanda come sopra proposta. In particolare, il Comune di Secugnago chiedeva che il rigetto della domanda di parte attrice, sia perché non vi era prova del fatto storico, sia perchè era carente altresì la prova del nesso causale tra il preteso sinistro e gli asseriti danni patiti dall'attore, sia infine perché alcun profilo di colpa era ravvisabile nella specie in capo al Comune, in mancanza di segnalazioni pervenute allo stesso prima del lamentato sinistro. In ogni caso, nella denegata ipotesi di accoglimento della domanda attorea, il Comune domandava che fosse accertata la concorrente responsabilità di (...), in applicazione della normativa di settore, e chiedeva ed otteneva di essere autorizzato a chiamare in causa la compagnia di assicurazioni (...), per essere da questa manlevata in caso di condanna, come da polizza assicurativa n. (...). La convenuta (...) eccepiva preliminarmente la propria carenza di legittimazione passiva, ritenendo che fosse da ritenersi legittimato passivamente il solo Comune di Secugnago, giusta la normativa di settore applicabile al caso di specie; nel merito, chiedeva il rigetto della domanda, atteso che era da ritenersi altresì del tutto carente la prova della colpa della stessa ATS, che, in mancanza di segnalazioni da parte del Comune, ente deputato al controllo del territorio ai fini della prevenzione del randagismo, mai avrebbe potuto intervenire per evitare il sinistro. Si è costituita altresì (...) chiedendo il rigetto della domanda attorea, aderendo nel merito alle domande formulate dal Comune di Secugnago ed eccependo altresì l'inoperatività nel caso di specie della copertura assicurativa di cui alla polizza n. (...). È stata svolta istruttoria orale, nella quale sono stati sentiti i testi: (...), (...) e (...). In seguito è stata disposta CTU medico legale sul sig. (...). Tanto premesso quanto ai fatti per cui è causa, in punto di diritto, preliminarmente, occorre osservare che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, il giudice, nel motivare concisamente la decisione ai sensi del combinato disposto degli artt. 132 c.pc. e 118 disp. att. c.p.c., non è tenuto ad esaminare specificamente ed analiticamente tutte le questioni sollevate dalle parti, ben potendosi limitare alla trattazione delle sole questioni - di fatto e di diritto - rilevanti ai fini della decisione concretamente adottata e che in effetti quelle restanti, non trattate, non andranno necessariamente ritenute come omesse, per effetto di error in procedendo, ben potendo esse risultare semplicemente assorbite (ovvero superate) per incompatibilità logico-giuridica con quanto concretamente ritenuto provato dal giudicante. Pertanto, non saranno prese in esame le questioni non rilevanti ai fini della decisione. Neppure saranno trattate, inoltre, le questioni non contestate, e art. 115 c.p.c. (cfr. Cass. n. 21460 del 19/08/19). 3. In via preliminare sulla legittimazione passiva di (...) In via preliminare, va rigettata l'eccezione relativa al presunto difetto di legittimazione passiva così come ritualmente sollevata da (...). Ed infatti, va innanzitutto precisato che la legittimazione ad agire e a contraddire (cd legitimatio ad causam) costituisce una condizione dell'azione, necessaria per ottenere dal giudice una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della prospettazione compiuta dalla parte con riferimento al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, indipendentemente dalla effettiva titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva (in altri termini, il controllo del giudice si risolve nell'accertare se, secondo la prospettazione del rapporto controverso data dall'attore, questi ed il convenuto assumano, rispettivamente, la veste di soggetto che ha il potere di chiedere la pronunzia giurisdizionale e di soggetto tenuto a subirla, con la conseguenza che qualora da tale controllo risulti che già secondo la prospettazione dell'attore, quest'ultimo, ovvero il convenuto non possano identificarsi col soggetto rispettivamente avente diritto o tenuto a subire la pronunzia giurisdizionale, il giudice deve rigettare la domanda rispettivamente per difetto di legittimazione attiva o passiva). Di contro, ogni eccezione del convenuto relativa alla titolarità attiva o passiva del diritto fatto valere non può dar luogo, invece, ad una pronunzia in rito sulla legittimazione, ma ad una decisione sul merito del rapporto controverso. Pertanto, avendo (...) sollevato il difetto di titolarità, in capo a sè, del rapporto giuridico controverso (per essere i controlli oggetto di contestazione demandati ad altro soggetto - i.e. il Comune di Secugnago), ne consegue che la questione non può dar luogo ad una pronuncia di rito sulla legittimazione bensì, piuttosto, ad una decisione nel merito. Nel caso di specie, le questioni oggetto del presente giudizio trovano la propria fonte di regolamentazione primaria nella Legge 14.08.1991, n. 281, recante "legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo", che agli artt. 2 comma 2, 3, comma 2, e 4 commi 1 e 2, delinea la competenza dei Comuni nella costruzione, sistemazione, gestione dei canili comunali e dei rifugi per cani. L'art. 2 commi 1, 3, 6, 8 e 10 delinea poi gli incombenti gravanti sui servizi sanitari della ASL (USL o AUSL dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 502 del 1992). Ciò posto, va rilevato che in merito alla legittimazione passiva nell'azione di risarcimento del danno provocato da cani randagi - materia regolata nell'ambito della legge quadro 14 agosto 1991 n. 28 da leggi regionali - si registrano nella giurisprudenza di legittimità due contrapposti orientamenti. In particolare, secondo alcune pronunce è necessario verificare le concrete prescrizioni della disciplina regionale in relazione ai compiti di prevenzione attribuiti, rispettivamente al Comune e alla ASL, con la conseguenza che l'ente titolare di detti doveri sarà da ritenersi ritenuto responsabile per l'omissione degli stessi (Cass. n. 17060/2018, Cass. n. 9671/2020, Tribunale Roma n. 11351/2020). Secondo altro orientamento, che questo giudicante ritiene di condividere, in via generale va sempre affermata la responsabilità solidale di entrambi gli enti, sul presupposto che se da un lato è innegabile che l'ente sanitario è il più immediatamente coinvolto nel contenimento del fenomeno del randagismo, per i compiti specifici relativi alla cattura degli animali randagi ad esso assegnati dalla normativa di settore, d'altra parte il Comune è gravato da rilevanti obblighi di controllo e di vigilanza del territorio (cfr. Cass. 23 agosto 2011, n. 17528, Tribunale Brindisi n. 1011/2020, Tribunale Bari n. 2456/2020). Tanto premesso in termini generali quanto alla responsabilità dei soggetti coinvolti nella gestione del fenomeno del randagismo, con riferimento al caso che ci occupa, come noto, la Regione Lombardia ha regolato la materia con la Legge Regionale n. 33/2009 e con Regolamento regionale n. 2/2017. La predetta legge regionale ha affidato la competenza della vigilanza e del controllo del randagismo, con accalappiamento e trasferimento degli animali randagi nei canili pubblici, ai servizi veterinari dell'ASL, mentre ha riservato ai Comuni, per quanto qui rileva, l'obbligo di predisporre le strutture di ricovero (canili sanitari e canili rifugio) nei quali ospitare i cani catturati, e quello di risanare le strutture esistenti. Il Regolamento regionale n. 2/2017, all'art. 20 prevede poi che l'ente sanitario (ATS) "assicura, direttamente o tramite apposita convenzione, l'attività di accalappiamento dei cani vaganti, organizzandola d'intesa con i comuni". La norma prevede altresì che "... chiunque rinvenga un cane vagante è tenuto a darne pronta comunicazione al comune in cui è avvenuto il rinvenimento, tramite la polizia locale, o al dipartimento veterinario dell'ATS, fornendo le indicazioni necessarie al suo ritiro o consegnandolo al canile sanitario ...". Da quanto precede, consegue che anche l'ente sanitario, oltre al singolo Comune, è in astratto chiamato a rispondere dei danni derivanti dalle condotte degli animali randagi. Peraltro, anche volendo aderire all'orientamento che attribuisce la responsabilità all'uno o all'altro ente in base alla concreta ripartizione delle competenze in materia operata dalla legislazione regionale, si ritiene che, nel caso di specie, ai sensi dell'art. 107 della legge della Regione Lombardia n. 33/2009 sulla "Tutela degli animali di affezione e prevenzione del randagismo", la responsabilità per i danni provocati da cani randagi non possa comunque essere ascritta, in via esclusiva, alla sola ATS o al solo Comune. L'esame della normativa, anche secondaria, consente infatti, di delineare un quadro regolamentare che assegna ad entrambi gli enti specifici compiti nella prevenzione e nella gestione del randagismo. E ciò in quanto il comma 6 dell'art. 107, nel delineare le competenze dell'ATS, dispone che la stessa "garantisce le funzioni e le attività sanitarie sul proprio territorio, in particolare: a) la gestione dell'anagrafe degli animali d'affezione; b) l'organizzazione dell'attività di accalappiamento dei cani vaganti, nonché di raccolta dei gatti che vivono in libertà ai fini della loro sterilizzazione e di ricovero sanitario; c) il censimento delle zone in cui esistono colonie feline; d) gli interventi di controllo demografico della popolazione canina e felina; e) l'attività di vigilanza, di prevenzione e di accertamento; f) gli interventi di pronto soccorso finalizzati alla stabilizzazione di cani vaganti o di gatti che vivono in libertà, ritrovati feriti o gravemente malati e il ricovero sanitario per l'esecuzione degli interventi di profilassi, diagnosi e terapia sui cani vaganti e sui gatti che vivono in libertà". Quanto alle competenze comunali, il comma 12, prevede che "Ai comuni, singoli o associati, e alle comunità montane competono: a) la predisposizione delle strutture di ricovero destinate alla funzione di canile sanitario e di canile rifugio, acquisendone la disponibilità nelle forme ritenute più opportune; le strutture destinate alla funzione di canile sanitario sono messe a disposizione delle ATS competenti in comodato d'uso; b) il servizio di ricovero di animali d'affezione catturati o raccolti; c) l'attività di vigilanza, di prevenzione e accertamento delle infrazioni previste dal presente capo, effettuata dal corpo di polizia locale; d) la realizzazione di campagne informative sugli obiettivi del presente capo e sulle modalità di attuazione, anche avvalendosi degli uffici tutela animali, ove istituiti, e della collaborazione delle associazioni di cui all'articolo 111 e dei medici veterinari; e) la predisposizione di sportelli per l'anagrafe degli animali d'affezione;f) la collaborazione con le ATS per la gestione dell'anagrafe degli animali d'affezione; g) la stipula di convenzioni o accordi di collaborazione, di intesa con le ATS, con i privati e le associazioni per la gestione delle colonie feline". Alla luce di quanto precede, non può pertanto prioritariamente escludersi la responsabilità dell'uno o dell'altro ente con riguardo ai danni derivanti dalle condotte di animali selvatici. 4. Sulla responsabilità dei convenuti per il sinistro di cui è causa. Chiarita la responsabilità solidale - in astratto - degli enti convenuti, va ora determinato se detta responsabilità sia in concreto ascrivibile al Comune di Secugnago e all'(...) nel caso di specie. In particolare, premesso che risulta provato che l'animale che ha provocato il sinistro era un cane vagante e randagio (circostanza confermata dal teste (...)), risulta altresì provato che questi abbia aggredito il sig. (...). La dinamica del sinistro è stata, infatti, confermata dal teste Francesco (...), del tutto indifferente ai fatti di causa, che ha puntualmente riferito quanto accaduto il giorno 13/03/2016, avendovi assistito personalmente, poiché si trovava in compagnia dell'attore. Allo stesso modo, possono ritenersi provati i danni subiti dal sig. (...) in seguito all'aggressione dell'animale, sulla base della documentazione in atti (verbale di pronto soccorso, doc. 4 attore) della testimonianza resa dalla sig.ra (...), anch'essa indifferente ai fatti di causa, la quale ha prestato soccorso all'attore nell'immediatezza del fatto, nonché delle risultanze della CTU espletata. Premesso quanto sopra, va da ultimo esaminato il profilo relativo alla responsabilità dei convenuti alla luce del riparto dell'onere probatorio, tenuto conto che secondo l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, la responsabilità per il danno cagionato dalla fauna selvatica è riconducibile nell'alveo dell'art. 2043 c.c., in virtù dell'incompatibilità del regime tracciato dall'art.2052 c.c. con il carattere selvatico degli animali in questione. Da ciò consegue che il danneggiato ha l'onere di provare tutti gli elementi costitutivi dell'illecito, ivi compresa la colpa del danneggiante (cfr. tra le pronunce più recenti, Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9276 del 24/04/2014; Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 5722 del 27/02/2019, Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 4004 del 18/02/2020). Nel caso di specie, se, come detto, il fatto storico dell'aggressione dell'animale può dirsi provato, così come la circostanza che le ferite riportate dall'attore siano state conseguenza di detta aggressione, va rilevato che parte attrice non ha fornito la prova di alcuna condotta colposa da parte dei convenuti, necessaria ai fini della configurabilità dell'illecito e dell'imputazione ad essi delle conseguenze dannose del fatto, ai sensi dell'art. 2043 c.c.. Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha precisato, infatti, che ".. ai fini dell'affermazione della responsabilità degli enti evocati in giudizio è necessaria la precisa individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile agli stessi. Ciò implica che non è possibile riconoscere una siffatta responsabilità semplicemente sulla base della individuazione dell'ente cui la normativa nazionale e regionale affida in generale il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi ...". Con specifico riferimento all'onere della prova, la Suprema Corte ha altresì chiarito che: "... Tale onere spetta all'attore danneggiato, in base alle regole generali e consiste nella allegazione e successiva dimostrazione della condotta obbligatoria esigibile dall'ente (nel caso di specie, omessa), e della riconducibilità dell'evento dannoso al mancato adempimento di tale condotta obbligatoria e ciò in base ai principi sulla causalità omissiva. Questo equivale a dire che, applicandosi i principi generali in tema di responsabilità per colpa di cui all'art. 2043 c.c., non è sufficiente - per affermarne la responsabilità in caso di danni provocati da un animale randagio - individuare semplicemente l'ente preposto alla cattura dei randagi ed alla custodia degli stessi, non essendo materialmente esigibile - anche in considerazione della possibilità di spostamento di tali animali - un controllo del territorio così penetrante e diffuso, ed uno svolgimento dell'attività di cattura così puntuale e tempestiva da impedire del tutto che possano comunque trovarsi sul territorio in un determinato momento degli animali randagi. Occorre dunque che sia specificamente allegato e provato dall'attore che, nel caso di specie, la cattura e la custodia dello specifico animale randagio che ha provocato il danno era nella specie possibile ed esigibile, e che l'omissione di tali condotte sia derivata da un comportamento colposo dell'ente preposto (ad esempio perchè vi erano state specifiche segnalazioni della presenza abituale dell'animale in un determinato luogo, rientrante nel territorio di competenza dell'ente preposto, e che ciononostante quest'ultimo non si era adeguatamente attivato per la sua cattura). Diversamente, si finirebbe per applicare ad una fattispecie certamente regolata dai principi generali della responsabilità ordinaria per colpa di cui all'art. 2043 c.c., principi analoghi o addirittura più rigorosi di quelli previsti per le ipotesi di responsabilità oggettiva" (cfr. Cass. 11591/18). Nel caso in esame, manca in atti la specifica allegazione da parte dell'attore che la cattura e custodia dell'animale randagio che ha causato il danno fosse possibile ed esigibile da parte degli enti convenuti, al di là dello loro individuazione quali soggetti preposti al controllo e prevenzione del randagismo nel territorio, e che non sia avvenuta a causa di un loro comportamento - omissivo - colposo. Non risulta neppure allegato, infatti, che il Comune convenuto o l'ATS abbiano omesso di provvedere su una specifica precedente segnalazione dell'animale in questione. Invero, la teste (...), presidente dell'Associazione per la Difesa del Cane (ADICA), alla quale (...) ha appaltato il servizio di cattura degli animali di affezione vacanti nella provincia, sentita su tale aspetto, ha dichiarato di non ricordare di alcuna segnalazione pervenuta circa la presenza di animali randagi, con riferimento al luogo oggetto di causa, nel periodo precedente al fatto. La stessa ha riferito di aver rinvenuto sui registri dell'associazione l'esistenza di una sola segnalazione risalente al giorno 14/03/2016 (ossia il giorno successivo a quello di cui al sinistro per cui è causa, ndr) nel Comune di Segugnago, pervenuta da un dipendente di ATS, in seguito alla quale è stato catturato un" cane meticcio nero focato taglia media maschio sprovvisto di microchip". Tale circostanza, unita alla documentazione versata in atti da parte attrice, da cui risulta che il giorno stesso dell'aggressione il sig. (...) ha denunciato il sinistro alle autorità sanitarie (doc. 6), porta a ritenere che l'ente sanitario, una volta appresa la notizia di un animale vagante nel territorio comunale, si sia prontamente attivato per provocarne la cattura e custodia. Pertanto nessuna responsabilità per colpa può essere mossa all'(...). D'altro canto, con riferimento alla condotta del Comune, in mancanza di prove in merito a precedenti segnalazioni relative alla presenza sul territorio dell'animale in questione, non è possibile configurare alcuna responsabilità a titolo di colpa in capo allo stesso, non essendo possibile ed esigibile che esso si attivasse mediante un controllo diffuso su tutto il territorio volto ad individuare l'eventuale presenza di fauna selvatica, in assenza di alcuna segnalazione. Peraltro, parte attrice non ha provato e neppure dedotto alcuna circostanza di fatto da cui desumere una qualche condotta omissiva o negligente nell'esercizio dei rispettivi compiti di controllo e prevenzione del randagismo addebitabile all'ATS e/o al Comune, che si ponga in nesso causale con l'aggressione da parte dell'animale. Pertanto, il singolo sinistro connesso all'aggressione da parte di un animale non può per ciò solo configurare una responsabilità per i danni da esso derivati. Alla luce di quanto precede, la domanda di parte attrice risulta pertanto infondata e non meritevole di accoglimento, con assorbimento di ogni ulteriore questione e domanda non rilevante ai fini della decisione. 5. Sulle spese In ordine alle spese del giudizio, così come quelle di CTU, stante il carattere controverso della questione dei criteri di imputazione e ripartizione della responsabilità per danni causati da animali randagi, si ritiene di disporne la compensazione integrale tra tutte le parti in causa, ai sensi dell'art. 92 c.p.c. (e cfr. Corte Cost., Sentenza nr. 77 del 19 aprile 2018, nonché Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 4360 del 14/02/2019 e Cass. Sez. L. , Ordinanza n. 21157 del 07/08/2019). Parimenti le spese di CTU, come liquidate in corso di causa, dovranno gravare in pari misura su tutte le parti in lite. P.Q.M. Il Tribunale di Lodi, definitivamente pronunciando, disattesa ogni altra istanza, eccezione o deduzione, così decide: 1) rigetta la domanda di parte attrice in quanto infondata, per le ragioni di cui in motivazione; 2) respinge ogni altra domanda; 3) compensa integralmente le spese di lite tra tutte le parti in causa, altresì disponendo che le spese di CTU, come liquidate in corso di causa, debbano gravare, in pari misura, su tutte le parti in causa. Così deciso in Lodi il 30 settembre 2021. Depositata in Cancelleria il 30 settembre 2021.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI LODI il Giudice, Dr.ssa Maria Teresa Latella ha pronunciato la seguente SENTENZA Nella causa tra (...) srl ( PI (...)) in persona del Presidente (...) Con gli avv.ti Al.Mi. e Ro.Pr. Contro (...) ( CF (...)) (...) ( CF (...)) (...) ( C (...)) Con l'avv. Ma.Ve. del foro di Milano Avente ad oggetto risarcimento danni per inadempimento contrattuale MOTIVI IN FATTO E DIRITTO Con citazione del 27.6.2019 parte attrice citava in giudizio i sig. (...) e (...) deducendo di aver acquistato dai medesimi ,il 10.6.2013 ed attraverso la società di leasing (...) spa, un capannone industriale sito in S. G. M. fraz.di S. U. e che nel 2017, al fine di trovare la causa di alcune infiltrazioni, attraverso un sopralluogo sul tetto, si avvedeva della presenza di amianto, prima non visibile e la cui presenza era stata comunque esclusa contrattualmente. A seguito di perizia di un tecnico di parte la circostanza veniva comunicata ai dante causa ma rimanendo senza esito l'attrice promuoveva ricorso ex art. 696 bis c.p.c. Pur in presenza dell'accertamento giudiziale dei vizi la controparte rimaneva silente per cui era intrapreso l'odierno giudizio con richiesta di accertamento dell'inadempimento contrattuale ex art. 1218 c.c. e condanna al risarcimento pari ad Euro 179.212,69 così come quantificato dal CTU. Si sono costituiti i convenuti affermando che la (...) era stata immessa nel possesso dell'immobile nel dicembre 2012 in forza di un contratto preliminare tra le parti, mentre al contratto 10.6.2013 (...) era estranea avendo dunque promosso il giudizio in mancanza di un titolo per legittimare la domanda dell'attrice. In ogni caso nel contratto 10.6.2013 non figurava alcuna garanzia per l'esclusione di materiali inquinanti ed i convenuti disconoscevano qualunque scrittura privata diversa dal contratto in tal senso Inoltre la perizia acquisita in sede di ATP era stata irritualmente prodotta , irritualmente esperita e comunque doveva ritenersi inopponibile ai convenuti che non vi avevano partecipato. Infine e più in generale sotto il profilo dell'azione esperita rilevavano come vertendosi al più in ipotesi di azione redibitoria non erano stati rispettati i termini per la denuncia dei vizi. Nel corso del giudizio scambiate le memorie ex art. 183 c. VI c.p.c. e ritenuta la causa documentale, all'udienza del 12.5.2021 le parti precisavano le conclusioni e la causa era assunta in decisione. Si premette in diritto che il giudice può e deve qualificare giuridicamente l'azione anche in difformità rispetto alla prospettazione delle parti purché lasci inalterati il petitum e la causa petendi. Incorrerebbe pertanto in vizio di ultrapetizione la decisione che , in presenza di una domanda di risoluzione per vizi della cosa venduta accolga la domanda- sulla base dell'esame di corrispondenza tra le parti - ritenendo la cosa priva delle qualità pattuite per l'uso cui era destinata poiché, a differenza della garanzia per vizi, che ha la finalità di assicurare l'equilibrio contrattuale tra le parti indipendentemente dalla colpa del venditore - l'azione di cui all'art.1497 c.c. rientrando in quella disciplinata in via generale dall'art. 1453, postula che l'inadempimento posto a base della domanda di risoluzione e risarcimento sia imputabile a colpa ed abbia non scarsa importanza tenuto conto dell'interesse della parte non inadempiente. Inoltre poiché nell'ipotesi di mancanza di qualità promesse assume ruolo decisivo la volontà negoziale l'indagine che il giudice deve compiere ha necessariamente ad oggetto un elemento fattuale diverso ed estraneo rispetto alla garanzia per vizi (Cass. n. 10922 del 2005). Quanto alle regole applicabili all'azione ex art. 1497 c.c. pur diversa , come già detto dalla disciplina speciale delle azioni edilizie , si applicano per disposto normativo i termini di decadenza e prescrizione ex art. 1495 c.c.. Si osserva tuttavia quanto al termine prescrizionale di un anno che la prescrizione è interrotta dalla semplice comunicazione al venditore della volontà del compratore di esercitarla, benché questi riservi ad un momento successivo la scelta del tipo di tutela (ex multis Cass. 22903 del 10.11.2015) Infine sotto un profilo processuale ed in ordine alle questioni poste circa l'utilizzo della relazione di ATP prodotta dall'attrice , la relativa acquisizione da parte del giudice non deve necessariamente avvenire attraverso un provvedimento formale, bastando anche la sua materiale acquisizione da parte del giudice e bastando che quel giudice l'abbia poi esaminata traendone elemento per il proprio convincimento e che la parte che lamenti l'irritualità dell'acquisizione e l'impossibilità di esame abbia avuto la possibilità di esaminarla ( Cassa 23693) Ciò premesso e vendendo al caso di specie , quanto alla pregiudiziale di difetto di legittimazione attiva si osserva che effettivamente il sig. (...) interveniva nel contratto 10.6.2013 per conto di (...) (quale utilizzatrice e nominando (...) per l'acquisto dell'immobile da concedere in utilizzo) assumendosi ogni onere nei confronti dei venditori e manlevando (...) quanto agli affetti della vendita (cfr. art. 7) ; approvava inoltre tutte le condizioni fissate in compravendita assumendosi ogni obbligo ed onere "ivi compresi quelli in sede di preliminare e di trattative antecedenti..". Infine "la parte utilizzatrice potrà pertanto rivolgersi direttamente ed autonomamente alla parte venditrice in ogni sede , per qualsiasi reclamo.." Parte attrice, che ha partecipato al contratto 10.6.2013, ha dunque pienamente titolo ad agire nei confronti dei venditori in forza appunto di tale atto ed ogni eccezione in tal senso è infondata. Venendo al merito si legge nel contratto che parte venditrice garantisce "l'immunità da vizi sia del fabbricato che del suolo e sottosuolo su cui insite. Garantisce altresì che non sono presenti fenomeni di inquinamento, abbandono di rifiuti, interramento di sostanze tossiche e/o nocive, o comunque ogni condizione che determini contaminazione dei suoli". Tale garanzia costituisce, ad avviso di chi scrive ed in una lettura che tenga conto dell'intenzione delle parti , promessa di una qualità e cioè l'assenza di fattori inquinanti - tra cui l'amianto è certamente ricomprensibile - , a prescindere come si dirà dallo situazione di aerodispersione o meno: ciò in funzione dei costi (e dell'incidenza sul relativo prezzo) che la gestione di tale elemento comporta. L'azione va dunque qualificata come azione di risarcimento del danno (consentita anche indipendentemente dalla risoluzione come nel più sta il meno) per mancanza di qualità promessa ex art. 1497 c.c.. Sussistono poi le condizioni ex art. 1495 c.c. in quanto da un lato i vizi sono stati sicuramente denunciati, trattandosi di vizi occulti come si dirà anche oltre, entro trenta giorni dalla scoperta e dal momento della compiuta identificazione (vedi raccomandata 27.4.2017 e relazione 14.7.2017 arch. (...)). Per altro verso il termine di un anno è stato interrotto sia con la raccomandata medesima e sia con il deposito del ricorso per ATP (iscritto a ruolo il 26.4.2018) Dalla CTU in sede di ATP è poi emersa inequivocabilmente la presenza di amianto . Le risultanze della CTU , alla luce di quanto più sopra specificato, possono essere utilizzate : il procedimento è stato infatti ritualmente introdotto e parte attrice ha tempestivamente prodotto nel presente giudizio la relazione su cui i convenuti hanno avuto modo di ampiamente interloquire. Dalla stessa risulta che la copertura è stata realizzata in due periodi differenti ,uno nel 1980 consistente nella realizzazione del pacchetto iniziale di copertura in lastra di roccia e lastra ondulata di amianto, uno successivamente e di sovracopertura con lana di roccia e lastra di alluminio. Tali circostanze non risultano comunque contestate da parte convenuta e trovano riscontro nella relazione dell'arch.(...). L'affermazione - riportata in CTU - per cui i rapporti di prova delle tre analisi hanno evidenziato l'assenza di fibre asbestosimili aerodisperse risulta irrilevante. Se è infatti vero e comunemente ritenuto in giurisprudenza che la presenza di amianto quando integro, non rappresenti un vizio o difetto ex art. 1490 c.c. , tuttavia e come già detto l'assenza di materiale inquinante ( l'amianto appunto ma anche la lana di roccia) costituiva qualità promessa dai venditori. Come già precisato infatti l'incidenza della presenza di amianto e lana di roccia sul valore dell'immobile è evidente anche e proprio laddove " nella scelta per la metodologia dell'incapsulamento e della sopracopertura, si rendono necessari controlli ambientali periodici e conservazione e manutenzione..", oltre che in vista di interventi futuri il che avalla vieppiù l'esistenza di un importante inadempimento. A ciò si aggiunge che i venditori erano certamente a conoscenza della presenza dei materiali, in quanto appunto proprietari al momento della effettuazione dei lavori di copertura, ( pur non essendovi traccia di documentazione tecnica ed autorizzativa presso i Pubblici Uffici competenti). Ne discende la sussistenza anche dell'elemento soggettivo per l'azione ex art. 1497 c.c.. costituita certamente dalla colpa ma sinanco dal dolo nell'aver taciuto tali circostanze . Non emerge infatti in alcun modo dalla documentazione in atti che la presenza di elementi comunque e certamente rilevanti nell'intenzione delle parti (così come evidenziata in contratto) sia mai stata comunicata agli acquirenti. E per altro verso , e come emerso dalla verifica dello stato dei luoghi, la presenza di amianto non poteva ritenersi riconoscibile agli acquirenti con una normale diligenza in quanto resa non visibile dagli interventi secondo il metodo della sopracopertura, mai denunciato alle autorità. In forza di tali considerazioni i venditori debbono dunque ritenersi responsabili dei danni che il mancato rispetto di tale garanzia e qualità ha comportato per l'acquirente. Venendo alla liquidazione del danno, deve procedersi alla relativa determinazione alla luce sia delle voci di costo indicate dal CTU che delle osservazioni di parte convenuta in merito (di cui a p.15 della comparsa conclusionale) Si osserva in primo luogo che non è contestata la necessità di intervenire sul tetto a seguito del verificarsi di infiltrazioni (che determinavano l'intervento del perito di parte) il che rende attuale la richiesta di (...). L'accertata presenza di amianto , la necessità di interventi sul tetto ma anche e soprattutto l'aver promesso l'assenza di tale materiale comporta poi giustificatamente un intervento di rimozione totale , anziché di incapsulamento o sovracopertura - dei quali del resto sono stati evidenziati anche in CTU gli svantaggi-: ciò considerato altresì che il precedente intervento di sovracopertura non risultava regolarmente denunciato agli enti competenti. Debbono pertanto riconoscersi i costi per le rimozioni. Deve invece escludersi il costo di realizzazione della linea vita e quello dei lucernari (già in stato di deterioramento ,come risulta dallo stesso atto introduttivo di (...)) Viceversa l'intervento dovrà avere ad oggetto anche la bonifica e rifacimento della canna fumaria in quanto si è accertata anche in tale sede la presenza di amianto Va poi dato atto che l'ing. (...) ha reso esaurientemente conto dei criteri per la determinazione dei prezzi (Bollettino Camera di Commercio). Quanto poi ai costi per il rifacimento del tetto pare corretta una diminuzione in via equitativa (nella misura del 60%), come sottolineato da parte convenuta, per effetto di compensatio lucru cum danno e del vantaggio di ottenere così una nuova copertura. La rimozione dell'amianto dall'intera copertura rende infatti indispensabile anche un intervento di ripristino. In definitiva possono essere riconosciuti i costi di cantieramento, piano di lavoro, tutte le rimozioni e bonifica e installazione della canna fumaria, e ridotti del 60% quelli per la posa di listellatura, nuovo pacchetto sandwich e lattoneria, per un totale di Euro 133315,974 euro ed i convenuti vanno condannati al relativo pagamento. Attesa la parziale reciproca soccombenza le spese di lite e di ATP possono essere compensate per un terzo e per la restante parte poste a carico dei convenuti e si liquidano in dispositivo. P.Q.M. Il Giudice, disattesa ogni diversa istanza, eccezione e deduzione, definitivamente pronunciando, qualificata l'azione ex art. 1497 c.c. - accerta la responsabilità dei convenuti e li condanna al solido al pagamento in favore di (...) della somma di Euro 133.315,974 oltre accessori per legge - rigetta ogni altra istanza od eccezione - condanna i convenuti al pagamento delle spese di lite pari ad Euro 9000,00 per compensi oltre accessori per legge ed oltre ai due terzi delle spese di ATP Così deciso in Lodi il 20 settembre 2021. Depositata in Cancelleria il 21 settembre 2021.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI LODI il Giudice, Dr.ssa Maria Teresa Latella ha pronunciato la seguente SENTENZA Nella causa iscritta al n. 2817/2015 tra (...) (CF (...)) Con l'avv. Ma.Fa. e D'A. del foro di Milano Contro (...) SA ( PI (...)) Con l'avv. Lo.Pe. del foro di Milano Avente ad oggetto: risarcimento danni da illecito civile MOTIVI IN FATTO E DIRITTO Con citazione 29.1.2019 il sig.(...) conveniva (...) affermando che l'8.10.2017 a Melegnano mentre percorreva la via F. in bicicletta veniva investito dalla Ford Kia di proprietà e condotta da R.G. il quale non rallentava al fine di rispettare il segnale di stop; a seguito dell'urto e della caduta l'attore subiva gravi danni fisici e la rottura del femore con esiti che dal perito di parte venivano quantificati nella misura del 16% del danno biologico. L'attore chiedeva pertanto un risarcimento nella misura di Euro 66.599,67 oltre ad Euro 11.136,70 per spese mediche e di installazione del montascale. Tuttavia la (...) contestava tale entità e liquidava in un primo momento Euro 17.500,00 e successivamente ulteriori Euro 12.055,00. Di qui l'odierno giudizio in cui il (...) ha chiesto oltre alle spese mediche il risarcimento del danno biologico ed altresì il riconoscimento del danno morale ed esistenziale Si è costituita (...) non contestando l'an della responsabilità ma solo il quantum ed in particolare sia l'entità dei postumi permanenti sia la sussistenza di una prova specifica quanto al danno morale ed esistenziale, infine l'entità delle spese mediche, alcune non pertinenti, il montascale non necessario e comunque di valore eccessivo. Nel corso del giudizio veniva esperita CTU medico legale , assunte le prove orali ed all'udienza del 12.5.2021 le parti precisavano le conclusioni e la causa era assunta in decisione. La domanda può essere parzialmente accolta. Il danno morale ex art. 2059 c.c.- ovvero quello che derivi dalla lesione di diritti personalissimi, pur sempre tutelati dall'ordinamento, deve essere liquidato tenuto conto dell'effettiva sofferenza, della gravità dell'illecito e di tutti gli elementi portati a conoscenza del giudice nella fattispecie concreta, essendo onere del richiedente allegare gli specifici fatti dai quali, sia pure in via presuntiva, possa desumersi l'esistenza del danno ( per tutte di recente Cass. 349/2016). Del danno esistenziale, inteso come peggioramento della qualità della vita , riconducibile non ad un danno alla salute psicofisica ma piuttosto ai valori dell'esistenza del danneggiato nelle sue molteplici occasioni di vita quotidiana, è invece, e come noto, controversa la risarcibilità in via autonoma. La giurisprudenza recente si è anzi orientata prevalentemente in via restrittiva affermando come nel nostro ordinamento ogni pregiudizio di carattere non economico rientri nell'unica fattispecie di cui all'art.2059 c.c., il quale ricomprende una categoria ampia comprensiva non solo del danno morale soggettivo ma anche di ogni ipotesi in cui si verifichi una lesione di un valore inerente la persona di rango costituzionale :ragion per cui è inammissibile la creazione di una ulteriore ipotesi di danno ( Cass. 336/2016, 583 /2016 etc.). In particolare con due recenti pronunce la Cassazione ha affermato che il danno morale consiste in una sofferenza del tutto interiore e non relazionale e perciò meritevole di un compenso separato ed aggiuntivo rispetto a quello previsto ( nelle tabelle milanesi) per le conseguenze "dinamico-relazionali" -. Pertanto - al di là dell'ambito delle micropermanenti l'aumento personalizzato del danno biologico è circoscritto agli aspetti dinamico relazionali della vita del soggetto, a prescindere dalla considerazione e dalla risarcibilità del danno morale senza che ciò sia una duplicazione risarcitoria (Cfr. Cass. sent. 17.1.2018 n. 901; ord. 27.3.2018 n. 7513). In particolare l'autonomia del danno morale rispetto al danno biologico emerge anche dalla circostanza che esso non è suscettibile di accertamento medico legale , è uno stato di sofferenza che prescinde dalle vicende dinamico-relazionali. Così che il giudice deve accertare caso per caso- anche mediante presunzioni - la sussistenza di un concorso del danno dinamico relazionale e del danno morale , in caso positivo liquidando quest'ultimo con voce autonoma ed in caso contrario scorporandone il relativo aumento tabellare ( Cfr Cass. 25164/2020). Tali orientamenti trovano conferma nei nuovi artt. 138 e 139 del Codice delle assicurazioni e nelle Tabelle Milanesi per il 2020-2021 che hanno previsto una specifica quantificazione in termini monetari per il danno morale dando atto nella relazione che il danno morale di regola "si accompagna" al danno biologico. Ciò premesso e venendo al caso di specie non è in primo luogo contestato l'an della responsabilità e sul punto pertanto non occorre dilungarsi. Quanto alla determinazione dell'entità dei danni la CTU medico legale ha accertato che il sinistro ha provocato nell'attore, 87 anni all'epoca del sinistro, "trauma contusivo dell'emitorace con successiva diagnosi di frattura composta della 10 costa , trauma contusivo di anca destra con frattura sottotrocanterica di femore ed escoriazioni agli arti di destra"; che a seguito dell'intervento di riduzione delle fratture il paziente era sottoposto a riabilitazione ed alla dimissione nel novembre 2017 il paziente aveva solo parzialmente recuperato la funzione di deambulazione possibile solo con due bastoni all'interno e di walker per brevi spazi all'esterno...poteva salire e scendere le scale solo con assistenza e corrimano...stante l'assenza di documentazione intermedia poteva collocarsi a fine febbraio la stabilizzazione del quadro clinico.." Il CTU ha poi osservato che all'epoca dell'incidente l'attore era avanti negli anni ed ipovedente ed affetto da patologie ..ma conservava un'autonomia sufficiente a consentirgli spostamenti in bicicletta "ora il sig.(...) è affetto da insufficienza dinamica dell'arto inferiore destro ...ma soprattutto globale impaccio della deambulazione senza dubbio concausato dall'età avanzata notoriamente limitativa della capacità di recupero...è ragionevole che il (...) incontri difficoltà nel superare dislivelli ed abbia perso l'idoneità ad andare in bicicletta..la quantificazione del danno biologico , in quanto anziano e come indicato in linee guida richiede un correttivo maggiorativo" ed è stata indicata nella misura del 15%. Le conclusioni del CTU possono essere recepite sia quanto all'indicazione del danno biologico che dell'invalidità temporanea in quanto coerenti, non contraddittorie e motivate sulla base delle Linee guida. Sulla scorta degli elementi emersi sia dalla CTU che dalle testimonianze orali, ed alla luce dei principi giurisprudenziali più sopra enucleati può ritenersi sussistente anche il danno dinamico relazione ed esistenziale : " il concorso della senectus ha reso più severa la componente dinamico relazionale del danno biologico, avendo l'infortunato perso l'idoneità a compiere gli atti propri della sua età ( fare passeggiate andare in bicicletta etc) e cui prima risultava idoneo." Anche i testi hanno confermato l'incapacità -difficoltà a muoversi all'interno dell'abitazione. Si può ritenere pertanto e certamente il sinistro concausa della menomazione della vita di relazione in misura ampia e tale da giustificare una personalizzazione nella misura del 25%. Nulla può invece essere riconosciuto a titolo di danno morale, ancora una volta alla luce dei principi più sopra espressi, non essendovi prova specifica di alcuna circostanza indicativa dello stesso. Quanto alle spese mediche esse sono documentate e pertinenti per l'importo di Euro 2.054,00 e quelle per il montascale (Euro 7000,00) certamente necessarie per tutto il periodo di invalidità e successivamente comunque pertinenti attesi gli esiti per il paziente e le condizioni della moglie convivente. All'attore spetta dunque il solo risarcimento per il danno biologico pari ad Euro 23.625,00 per danno permanente con una personalizzazione del 25% (pari ad Euro 29.531,25 complessivi) ed Euro 9.157,50 per inabilità temporanea (per un totale di Euro 38.688,75) oltre ad Euro 9.054,00 per spese mediche documentate (dedotto quanto già ricevuto e pari, la somma residua ad Euro 18.187,75). La somma complessiva risultante ed espressa in valore attuale, deve infine essere devalutata alla data del fatto e quindi maggiorata degli interessi legali sulla somma via via rivalutata dal fatto alla sentenza: dalla data di questa decorrono poi gli interessi legali sino al saldo (Cass. N. 1712/95). Quanto alle spese di lite, attesa la parziale reciproca soccombenza nel quantum, possono essere per un terzo compensate e per la restante parte poste a carico della convenuta e si liquidano, sulla base del decisum, in Euro 3225,00. per compensi oltre accessori per legge. Le spese di CTU come già liquidate da separato decreto vanno poste a carico del convenuto P.Q.M. Il Giudice, disattesa ogni diversa istanza, eccezione , deduzione, definitivamente pronunciando, - in parziale accoglimento della domanda,e previo accertamento della responsabilità di R.G. assicurato della parte convenuta (...) per i fatti di causa CONDANNA la convenuta , per le causali di cui in parte motiva, a risarcire all'attore, dedotto quanto già ricevuto La somma residua di Euro 18.187,75oltre interessi e rivalutazione come in parte motiva RIGETTA ogni altra domanda od eccezione CONDANNA la convenuta al pagamento delle spese legali in favore dell'attore pari alla somma di Euro 3.225.00 a titolo di compensi oltre accessori per legge ed oltre al pagamento delle spese di CTU come già liquidate da separati decreti. Così deciso in Lodi il 31 agosto 2021. Depositata in Cancelleria il 31 agosto 2021.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI LODI Il giudice dott. Maria Teresa Latella nella causa tra (...) (CF (...)) Con l'avv. (...) del foro di Milano Contro Supercondominio (...) ABC San Giuliano Milanese Con l'avv. (...) con studio in San Giuliano M.se Avente ad oggetto annullamento di delibera assembleare Ha pronunciato la seguente SENTENZA Conclusioni delle parti: come in atti MOTIVI IN FATTO E DIRITTO L'attore ha impugnato la delibera assembleare 8.11.2018 approvata in pari data dal Supercondominio chiedendo dichiararsene, previa sospensione, l'annullamento o la nullità per illegittimità. Ciò sul presupposto della mancata regolare preventiva elezione dei rappresentanti di sub condomini (in particolare il condominio C) nonché della mancata preventiva convocazione dei rappresentanti medesimi, legittimati a partecipare all'assemblea stessa. Ha inoltre mosso censure di merito al contenuto della delibera quanto ai criteri di redazione del bilancio (punti 3 e 4) Si è costituito il supercondominio eccependo l'improcedibilità della domanda quanto al punto 3 per mancata instaurazione della mediazione sul punto, l'incompetenza per valore, l'infondatezza delle censure quanto all'asserita violazione dell'art. 67 commi III e IV disp.att. c.c. e per conseguente omessa convocazione dei rappresentanti. La domanda può essere parzialmente accolta. Fondata è infatti la questione di improcedibilità della domanda quanto al motivo sub 3 di impugnazione per difetto di mediazione e sul punto l'eccezione pregiudiziale deve essere accolta. Viceversa è infondata la questione di incompetenza per valore non avendo ad oggetto, la domanda, la mera questione della ripartizione delle spese e relativo valore, ma un ben più ampio oggetto inerente la mancata nomina dei rappresentanti di condominio, la loro mancata partecipazione all'assemblea al supercondominio, la violazione dei criteri di redazione del bilancio. Sotto il profilo della competenza il valore deve ritenersi indeterminabile e questo giudice è pertanto competente. Venendo al primo motivo di impugnazione dedotto dal (...) questo è fondato. Parte convenuta non ha contestato nè la mancata elezione dei rappresentanti di condomini (nella specie quando al condominio C) né la conseguente loro mancata convocazione e partecipazione all'assemblea dell'8.11.2018 (con riguardo al condominio C) Le specifiche disposizioni normative in tema di assemblea del supercondominio prevedono che, quando i partecipanti sono più di 60, ciascun condominio deve designare, con la maggioranza di cui all'art. 1136 c.5 c.c. il proprio rappresentante all'assemblea per la gestione ordinaria delle cose comuni a più condomini e per la nomina dell'amministratore (art. 67 c.3 disp. att. c.c. in caso contrario potendosi ricorrere ad una nomina giudiziale) Nel caso di mancata nomina dunque i singoli condomini possono ricorrere al giudice ma vi è anche un onere dell'amministratore del suercondominio o dei singoli condomini a sollecitare le assemblee per la nomina. Non possono partecipare all'assemblea altri soggetti (i singoli condomini) ma solo i rappresentanti (quando si tratti appunto di ordinaria amministrazione) e in caso di omessa convocazione di questi debbono ritenersi applicabili le norme sul condominio quanto al vizio di convocazione per richiamo all'art. 1117 bis cc Ciò perché il rappresentante è onerato dell'informazione all'amministratore - ed ai singoli condomini - di condominio, delle questioni oggetto di trattazione in assemblea. Nella specie è pacifico che da un lato il rappresentante di condominio C non è stato nominato prima della suddetta assemblea e per conseguenza non ne è stata disposta la convocazione. Per altro verso del tutto irrilevante è la partecipazione personale del (...) e di altri condomini all'assemblea medesima. La delibera impugnata deve pertanto essere annullata per il motivo in parola. Tale pronuncia rende superfluo l'esame delle ulteriori questioni. Quanto alla ripartizione delle spese di lite vale la regola della soccombenza in proposito. Queste - previa compensazione per un terzo quanto all'accoglimento dell'eccezione di improcedibilità parziale - debbono essere pertanto liquidate per tre fasi di giudizio con valore indeterminabile e nei minimi attesa la semplicità della lite, e poste a carico del convenuto nella misura liquidata in dispositivo, oltre alle spese di mediazione. P.Q.M. In parziale accoglimento della domanda. Previa declaratoria di improcedibilità quanto al punto 3 dell'impugnativa. Annulla la delibera impugnata assunta all'assemblea del Supercondominio di (...) A.B.C in data 8.11.2018 condanna il Supercondominio convenuto al pagamento in favore dell'attrice delle spese di lite pari ad euro 2000,00 per compensi oltre accessori per legge nonché spese e compensi di mediazione per 528,00 euro. Lodi, 25 marzo 2021. Depositata in Cancelleria l'8 aprile 2021.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI LODI SEZIONE CIVILE Il Tribunale, nella persona del giudice Ada Cappello, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I grado iscritta al n. r.g. 4939/2016, promossa da: JE.GI. (C.F. (...)), rappresentata e difesa dall'Avv. Gi.Bo. e dall'avv. La.Fr., elettivamente domiciliata presso il loro studio in Casalpusterlengo (LO), via (...) - parte attrice - nei confronti di: BE.AG. (C.F. (...)), rappresentata e difesa dall'avv. Simon Grasso, elettivamente domiciliata presso il suo studio in Casalpusterlengo (LO), via (...) - parte convenuta - CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Per quanto riguarda il completo svolgimento del processo, ai sensi del vigente art. 132 c.p.c., si fa rinvio agli atti delle parti e al verbale di causa. 1. Oggetto La presente controversia ha ad oggetto la domanda proposta da Je.Gi. nei confronti di Be.Ag. di risoluzione della proposta di acquisto immobiliare del 28.9.2015 formulata da parte attrice e accettata da parte convenuta per inadempimento di quest'ultima e di condanna della convenuta alla restituzione del doppio di quanto versato dall'attrice a titolo di caparra confirmatoria pari a Euro 10.000,00. In particolare, con atto di citazione ritualmente notificato, parte attrice ha dedotto le seguenti circostanze a fondamento delle proprie domande: - La sig.ra Gi. ha sottoscritto in data 28.9.2015 una proposta di acquisto di un immobile sito a Casalpusterlengo in via (...) proprietà della sig.ra Ag.; - Contestualmente a tale proposta l'attrice ha corrisposto alla convenuta, tramite assegno bancario, l'importo di Euro 5.000,00 a titolo di caparra confirmatoria; - La proposta di acquisto è stata accettata da controparte e l'importo di Euro 5.000,00 Euro è stato incassato dalla convenuta; - Non è stato possibile pervenire alla stipula del contratto definitivo di compravendita a causa della giuridica inidoneità alla cessione e parziale giuridica inesistenza del bene oggetto della proposta, consistente nella mancata corrispondenza tra le schede catastali e un tipo di mappale; - In particolare l'edificio cui fa parte l'immobile oggetto della proposta di acquisto non risultava inserito in mappa e il mappale identificativo dell'immobile, map. (...), non risultava esistente, come comunicato dal Notaio incarico alla stipula della vendita, con conseguente impossibilità di addivenire alla stipula del contratto definitivo; - In data 13.11.2015 Je.Gi. comunicava la risoluzione del contratto preliminare, chiedendo la restituzione del doppio della caparra versata, pari a Euro 10.000,00; - La sig.ra Ag. non restituiva alcuna somma e in data 5.2.2016 dichiarava di voler addivenire alla stipula del contratto definitivo di compravendita; - Per spirito conciliativo, la sig.ra Gi. si dichiarava disponibile a rinunciare a quanto alla stessa spettante ex art. 1385 c.c., a condizione che la sig.ra Ag. restituisse la somma di Euro 5.000,00 originariamente corrisposta da parte attrice ma tale proposta veniva rifiutata. Con comparsa di costituzione tempestivamente depositata si è costituita Be.Ag., chiedendo il rigetto delle domande di parte attrice e, in via riconvenzionale, l'accertamento del diritto di parte convenuta a trattenere la somma di Euro 5.000,00, versata da parte attrice a titolo di caparra confirmatoria. In particolare, parte convenuta ha evidenziato le seguenti circostanze: - Verso la fine del mese di ottobre 2015, l'Attrice comunicava alla Convenuta l'intenzione di non stipulare il contratto definitivo, per motivi non esplicitati; - In data 9.11.2015 l'attrice contestava per la prima volta la non corrispondenza tra il catasto fabbricati e il catasto terreni e la sig.ra Gi. invitava la Convenuta a restituire il doppio della caparra versata; - L'Attrice faceva invece presente di essere in grado di andare a rogito a breve termine, ottenuto il tempo necessario al Condominio per deliberare e realizzare i vari adempimenti catastali; - La Sig.ra Gi. insisteva per la restituzione del doppio della caparra e, dunque, non si addiveniva ad alcun accordo; - Prima di tale incontro nessun invito a stipulare il contratto definitivo è stato mai comunicato a parte convenuta; - in data 18/11/2015 il Condominio deliberava la regolarizzazione del catasto terreni e in data 16/12/2015 la richiesta di aggiornamento catastale veniva presentata all'Agenzia delle Entrate, accolta in data 17/12/2015; - In data 05/02/2016 la Convenuta comunicava quindi all'Attrice la disponibilità a rogitare; - Visto il perdurare nell'inadempimento da parte della Sig.ra Gi., l'odierna Convenuta tratteneva la caparra di Euro 5.000,00; - La difformità contestata attiene al solo catasto terreni e non al catasto fabbricati; - Inoltre tale difformità presente nel catasto terreni potrà costituire, al più, in una mera irregolarità sanabile; - Le irregolarità presenti sul catasto terreni non sono addebitabili alla Convenuta, ma al Condominio; - Il contratto definitivo di vendita dell'Immobile non è stato stipulato per esclusiva volontà della Sig.ra Gi., che risulta inadempiente. Inoltre, parte convenuta ha disconosciuto il doc. 4 prodotto da parte attrice, ovvero la mail del Notaio che avvertirebbe la sig.ra Gi. dell'impossibilità di stipulare il contratto definitivo alla luce delle menzionate irregolarità catastali. Alla prima udienza il Giudice ha concesso i termini ex art. 183 comma 6 c.p.c. e, in occasione della successiva udienza, ha formulato alle parti proposta conciliativa poi rifiutata da parte convenuta. Successivamente il Giudice ha invitato le parti a esperire il procedimento di mediazione, che ha avuto esito negativo. A scioglimento della riserva assunta all'udienza del 12.10.2018 il Giudice ha ammesso le prove orali. Al termine dell'istruttoria orale le parti hanno precisato le conclusioni all'udienza del 19.6.2020, in occasione della quale il Giudice ha concesso alle parti i termini ex art. 190 c.p.c.. 2. La domanda ex art. 1385 comma 2 c.c. Parte attrice ha formulato domanda di risoluzione della proposta di acquisto immobiliare per inadempimento imputabile esclusivamente alla sig.ra Be.Ag. e consistente nell'impossibilità di stipulare il contratto definitivo di vendita in ragione dell'irregolarità di accatastamento dell'immobile. Inoltre, parte attrice ha domandato la condanna di parte convenuta alla restituzione del doppio di quanto versato a titolo di caparra confirmatoria, ovvero Euro 10.000,00. Parte convenuta, invece, ha domandato in via riconvenzionale l'accertamento del diritto della sig.ra Ag. a ritenere la caparra versata da parte attrice, in ragione dell'inadempimento di quest'ultima, consistente nel rifiuto di stipulare il contratto definitivo nonostante l'avvenuta regolarizzazione della difformità catastale da parte della convenuta. Ai sensi dell'art. 1385 comma 2 c.c. se la parte che ha ricevuto la caparra è inadempiente, l'altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra. Come noto, la caparra confirmatoria costituisce una tecnica negoziale di liquidazione convenzionale del danno. Infatti, ove la parte c.d. fedele decida di avvalersi dei rimedi ordinari (risoluzione e adempimento) il risarcimento del danno sarà accordato secondo le regole generali (dovendo la parte dimostrarne l'entità) e non potrà avvalersi della liquidazione convenzionale del danno fissata con la caparra confirmatoria ex art. 1385 comma 3 c.c. Inoltre, come chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione, Sez. Un. 553/2009, i rapporti tra azione di risoluzione, e di risarcimento integrale, da una parte, e azione di recesso e di ritenzione della caparra, dall'altra, si pongono in termini di assoluta incompatibilità strutturale e funzionale, sicché, proposta la domanda di risoluzione, volta al riconoscimento del diritto al risarcimento integrale dei danni subiti, non potrà essere consentita la trasformazione in domanda di recesso con ritenzione di caparra. Tuttavia, l'alternativa tra il recesso del contratto per inadempimento con ritenzione della caparra confirmatoria e la risoluzione non è tra recesso e risoluzione di diritto, bensì tra recesso e risoluzione giudiziale con eventuale risarcimento del danno che andrà liquidato nella sua effettiva entità (C. 5095/2015). Inoltre, la pronuncia a Sez. Un. Sopra richiamata ha statuito che "La domanda di ritenzione della caparra è legittimamente proponibile, nell'incipit del processo, a prescindere dal nomen iuris utilizzato dalla parte nell'introdurre l'azione "caducatoria" degli effetti del contratto: se quest'azione dovesse essere definita "di risoluzione contrattuale" in sede di domanda introduttiva, sarà compito del giudice, nell'esercizio dei suoi poteri officiosi di interpretazione e qualificazione in iure della domanda stessa, convenirla formalmente in azione di recesso, mentre la domanda di risoluzione proposta in citazione, senza l'ulteriore corredo di qualsivoglia domanda "risarcitoria", non potrà essere legittimamente integrata, nell'ulteriore sviluppo del processo, con domande "complementari", ne' di risarcimento vero e proprio ne' di ritenzione della caparra, entrambe inammissibili perché nuove". Applicando i principi giurisprudenziali sopra richiamati al caso di specie, può ritenersi che la domanda di risoluzione formulata da parte attrice possa essere riqualificata in domanda di recesso, in quanto la sig.ra Gi. non ha formulato alcuna richiesta di risarcimento del danno, limitandosi a esigere il doppio della caparra versata ex art. 1385 comma 2 c.c. Inoltre, non ricorre alcuna ipotesi di risoluzione per inadempimento di diritto (termine essenziale, diffida ad adempiere, clausola risolutiva espressa). Per quanto attiene ai presupposti applicativi della domanda formulata da parte attrice, ai fini dell'accoglimento del rimedio ex art. 1385 comma 2 c.c. si applica la disciplina ex artt. 1453 ss. (C. 11784/2000; C. 9941/1996; C. 12860/1993; A. Reggio Calabria 12.4.1991; T. Brescia 6.11.2003), pertanto l'inadempimento deve essere imputabile alla parte convenuta e di non scarsa importanza. Nel caso di specie risulta pacifico l'inadempimento di parte convenuta rispetto alle obbligazioni contrattuali di cui al preliminare di acquisto. Infatti, risulta incontestata la presenza di una difformità catastale con riguardo all'immobile per cui è causa, che impediva la stipula di un valido contratto definitivo di compravendita immobiliare ex art. 29, comma 1-bis, della legge 27 febbraio 1985, n. 52, come modificata dalla L. 31 maggio 2010 n. 78. Tale difformità è stata riconosciuta dal notaio dott.ssa Fa. che, sentita come teste in occasione dell'udienza del 27.2.2019, ha confermato di aver inviato in data 5.11.2015 un fax alla sig.ra Gi. in cui comunicava l'impossibilità di procedere al rogito notarile (doc. 10 parte attrice), in ragione della "nullità assoluta" da cui sarebbe stato affetto l'atto. Tale inadempimento presenta senz'altro il requisito della gravità, in quanto la presenza di tali difformità avrebbe condizionato la validità del successivo contratto definitivo di compravendita. Inoltre, tale inadempimento risulta imputabile a parte convenuta, in quanto proprietaria dell'immobile e tenuta a garantire alla sig.ra Gi., promissario acquirente, "la conformità dell'immobile alle previsioni in materia di edilizia e di urbanistica, ad eccezione di nulla", come risultante dalla proposta di acquisto accettata da parte convenuta (doc. 1 parte attrice). Pertanto, appare irrilevante quanto dedotto da parte della sig.ra Ag. in merito alla presunta addebitabilità della difformità catastale al Condominio, in quanto soggetto estraneo al rapporto contrattuale in essere tra le parti. A tal fine non può attribuirsi alcun rilievo alla disponibilità manifestata da parte convenuta in occasione dell'incontro avvenuto tra le parti in data 9.11.2015 (circostanza non contesta da parte attrice), riguardante la possibilità di regolarizzare in breve termine le citate difformità. Infatti, non può attribuirsi significato alla mera volontà manifestata da parte convenuta di regolarizzare tali difformità a fronte delle conseguenze di tali irregolarità (nullità dell'atto di compravendita). Inoltre, l'effettiva regolarizzazione delle difformità catastali è stata comunicata a parte attrice solo in data 5.2.2016 (doc. 6 parte attrice), pertanto oltre 3 mesi dalla data prevista per la stipula del rogito (fine ottobre 2015, cfr. doc. 1 parte attrice e dichiarazione teste Fa.). Infine, deve attribuirsi rilievo dirimente alla comunicazione inviata in data 13.11.2015 da parte attrice, con cui quest'ultima ha comunicato alla sig.ra Ag. la volontà di risolvere - o, meglio, recedere - dal contratto preliminare intercorso tra le parti, intimando la restituzione del doppio della caparra versata. A tal fine risulta tardiva la contestazione formulata da parte convenuta solo in sede di comparsa conclusionale, inerente alla mancata ricezione di tale comunicazione da parte della sig.ra Ag.. Infatti, secondo un condivisibile e consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ogni volta che sia posto a carico di una delle parti un dovere di allegazione, l'altra parte ha l'onere di contestare il fatto allegato nella prima difesa utile (Cass. n. 1540/2007; n. 5191/2008; n. 13079/2008). Con riguardo all'onere di specifica contestazione gravante su parte convenuta ex art. 115 c.p.c. deve ritenersi che tale termine finale sia collegato al maturare delle preclusioni assertive (cfr. Cass. 31704/2019), impedendosi altrimenti il corretto esercizio del diritto di difesa da parte dell'attore. Pertanto, appare irrilevante che in data successiva alla comunicazione del 13.11.2015, la sig.ra Ag. abbia proceduto a regolarizzare le predette difformità catastali. Deve pertanto ritenersi fondata la domanda formulata da parte attrice, con conseguente accoglimento della domanda di recesso del contratto concluso in data 3.10.2015 (infatti in tale data la promissaria acquirente ha avuto conoscenza dell'avvenuta accettazione della proposta da parte della promittente venditrice ex art. 1326 c.c.) e condanna di parte convenuta a restituire a parte attrice il doppio della caparra versata, pari a Euro 10.000,00 (doc. 2 parte attrice). 3. Spese di lite e domanda ex art. 96 c.p.c.. In applicazione del principio di soccombenza, le spese di lite, liquidate secondo i parametri di cui al d.m. 55/2014, devono essere interamente poste a carico di parte convenuta. Parte attrice ha inoltre domandato che il Giudice tenga conto ai fini della condanna ex art. 96 c.p.c. della condotta avversaria. In particolare, la sig.ra Gi. ha evidenziato che la convenuta si sarebbe volontariamente sottratta all'invito alla negoziazione assistita, avrebbe rifiutato la proposta conciliativa formulata dal Giudice all'udienza del 10.11.2017 e non si sarebbe presentata al procedimento di mediazione disposto dal Giudice. Al riguardo parte convenuta ha dedotto quanto segue: la sig.ra Ag. non ha partecipato al procedimento di negoziazione assistita in quanto non ha avuto conoscenza dell'invito, tenuto conto dei problemi di salute e della lontananza della propria casa dal centro abitato; parimenti l'impossibilità di partecipare personalmente al tentativo di mediazione è stata dettata da problemi di salute della convenuta; la sig.ra Ag. non era vincolata al rispetto della proposta conciliativa formulata in sede di giudizio. Ai sensi dell'art. 4, comma 1, D.Lgs. 132/2014 la mancata risposta all'invito entro trenta giorni dalla ricezione dell'invito alla negoziazione assistita o il suo rifiuto può essere valutato dal giudice ai fini delle spese del giudizio e di quanto previsto dall'art. 96 c.p.c. Parimenti, il rifiuto della parte soccombente alla proposta conciliativa formulata dal Giudice (rivelatasi più conveniente per la parte rispetto alla statuizione contenente in sentenza) può rilevare quale comportamento valutabile dal giudice ex art. 96 c.p.c. Inoltre, ai sensi dell'art. 8, comma 4-bis, D.Lgs. 28/2010 4-bis "Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall'articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio". Nel caso di specie risultano incontestate le condotte censurate da parte attrice ex art. 96 c.p.c. Di contro, parte convenuta non ha allegato documentazione medica comprovante i problemi di salute da cui sarebbe affetta la sig.ra Ag.. Dal complesso delle condotte tenute da parte convenuta, può ritenersi che, mediante il suo comportamento processuale, la sig.ra Ag. abbia aggravato lo svolgimento del giudizio. Tali condotte meritano di essere sanzionate e valorizzate ex art. 96 comma 3 c.p.c. La somma dovuta a titolo di risarcimento del danno deve essere commisurata nell'importo pari a 1/2 delle spese di lite. Inoltre, parte convenuta deve essere tenuta a versare a favore dello Stato una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio in ragione della mancata partecipazione al procedimento di mediazione, non ravvisandosi la prova di un giustificato motivo. Per questi motivi il Tribunale di Lodi in composizione monocratica sezione civile definitivamente pronunciando, disattesa ogni altra domanda ed eccezione, così provvede: 1) Accoglie la domanda di recesso formulata da Je.Gi. avente ad oggetto il contratto preliminare di compravendita immobiliare concluso con Be.Ag. in data 3.10.2015 e condanna Be.Ag. al versamento a favore di Je.Gi. dell'importo di Euro 10.000,00, pari al doppio della caparra versata; 2) Condanna Be.Ag. a rimborsare in favore di Je.Gi. le spese di giudizio, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre 15% per spese generali, CPA ed IVA come per legge, nonché al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c. pari ad Euro 2.000,00; 3) Condanna Be.Ag. al versamento a favore dello Stato una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio. Così deciso in Lodi il 24 gennaio 2021. Depositata in Cancelleria il 28 gennaio 2021.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI LODI SEZIONE CIVILE Il Tribunale, nella persona del giudice dott.ssa Grazia C. Roca, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I grado iscritta al n. r.g. 2246/2015, promossa da: BI.GI. (...) e VI.CL. (...), rappresentati e difesi dall'avv. MA.AN. e dall'avv. MA.GI.; - parte attrice - nei confronti di: MA.GI. (...) e MA.FA. (...), rappresentati e difesi dall'avv. CO.MA.; - parte convenuta - Oggetto: responsabilità extracontrattuale CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Sui fatti di causa Con atto di citazione Bi.Gi. e Vi.Cl. convenivano in giudizio Gi.Ma. e Fa.Ma. per sentire accogliere le seguenti conclusioni: accertare e dichiarare la responsabilità dei convenuti per il decesso del figlio Vi.Lu., avvenuto in data 16.11.2011, e per l'effetto condannare i medesimi in solido al risarcimento dei danni patrimoniali (per le spese funerarie) e non patrimoniali (sub specie di danno da perdita del rapporto parentale), quantificati in complessivi Euro 527.894,34, da cui detrarre l'importo pari ad Euro 20.000,00 già versati a titolo di acconto. In particolare, gli attori rappresentavano che la sera del 16.11.2011 Lu.Vi. riceveva una telefonata dall'amico Gi.Ma. il quale gli confidava di volersi suicidare, poiché disperato per la rottura della relazione sentimentale con Ma.Ca., e gli chiedeva di raggiungerlo presso la sua abitazione. Lu.Vi. e An.Pa. si recavano quindi a casa di Gi.Ma. allo scopo di farlo desistere dall'intento suicida. In quell'occasione Gi.Ma. estraeva una pistola semiautomatica, munita di proiettile, appartenente al padre Ma.Fa., al fine di togliersi la vita. Dall'arma maneggiata da Gi.Ma. partiva uno sparo che andava a colpire Lu.Vi. cagionandone la morte. Sul luogo dell'omicidio intervenivano gli Agenti della Squadra Mobile e della Polizia Scientifica di Lodi che traevano in arresto, in flagranza di reato, Gi.Ma.. Gli esami tossicologici consentivano poi di accertare che Gi.Ma. al momento dell'omicidio era sotto l'effetto di sostanze stupefacenti. Il procedimento penale radicato nei confronti di Gi.Ma. per il reato di omicidio colposo si concludeva con sentenza del G.I.P. del Tribunale di Lodi del 25.09.2013 che applicava su accordo delle parti la pena di anni due e mesi sei di reclusione, precisando che l'imputato "ha maneggiato l'arma, carica, con estrema imprudenza, alla presenza degli amici, puntandola infine da una distanza ravvicinata all'indirizzo del Vi., in tal modo ben potendo prevedere il tragico evento". La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lodi richiedeva, invece, l'emissione di decreto penale di condanna per omessa custodia di armi ai sensi dell'art. 20 bis co. 2 L. n. 110/1975 nei confronti di Fa.Ma., in qualità di detentore della pistola. Nel corso delle indagini per l'omicidio di Lu.Vi. veniva infatti accertato che l'arma veniva custodita in un armadio sotto una pila di vestiti e il caricatore all'interno di un cassetto di una scrivania. Gi.Ma. e Fa.Ma. si costituivano in giudizio chiedendo il rigetto delle domande avversarie in quanto infondate in fatto e in diritto. In particolare, quanto alla dinamica dell'evento, i convenuti rappresentavano che Lu.Vi., nel tentativo di salvare la vita di Gi.Ma., aveva dato inizio ad una colluttazione nel corso della quale partiva accidentalmente il colpo di pistola che lo attingeva alla testa. Sostenevano quindi gli odierni convenuti che la condotta della vittima, rilevante ai sensi dell'art. 1227 co. 1 c.c., integri il caso fortuito, idoneo ad interrompere il nesso causale e, quindi, ad escludere qualsivoglia profilo di responsabilità in capo ad essi. Da ultimo, Fa.Ma. sosteneva di aver diligentemente custodito la pistola e il caricatore, avendoli riposti in luoghi chiusi e controllati all'interno della propria abitazione. La causa, istruita esclusivamente in via documentale, veniva trattenuta in decisione all'udienza del 18.10.2019, previa concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. per il deposito di memorie conclusionali e di replica. 2. Sulla documentazione posta a fondamento della decisione. 2.1. Preliminarmente, deve rilevarsi l'assenza, al momento della decisione, del fascicolo di parte convenuta. Nel verbale dell'udienza di precisazione delle conclusioni è stato dato atto del ritiro dei fascicoli di parte, mentre non vi è l'annotazione di cancelleria dell'avvenuta restituzione del fascicolo di parte convenuta (né l'evento risulta registrato nello storico del registro informatico). In merito a tale circostanza, il mancato reperimento del fascicolo di parte al momento della decisione deve presumersi espressione di un atto volontario della parte. Di conseguenza, è onere della parte dedurre l'incolpevole mancanza del fascicolo ed, in mancanza di tale deduzione (come nel caso di specie), il giudice non è tenuto a disporre alcuna ricerca, né ad ordinare la ricostruzione della documentazione mancante, né a rimettere la causa in istruttoria per il relativo adempimento, dovendo pronunciare nel merito sulla base delle risultanze istruttorie acquisite e degli atti riscontrabili nel fascicolo della controparte ed in quello d'ufficio (Cass. sent. n. 1074/2015). L'inosservanza dell'obbligo di depositare il proprio fascicolo entro il termine di scadenza previsto per il deposito delle comparse conclusionali (obbligo che comprende quello di includere nel fascicolo i documenti in precedenza prodotti), in applicazione del principi della disponibilità della prova ex art. 115 c.p.c., comporta quindi che la decisione debba essere presa a prescindere dai documenti contenuti in detto fascicolo, in relazione all'implicita volontà dell'interessato di non avvalersene in quel procedimento (ex multis Cass. sent. n. 18237/2008). 2.2. La valutazione in ordine alla fondatezza delle domande formulate nel presente giudizio si fonda sulla documentazione prodotta da parte attrice, costituita in maggior parte dagli atti delle indagini preliminari e del procedimento penale a carico di Gi.Ma.. Giova ricordare a questo proposito che il giudice civile, in mancanza di uno specifico divieto, può liberamente utilizzare le prove raccolte in un diverso giudizio tra le stesse o tra altre parti, e può anche avvalersi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, le quali possono anche essere sufficienti a formare il convincimento del giudice, la cui motivazione non è sindacabile in sede di legittimità quando la valutazione compiuta sia stata estesa anche a tutte le successive risultanze probatorie e non si sia limitata ad un apprezzamento della sola prova formatasi nel procedimento penale (Cass. sent. n. 20335/2004). Più specificatamente, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che le risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penali "debbono, tuttavia, considerarsi quali semplici indizi idonei a fornire utili e concorrenti elementi di giudizio, la cui concreta efficacia sintomatica dei singoli fatti noti deve essere valutata - in conformità con la regola dettata in tema di prova per presunzioni - non solo analiticamente, ma anche nella loro convergenza globale, accertandone la pregnanza conclusiva in base ad un apprezzamento che, se sorretto da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico, non è sindacabile in sede di legittimità" (Cass. sent. n. 16069/2001; Cass. sent. n. 19521/2019). Analogo valore probatorio assume la sentenza penale di patteggiamento, la pacifica giurisprudenza di legittimità ha infatti chiarito che "la sentenza penale di patteggiamento, nel giudizio civile di risarcimento e restituzione, non ha efficacia di vincolo né di giudicato e neppure inverte l'onere della prova, costituendo, invece, un indizio utilizzabile solo insieme ad altri indizi se ricorrono i tre requisiti previsti dall'arte. 2729 c.c., atteso che una sentenza penale può avere effetti preclusivi o vincolanti in sede civile solo se tali effetti siano previsti dalla legge, mentre nel caso della sentenza penale di patteggiamento esiste, al contrario, una norma espressa che ne proclama l'inefficacia agli effetti civili (art. 444 cpp.) (Cass. sent. n. 20170/2018). 3. Sulla responsabilità di Gi.Ma. ai sensi dell'art. 2043 c.c. In applicazione dei principi concernenti l'onere della prova ex art. 2697 c.c., chi propone domanda di risarcimento dei danni conseguenti ad un fatto illecito ai sensi dell'art. 2043 c.c. deve allegare e provare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda e, in particolare, la sussistenza dei presupposti di carattere oggettivo (prova del fatto, dell'evento dannoso e del nesso di causalità tra il fatto e l'evento) e dei presupposti di carattere soggettivo (imputabilità e dolo o colpa del danneggiante). Nella fattispecie è incontestato che la sera del 16.11.2011, in presenza di An.Pa. e Lu.Vi., Gi.Ma. estrasse una pistola carica con l'intenzione di attuare l'intento suicida che aveva esternato all'amico Vi. poche ore prima. È altresì incontestato che in detta occasione dall'arma maneggiata da Gi.Ma. partì uno sparo che attinse alla testa Lu.Vi., causandone il decesso. Tali circostanze sono state confermate dallo stesso Gi.Ma. all'udienza tenutasi il 01.12.2011 dinanzi al G.I.P. del Tribunale di Lodi (doc. 17) e trovano un riscontro nelle dichiarazioni rese da An.Pa. (doc. 18), presente al momento dell'omicidio, e da Ma.Ca., ex ragazza di Gi.Ma., collegata telefonicamente in viva voce per quasi l'intera durata dell'incontro tra Gi.Ma., An.Pa. e Lu.Vi. (doc. 19). In particolare An.Pa. ha dichiarato quanto segue: "nel frattempo ho notato Gi. avanzare verso di noi maneggiando la pistola; non sono in grado di riferire se il grilletto dell'arma fosse alzato né se la parte superiore della pistola fosse aperta o chiusa. Mentre seduto sul divano guardavo gli sms del mio telefono ho sentito un colpo e d'istinto ho alzato la sguardo mentre Gi. urlava "Vi. l'ho ucciso... Vi.". Subito dopo si e chinato ed ha cercato di tirare su Gi. afferrandolo per i fianchi. Ho notato subito Gi. disteso sul pavimento con il capo verso il divano e del sangue che fuoriusciva dalla fronte" (verbale di sommarie informazioni del 17.11.2011). In termini analoghi si è espressa Ma.Ca. la quale ha reso le seguenti dichiarazioni: "ho effettuato la telefonata sull'utenza di Gi. e mi ha risposto Vi.Gi., il quale mi diceva che Gi. era intenzionato a suicidarsi e che aveva una pistola. Sentendo ciò, ho chiesto a Gi. di mettere il telefono con l'opzione vivavoce così gli avrei parlato io. Una volta inserita l'opzione mi rivolgevo a Gi. chiedendogli di non fare fesserie e di stare tranquillo, ma lo stesso non mi rispose. A questo punto interveniva Vi.Gi. il quale mi diceva che la situazione era tornata alla normalità e di cercare di chiarirmi con Gi.. Preciso che in quel frangente ho sentito che tutti e tre ridevano pertanto ho pensato che effettivamente la situazione era tornata alla normalità. Successivamente ho sentito in sottofondo la voce di uno di loro, non sono sicuro di chi fosse, che diceva le testuali parole "togli - controlla o leva il caricatore". Ho continuato a parlare sempre con Vi.Gi. chiedendogli più volte di passarmi a Gi., ma a quest'ultimo non ha mai parlato con me, ma parlavano e ridevano sempre tra di loro. A un certo punto della telefonata, dopo circa 15 minuti, ho udito un forte botto e subito dopo ho sentito delle urla da parte di An. e Gi., quest'ultimo lo sentiva distintamente che proferiva le testuali parole "Vi., Vi., ho ucciso villa, svegliati Vi., come è potuto succedere" e successivamente si troncava la comunicazione" (verbale di sommarie informazioni del 17.11.2011 - doc. 19). Ma.Ca. ha confermato tale ricostruzione dei fatti anche in data 25.11.2011 (verbale di sommarie informazioni del 25.11.2011 - doc. 20). Le risultanze istruttorie non consentono invece di ritenere provato che Lu.Vi. abbia contribuito al crearsi delle condizioni che hanno portato al suo decesso. Gi.Ma. sostiene che il colpo di pistola sarebbe partito accidentalmente a causa della colluttazione nata dal tentativo di Lu.Vi. di disarmarlo mentre aveva l'arma puntata alla propria tempia. In particolare, parte convenuta in sede di udienza dinanzi al G.I.P. ha dichiarato quanto segue "A questo punto con la pistola in mano sono tornato al mio posto, ero obliquo rispetto a Lu. ed An.; Lu. quando ha visto che avevo la pistola, mi si è avvicinato, mi ha preso il polso dx con quale impugnavo la pistola, che già avevo avvicinato alla tempia. Nel prendermi il polso abbiamo iniziato a muoverci avanti e indietro con la mano e la pistola sempre all'altezza del viso e della tempia. Nel muoverci e spostarci così è partito il colpo. (...). Quando è partito il colpo io e Lu. eravamo vicini e la distanza era quella della lunghezza del mio braccio. Nel mentre An. era sul divano. Avevamo fumato insieme una canna, ma An. non è un ragazzo proprio sveglio. Io e Lu., mentre tentava di togliermi la pistola non urlavamo e lui non mi ha detto nulla. Mentre mi teneva il polso mi faceva la faccia per dire "smettila e dammela", ma non ha detto nulla" (doc. 17). Tale versione appare incompatibile con la ricostruzione dei fatti fornita da An.Pa. e da Ma.Ca. nonché con le conclusioni dell'esame autoptico effettuato sul cadavere di Lu.Vi. (doc. 22). Sentito il 17.11.2011 An.Pa. ha riferito di aver sentito un colpo mentre, seduto sul divano, stava leggendo gli sms sullo schermo del proprio telefono, di aver quindi alzato lo sguardo e di aver visto Lu.Vi. al suolo e Gi.Ma. che si chinava sul corpo dell'amico. Successivamente, convocato nuovamente dagli inquirenti, venuti a conoscenza di alcune confidenze fatte ad alcuni amici, Pa. ha confermato quanto dichiarato in precedenza e ha aggiunto quanto segue "quando è successo il fatto non so se fosse stato reinserito il caricatore o meno da Gi., di fatto lui in quel momento stava scherzando e sono convinto che non sapesse che ci fosse un colpo in canna. Davvero non ricordo se Vi. fosse seduto o in piedi nel momento in cui è partito il colpo, di sicuro eravamo in viva con Ma. e la distanza tra Gi. e Vi. era almeno di due metri. Gi. ha puntato l'arma verso Vi. per gioco. Con Gi. non ho concordato la versione da raccontare alla polizia" (doc. 7). Le discrepanze in ordine a ciò che Pa. ha dichiarato di aver visto negli istanti immediatamente precedenti alla morte dell'amico non ne inficiano la credibilità soggettiva né la complessiva attendibilità oggettiva in considerazione della presenza di riscontri esterni che, di fatto, consentono di escludere la ricostruzione dei fatti del convenuto. Preliminarmente, si evidenzia che le due versioni fornite da Pa. sono concordi nell'escludere che tra la vittima e il convenuto ci sia stata una colluttazione o comunque un tentativo di Vi. di disarmare Ma., non si riscontra quindi una contraddizione radicale nella rappresentazione della dinamica dei fatti. La seconda versione gode inoltre di maggiore attendibilità in quanto è stata riferita da Pa. a più persone in termini analoghi e in tempi differenti, per essere poi confermata alla polizia giudiziaria. In particolare, La.Pe. e Fe.So. hanno dichiarato di aver ricevuto, qualche giorno dopo la morte di Vi., le confidenze di Pa. il quale avrebbe ammesso di aver raccontato una versione dei fatti non totalmente corrispondente a quanto accaduto. Più specificatamente, Pa. aveva raccontato loro che Ma. avrebbe improvvisamente impugnato la pistola, probabilmente pensando che fosse scarica, per poi puntarla contro Vi. facendo partire il colpo. Tenuto conto della giovane età di Pa. all'epoca dei fatti, è legittimo ritenere che questi nel corso della prima audizione, forse anche nell'ottica di ridimensionare la propria posizione e di attenuare la responsabilità dell'amico Ma., abbia cercato di escludere un proprio coinvolgimento anche come semplice testimone oculare. Si osserva inoltre che, in una situazione quale quella che ha portato al decesso di Vi., deve dubitarsi della totale assenza di percezione visiva da parte di Pa. di quanto accaduto a pochi metri davanti a sé, percezione poi effettivamente confermata durante la seconda audizione. La versione del corpo a corpo tra Ma. e Vi. può ritenersi smentita anche alla luce delle conclusioni dell'autopsia (doc. 25) nelle quali si dà atto che, per le caratteristiche morfologiche della lesione cagionata dal proiettile, è possibile collocare il colpo tra quelli non esplosi a distanza ravvicinata, ovvero a distanza inferiore a 40 cm. Pertanto, deve escludersi che tra il convenuto e la vittima vi fosse una distanza pari a quella della lunghezza del braccio di Gi.Ma., se così fosse stato, il colpo risulterebbe esploso quasi a bruciapelo. Da ultimo, deve ritenersi provato anche l'elemento soggettivo della colpa in capo a Gi.Ma. per aver maneggiato imprudentemente la pistola carica, in presenza degli amici, in uno stato di forte turbamento psichico nonché di alterazione psicofisica determinata dal consumo di cannabis nei momenti immediatamente antecedenti la morte di Lu.Vi.. Quest'ultima circostanza è confermata dalle dichiarazioni rese da An.Pa. ("Gi. si è poi rialzato dalla sedia e si è acceso una sigaretta artigianale. Non sono in grado di riferire dove l'abbia presa ma sono certo che si trattava di una "canna" a causa dell'odore del fumo" - doc. 18), dall'esame tossicologico effettuato sul convenuto, risultato positivo al tetraidrocannabionide (doc. 8) e dall'analisi effettuata sul mozzicone di sigaretta rinvenuta sul pavimento dell'abitazione (doc. 4 - doc. 9). Tutto ciò considerato deve quindi ritenersi raggiunta la prova della responsabilità di Gi.Ma. nella causazione della morte di Lu.Vi.; pertanto il convenuto dev'essere condannato a risarcire il danno. 4. Sulla responsabilità di Fa.Ma.. Vi.Cl. e Bi.Gi. chiedono che venga accertato il concorso di responsabilità in capo a Fa.Ma., padre di Gi.Ma., per non aver custodito con la dovuta diligenza l'arma da fuoco con la quale è stata cagionata la morte di Lu.Vi.. In via preliminare occorre individuare il titolo di responsabilità imputabile in astratto a Fa.Ma.. 4.1. Parte attrice afferma che la responsabilità del convenuto dev'essere inquadrata nella responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c., trovando il suo fondamento nella mera relazione intercorrente tra la res e colui che su di essa esercita l'effettivo potere di controllo e di vigilanza. In particolare, nella fattispecie, opererebbe il criterio di imputazione oggettivo del danno che fa capo alla qualità del convenuto quale proprietario e custode dell'arma da fuoco che ha di fatto causato la morte di Lu.Vi.. Come è noto, ai sensi dell'art. 2051 c.c., il custode risponde, a prescindere dall'essere stato diligente o meno, per il solo fatto della sussistenza di un rapporto di causalità tra la cosa e il danno, e si libera da responsabilità solo provando il caso fortuito, ovvero il fattore eccezionale e imprevedibile, tale da interrompere il nesso di causalità tra la cosa e il danno. Sennonché nel caso di specie difetta il fondamentale presupposto affinché la norma possa trovare applicazione, ovvero che il danno sia stato causato dalla cosa, e non mediante l'utilizzazione della cosa. In altri termini, ai fini della configurazione della responsabilità ex art. 2051 c.c., il danno deve essere causato dal dinamismo connaturato alla cosa o dall'insorgere in essa di un agente dannoso, e non dalla condotta del custode o di un terzo, che si sia avvalso della cosa per ledere un diritti altrui, come accaduto nel caso di specie. 4.2. Deve altresì escludersi l'applicabilità nel caso di specie dell'art. 2050 c.c. L'art. 2050 c.c. introduce una fattispecie di responsabilità destinata ad operare esclusivamente a fronte di attività che, in base ad un giudizio ex ante, possano definirsi pericolose. Nell'alveo delle "attività pericolose" rientrano quelle attività tipizzate dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali nonché, più in generale, tutte quelle attività che, purché non occasionalmente, per la loro stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi adoperati, a prescindere dal fatto dell'uomo, e per la loro spiccata potenzialità offensiva, comportano la rilevante possibilità del verificarsi di un danno. A questo proposito la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che "In materia di responsabilità per esercizio di attività pericolose, considerato che tutte le attività umane contengono in sé un grado più o meno elevato di pericolosità per coloro che le esercitano, occorre sempre distinguere tra pericolosità della condotta e pericolosità dell'attività in quanto tale: la prima riguarda un'attività normalmente innocua, che assume i caratteri della pericolosità a causa della condotta imprudente o negligente dell'operatore, ed è elemento costitutivo della responsabilità ai sensi dell'art. 2043 c.c.; la seconda concerne un'attività che, invece, è potenzialmente dannosa di per sé per l'alta percentuale di danni che può provocare in ragione della sua natura o della tipologia dei mezzi adoperati e rappresenta una componente della responsabilità disciplinata dall'art. 2050 c.c." (Cass. sent. n. 8449/2019). In altri termini, con riferimento all'art. 2050 c.c., occorre avere riguardo non già alla pericolosità della condotta in sé, che viene a configurarsi come tale per l'imprudenza di chi la pone in essere e che rimane, quindi, nell'alveo della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., bensì, al profilo oggettivo della pericolosità che connota una certa attività, quale potenzialità lesiva notevolmente superiore al normale. È evidente che il richiamo all'art. 2050 c.c. è assolutamente inconferente dal momento che nella fattispecie non viene in rilievo l'esercizio da parte di Fa.Ma. di una attività pericolosa nei termini sopra specificati. 4.3. Ai fini della decisione occorre procedere alla qualificazione giuridica della domanda come impone la lettura del combinato disposto degli artt. 99 e 112 c.p.c. Se è vero, infatti, che sono le parti ad avere la disponibilità dell'oggetto sostanziale del processo, è altrettanto vero che il giudice, entro i limiti della domanda fissati dalla parti, ha il dovere di pronunciarsi su tutta l'estensione della stessa. Ne consegue che il giudice non può introdurre, nel giudizio sul fatto, aspetti che non siano desumibili dalle allegazioni della parti, essendo vincolato alle stesse in punto di fatto. Nel giudizio di diritto, invece, il giudice ha il potere - dovere di applicare le norme che ritiene più opportune in conformità al disposto dell'art. 113 c.p.c. Tale prerogativa del giudice si estende fino a comprende la facoltà di procedere anche ad una riqualificazione giuridica della domanda. Secondo giurisprudenza di legittimità assolutamente consolidata, "il giudice del merito, nell'indagine diretta all'individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell'effettivo suo contenuto sostanziale" (Cass. n. 23794/2011; Cass. n. 3012/2010; Cass. n. 19331/2007, secondo cui il giudice di merito deve guardare alla pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante; Cass. n. 17760 del 4.8.2006). Nel caso di specie, il petitum della domanda di parte attrice è la pronuncia di una sentenza di condanna, anche in via solidale, delle due parti convenute, per ottenere il risarcimento del danno, sia patrimoniale che non, derivante dalla morte accidentale di Lu.Vi.. La causa petendi, nonostante il richiamo espresso all'art. 2050 e all'art. 2051 c.c., alla luce delle considerazioni di cui sopra, va individuata nella responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.; ciò si evince tanto dalla esposizione dei fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno quanto dalla pretesa giuridica avanzata. Orbene, nel caso in cui venga chiesta la condanna del convenuto al risarcimento dei danni che si assumono prodotti dalla cosa di proprietà e sottoposta alla manutenzione ed al controllo da parte dello stesso, quale che sia il titolo di responsabilità invocato - responsabilità per colpa, ai sensi dell'art. 2043 c.c., o responsabilità oggettiva, ex art. 2051 o 2050 c.c. - grava, comunque, sul danneggiato l'onere di dare la prova dell'evento dannoso e del nesso di causalità tra detto evento e la condotta del danneggiante. Come è noto, il codice civile non contiene alcuna definizione della causalità, tuttavia ad essa fanno riferimento l'art. 1227 c.c. e l'art. 1223 c.c. che disciplinano due momenti diversi del rapporto di causalità: in particolare, l'art. 1227 co. 1 c.c. riguarda il cd. danno - evento mentre l'art. 1223 e l'art. 1227 co. 2 c.c. riguardano le conseguenze pregiudizievoli del fatto, ovvero il cd. danno - conseguenza. In altri termini, sulla base di questa distinzione il fenomeno causale può essere scomposto in due fasi. L'una, riconducibile all'art. 1227 co. 1 c.c., attiene al nesso causale tra condotta ed evento (c.d. causalità materiale) e serve ad imputare al responsabile l'evento lesivo. L'altra, regolata dall'art. 1223 (anche nell'ambito della responsabilità extracontrattuale in forza del rinvio di cui all'art. 2056 c.c.) e dall'art. 1227 co. 2 c.c., attiene alla derivazione causale del danno dall'evento (c.d. causalità giuridica) e la sua funzione è quella di stabilire l'entità delle conseguenze pregiudizievoli del fatto che si traducono in danno risarcibile. Con particolare riferimento alla causalità materiale la giurisprudenza di legittimità è ormai unanime nell'affermare che il giudice, per stabilire se sussiste il nesso di causalità, deve applicare il principio della "conditio sine qua non", temperato da quello della regolarità adeguata, sottesi agli art. 40 e 41 c.p. Conseguentemente, quando l'evento dannoso o pericoloso è stato cagionato da una pluralità di azioni o di omissioni, coeve o succedutesi nel tempo, tutte hanno uguale valore causale, senza distinzione tra cause mediate ed immediate, dirette ed indirette, precedenti e successive, dovendo a ciascuna di esse riconoscersi un'efficienza causale del danno se nella concatenazione degli avvenimenti abbiano determinato una situazione tale che l'evento, sebbene prodotto direttamente dalla causa avvenuta per ultima, non si sarebbe verificato. Qualora invece la causa sopravvenuta sia da sola sufficiente a provocare l'evento perché autonoma, eccezionale ed atipica rispetto alla serie causale già in atto, le cause preesistenti degradano al rango di mere occasioni perché quella successiva ha interrotto il legame causale tra esse e l'evento (Cass. sent. n. 15789/2003). Fatte queste premesse, nella fattispecie non è configurabile la responsabilità del detentore dell'arma per la morte del terzo causata dalla condotta imprudente del figlio convenuto. Sotto il profilo del nesso causale, se è vero che l'incauta od omessa custodia da parte di Fa.Ma. dell'arma utilizzata da Gi.Ma. rappresenta senz'altro una concausa materiale dell'evento morte, è altresì vero che il tentato suicidio posto in essere da una persona dotata di autodeterminazione, degenerato nell'omicidio colposo del terzo per aver maneggiato con imprudenza l'arma costituisce, ai sensi dell'art. 41, co. 2 c.p., una "causa sopravvenuta da sola sufficiente" a determinare l'evento lesivo. In altri termini, l'omicidio del terzo a seguito del tentato suicidio del soggetto agente, ancorché legata a un nesso di causalità materiale alla condotta del detentore dell'arma incautamente custodita, rappresenta un evento non inquadrabile in una successione normale di accadimenti e appartiene a un genere di rischio del tutto differente rispetto a quello creato dall'agente, idoneo quindi ad interrompere il nesso causale. Diversamente opinando, si finirebbe per accedere ad un modello di responsabilità fondato sulla pura causalità che parifica l'attitudine causale di tutti gli antecedenti necessari dell'evento, con la conseguenza che l'azione umana assurgerebbe a causa per il semplice fatto di essere una delle condizioni che concorre a produrre il risultato lesivo. In altri termini, considerando equivalenti tutte le condizioni che concorrono alla produzione dell'evento lesivo si arriverebbe a considerare causali anche i remoti antecedenti dell'evento delittuoso, accogliendo così una teoria del rapporto causale che ammette il regresso all'infinito. Ciò premesso, pur procedendo ad una riqualificazione giuridica dei fatti oggetto di controversia ai sensi dell'art. 2043 c.c., la domanda risarcitoria formulata nei confronti di Fa.Ma. dev'essere rigettata in mancanza del nesso di causalità materiale tra la condotta (omessa custodia dell'arma) e l'evento dannoso (decesso di Lu.Vi. per mano di Gi.Ma.). 5. Sulla quantificazione del danno 5.1. Venendo al quantum del risarcimento, è necessario differenziare le tipologie di danni lamentati (danno patrimoniale e danno non patrimoniale, sub specie di danno da perdita del rapporto parentale). Il danno da perdita del rapporto parentale è un danno patito iure proprio dai prossimi congiunti del de cuius che consegue alla lesione dell'interesse alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia e alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell'ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost. Il risarcimento oggetto di domanda ha quindi la funzione di ristorare il danneggiato dell'ingiusta privazione di un rapporto fondamentale nella sua esistenza; il danno è infatti rappresentato dal vuoto costituito dal non poter più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nella irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sulla affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell'alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti (Cass. sent. n. 10107/2011). Ciò posto si osserva che l'evento morte di un congiunto stretto da legame parentale di primo grado rappresenta di per sé un evento capace di provocare una sofferenza umana di apprezzabile rilievo. La giurisprudenza di legittimità ha tuttavia affermato che nel valutare il danno per lesione del legame parentale non possono darsi automatismi neppure avuto riguardo alla tipologia di legame parentale, potendosi verificare il caso di una perdita che, benché astrattamente classificabile tra le più gravi, non porti alcuna conseguenza in termini di sofferenza interiore e di stravolgimento della vita di chi sopravvive, come avviene in casi di assenza rapporti quotidianamente coltivati ed emotivamente forti (Cass. sent. n. 10527/2011; Cass. sent. n. 691/2012; Cass. sent. n. 22585/2013; Cass. sent. n. 907/2018). Detto in altri termini, il danno esistenziale da perdita del rapporto parentale non può considerarsi in re ipsa, in quanto ne risulterebbe snaturata la funzione del risarcimento, che verrebbe ad essere concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, bensì quale pena privata per un comportamento lesivo (Cass. Sez. Un. n. 26972/2008; Cass. Sez. Un., sent. n. 26973/2008; Cass. Sez. Un., sent. n. 26974/2008, n. 26974; Cass. Sez. Un., sent. 26975/2008). Il danno da perdita parentale deve essere allegato e provato specificatamente dal danneggiato ex art. 2697 c.c., fatta salva la possibilità di ricorrere a presunzioni laddove il rapporto sia particolarmente stretto (Cass. sent. n. 12985/2016; Cass. sent. n. 16992/2015; Cass. sent. n. 10527/2011). L'allegazione a tal fine necessaria deve concernere fatti precisi e specifici del caso concreto, non potendo invero risolversi in mere enunciazioni di carattere del tutto generico e astratto, eventuale ed ipotetico. A questo proposito la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che "non è necessaria la prova specifica della sussistenza di tale danno, ove sia esistito tra di essi un legame affettivo di particolare intensità, potendo a tal fine farsi ricorso anche a presunzione. In tali casi, di uccisione di un prossimo congiunto, ciò che rileva ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale è, fondamentalmente, il legame affettivo tra i congiunti, perfettamente idoneo a fondare, già di per sé, e salvo prova contraria, la legittimazione attiva a pretendere il danno da morte del congiunto. Con la conseguenza che il peculiare rapporto di ciascun familiare con la vittima, l'intensità del vincolo familiare, le abitudini di vita, le effettive sofferenze individualmente patite, l'eventuale sussistenza di una situazione di convivenza tra i soggetti in questione ed ogni altro elemento della fattispecie, possono incidere esclusivamente sul quantum, in modo da rendere la somma riconosciuta adeguata al particolare caso concreto" (Tribunale di Bari, 14 febbraio 2014). 5.2. Quanto alla liquidazione del danno non patrimoniale soccorrono le tabelle, giudicate dalla giurisprudenza strumento idoneo a consentire al giudice di dare attuazione alla clausola generale posta all'art. 1226 c.c. (Cass. n. 4852/1999). Sul punto, sia pure con riferimento al danno biologico ma con ragionamento estensibile rispetto al danno parentale, le Tabelle di Milano sono andate nel tempo assumendo una "vocazione nazionale", in quanto recanti i parametri maggiormente idonei a "consentire di tradurre il concetto dell'equità valutativa, e ad evitare (o quantomeno ridurre), al di là delle diversità delle condizioni economiche e sociali dei diversi contesti territoriali, ingiustificate disparità di trattamento che finiscano per profilarsi in termini di violazione dell'art. 3 Cost., comma 2" (Cass. sent. n. 16992/2015). In punto di determinazione in concreto del quantum risarcitorio, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermare che, in caso di perdita definitiva del rapporto parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione comprensiva del danno non patrimoniale subìto, in proporzione alla durata e intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all'età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ad ogni altra circostanza del caso concreto, da allegare e provare (anche presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza) da parte di chi agisce in giudizio, spettando alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettono l'unità, la continuità e l'intensità del rapporto familiare (cfr. Cass. n. 9231/2013). 5.3. Nella fattispecie è indubbio che la morte improvvisa e prematura dell'unico figlio, avvenuta all'età di 19 anni, abbia cagionato nei genitori una lesione alla sfera affettiva e familiare di particolare gravità (artt. 2, 29, 30 Cost.). Il legame affettivo sussistente al momento del decesso deve presumersi di particolare intensità atteso che Lu.Vi. conviveva ancora con i genitori con i quali condivideva la vita quotidiana. La valutazione richiesta non può inoltre prescindere dalle peculiari circostanze della morte, quanto mai tragiche nel caso di specie, nonché dell'età dei genitori (di anni 56 il padre e di anni 49 la madre) i quali - considerata l'aspettativa media di vita (pari a circa anni 80 per gli uomini e anni 85 per le donne, secondo i rilevamenti ISTAT) - risultano essere stati privati del rapporto filiale per una non trascurabile parte della loro vita. In applicazione dei principi indicati, tenuto conto degli aspetti contingenti legati alla sofferenza acuta conseguente alla condotta lesiva e del più ampio pregiudizio determinatosi in tutti gli aspetti della vita degli attori, Gi.Ma. dev'essere condannato a corrispondere a Gi.Bi. e a Cl.Vi., a titolo di danno non patrimoniale, la somma di Euro 250.000,00 ciascuno, ritenendosi equo un valore medio tra il minimo e il massimo contenuto nelle Tabelle di Milano. Da tali importi deve essere detratto l'acconto già corrisposto dai convenuti, pari ad Euro 10.000,00 per ciascun genitore. 5.4. Quanto al danno patrimoniale, le spese funerarie, sostenute dagli eredi della persona deceduta per atto illecito, costituiscono una voce di danno ineliminabile che deve essere necessariamente risarcita. Gi.Ma. dev'essere quindi condannato a rimborsare a Gi.Bi. l'importo pari ad Euro 7.894,34, come da documentazione in atti, quali spese funerarie dalla stessa anticipate. 5.5. Sulle somme tutte indicate, in quanto espresse in valore attuale, previa ovvia devalutazione alla data del fatto, andrà corrisposta l'ulteriore rivalutazione, secondo gli indici ISTAT dalla data dell'evento lesivo ovvero dall'esborso effettivo (per le sole spese funerarie) alla data della presente pronuncia (Cass. S.U. sent. n. 1712/1995; successive conformi tra le altre Cass. sent. n. 2796/2000, n. 7692/2001, n. 5234/2006, n. 16726/2009 e n. 18028/2010). Come anticipato, occorre infine scomputare da tali somme gli acconti già corrisposti dai convenuti. A tal fine si richiama quanto ribadito di recente dalla Suprema Corte: "Qualora, prima della liquidazione definitiva del danno da fatto illecito, il responsabile versi un acconto al danneggiato, tale pagamento va sottratto dal credito risarcitorio attraverso un'operazione che consiste, preliminarmente, nel rendere omogenei entrambi (devalutandoli, alla data dell'illecito ovvero rivalutandoli alla data della liquidazione), per poi detrarre l'acconto dal credito e, infine, calcolando, gli interessi compensativi - finalizzati a risarcire il danno da ritardato adempimento - sull'intero capitale, per il periodo che va dalla data dell'illecito al pagamento dell'acconto, solo sulla somma che residua dopo la detrazione dell'acconto rivalutato, per il periodo che va dal suo pagamento fino alla liquidazione definitiva" (Cass. n. 6347/2014). Sulla somma in questione sono poi dovuti gli interessi legali dalla data della presente sentenza (momento in cui il debito di valore diventa debito di valuta) fino al saldo. 6. Sulle spese di lite. In applicazione del principio di soccombenza, Gi.Ma. dev'essere condannato a rifondere a parte attrice le spese di lite, liquidate come da dispositivo, tenuto conto dei valori medi del D.M. n. 55/2014 per i giudizi di cognizione di valore corrispondente al decisum per la fase di studio, introduttiva e decisionale e dei valori minimi del medesimo D.M. per la fase istruttoria (essendo stata la causa istruita documentalmente). Analogamente, gli attori devono essere condannati a rifondere a Ma.Fa. le spese di lite con la precisazione che i compensi devono essere ridotti tenuto conto dell'attività in concreto svolta e considerata la parziale identità dell'attività difensiva svolta dal medesimo difensore a favori di entrambi i convenuti. P.Q.M. Il Tribunale di Lodi, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda, eccezione ed istanza disattesa così provvede: 1) In accoglimento della domanda attorea e previo accertamento della responsabilità esclusiva di Gi.Ma. nella causazione del decesso di Lu.Vi., condanna Gi.Ma. a corrispondere le seguenti somme: - a favore di Cl.Vi. Euro 250.000,00 a titolo di danno non patrimoniale, detratta la somma già corrisposta da parte convenuta pari ad Euro 10.000,00; - a favore di Gi.Bi. Euro 250.000,00 a titolo di danno non patrimoniale, detratta la somma già corrisposta da parte convenuta pari ad Euro 10.000,00, nonché Euro 7.894,34 a titolo di danno patrimoniale; il tutto oltre rivalutazione ed interessi come indicato in parte motiva; 2) rigetta la domanda di risarcimento del danno formulata da parte attrice nei confronti di Fa.Ma.; 3) condanna Gi.Ma. a rifondere a parte attrice le spese di lite che liquida in complessivi Euro 18.413,00 per compensi, oltre 813,00 per spese esenti, oltre 15% per spese generali, CPA ed IVA come per legge; 4) condanna Bi.Gi. e Vi.Cl. a rifondere a Ma.Fa. le spese di lite che liquida in complessivi Euro 12.678,00 per compensi, oltre 15% per spese generali, CPA ed IVA come per legge. Così deciso in Lodi il 27 febbraio 2020. Depositata in Cancelleria il 14 aprile 2020.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI LODI Il Giudice unico in persona della dott.ssa Maria Teresa Latella ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. 731+ 732 /2018 riunite avente per oggetto: opposizione a decreto di pagamento somme promossa da: Br.Gi. (CF (...)) Con l'avv. Al.Sc. e Al.Za. del foro di Lodi PARTE ATTRICE contro De.Pi. (CF (...)) Cr.Lu. (CF (...)) Con l'avv. Pi.Ro. del foro di Lodi MOTIVI IN FATTO E DIRITTO Con ricorso del 24.10.2017 la sig. De. chiedeva che venisse ingiunta alla sig. Br. la somma di Euro 40.770,00 in virtù della scrittura privata 13.9.2012. Tale scrittura ,sottoscritta anche dai sig. Lu., Fi. e Ma.Cr. rientrava in una più ampia operazione di trasferimento dei diritti di sopraelevazione sull'edificio sito in Melegnano via (...) e trovava conferma in un assegno di 70.000,00 Euro emesso in favore della De. dalla Cr. e mai messo all'incasso. Nella predetta scrittura in sostanza - richiamando un precedente accordo dei sig. Ma. e Fi.Cr. a costituire una S.r.l. per lo sfruttamento immobiliare dei terrazzi di via (...) - i medesimi si impegnavano a permettere alla Br. l'intervento immobiliare (salvo l'ottenimento dei permessi comunali) con oneri ed appannaggio degli impegni imprenditoriali alla Br. medesima. In cambio la Br. si impegnava a riconoscere a Lu.Cr. la somma complessiva di Euro 51.230,00 ed alla De., su autorizzazione di Ma.Cr., la somma di Euro 40.770,00, il tutto entro 15 mesi dalla scrittura. Con analogo ricorso del 24.10.2017 il sig. Lu.Cr. chiedeva alla Br. il pagamento della somma di Euro 40.230,00 già dedotto quanto nelle more ricevuto dalla Br. e pari ad Euro 11.000,00. Ha proposto opposizione avverso i due decreti ingiuntivi la sig.Br. eccependo da un lato il difetto di legittimazione della De., nel merito contestando che la scrittura doveva ritenersi nulla e comunque ormai inefficace per l'avvenuta cessione di parte dei terrazzi a soggetti terzi, per la mancata costituzione della società che doveva effettuare l'operazione immobiliare ed in ogni caso per il mancato rilascio delle autorizzazioni e la mancata realizzazione della sopraelevazione. Si è costituito Lu.Cr. evidenziando che la cessione a terzi (nella specie Si.Cr., figlia della Br., ed il compagno) di parte del terrazzo era proprio finalizzata all'operazione de quo (ai fini dell'ottenimento delle autorizzazioni), che queste erano state rilasciate (era stata presentata la Dia e solo una costruzione in difformità aveva dato causa all'ordinanza di demolizione), che in ogni caso l'effettiva realizzazione dell'opera non poteva ritenersi condizione dell'accordo. E dal'altra parte comportamenti successivi della Br. evidenziavano la volontà della medesima di dar corso all'accordo medesimo. Si è costituita altresì la De. aderendo alle osservazioni di Lu.Cr. e chiedendo la conferma del decreto. I due giudizi di opposizione venivano quindi riuniti, il giudice, negata la provvisoria esecuzione dei decreti, concedeva i termini ex art. 183 c. VI c.p.c. e quindi, ritenuta la causa documentale, invitava le parti a precisare le conclusioni ed all'udienza del 27.11.2019 la causa era assunta in decisione. L'opposizione proposta dalla Br. è fondata ed i decreti ingiuntivi debbono essere revocati. Si osserva in primo luogo, quanto alla legittimazione della De., che la stessa risulta firmataria e parte della scrittura 13.9.2012 ed in virtù della stessa astrattamente titolata a pretendere le somme in suo favore riconosciute dalla Br. nel documento. Ogni eccezione in proposito è dunque priva di fondamento. Al pari infondata è la questione di nullità della scrittura 13.9.2012 posta a fondamento dei decreti ingiuntivi. Si premette che oggetto della predetta scrittura, il cui contenuto deve ritenersi integrato da quello della scrittura 20.5.2010, era un intervento immobiliare consistente nella sopraelevazione della palazzina di via (...), intervento in origine previsto da parte di una società costituita tra Fi. e Ma.Cr. ed in seguito da questi "concesso "alla Br.. A fronte del riconoscimento di tali" diritti e possibilità derivanti dalla scrittura" la Br. si impegnava poi ai pagamenti in favore di Lu.Cr. e della De.. Si conveniva inoltre che il mancato ottenimento delle autorizzazioni edilizie fosse motivo di invalidità della scrittura e che "qualora la Br. per qualsivoglia ragione non porti a termine l'iniziativa e decada il presente accordo, tornando in vigore quello del 20 maggio, sarà cura ed onere della medesima ricondurre la proprietà del pianerottolo e rampa di scale al condomini.." Infine era prevista la cessione" di quanto ai punti 1 e 2 da parte di Cr.Lu. in favore di Cr.Si., su autorizzazione della Br. e fermo restando in capo alla seconda gli oneri economici dell'operazione.". Ciò premesso, priva di pregio risulta in primo luogo l'affermazione di nullità degli impegni assunti dalla Br. per aver ceduto la proprietà alla figlia Silvia e a Ta. Giorgio con gli atti del 21.1.2011 e 28.9.2012: tali trasferimenti apparivano semmai il presupposto per la cessione anche dei diritti di sopraelevazione in favore degli acquirenti, fermo però l'impegno economico della Br.. Anche la questione di nullità deve pertanto - sotto tale profilo - essere respinta. Venendo alla questione di inefficacia della scrittura per effetto del mancato avveramento di clausole e condizioni in essa contenute (tra cui la mancata costituzione della società ed i mancati permessi ad edificare), essa deve, ad avviso del giudicante, essere ricondotta alla figura - di nota formazione giurisprudenziale - della cosiddetta presupposizione, la quale riguarda le ragioni oggettive di ogni stipula, ovvero gli elementi di fatto e di diritto che, quantunque non esplicitamente ricompresi nel contrato devono intendersi in esso inseriti sulla base di una ricostruzione della comune volontà delle parti secondo buona fede. La presupposizione è poi stata accostata ad una condizione risolutiva, ad un'ipotesi di impossibilità sopravvenuta o di diritto al recesso, ovvero al venir meno della causa in concreto del contratto. In ogni caso la presupposizione - nel suo riconoscimento giurisprudenziale - ha come requisito che l'evento presupposto sia determinante e comune alla volontà dei contraenti, deve essere assunto come certo nella rappresentazione di entrambi e costituire un presupposto obiettivo, una situazione il cui venir meno o verificarsi sia indipendente dalla volontà o attività delle parti (ex multis Cass.21.11.2001 n. 14629, Cass. 12235/2007) dunque incompatibile con un inadempimento "imputabile". Da essa si differenzia pertanto ed in realtà la condizione risolutiva, avendo questa ad oggetto - a differenza della prima - un fatto futuro ed incerto (e non certo) dal cui verificarsi o meno dipende l'efficacia del contratto ed il cui mancato avveramento comporta l'inefficacia dello stesso con effetto retroattivo. Venendo a questo punto al caso di specie, - ove le parti hanno prospettato la questione sotto un profilo di avveramento di condizione -, la ragione oggettiva degli impegni assunti dai firmatari doveva individuarsi, secondo l'univoca lettura delle due scritture, nella sopraelevazione degli interi terrazzi di Via (...), e tale elemento deve dunque ritenersi il presupposto dell'assetto giuridico determinato tra le parti. Tale ragione era del resto più o meno esplicitamente contemplata nella seconda parte della scrittura laddove è previsto che "qualora per qualsivoglia ragione la Br. non porti a termine l'iniziativa " la scrittura debba decadere e la Br. sia tenuta al ritrasferimento di parti comuni, e ciò indipendentemente da un accertamento o meno di responsabilità. E' pacifico dunque in giudizio che da un lato ed in primo luogo non si sia completata l'operazione di sopraelevazione dell'intero lastrico solare (risultando effettuata una costruzione, per quanto è dato comprendere, solo su quello di pertinenza della coppia Cr. - Ta.); per altro verso anche quest'ultima costruzione risulta soggetta ad un obbligo di demolizione (indipendentemente dalle ragioni e relative responsabilità). Risulta in definitiva che l'oggetto, e la ragione oggettiva, delle scritture 13.9.2012 e 20.5.2010 non si sono realizzate. Dunque, un'interpretazione secondo buona fede degli impegni assunti con le scritture in parola deve condurre all'affermazione di inefficacia, per la mancata realizzazione del presupposto e della ragione stessa degli impegni sottoscritti. In definitiva l'accordo nella sua interezza deve ritenersi venuto meno, per effetto della mancata realizzazione dell'intervento immobiliare di sopraelevazione, fatti salvi da parte dei convenuti eventuali diritti (anche ex art. 2041 cc) per la porzione dei sig. Cr. - Ta., da accertarsi tuttavia una volta definita la sorte del relativo immobile ed in separata sede. L'opposizione proposta dalla sig. Gi.Br. deve pertanto per tale motivo essere accolta ed i decreti ingiuntivi n. 1503/2017 e 1504/2017 emessi il 13.11.2017 vanno revocati. Tenuto conto tuttavia di quanto riferito in ordine ad eventuali ragioni nei confronti di terzi (i sig. Cr. - Ta. tali risultando i soggetti legittimati passivi di un'eventuale azione di indebito arricchimento) e per conseguenza della mancata prova dell'elemento soggettivo dell'azione ex art. 96 c.p.c. (la decisione dipendendo inoltre da ragioni interpretative degli impegni assunti), la relativa domanda deve essere rigettata. Quanto alle spese di lite, attesa la solo parziale reciproca soccombenza, possono essere per metà compensate e per la restante parte essere poste a carico dei convenuti opposti e si liquidano in Euro 5500,00 per compensi oltre accessori per legge. P.Q.M. Il Giudice, definitivamente pronunciando, - accoglie l'opposizione proposta da Br.Gi. e revoca i decreti ingiuntivi n. 1503 e 1504 /2017 emessi dal Tribunale di Lodi il 13.11.2017 - rigetta ogni altra domanda od eccezione - condanna Cr.Lu. e De.Pi. al pagamento in favore della Br. delle spese dell'intero giudizio che liquida in Euro 5500,00 per compensi oltre accessori per legge. Così deciso in Lodi il 14 marzo 2020. Depositata in Cancelleria il 3 aprile 2020.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI LODI Sezione Lavoro Il giudice dr. Elena Giuppi ha pronunciato la seguente SENTENZA Nella causa civile iscritta al n. 573/2018 RG promossa da: (...) rappresentata e difesa dagli avv.ti Ez.Gu. e Fu.Ma. elettivamente domiciliata presso lo studio degli stessi in Milano, Via (...) - ricorrente- CONTRO Ministero della Istruzione , della Università e della Ricerca rappresentato e difeso dal funzionario delegato ex art. 417 bis c.p.c. ed elettivamente domiciliato presso l'avvocatura Distrettuale dello Stato di Milano, in Milano, via (...); - resistente - Oggetto: riammissione in servizio. Svolgimento del processo La ricorrente in epigrafe indicata, con ricorso depositato in data 30 ottobre 2018, premesso: di essere docente di scuola primaria con contratto a tempo indeterminato dal 1 settembre 2001; che con Decreto n. 1225 del 28 agosto 2015 era stata nominata vincitrice del concorso per dirigente scolastico; che era stata assegnata ,quale dirigente scolastico,previa stipulazione del contratto, all'Istituto Comprensivo di Lodi II, dove aveva preso servizio il 1 settembre 2015; che in data 14 settembre 2015, aveva rassegnato le dimissioni ed era stata restituita al ruolo di provenienza ; che in data 10 gennaio 2018 aveva presentato istanza di riammissione in servizio quale dirigente scolastico ; che in data 9 marzo 2018 il dirigente dell'Ufficio II aveva negato la riammissione in servizio con la motivazione che la ricorrente avendo rinunciato all'incarico dopo 14 giorni dalla stipulazione del contratto ,non avrebbe compiuto il periodo di prova e avrebbe risolto il contratto prima del suo perfezionamento; che il provvedimento con il quale era stata negata la riammissione in servizio deve ritenersi illegittimo; tutto ciò premesso rassegnava le seguenti conclusioni : Voglia l'Ill.mo Tribunale adito, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, così giudicare: nel merito e in via principale: a) previa eventuale disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi presupposti, accertare e dichiarare che tra la prof.ssa (...) e i resistenti intercorre un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato come Dirigente Scolastico in periodo di prova a far data dall'anno scolastico 2018-19 (01.09.2018), ovvero altra data che verrà ritenuta di giustizia o di equità, e per l'effetto condannare i resistenti, in solido tra loro o ciascuno secondo quanto di loro competenza, a riammettere in servizio la prof.ssa (...) quale Dirigente Scolastico consentendo lo svolgimento del periodo di prova; b) in subordine: previa eventuale disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi presupposti, emettere pronuncia ex art. 2932 c.c. che tenga gli effetti del contratto non concluso e conseguentemente costituire ovvero dichiarare costituito tra la prof.ssa (...) e i resistenti un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato come Dirigente Scolastico in periodo di prova a far data dall'anno scolastico 2018-19 (01.09.2018), ovvero altra data che verrà ritenuta di giustizia o di equità, e per l'effetto condannare i resistenti, in solido tra loro o ciascuno secondo quanto di loro competenza, a riammettere in servizio la prof.ssa (...) quale Dirigente Scolastico consentendo lo svolgimento del periodo di prova; c) in ulteriore subordine: ordinare e condannare le Amministrazioni resistenti, in solido o ciascuna secondo quanto di competenza, a emanare tutti gli atti necessari per la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la prof.ssa (...) come Dirigente Scolastico in periodo di prova, e per l'effetto condannare i resistenti, in solido tra loro o ciascuno secondo quanto di loro competenza, a riammettere in servizio la prof.ssa (...) quale Dirigente Scolastico consentendo lo svolgimento del periodo di prova; d) in estremo subordine: condannare le Amministrazioni resistenti, in solido o ciascuna secondo quanto di competenza, a risarcire tutti i danni subiti dalla ricorrente, e in particolare: in via principale e in forma specifica, annullare il parere negativo alla riammissione in servizio della ricorrente dichiarando nel contempo l'illiceità della motivazione di diniego alla riammissione basata sul fatto che la ricorrente, al momento delle dimissioni, stava svolgendo il periodo di prova e ordinando ai resistenti la rivalutazione nel merito della domanda di riammissione della ricorrente; in via subordinata e per equivalente, condannare le Amministrazioni resistenti, in solido o ciascuna secondo quanto di competenza, a corrispondere alla ricorrente una somma di denaro da liquidarsi in via equitativa o in subordine in forma generica, anche come danno da perdita di chance; Il Ministero si costituiva chiedendo il rigetto del ricorso ribadendo la legittimità del provvedimento impugnato. All'udienza del 30 gennaio 2019, all'esito della discussione, il giudice pronunciava sentenza del cui dispositivo dava lettura. Motivi della decisione Il ricorso deve essere rigettato. La decisione della causa, di mero diritto, trova soluzione nell'applicazione del principio espresso dalla Suprema Corte nella sentenza la cui massima di seguito viene richiamata: Sez. L, Sentenza n. 21660 del 14/08/2008 L'istituto della riammissione in servizio del dipendente pubblico già dimissionario, ai sensi dell'art. 132 del D.P.R. n. 3 del 1957 e 516 del D.Lgs. n. 297 del 1994, presuppone la decisione discrezionale dell'amministrazione volta alla verifica del soddisfacimento dell'interesse pubblico con la copertura del posto vacante senza concorso, sicché resta esclusa la configurabilità di un diritto soggettivo all'accettazione di quella che, a seguito della privatizzazione del rapporto di lavoro, è da qualificare in termini di proposta contrattuale; peraltro, poiché il potere amministrativo è procedimentalizzato dalla specifica disciplina legislativa, recante l'obbligo della valutazione dell'interesse pubblico, dell'esame tempestivo e secondo correttezza e buona fede della domanda nonché della motivazione della decisione di riammissione (ancorché negativa), il richiedente, se non può chiedere la stipulazione del contratto, può chiedere tuttavia il risarcimento del danno da inadempimento di tali obblighi strumentali (principio affermato con riferimento al settore scolastico e a domanda di riammissione in servizio e risarcimento del danno proposta da direttrice didattica cessata dal servizio per dimissioni). Il principio affermato dalla corte di legittimità è condiviso dal giudice e, attesa la natura di proposta contrattuale della richiesta di riammissione in servizio, nella fattispecie in esame in assenza di consenso da parte dell'amministrazione che, come non è contestato, ha sempre rigettato tale proposta, deve escludersi il diritto della ricorrente alla ricostituzione del rapporto di lavoro quale dirigente scolastico. Giova precisare che non essendo il presente un giudizio di impugnazione dell'atto amministrativo, ma di accertamento del diritto alla costituzione del rapporto di lavoro, ogni eventuale profilo di illegittimità del diniego sarebbe irrilevante. Per completezza si osserva che nel caso in esame la ricorrente ha rassegnato le dimissioni prima che fosse terminato il periodo di prova per l'immissione in ruolo quale dirigente scolastico. Neppure parte ricorrente individua alcuna norma che consenta al dirigente , che abbia rassegnato le dimissioni durante il periodo di prova risolvendo così il rapporto contrattuale, di essere riammesso a completare la prova. Anche la domanda risarcitoria conseguente alla condotta asseritamente contraria a correttezza e buona fede dell'amministrazione è infondata: l'Amministrazione ha rigettato come era in suo potere la richiesta di riassunzione della ricorrente nel ruolo dei dirigenti scolastici, sulla base di una motivazione giuridica che non risulta connotata da scorrettezza o mala fede contrattuale. Il ricorso deve essere rigettato. Le spese liquidate come da dispositivo seguono la soccombenza. P.Q.M. Definitivamente pronunciando: Rigetta il ricorso proposto da (...) contro Ministero dell'Istruzione. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite liquidate in Euro 1000. Termine di 60 giorni per la motivazione. Così deciso in Lodi il 30 gennaio 2019. Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2019.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI LODI SEZIONE CIVILE Il Tribunale, nella persona del giudice dott.ssa Grazia C. Roca, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I grado iscritta al n. r.g. 2783/2013, promossa da: (...) (C.F. (...)), difeso e rappresentato dall'avv. Fr.Ri. e dall'avv. Br.Pa. - parte attrice - nei confronti di: (...) (C.F. (...)) e (...) (C.F. (...)), difesi e rappresentati dall'avv. Ge.Ti. - parte convenuta - OGGETTO: contratto di deposito CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Per quanto riguarda il completo svolgimento del processo, ai sensi del vigente art. 132 c.p.c., si fa rinvio agli atti delle parti e al verbale di causa. 1. Con atto di citazione ritualmente notificato, (...) ha convenuto in giudizio (...), responsabile di (...), e (...), esperto d'arte ed editore, assumendo di aver subito lo smarrimento di due opere pittoriche che la stessa aveva consegnato agli odierni convenuti affinché provvedessero ad esporli in occasione di mostre e concorsi salvo poi l'obbligo di restituirli alla sig.ra (...). In particolare, l'attrice rappresenta di aver consegnato a (...) e (...) nel febbraio 2011, in occasione della Fiera "(...)", l'opera intitolata "(...)", e successivamente, presso il Grand Hotel (...), in occasione di una mostra organizzata da (...), l'opera "Mille e mille fili di seta", in vista dell'esposizione di entrambi i quadri al "(...)". L'attrice deduce che, nonostante i numerosi solleciti, la sig.ra (...) e il sig. (...) non hanno mai provveduto alla restituzione delle opere, arrecandole un danno pari al valore dei quadri smarriti nonché un danno all'immagine derivante dall'impossibilità di esporre le suddette opere (quantificato equitativamente in Euro 15.000,00). La sig.ra (...) e il sig. (...), costituendosi in giudizio, hanno negato la propria responsabilità ex recepto¸ chiedendo il rigetto della domanda risarcitoria formulata da parte attrice. I convenuti riferiscono di aver ricevuto dall'attrice nel maggio 2011, in occasione di una manifestazione artistica tenutasi presso il Grand Hotel (...), alcune opere dalla stessa realizzate che avrebbero dovuto essere esposte al "(...)" in programma a Cesenatico nell'estate del 2011; il sig. (...) sottolinea di aver ricevuto in custodia suddette opere a titolo di cortesia e di amicizia, escludendo la sussistenza di un rapporto di natura contrattuale con la sig.ra (...). I convenuti rappresentano, inoltre, che al termine della manifestazione artistica la sig.ra (...) ha omesso di ritirare le proprie opere; pertanto - in virtù del rapporto di amicizia che la legava alla attrice - in data 10 settembre 2011 - la sig.ra (...) si sarebbe premurata di trasportare presso il Grand Hotel di (...) i due quadri, avvertendo telefonicamente l'attrice che le opere erano state lasciate in un angolo della Sala Congressi della struttura alberghiera. Ciò nonostante la sig.ra (...) non avrebbe provveduto al ritiro delle opere che quindi andavano smarrita per colpa non imputabile ai convenuti. Acquisita la documentazione offerta in giudizio, esperita la prova orale e la consulenza tecnica d'ufficio avente ad oggetto il valore delle opere smarrite, all'udienza del 14.09.2018 la causa è stata trattenuta in decisione. 2. La domanda formulata da parte attrice è fondata e, pertanto, deve essere accolta con conseguente condanna di parte convenuta al risarcimento dei danni cagionati alla sig.ra (...) nei limiti di seguito specificati. 2.1. Come noto, affinché sorga la responsabilità del depositario per i danni o lo smarrimento della cosa depositata non è necessario un espresso accordo in virtù del quale questi si impegna formalmente a custodirla, ma è sufficiente la mera consegna di essa (con la conseguente sottoposizione alla propria sfera di influenza e di controllo), non accompagnata da manifestazioni di volontà volte a limitare o escludere la responsabilità ex recepto (Cass. sent. n. 15490/2008). Nel caso di specie, deve ritenersi provato, per stessa ammissione di parte convenuta (si veda la comparsa di costituzione e risposta p. 3), che le opere smarrite sono state affidate dalla attrice al sig. (...) affinché le consegnasse alla sig. (...), titolare di (...) ed organizzatrice della manifestazione artistica "(...)", alla quale la sig.ra (...) era stata invitata a partecipare dalla stessa convenuta. La circostanza che le opere denominate "(...)" e "(...)" fossero state consegnate ai convenuti è stata poi confermata anche dai testi (...) e (...), rispettivamente figlio e amico della attrice, della cui attendibilità non vi è motivo di dubitare, non essendo emerse ragioni che potrebbero far presumere un condizionamento nei confronti dei convenuti. In particolare, quanto alla testimonianza di (...) giova evidenziare che la Cassazione è unanime nel riconoscere che "in materia di prova testimoniale, non sussiste alcun principio di necessaria inattendibilità del testimone che abbia vincoli di parentela o coniugali con una delle parti, atteso che, caduto il divieto di testimoniare previsto dall'art. 247 c.p.c. per effetto della sentenza della Corte Cost. n. 248 del 1974, l'attendibilità del teste legato da uno dei predetti vincoli non può essere esclusa aprioristicamente in difetto di ulteriori elementi dai quali il giudice del merito desuma la perdita di credibilità" (Cass. n. 25358/2015). Le discrepanze emerse dalle dichiarazioni dei testimoni escussi circa l'indicazione del luogo e del periodo in cui le opere sono state affidate dalla attrice ai convenuti non assumono rilievo ai fini della valutazione della sussistenza di profili di responsabilità in capo a questi ultimi, trattandosi di elementi di fatto secondari rispetto all'accertata consegna della res. Preme evidenziare che, nel caso di specie, la consegna delle opere da parte della sig.ra (...) nelle mani dei convenuti (...) e (...) integra sicuramente un contratto di deposito gratuito, dovendosi - invece - escludere l'ipotesi di un mero deposito di cortesia. Quanto alla sig.ra (...), è evidente che l'organizzatore di eventi artistici, esponendo opere di titolarità di soggetti terzi, assume su di sé l'obbligo di custodirle. In altri termini, è indubbio che la detenzione delle opere da parte del gallerista sia assolutamente funzionale allo svolgimento della propria attività professionale che si esplica, principalmente, nell'esposizione di opere artistiche sulle quali esercita un potere effettivo di controllo e di vigilanza. Non vi sono poi dubbi che anche il sig. (...) sia parte del contratto di deposito in oggetto, dovendosi escludere che egli abbia accettato in consegna le opere dalla sig.ra (...) per mero spirito di amicizia. Dallo scambio di email intercorso tra l'attrice e i convenuti, emerge che il sig. (...) aveva assunto su di sé un obbligo di custodia al pari della sig.ra (...), diventando destinatario dei numerosi solleciti della sig.ra (...) e ciò anche su specifica indicazione della sig.ra (...). Quest'ultima circostanza fa quindi desumere che il sig. (...) disponesse materialmente delle opere esposte presso la manifestazione artistica "(...)", partecipando - di fatto - all'attività della sig.ra (...). 2.2. Quanto alla prova liberatoria, anche nell'ipotesi di deposito gratuito, il depositario per andare esente da ogni responsabilità deve provare l'imprevedibilità o l'inevitabilità della perdita della cosa, ovvero l'estraneità della perdita stessa rispetto al comportamento tenuto nell'esecuzione del contratto; a tal proposito la giurisprudenza ha chiarito che il depositario non si libera della responsabilità ex recepto provando di avere usato nella custodia della res la diligenza del buon padre di famiglia prescritta dall'art. 1768 c.c., ma deve provare a mente dell'art. 1218 c.c. che l'inadempimento sia derivato da causa a lui non imputabile (Cass. sent. n. 7363/1997; Cass. sent. n. 5736/2007). Nella fattispecie, la perdita delle opere "(...)" e "(...)" deve essere imputata esclusivamente alla condotta gravemente colposa dei convenuti i quali, per loro stessa ammissione (si veda comparsa di costituzione e risposta p. 4), dopo aver trasportato le opere dalla sede dell'esposizione a (...), le hanno lasciate incustodite in una sala congressi del Grand Hotel (...), luogo di cui (...) si avvaleva per organizzare rassegne di arte. Né vale ad escludere la responsabilità dei convenuti la circostanza che per prassi gli artisti che partecipano agli eventi organizzati da (...) provvedono personalmente a ritirare le proprie opere al termine della manifestazione. A tal proposito, è sufficiente evidenziare che l'obbligo di custodia in capo al depositario permane finché la res non viene ritirata dal depositante e ciò anche dopo la scadenza del termine eventualmente convenuto dai contraenti. 3. Quanto ai danni patiti, l'attrice rappresenta che la condotta dei convenuti le ha arrecato un danno pari al valore delle opere smarrite nonché un danno alla carriera artistica, causato dall'impossibilità di esporre i suddetti dipinti. 3.1. Per ciò che concerne la prima voce di danno, al fine di accertare il valore delle opere, l'istruttoria si è svolta mediante CTU, dalle cui conclusioni non si ha motivo di dissentire. L'elaborato peritale ha vagliato - con adeguata motivazione e rimettendo al giudice le decisioni di diritto - i profili tecnici della controversia. Il Tribunale dunque - aderendo alle conclusioni del CTU - "esaurisce l'obbligo della motivazione con l'indicazione delle fonti del suo convincimento, e non è necessario che si soffermi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte che, seppur non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili con le conclusioni tratte". Nello specifico, il consulente tecnico d'ufficio, dott.ssa Gi.Vi., ha quantificato in Euro 1.800,00 il valore dell'opera "(...)" e in Euro 1.500,00 il valore dell'opera "(...)"; a detta quantificazione il Tribunale ritiene quindi di aderire. 3.2. Quanto alla seconda voce di danno, la sig.ra (...) deduce che la condotta inadempiente dei convenuti le avrebbe cagionato un danno che, più correttamente, deve essere qualificato in termini di danno da perdita di chance, ovvero come perdita della possibilità di conseguire in futuro un risultato utile. Come noto, anche il danno da perdita di chance integra un danno conseguenza e come tale deve essere allegato nei sui elementi costitutivi materiali e provato. La prova può basarsi anche, in via presuntiva, sulla allegazione di circostanze di fatto da cui desumere in concreto l'esistenza del pregiudizi. Sul punto occorre richiamare le considerazioni svolte dal consulente tecnico d'ufficio nella relazione peritale. La dott.ssa (...) evidenzia il basso valore artistico della produzione della sig.ra (...), pittrice non nota nel contesto artistico nazionale ed internazionale e le cui opere sono prive di una valutazione commerciale. Le uniche opere di maggior interesse sono proprio i due dipinti smarriti che l'attrice aveva in programma di esporre nell'ambito di diverse manifestazioni artistiche (doc. 15 e doc. 19). Deve quindi ritenersi che la condotta negligente dei convenuti, con riferimento alle due opere "(...)" e "(...)", ha effettivamente privato l'attrice di uno spazio di visibilità artistica nonché di una possibilità di guadagno, connessa alla eventualità, non meramente simbolica, di vendere le proprie opere, cagionandole un danno che, tenuto conto della complessiva rilevanza dell'attività artistica della attrice, deve essere liquidato in via equitativo in Euro 1.500,00. In conclusione, i convenuti devono essere condannati a pagare a parte attrice, a titolo di risarcimento del danno, la somma complessiva pari ad Euro 4.800,00 di cui Euro 3.300,00 pari al valore delle opere smarrite ed Euro 1.500,00 a titolo di danno da perdita di chance. 4. Le spese di lite, liquidate come da dispositivo, tenuto conto del valore del decisum, seguono la soccombenza ai sensi dell'art. 91 c.p.c. Parimenti, le spese per la CTU, già liquidate come da separato decreto del 14.07.2017, sono poste definitivamente a carico di parte soccombente. PER QUESTI MOTIVI il Tribunale di Lodi in composizione monocratica definitivamente pronunciando, disattesa ogni altra domanda ed eccezione, così provvede: 1) accoglie la domanda attorea nei riguardi di (...) e (...) e li condanna in solido al risarcimento del danno in favore di (...) pari ad Euro 4.800,00; 2) condanna (...) e (...), in solido tra di loro, a rifondere all'attrice le spese di lite, liquidate in Euro 2.430,00 per compenso professionale, oltre al 15% per spese generali ed agli accessori di legge; 3) pone le spese di CTU, già liquidate con separato decreto, a carico di (...) e (...), in solido ed in misura eguale. Così deciso in Lodi il 14 gennaio 2019. Depositata in Cancelleria il 21 gennaio 2019.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI LODI Il Tribunale di Lodi in composizione monocratica nella persona della dott.ssa Elena Giuppi, quale Giudice del lavoro, ha emesso la seguente SENTENZA Nella causa n. 385/2018 RG, discussa e trattenuta in decisione all'udienza del 9 gennaio 2019 promossa da: (...), con gli avv. S.Ch. e D.Va. Ricorrente in opposizione contro AZIENDA AGRICOLA DAL (...), con l'avv. A.De. Resistente OGGETTO: opposizione ordinanza di cui all'art. 1,comma 49 L. n. 92 del 2012, impugnazione licenziamento, superamento comporto. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO La ricorrente, con ricorso depositato in data 25 luglio 2018, ha proposto opposizione avverso la ordinanza ex art. 1 comma 49 L. n. 92 del 2012 con la quale il giudice del lavoro presso il Tribunale di Lodi in data 26 giugno 2018 aveva rigettato la impugnazione del licenziamento comunicatole in data 12 ottobre 2017 per superamento del periodo di comporto. La ricorrente, rifacendosi alle argomentazioni già proposte del procedimento sommario definito con l'ordinanza opposta, ha concluso chiedendo che il giudice dichiarasse la illegittimità del licenziamento con condanna della società convenuta, ai sensi dell'articolo 18, commi 2 e 4 St.lav, alla reintegrazione e al risarcimento del danno in misura non superiore a 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto; in subordine chiedeva il pagamento dell'indennità risarcitoria compresa fra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità. La società convenuta si è costituita chiedendo rigetto del ricorso. Il giudice, assunte le prove orali dedotte dalle parti, sulla documentazione prodotta, all'udienza del 9 gennaio 2019 all'esito della discussione, tratteneva la causa in decisione. MOTIVI DELLA DECISIONE Il giudice richiama integralmente il contenuto dell'ordinanza opposta che per comodità è di seguito trascritta: Considerato in fatto e in diritto: La ricorrente, con ricorso ex art. 1 comma 48 e ss. L. n. 92 del 2012 iscritto a ruolo in data 21 marzo 2018 ha impugnato il licenziamento intimato dalla convenuta (con comunicazione ricevuta in data 12 ottobre 2017) per superamento del periodo di comporto chiedendone in via principale l'annullamento, con condanna della datrice di lavoro alla reintegrazione e al risarcimento del danno ex art.18,comma 4 St.Lav.; in via subordinata ha chiesto la condanna al pagamento a titolo risarcitorio di un'indennità pari a 24 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto ex art. 18, comma 5 St. Lav. La società ,costituendosi in giudizio, ha chiesto il rigetto del ricorso. Il giudice all'udienza del 5 giugno 2018, all'esito della discussione, si riservava di decidere con ordinanza fuori udienza. Il ricorso nel merito non può essere accolto. La ricorrente ,in sintesi, a fondamento del ricorso assume che non possano essere computati, ai fini del superamento del comporto i seguenti periodi: - dal 10 aprile al 4 maggio 2017 - dal 13 giugno al 5 luglio 2017 Quanto al periodo 10 aprile - 4 maggio la stessa difesa della ricorrente in sede di discussione ha riconosciuto trattarsi di un periodo di malattia in quanto tale computabile ai fini del comporto; la pratica era stata aperta dapprincipio come infortunio, che Inail non ha riconosciuto ritenendo sussistenti i presupposti per il riconoscimento della prestazione di malattia. Inps ha regolarmente corrisposto il relativo trattamento e dunque il periodo deve essere riconosciuto come assenza per malattia. Quanto al periodo 13 giugno - 5 luglio 2017 occorre chiarire che il 6 giugno, dopo che la ricorrente aveva terminato il precedente periodo di malattia iniziato il 5 maggio (doc. 1 ricorrente), il curante aveva certificato ulteriore malattia con prognosi fino a tutto il 6 luglio 2017. Il 12 giugno 2017 il medico Inps, nel corso di visita medica ambulatoriale, dichiarava la ricorrente in grado di riprendere il lavoro il giorno successivo, 13 giugno. Per motivi sulle quali le parti si trovano in completo disaccordo (ma il giudice ritiene almeno allo stato della cognizione sommaria irrilevanti) la ricorrente di fatto non ha ripreso il lavoro e non ha prestato attività lavorativa: il 6 luglio tuttavia un nuovo certificato medico attesta la malattia della ricorrente che si protrarrà ininterrottamente fino al licenziamento. Ritiene il giudice che anche il periodo dal 13 giugno al 5 luglio debba essere computato ai fini del comporto per i seguenti motivi: - il medico curante aveva effettuato una prognosi di malattia fino dal 6 giugno al 6 luglio: benchè non sia nota la diagnosi è verosimile che la prognosi sia stata effettuata con oculatezza posto che la ricorrente a quella data aveva già goduto di un lungo periodo di malattia ininterrotta dal 10 aprile 2017 e successivamente non ha mai ripreso il lavoro posto che dal 6 luglio sono stati certificati ulteriori ininterrotti periodi di malattia fino 12 ottobre 2017; - nonostante alla visita di controllo il medico Inps abbia riconosciuto la ricorrente in grado di riprendere il lavoro dal 13 giugno, il datore di lavoro ha integralmente corrisposto, anticipandolo, il trattamento di malattia per l'intero mese di giugno e luglio; - Il periodo 13 giugno - 5 luglio, già certificato come malattia dal curante, costituirebbe l'unica parentesi di salute della ricorrente (o meglio l'unico periodo in cui la ricorrente non sarebbe stata malata) in un arco temporale di 6 mesi decorrenti dal 10 aprile al 12 ottobre 2017 nel corso del quale la ricorrente è stata continuativamente assente per malattia. Ritiene il giudice che ,in assenza di altri elementi, sulla sola base del giudizio del medico Inps che ha certificato una generica capacità della ricorrente di riprendere il lavoro, non possa ritenersi interrotta la malattia e debba ritenersi che anche il periodo dal 13 giugno al 5 luglio, certicato dal curante come periodo di malattia, debba essere oggettivamente considerato di malattia e computato ai fini del superamento del comporto, senza che rilevino la buona o mala fede delle parti. Anche l'affermazione che il periodo 13 giugno - 5 luglio debba essere considerato quale periodo di godimento delle ferie, asseritamente concesse verbalmente dal datore di lavoro, non trova conferma nelle prove offerte dalla parte ricorrente: la stessa infatti in una conversazione con l'applicativo whatsapp non ha chiesto le ferie ma si è semplicemente informata di quanti giorni di ferie potesse ancora godere. Da tali conversazioni, invero, risula che la ricorrente il 13 giugno non fosse affatto guarita: lei stessa infatti, pur insistendo per rientrare al lavoro, scriveva "faccio poco ma vengo" e all'opposizione del datore di lavoro". Non devi venire domani" rispondeva "mi ha detto che posso faccio poco ma vengo" Il ricorso deve essere rigettato. Le spese sono compensate attesa la particolarità della fattispecie nella quale il giudizio del medico di Inps, andando di diverso avviso rispetto al curante, sulla ripresa dell'attività lavorativa non è stato comunque seguito dalla revoca della prestazione previdenziale. Il giudice, anche all'esito dell'istruttoria testimoniale assunta nel giudizio di opposizione, ribadisce che il licenziamento è legittimo in quanto la durata della malattia ha superato il comporto. Viene qui confermata la motivazione dell'ordinanza impugnata, alla quale si aggiungono ulteriori elementi di valutazione. Devono ritenersi rilevanti e decisivi ai fini di causa i seguenti fatti: - il verbale di visita medica di controllo ambulatoriale datato 12 giugno 2017 ,a firma del dirigente medico legale Inps in data 12 giugno 2017, attestante che la ricorrente poteva riprendere il lavoro non è mai stato portato formalmente a conoscenza dell'Azienda agricola resistente, né prima né dopo il licenziamento. Nel verbale, peraltro, non è indicato il datore di lavoro e, secondo quanto risulta dal doc. 8 di parte ricorrente, Inps avrebbe comunicato alla ricorrente dopo il licenziamento di avere inviato il verbale di idoneità al lavoro a tale (...) soc. Coop. di san Nazaro de Burgundi (commettendo un evidente errore nell'individuazione del destinatario della missiva). Non può ritenersi che l'invio da parte della ricorrente sul telefono privato della collega addetta all'ufficio del medesimo verbale costituisca, in assenza di altri elementi di riscontro, prova che il datore di lavoro conoscesse che la ricorrente fosse stata sottoposta a visita e l'esito. Risulta peraltro dal verbale che la visita ambulatoriale non fosse stata richiesta dal datore di lavoro né fosse stata resa necessaria dal mancato reperimento della paziente al domicilio. - la ricorrente - dopo essersi sottoposta a visita presso Inps - non si è mai presentata fisicamente in azienda per riprendere il lavoro (la circostanza è pacifica); - non è provato che la ricorrente abbia avuto una conversazione telefonica con l'impiegata addetta all'ufficio dell'impresa sig. Ta.Sm. (sentita come teste all'udienza del 28 novembre 2018), la quale ha negato la circostanza allegata dalla ricorrente ed ha altresì negato di avere ricevuto una richiesta di ferie e di avere comunicato che erano state concesse; non è provato che alla ricorrente sia stato concesso, su sua richiesta, un periodo di ferie. Il contenuto delle comunicazioni (...) intervenute il 12 e 13 giugno 2018 fra la ricorrente e la predetta impiegata (riscontrate direttamente dal giudice sul telefono della teste) provano che la lavoratrice avesse contattato l'impiegata della impresa chiedendo come comportarsi e ricevendo risposte interlocutorie ("poi te lo dico", "vedremo ", "aspetta" ...),a fronte delle quali la ricorrente non ha ritenuto di presentarsi personalmente al datore di lavoro per mettersi a disposizione. Ritiene in estrema sintesi il giudice che, nonostante il verbale della visita di controllo ambulatoriale presso Inps, il periodo di sospensione per malattia non sia mai stato interrotto (come peraltro documentato dal pagamento della relativa prestazione previdenziale, revocato dall'Istituto solo in data successiva al licenziamento) perché la ricorrente non ha mai ripreso servizio, né ha offerto la prestazione né ha chiesto un periodo di ferie. A sostegno di quanto sopra il giudice richiama la giurisprudenza di legittimità che afferma che solo la effettiva ripresa del servizio interrompe la malattia: In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, ove la disciplina contrattuale non contenga esplicite previsioni di diverso tenore, devono essere inclusi nel calcolo anche i giorni festivi che cadano durante il periodo di malattia indicato dal certificato medico, operando, in difetto di prova contraria (che è onere del lavoratore fornire), una presunzione di continuità, in quei giorni, dell'episodio morboso addotto dal lavoratore quale causa dell'assenza dal lavoro e del mancato adempimento della prestazione dovuta, e la prova idonea a smentire la suddetta presunzione di continuità può essere costituita soltanto dalla dimostrazione dell'avvenuta ripresa dell'attività lavorativa, atteso che solo il ritorno in servizio rileva come causa di cessazione della sospensione del rapporto, con la conseguenza che i soli giorni che il lavoratore può legittimamente richiedere che non siano conteggiati nel periodo di comporto sono quelli successivi al suo rientro in servizio. Né, ai fini del computo complessivo del periodo di assenza, possono essere detratti i giorni di ferie ove non sia stata avanzata una espressa domanda da parte del lavoratore per la fruizione del periodo maturato e non goduto. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha rilevato che, correttamente, il giudice di merito, in applicazione dei principi di cui alla massima, aveva disatteso la domanda del lavoratore, il quale aveva maturato assenze per mille e ventotto giorni, periodo di gran lunga superiore a quello consentito dalla disciplina collettiva, e, senza contestarne l'entità, si era limitato a censurare l'erroneo computo dei giorni festivi e delle ferie). Sez. L, Sentenza n. 29317 del 15/12/2008. Nel caso in esame la ricorrente non ha mai interrotto il periodo di sospensione del rapporto per malattia, né può invocare la propria buona fede o la mala fede altrui. La lavoratrice, agendo secondo correttezza e buona fede, non avrebbe dovuto limitarsi ad un contatto confuso tramite un'applicazione del telefono con una collega, ma avrebbe dovuto contattare formalmente il datore di lavoro, informarlo dell'esito della visita e presentarsi in azienda per riprendere il lavoro oppure richiede di essere autorizzata a godere delle ferie (peraltro non è né allegato né provato che la ricorrente potesse godere di ferie residue o avesse maturato ferie per coprire il periodo in contestazione). Tale condotta non è stata tenuta; del tutto legittimamente il datore di lavoro ha ritenuto che in ragione della malattia - debitamente comunicata e certificata - perdurando l'assenza della lavoratrice, il rapporto fosse sospeso. In conclusione il ricorso in opposizione deve essere rigettato. Le spese liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Condanna (...) al pagamento delle spese di lite liquidate in Euro 2000,00 oltre spese generali, iva e Cpa. Così deciso in Lodi il 19 gennaio 2019. Depositata in Cancelleria il 21 gennaio 2019.
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