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  • REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano TRIBUNALE DI MESSINA SECONDA SEZIONE CIVILE Il Tribunale di Messina, Seconda Sezione Civile, in persona del giudice istruttore in funzione di giudice unico dott.ssa Maria Carmela D'Angelo ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 5462/2013 R.G., introitata per la decisione in data 6 dicembre 2022, previa assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. promossa da Comune di Valdina (C.F. 82001480837), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. (...), in virtù di procura in atti, - parte attrice opponente - contro Azienda Consortile Acquedotti vena e Niceto - A.C.A.V.N., corrente in Spadafora, Piazza Vittorio Emanuele III, iscritta al R.E.A. di Messina al n. 208423, codice fiscale e partita IVA (...), in persona del Presidente Dott. A. Di Stefano, rappresentata e difesa dall'avv. (...), in virtù di procura in atti, -parte convenuta opposta- OGGETTO: opposizione a decreto ingiuntivo. Conclusioni I procuratori delle parti hanno precisato le conclusioni come da atti e verbali di causa. Ragioni di fatto e di diritto della decisione Con atto di citazione ritualmente notificato, il Comune di Valdina proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 843/13, reso il 05.6.2013 dal Tribunale di Messina, depositato in cancelleria il 06.06.2013, notificato il 25.06.2013, con il quale, ad istanza della Azienda Consortile Acquedotti Vena e Niceto - A.C.A.V.N., veniva ingiunto al Comune consorziato il pagamento della somma di Euro 173.794,15, a titolo di pagamento di quote consortili e somme dovute a titolo di corrispettivo per l'attività di gestione del servizio idrico. Parte opponente eccepiva il difetto di legittimazione ad agire del Presidente dell'Azienda e l'improcedibilità della domanda in forza della clausola compromissoria di cui all'art. 25 dello Statuto del Consorzio. Con comparsa di costituzione e risposta depositata in data 13 febbraio 2014, si costituiva in giudizio la Azienda Consortile Acquedotti Vena e Niceto, la quale chiedeva il rigetto delle domande avversarie. Osserva il Tribunale, passando alla disamina della res controversa, che deve, in via preliminare, rigettarsi l'eccezione avanzata dal Comune opponente di difetto di legittimazione ad agire del Presidente dell'Azienda Consortile Acquedotti Vena e Niceto opposta, attribuendo a quest'ultimo l'art. 15 dello Statuto dell'Azienda il potere rappresentativo della medesima, il quale non è escluso dal concorrente potere rappresentativo che l'art. 18 dello Statuto attribuisce - non in via esclusiva - al Direttore, previa autorizzazione del Consiglio di Amministrazione. Deve, invece, essere accolta la preliminare eccezione svolta dal Comune di Valdina, in forza della clausola compromissoria contenuta nell'art. 25 dello Statuto dell'Azienda opposta. L'eccezione di incompetenza risulta infatti fondata e meritevole di accoglimento, con riguardo alla competenza del collegio arbitrale per esistenza di una valida clausola compromissoria. La disciplina sancisce espressamente l'equiparazione della questione concernente l'esistenza della potestas iudicandi arbitrale ad una questione di competenza. Da un lato, infatti, l'eccezione volta a far valere l'esistenza della convenzione arbitrale viene assoggettata allo stesso regime proprio dell'eccezione di incompetenza per territorio derogabile. Dall'altro, si prevede l'impugnabilità con regolamento di competenza della sentenza con la quale il giudice dello Stato, pronunciando su tale eccezione, affermi o neghi la propria competenza (nel senso che la nuova disciplina si applica solo ai giudizi instaurati successivamente al 02.03.2006, cfr. Cass. 12814/2008). L'improponibilità della domanda a causa della previsione d'una clausola compromissoria per arbitrato irrituale è rilevabile non già d'ufficio, ma solo su eccezione della parte interessata e, dunque, non osta alla richiesta ed alla conseguente emissione di un decreto ingiuntivo; tuttavia, è facoltà dell'intimato eccepire l'improponibilità della domanda dinanzi al giudice dell'opposizione ed ottenerne la relativa declaratoria (v. Cass. 5265/2011). La disciplina del procedimento arbitrale non elimina la competenza del Giudice ordinario ad emettere un decreto ingiuntivo, ma la fa venir meno in sede di opposizione: "la clausola compromissoria impedisce solo la fase di opposizione, non quella monitoria" (Trib. Bologna 26.2.2013). Correttamente, pertanto, è stato concesso il decreto ingiuntivo richiesto. Dal tenore letterale della clausola compromissoria emerge senza alcun dubbio la natura rituale dell'arbitrato voluto dalle parti contrattuali, prevedendo espressamente che tutte "le controversie" che insorgono fra gli enti consorziati e fra essi e l'Azienda consortile saranno "decise" da un collegio di tre arbitri, nominati, uno, da ciascuno delle due parti interessate ed il terzo, di comune accordo fra i due nominati o, in caso di disaccordo, dal presidente del Tribunale di Messina. Quanto alla qualificazione giuridica della clausola deve osservarsi che il giudice è tenuto in ogni caso ad esaminare ed interpretare quale sia stata la volontà dei compromettenti, valutando complessivamente il patto compromissorio ed applicando le regole di ermeneutica dettate dagli artt. 1362 c.c. e ss., al fine di accertarne la natura e la validità. In punto di interpretazione della suddetta clausola, deve quindi premettersi che, al fine di valutare se la stessa contenga una pattuizione di deferimento della controversia ad un arbitrato di tipo rituale ovvero irrituale, occorre interpretare la clausola medesima con riferimento al dato letterale, alla comune intenzione delle parti ed al comportamento complessivo delle stesse, senza che il mancato richiamo nella clausola alle formalità dell'arbitrato rituale deponga univocamente nel senso dell'irritualità dell'arbitrato, dovendosi tenere conto delle maggiori garanzie offerte dall'arbitrato rituale quanto all'efficacia esecutiva del lodo ed al regime delle impugnazioni (Cass., sez. II, 10.5.2018, n.11313; Cass., sez. I, 7.8.2019, n.21059), rilevando altresì come la giurisprudenza di legittimità abbia anche enunciato il principio in forza del quale il dubbio sull'interpretazione dell'effettiva volontà dei contraenti va risolto nel senso della ritualità dell'arbitrato, tenuto conto della natura eccezionale della deroga alla norma per cui il lodo ha efficacia di sentenza giudiziaria (Cass., sez. I, 7.4.2015, n.6909). Orbene, come costantemente osservato dalla Suprema Corte, "la differenza tra l'uno e l'altro tipo di arbitrato non può imperniarsi sul rilievo che con il primo le parti abbiano demandato agli arbitri una funzione sostitutiva di quella del giudice, ma va ravvisata nel fatto che, nell'arbitrato rituale, le parti vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all'art. 825 cod. proc. civ., con l'osservanza delle regole del procedimento arbitrale, mentre nell'arbitrato irrituale esse intendono affidare all'arbitro (o agli arbitri) la soluzione di controversie (insorte o che possano insorgere in relazione a determinati rapporti giuridici) soltanto attraverso lo strumento negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla volontà delle parti stesse, le quali si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà. Ne consegue che ha natura di arbitrato irrituale quello previsto da una clausola compromissoria che enunci l'impegno delle parti di considerare il carattere definitivo e vincolante del lodo, al pari del negozio tra le parti concluso e, quindi, come espressione della propria personale volontà, restando, di contro, irrilevanti sia la previsione della vincolatività della decisione, anche se firmata solo dalla maggioranza degli arbitri, dato che pure l'arbitrato libero ammette tale modalità, in difetto di una contraria volontà delle parti, e sia la previsione di una decisione secondo diritto, senza il rispetto delle forme del codice di rito, ma nel rispetto del contraddittorio, attesa la sua compatibilità con l'arbitrato libero e il necessario rispetto anche in quest'ultimo del principio del contraddittorio, in ragione dello stretto collegamento esistente tra il principio di cui all'art. 101 cod. proc. civ. e gli artt. 2,3 e 24 Cost. ed in consonanza con l'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo", (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7574del/01/04/2011). Sulla base dei suddetti criteri, tenendo conto del tenore letterale della clausola - in specie, attraverso il riferimento alle modalità di nomina degli arbitri, da ritenere conforme al disposto dell'art. 810 cod.proc.civ. nonché in considerazione della mancanza di riferimenti testuali idonei a perfezionare un riferimento alle modalità proprie dell'arbitrato irrituale, quali il riferimento ai criteri di giudizio e all'impugnabilità del lodo - deve ritenersi che si verta in una fattispecie di clausola devolutiva delle controversie nelle forme dell'arbitrato rituale. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, secondo i parametri tra i minimi e i medi previsti dalle tariffe forensi vigenti per ciascuna fase processuale svolta, tenuto conto del valore della causa e delle questioni trattate. P.Q.M. Il Tribunale di Messina, Seconda Sezione Civile, in persona del Giudice istruttore in funzione di Giudice monocratico, sentiti i procuratori delle parti, disattesa o assorbita ogni contraria istanza, eccezione e difesa, definitivamente pronunciando, così provvede: 1. Dichiara l'incompetenza di questo Tribunale, rientrando la presente controversia nella clausola arbitrale contenuta all'art. 25 dello Statuto dell'Azienda Consortile Acquedotti Vena e Niceto, e per l'effetto, revoca il decreto ingiuntivo opposto; 2. condanna parte opposta a pagare le spese di lite a favore di parte opponente, che liquida in Euro 366,18 per spese vive ed Euro 6.307,00 per compensi, oltre accessori di legge. Così deciso in Messina il 25 maggio 2023. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Messina Seconda Sezione civile In persona del giudice istruttore in funzione di giudice unico dott.ssa Emilia Caleca, ha pronunciato al seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 5831/2017 R.G., posta in decisione all'udienza del 06 aprile 2023 e decisa senza concessione dei termini previsti dall'art. 190 c.p.c., vertente TRA (...), C.F. (...), nato (...), e (...), C.F. (...), nata (...), elettivamente domiciliati presso lo studio dell'avv. Ma.Be., che li rappresenta e difende come da procura in atti, attore opponente E BANCA (...) S.P.A., C.F. (...), in persona del legale rappresentante in carica, elettivamente domiciliata presso lo studio dell'avv. Ma.Ro., che la rappresenta e difende come da procura in atti, convenuta opposta Oggetto: Opposizione a decreto ingiuntivo n. 1024/2017 - contratti bancari (deposito bancario, cassetta di sicurezza, apertura di credito bancario). MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Le domande attoree. I sigg. (...) e (...) hanno proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 1024/2017 con il quale questo Tribunale, accogliendo il ricorso di Banca (...) S.p.A. in qualità di cessionaria di (...) S.p.A. ha ingiunto il pagamento della somma di Euro 12.496,02 al (...) e, limitatamente alla somma di Euro 4.627,48, alla (...), in solido con lo stesso, oltre interessi e spese, per il mancato pagamento delle rate scadute di tre distinte linee di credito: contratti n. (...), (...) e (...). A sostegno dell'opposizione gli attori hanno dedotto la nullità del decreto ingiuntivo per tardività della notifica, l'insussistenza delle condizioni di certezza, liquidità ed esigibilità del credito, la nullità della clausola di applicazione degli interessi per violazione delle norme in materia di usura e vessatorietà delle clausole contrattuali. Inoltre, stante la sottoscrizione di una polizza assicurativa sulla somma ricevuta in prestito, gli opponenti hanno contestato la pretesa avanzata nei loro confronti, in luogo della compagnia assicurativa, in quanto ciò potrebbe determinare un indebito arricchimento. Alla luce di tali argomentazioni, i sigg. (...) e (...) hanno chiesto di: "- Preliminarmente ritenere e dichiarare la tardività della notifica del decreto ingiuntivo n. 1024/2017 del 05.06.2017 RG n. 3278/2017; - nel merito, senza recesso alcuno dalla superiore eccezione preliminare, previo accertamento e conseguente declaratoria, dichiarare nullo o comunque privo di efficacia e, per l'effetto, revocare il decreto ingiuntivo opposto n. 1024/2017 RG n. 3278/2017 emesso dal Tribunale di Messina, per i motivi tutti di cui in narrativa; - in via subordinata, accertarsi la minor somma dovuta in relazione a tutto quanto esposto e dedotto in atti, anche mediante idonea consulenza tecnica d'ufficio che individui e verifichi i parametri economico finanziari normativi ed i criteri contabili sulla base della documentazione da prodursi da parte della Banca (...) S.p.A. opposta; - in via istruttoria, si chiede di ordinare ex art. 210 c.p.c. alla Banca (...) S.p.A. idonea documentazione, dalla quale emerga l'intervenuta rinuncia ad attivare la polizza assicurativa sui finanziamenti concessi. - con vittoria di spese e compensi". 2. Le difese di Banca (...) S.p.A. Nel costituirsi in giudizio la Banca (...) S.p.A. premesso che (...) S.p.A. le ha ceduto pro soluto i propri crediti con atto del 19.09.2016, ha contestato le domande avversarie deducendo che, come dimostrato documentalmente, la notifica del decreto ingiuntivo è avvenuta tempestivamente, la produzione dei contratti e degli estratti conto è idonea a dimostrare la pretesa creditoria sia sotto il profilo dell'an che del quantum, l'opponente è risultato inadempiente ed è obbligato alla restituzione del complessivo importo di Euro 12.496,02, di cui Euro 7.665,19 per il finanziamento n. (...) (doc.02), come risulta dall'estratto conto certificato ex art. 50 TUB (doc.03); Euro 203,35 per il finanziamento n. (...) (doc.04), come risulta dall'estratto conto certificato ex art. 50 TUB (doc.05); Euro 4.627,48 per il finanziamento n. (...) (doc.04), garantito da (...), come risulta dall'estratto conto certificato ex art. 50 TUB (doc.05). Avuto riguardo agli ulteriori motivi di opposizione, inoltre, Banca (...) ha replicato che l'operatività della copertura assicurativa non attribuisce all'istituto di credito alcuna azione diretta nei confronti della compagnia per il recupero delle somme dovute; che la forma scritta è stata rispettata in quanto i contratti presentano la firma del debitore, al quale è stata consegnata una copia; che le doglianze in punto usura e vessatorietà sono del tutto generiche e infondate, stante la piena legittimità degli interessi applicati e la sottoscrizione specifica delle singole clausole contrattuali. Per tali ragioni, esclusa la sussistenza di qualsivoglia profilo di invalidità dei contratti di finanziamento personale e provato (sia documentalmente, sia in virtù del principio di cui all'art. 115 c.p.c.) l'an e il quantum del credito azionato nei confronti dei sigg. (...) e (...), l'opposta ha chiesto il rigetto dell'opposizione con conferma del decreto ingiuntivo, previa concessione della provvisoria esecutività. 3. La trattazione della causa. Autorizzata la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto e concessi i termini ex art. 183 comma 6 c.p.c., la causa è stata rinviata per la discussione orale tra le parti, in quanto matura per la decisione e non necessitante di approfondimenti istruttori. 4. L'eccezione di tardività della notifica. Preliminarmente, è infondata e va, pertanto, rigettata l'eccezione di inefficacia del decreto ingiuntivo per tardività della notifica. Risulta provato documentalmente che il decreto ingiuntivo, emesso in data 05.06.2017, è stato notificato nel termine di 60 giorni, in quanto consegnato all'ufficiale giudiziario in data 24.07.2017 e recapitato ai debitori, ai sensi dell'art. 140 c.p.c., in data 01.08.2017 (e ritirato il 04.08.2017). Sul punto, per effetto della sentenza n. 477 del 2002 della Corte Costituzionale, risulta ormai pacificamente acquisito il principio secondo il quale il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il notificante deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario. In continuità con tale orientamento, la Suprema Corte ha da tempo affermato, infatti, che la notificazione del decreto ingiuntivo deve ritenersi perfezionata, per il notificante, al momento della consegna del plico all'ufficiale giudiziario, in virtù di un principio di portata generale posto a tutela dell'interesse del notificante a non vedersi addebitato l'esito intempestivo del procedimento notificatorio per la parte sottratta alla sua disponibilità (Cass. n. 25716/2018). La portata generale della regola e la riferibilità ad ogni tipo di notificazione (ex multis, Cass. n. 4993 del 2014; Cass. n. 15234 del 2014) rende immanente nell'ordinamento processuale civile, tra le norme generali sulle notificazioni degli atti, il principio secondo il quale il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata è diverso per il notificante e per il destinatario. Con la conseguenza che le norme in tema di notificazioni di atti processuali vanno interpretate, senza necessità di ulteriori interventi da parte della Corte Costituzionale, nel senso (costituzionalmente orientato, appunto) che la notificazione si perfeziona nei confronti del notificante al momento della consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario (cfr., ex multis, quanto alla generalizzata applicazione del principio della scissione per gli atti processuali, in motivazione, SS.UU. n. 24822 del 2015); con l'ulteriore corollario che, ove tempestiva, quella consegna evita appunto alla parte la decadenza correlata alla inosservanza del termine perentorio entro il quale la notifica va effettuata (SS.UU. n. 10216 del 2006). Pertanto, la notifica è avvenuta dei termini di legge e il decreto ingiuntivo è pienamente efficace. Senza tralasciare che, in ogni caso, l'eventuale inefficacia del decreto ingiuntivo ai sensi dell'art. 644 c.p.c., non è comunque idonea ad impedire, in caso di costituzione e di riproposizione della domanda da parte dell'opposto creditore (come avvenuto nel caso di specie), la decisione nel merito dell'opposizione circa l'esistenza del diritto già fatto valere con il ricorso per ingiunzione (in questi termini, anche di recente, la Suprema Corte ha affermato che "qualora il creditore, munito di decreto ingiuntivo, provveda alla notificazione del medesimo dopo il decorso del termine di efficacia fissato dall'art. 644 c.p.c., le ragioni del debitore, ivi comprese quelle relative all'inefficacia del titolo prevista dalla norma, possono essere fatte valere solo con l'ordinaria opposizione da esperirsi nel termine prefissato dal provvedimento notificato, tuttavia, in tale giudizio il debitore opponente che si limiti ad eccepire l'inefficacia del titolo tardivamente notificato non può impedire che ad un'eventuale dichiarazione di inefficacia del decreto si accompagni la decisione da parte del giudice dell'opposizione in merito all'esistenza del diritto fatto valere con il ricorso per ingiunzione, e l'inosservanza da parte del creditore del termine di cui all'art. 644 c.p.c. può acquisire rilevanza, nel caso di rigetto dell'opposizione, solo ai fini della condanna alle spese del giudizio, consentendo l'esclusione di quelle relative all'ottenimento dell'ingiunzione dichiarata inefficace" Cass. Civ., Sez. VI-III, Ordinanza n. 27062 del 06/10/2021). 5. L'eccezione di improcedibilità ex art. 1 bis del D.Lgs. n. 28 del 2010. Nel corso del giudizio, tenuto conto delle eccezioni tempestivamente avanzate dall'opponente, all'udienza del 23 giugno 2022 il giudice ha onerato il creditore opposto ad attivare la procedura di mediazione, assegnando il termine per la presentazione della domanda. All'udienza immediatamente successiva a tale incombente, gli opponenti deducevano la mancata notifica dell'avviso di convocazione al nuovo procuratore costituito, notifica per contro eseguita nei confronti del precedente procuratore, facendo da ciò derivare la richiesta di improcedibilità della domanda, con conseguente revoca del decreto ingiuntivo. La banca opposta, sul punto, ha dato prova della notifica alle parti personalmente della convocazione per il primo incontro di mediazione, producendo altresì il verbale di esito negativo per assenza della parte invitata. Ciò posto, a giudizio di Questo Tribunale, deve ritenersi avverata la condizione di procedibilità di cui all'art. 5, co. 1 - bis, D.lgs. 28/2010. Infatti, l'intero impianto del D.Lgs. 28/2010 è volto alla valorizzazione della possibilità delle parti di decidere del proprio conflitto. In particolare, l'art. 4 prevede che l'istanza debba indicare l'organismo, le parti, l'oggetto e le ragioni della pretesa, mentre il successivo l'art. 8, al comma 1, prescrive che "all'atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell'organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre trenta giorni dal deposito della domanda. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all'altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante". Da ciò consegue che deve essere considerata valida la notifica della comunicazione di avvio della mediazione effettuata direttamente al domicilio della parte, anziché al difensore, in quanto il D.Lgs. 28/2010 non prevede in alcuna sua parte la necessità di notificare la domanda al procuratore costituito, essendo necessario, invece, che l'atto sia portato a conoscenza della parte (cfr. Trib. Palermo, sent. 3903/2019). Siffatta interpretazione appare poi in linea con i principi di diritto espressi dalla Suprema Corte (sent. 8473/2019), secondo cui "nel procedimento di mediazione obbligatoria disciplinato dal D.Lgs. n. 28 del 2010, quale condizione di procedibilità per le controversie nelle materie indicate dall'art. 5, comma 1 bis, del medesimo decreto (come introdotto dal d.l. n. 69 del 2013, conv., con modif., in L. n. 98 del 2013), è necessaria la comparizione personale delle parti, assistite dal difensore, pur potendo le stesse farsi sostituire da un loro rappresentante sostanziale, dotato di apposita procura, in ipotesi coincidente con lo stesso difensore che le assiste". La Cassazione, in particolare, ha chiarito che "il legislatore ha previsto e voluto la comparizione personale delle parti dinanzi al mediatore, perché solo nel dialogo informale e diretto tra parti e mediatore, conta che si possa trovare quella composizione degli opposti interessi satisfattiva al punto da evitare la controversia ed essere più vantaggiosa per entrambe le parti", con la conseguenza che "ha imposto quindi alle parti (o meglio, alla parte che intende agire in giudizio) questo impegno preliminare mediante il quale fida di poter evitare (alle parti, e allo Stato più in generale) un buon numero di controversie, ben più onerose e lunghe rispetto ai tempi della mediazione obbligatoria" (in senso analogo, Cass. civ. sent. n. 18068/2019). Alla luce del richiamato orientamento, pertanto, nel procedimento di mediazione obbligatoria di cui al D.lgs. 28/2010 la comunicazione dell'avvio del procedimento deve essere notificata alla parte personalmente, e non al suo difensore. Ne deriva che, nel caso in di specie, la mediazione risulta regolarmente esperita e, pertanto, avverata la condizione di procedibilità della domanda. 6. Il credito azionato in via monitoria e l'onere della prova. Dall'analisi della documentazione prodotta, tenuto contro altresì delle deduzioni e contestazioni avanzate dalle parti nei rispettivi scritti difensivi, è possibile affermare che (...) ha chiesto a (...) s.p.a. - che glielo ha concesso - in data 04.06.1998 l'apertura di credito utilizzabile con carta revolving n. (...); in data 20.12.2010 il prestito personale n. (...); in data 21.10.2011 il finanziamento n. (...) garantito dalla fideiussione sottoscritta da (...). L'opposta, al riguardo, ha prodotto in giudizio i relativi contratti, sottoscritti e non disconosciuti dall'opponente, nonché gli estratti conto certificati. Risulta altresì che, in occasione della sottoscrizione del finanziamento n. (...), il (...) ha aderito alla Polizza Collettiva n. (...) con la compagnia assicuratrice (...) S.p.A. la quale non è parte del presente giudizio. È stato dimostrato, inoltre, che nel corso del rapporto ha interrotto i pagamenti, risultando pertanto inadempiente per il complessivo importo di Euro 12.496,02, di cui Euro 7.665,19 per il finanziamento n. (...), Euro 203,35 per il finanziamento n. (...) ed Euro 4.627,48 per il finanziamento n. (...), quest'ultimo in solido con la (...). 6.1 - Ciò posto, in punto di diritto, è opportuno premettere che, per principio giurisprudenziale ormai consolidato (cfr. Cass. civ. sez. un. 30/10/2001 n. 13533 e Cass. civ. 20/01/2015 n. 826), il creditore che deduce un inadempimento del debitore deve dimostrare, secondo i criteri di distribuzione dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c., il fatto costitutivo del credito, mentre al debitore convenuto spetta la prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa o di una sua parte. Conseguentemente, il primo è tenuto a fornire la prova dell'esistenza del rapporto o del titolo dal quale deriva il suo diritto, mentre incombe sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento delle proprie obbligazioni. Questo principio va applicato anche nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo il cui atto introduttivo, come affermato dal Supremo Collegio (ex multis Cass. SS.UU. 14/01/2014 n. 578), dà luogo ad un giudizio ordinario di cognizione finalizzato ad accertare la fondatezza della domanda del creditore opposto (che mantiene la posizione sostanziale di attore) e, una volta raggiunta tale prova, deve valutarsi la fondatezza delle eccezioni e delle difese fatte valere dall'opponente ingiunto (che assume posizione sostanziale di convenuto). In altri termini, l'opposizione vale solo ad invertire l'onere di instaurazione formale del contraddittorio, senza influire né modificare la posizione delle parti quanto ad onere di allegazione e di prova. Da tale assunto discende che il creditore opposto deve allegare e provare il proprio credito nel giudizio principale in maniera certamente più completa ed esaustiva di quanto abbia fatto nel corso della procedura di ingiunzione, inevitabilmente soggetta ad oneri e cognizioni sommarie e ciò affinché il giudice possa accertare la fondatezza della pretesa fatta valere dall'ingiungente opposto. 6.2 - Fatte queste premesse, nel caso di specie, il decreto ingiuntivo è stato emesso dietro presentazione dei contratti di finanziamento, dei piani di ammortamento e dagli estratti conto redatti ai sensi dell'art. 50 TUB. I contratti, come detto, recano la sottoscrizione del (...), ove è presente la dichiarazione (comunque non contesta) di averne ricevuto copia. A fronte della prova fatto costitutivo del credito l'opponente/debitore, oltre a non aver provato (come, invece, avrebbe dovuto) l'intervento di un fatto estintivo del proprio debito, non ha neanche contestato specificatamente l'esistenza del rapporto o l'erogazione del finanziamento, con la conseguenza che, anche ai sensi e per gli effetti dell'art. 115 c.p.c., tali circostanze devono ritenersi provate. Al riguardo il (...), con la propria opposizione, si è limitato ad affermare genericamente la nullità dei contratti nella parte in cui prevedono interessi usurari e contengono clausole vessatorie, senza alcuna ulteriore specificazione al riguardo e senza alcuna allegazione probatoria idonea a supportare le proprie pretese. 6.3 - Tanto premesso, a giudizio di Questo Tribunale l'opposizione non merita di essere accolta, in quanto la convenuta opposta ha provato l'esistenza del titolo e l'inadempimento del debitore opponente, il quale non ha specificamente e tempestivamente contestato tali circostanze che conseguentemente, come correttamente osservato da Banca (...), devono essere ritenute pacifiche ai sensi dell'art. 115 c.p.c.. Peraltro, i documenti prodotti da Banca (...) presentano tutte le caratteristiche necessarie a dimostrare la fondatezza dell'azione e le risultanze probatorie emerse in giudizio comprovano l'esistenza di un credito certo, liquido ed esigibile. 6.4 - A fronte della prova del credito, come detto, parte opponente, gravata del relativo onere, non ha dimostrato (ed invero neanche dedotto) l'avvenuto esatto adempimento delle proprie obbligazioni o, comunque, l'intervento di un qualsiasi fatto estintivo del debito. 7. L'eccezione di nullità della clausola di applicazione degli interessi. Ciò posto, occorre ora analizzare le altre eccezioni formulate da parte opponente. 7.1 - Il (...), per quanto desumibile dall'atto di citazione, sembra dolersi dell'applicazione di un tasso debitore pari al 12,64% annuo, ritenendo applicabile la disciplina in materia di usura prevista all'art. 1815 comma 2 c.c., così come sostituito dall'art. 4 della L. 108/96. Tale eccezione, la quale non contiene neanche l'indicazione del contratto di riferimento (avendo l'opponente sottoscritto tre diversi finanziamenti), appare del tutto generica e, pertanto, non merita accoglimento. Sul punto, è sufficiente riportarsi al consolidato indirizzo della giurisprudenza a mente del quale "è onere della parte che eccepisca la violazione delle disposizioni dettate in tema di interessi usurari dimostrare, (...)la sussistenza nel dettaglio, di detta condotta antigiuridica. Alla luce dei superiori principi la contestazione relativa al superamento del tasso soglia è invero generica e come tale va rigettata. In tale ottica deve essere considerata inammissibile, in quanto meramente esplorativa, la richiesta, di consulenza tecnica di ufficio" (cfr. Tribunale Bassano Grappa n. 102/10; analogamente Tribunale Ferrara 9833/2013 "colui che agendo in un giudizio deduca l'applicazione di un tasso usurario ha l'onere di allegare ed indicare i modi, i tempi e la misura del superamento del cd. tasso soglia"). Tale impostazione è stata ulteriormente confermata dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che "l'onere probatorio nelle controversie sulla debenza e sulla misura degli interessi moratori, ai sensi dell'art. 2697 c.c., si atteggia nel senso che, da un lato, il debitore, il quale intenda provare l'entità usuraria degli stessi, ha l'onere di dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale, il tasso moratorio in concreto applicato, l'eventuale qualità di consumatore, la misura del T.E.G.M. nel periodo considerato, con gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento; dall'altro lato, è onere della controparte allegare e provare i fatti modificativi o estintivi dell'altrui diritto" (SSUU 18/09/2020, n. 19597). Peraltro, è onere del cliente che richieda giudizialmente l'accertamento della usurarietà degli interessi applicati al rapporto negoziale, produrre in giudizio i decreti ministeriali di rilevazione trimestrale del tasso soglia, pubblicati in Gazzetta Ufficiale, non essendo i medesimi altrimenti conoscibili dal Giudice, data la loro natura di atti amministrativi, che rende loro inapplicabile il principio iura novit curia di cui all'art. 113 c.p.c., coordinato con l'art. 1 disp. prel. c.c., il quale non annovera detti atti tra le fonti del diritto (cfr. Cass. Civ., sez. III, 26.06.2001, n. 8742; così anche Cass. Civ., Sez. Un., 29.04.2009, n. 9941). Tale orientamento è stato ribadito da recente giurisprudenza di legittimità, la quale ha avuto modo di osservare che "né la mancata produzione della copia dei decreti ministeriali che stabilivano, all'epoca della stipula del contratto, la soglia antiusura può essere superata, come correttamente ha ritenuto la sentenza impugnata, con la produzione di equipollenti. Con la produzione in giudizio dei comunicati stampa della Banca d'Italia non può, dunque, ritenersi soddisfatto l'onere probatorio gravante sulla ricorrente. La copia dei suddetti decreti ministeriali costituisce, infatti, elemento di prova essenziale della fattispecie, non altrimenti surrogabile" (Cass. Civ., sez. III, 30.01.2019, n. 2543). Né la soluzione contrasta con il principio di rilevabilità d'ufficio delle nullità contrattuali, non estendendosi il rilievo d'ufficio anche alla ricerca degli elementi di prova di interessi usurari (cfr. Cass. Civ., sez. III, 30.01.2014, n. 2072) in assenza di una tempestiva e specifica allegazione degli elementi di fatto da cui la nullità deriverebbe, che è riservata alla parte, non potendo il Giudice procedere autonomamente alla ricerca, sia pure nell'ambito di documenti eventualmente prodotti in atti, delle ragioni che potrebbero fondare la domanda o l'eccezione. 7.2 - Parimenti infondata e del tutto generica è la contestazione circa la nullità delle clausole contrattuali vessatorie. Secondo la prospettazione dell'opponente, sarebbero da considerarsi nulle e clausole contrattuali che prevedono gli interessi moratori, le spese accessorie, penali o altre indennità. L'eccezione, però, non coglie nel segno. Ed infatti, l'art. 1342 c.c. effettua un richiamo al secondo comma dell'art. 1341 c.c., il quale stabilisce che: "in ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l'esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell'altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell'autorità giudiziaria". Le clausole c.d. vessatorie nei contratti tra professionista e consumatore, inoltre, devono essere inquadrate nell'ambito normativo degli artt. 1469 bis e ss. c.c. nonché degli artt. 33 e ss. del D.Lgs. 206/2005 che, com'è noto, ha recepito nel nostro ordinamento la direttiva 93/13/CEE. La vessatorietà di una clausola contrattuale presuppone l'esistenza di una situazione di squilibrio a vantaggio di un contraente e a sfavore dell'altro, in relazione ai diritti e agli obblighi contrattuali. In ogni caso, ai sensi del comma 2 dell'art. 1341 c.c., affinché tali clausole contenute nelle condizioni generali di contratto o nei contratti conclusi mediante moduli o formulari siano considerate efficaci (rectius valide) nei confronti del contraente, è necessario che le stesse siano formulate e specificatamente approvate per iscritto. Sul punto, inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che una clausola può essere valida solo se separatamente evidenziata rispetto alle altre e autonomamente sottoscritta (ex multis, Cass. civ. sent. n. 26977/07; n. 5733/08). 7.2.1 - Tanto premesso in diritto, dalla documentazione in atti risulta la specifica approvazione delle clausole contrattuali che, contenute in un apposito spazio del contratto di finanziamento, risultano sottoscritte dal contraente. Attraverso tale apposita previsione la (...) S.p.A. (odierna Banca (...)), in ossequio alla normativa richiamata, ha inteso richiamare l'attenzione del contraente su alcune condizioni di contratto: "ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 1341 e 1342 Cod. Civ. dichiaro di approvare specificatamente le clausole contenute nella precedente richiesta concernenti il conto del Prestito Personale, le modalità di rimborso, nonché le seguenti clausole delle condizioni generali: 3) inizio della decorrenza del piano di rimborso; 10) Diritto di cessione; 13) Facoltà per (...), in presenza di giustificati motivi, di variare i costi applicati; 14) Garanzia fideiussoria prestata dal Coniuge firmatario; 18) Penale per ritardato pagamento; 19) Decadenza dal beneficio del termine e interessi di mora" (v. contratto di finanziamento n. . (...)). Tali clausole risultano sottoscritte dagli opponenti. Per tali ragioni, anche tale eccezione è infondata e smentita dalla documentazione probatoria in atti. 7.3 - Alla genericità e al difetto di prova della domanda non può, inoltre, supplire la richiesta di consulenza tecnica d'ufficio che, per costante orientamento giurisprudenziale, deve considerarsi inammissibile allorquando tesa a sopperire all'onere di allegazione e prova gravante sull'attore ovvero a compiere un'indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati e neanche tempestivamente dedotti (cfr., Cass. Civ., 06.12.2019, n. 31886; Cass. Civ., 01.10.2019, n. 24487; Cass. Civ., 05.07.2007, n. 15219 Cass. Civ., 13.01.2020, n. 326; Cass. Civ., 26.02.2003, n. 2887; Tribunale Roma sez. XVII, 09.11.2018, n. 21602, secondo cui "le gravi lacune difensive fin qui evidenziate sotto il profilo assertivo e probatorio non possono essere colmate con la consulenza tecnica d'ufficio che parte attrice ha sollecitato. Ed infatti è appena il caso di osservare che la consulenza tecnica d'ufficio non è un mezzo istruttorio in senso stretto, ma rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito, cui è rimessa la facoltà di valutarne la necessità o l'opportunità ai fini della decisione, nonché l'ambito di estensione. Essa può essere disposta solo per valutare fatti di cui sia già pacifica la dimostrazione e non può essere funzionale a soddisfare finalità esclusivamente esplorative: essa non può valere ad eludere l'onere di allegazione e di prova incombente sulle parti processuali per la dimostrazione dei fatti posti a base delle pretese azionate, specie in un sistema processuale, come è il nostro, caratterizzato da preclusioni istruttorie"). Invero, negli atti di parte si riscontrano delle generiche deduzioni senza alcuna analisi specifica degli elementi dai quali ricavare la dedotta erroneità del saldo debitore indicato dalla banca, mancando anche una perizia di parte a cui riferirsi per relationem. 7.4 - Da ultimo, avuto riguardo all'operatività della copertura assicurativa, le domande proposte dall'opponente nei confronti di Banca (...) per il mancato coinvolgimento della compagnia assicuratrice sono infondate. Sul punto, è sufficiente chiarire come sia il beneficiario della polizza, verificatosi l'evento coperto dalla garanzia, ad essere onerato a formulare tempestivamente la richiesta di pagamento delle somme dovute, non anche Banca beneficiaria, in quanto quest'ultima non vanta alcun diritto - e quindi non ha azione diretta - nei confronti dell'assicurazione. 7.5 - In conclusione, l'opposizione è rigettata, con conferma del decreto ingiuntivo opposto da dichiararsi definitivamente esecutivo. 8. Le spese di lite. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano, tenuto conto del valore della causa, nella misura di Euro 4.835,00 per compensi, in base allo scaglione di riferimento ( Euro 875,00 fase di studio, Euro 740,00 fase introduttiva, Euro 1.600,00 fase di trattazione, Euro 1.620,00 fase decisoria), oltre spese generali al 15%, iva e cpa. P.Q.M. Il Tribunale di Messina, Seconda sezione civile, in persona del giudice unico dott.ssa Emilia Caleca, definitivamente pronunciando nella causa n. 5831/2017 R.G., 1. Rigetta l'opposizione; 2. Condanna (...) e (...) al pagamento delle spese di lite in favore di Banca (...) S.p.A. liquidate in Euro 4.835,00 per compensi, oltre spese generali al 15%, iva e cpa. Così deciso in Messina il 19 aprile 2023. Depositata in Cancelleria il 26 aprile 2023.

  • TRIBUNALE DI MESSINA Prima Sezione Civile IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il giudice onorario della Prima Sezione Civile del Tribunale di Messina, avv. Massimo Morgia, in funzione di giudice monocratico, ha reso la seguente SENTENZA Nella causa per impugnazione di delibera condominiale iscritta al n. 5238/2020 R.G. TRA (...), nato a Messina il (...) ivi residente, elettivamente domiciliato in Messina - Via (...) presso lo studio dell'Avv. (...) che lo rappresenta e difende ATTORE CONTRO Condominio (...) di Messina, in persona dell'Amministratore e legale rappresentante p.t., (...) s.r.l.s (P.Iva (...)) in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliato in Messina, via (...), nello studio degli avv. (...), che lo rappresentano e difendono CONVENUTO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione notificato al condominio (...) di Messina, in persona dell'Amministratore e legale rappresentante pro tempore, Soc. (...) S.r.l.s. in persona del legale rappresentante p.t., (...), dopo avere premesso di essere proprietario di un immobile facente parte del condominio convenuto, impugnava la delibera assembleare del 20 maggio 2019 e tutte quelle precedenti anche solo presupposte o considerate, eccependo la convocazione in assemblea di soggetti non legittimati in quanto non titolari di diritti reali sugli immobili condominiali e, riguardo la delibera assunta il 20.05.2019, la nullità laddove richiede un quorum deliberativo ai fini della tutela dell'esercizio della tutela delle parti comuni colpite da abuso di un condomino. Parte attrice chiedeva, pertanto, all'adito tribunale: 1. preliminarmente sospendere la portata esecutiva del deliberato opposto del 20/05/2019 e di tutti quelli precedenti anche solo presupposti o considerati anche se non espressamente menzionati per le ragioni sopra indicate della nullità sostanziale della deliberazione. 2. Accertare e dichiarare che il bilancio approvato nell'adunanza del 20.05.2019 che richiama i precedenti bilanci dei precedenti anni già opposti sono coperti da nullità assoluta per la convocazione di soggetti non titolari del diritto reale nello stabile in questione. Per l'effetto dichiarare la nullità del deliberato del 20.05.2019 per il vizio dei deliberati presupposti che hanno determinato il consolidamento dei bilanci precedenti al 2017/18 e la redazione di quelli successivi sulla scorta delle spese deliberate con adunanza colpita dal vizio. 3. Accertata la mancata collaborazione nel procedimento di mediazione e rilevandosi, quindi, infruttuoso il medesimo, condannare il condominio al risarcimento dei danni tutti da quantificarsi entro il valore di euro 6.000,00. Condannare, altresì, chi di ragione per la mancata partecipazione come previsto dalla specifica normativa. Valutare in ogni caso la mancata partecipazione e le susseguenti azioni omissive in relazione alla richiesta condanna alle spese. 4. Annullare il deliberato assembleare qui opposto nella parte in cui sottopone a quorum deliberativo l'esercizio della tutela delle parti comuni colpite da abuso di un condomino e peraltro già oggetto di specifico deliberato assembleare del 30.05.2017. 5. Condannare parte convenuta al risarcimento del danno derivante dalla attuale omissione delle attività conservative delle parti comuni conseguenti al deliberato del 30.05.2017, previa esibizione delle attività poste a tutela della conservazione del prospetto condominiale entro il limite di valore della domanda di euro 6.000 facendo anche uso delle capacità liquidatorie equitative del giudicante tenuto conto della natura non patrimoniale del danno derivato dalla inerzia. Costituitasi in giudizio, (...) s.r.l.s (P.I. (...)) in persona del legale rappresentante pro-tempore, contestava il contenuto e le conclusioni dell'atto di citazione eccependo l'inoppugnabilità delle delibere assembleari contestate, il difetto di legittimazione passiva del Condominio e l'infondatezza della pretesa risarcitoria avanzata da controparte. Susseguitesi le fasi processuali, all'udienza del 23.09.2022 le parti precisavano le conclusioni e la causa veniva assunta in decisione con la concessione dei termini di legge per il deposito di comparse conclusionali e di memorie di replica. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo di opposizione parte attrice contesta la validità di una serie di delibere anteriori alla deliberazione del 20 maggio 2019, per la convocazione di soggetti estranei al condominio. In tal caso si contesta un difetto di costituzione dell'assemblea, con la conseguente annullabilità della relativa delibera, a seguito di impugnazione da parte degli effettivi condomini non convocati. Come ribadito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione nel 2005 con la sentenza n. 4806, sono da "qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme che richiedono qualificate maggioranze in relazione all'oggetto", viceversa sono da "qualificarsi nulle le delibere prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all'oggetto". La distinzione è rilevante ai fini della valutazione della tempestività dell'impugnazione, in quanto il termine di decadenza di trenta giorni dall'approvazione o, comunque, dalla comunicazione della delibera, si applica solo in ipotesi di contestazioni relative all'annullabilità della stessa. Non vi è dubbio che all'assemblea condominiale debba essere convocato l'effettivo proprietario dell'immobile e non l'apparente condomino, colui il quale, cioè, si sia comportato nei rapporti con i terzi come condomino senza esserlo, difettando nei rapporti tra il condominio e i singoli partecipanti ad esso le condizioni per l'operatività del principio dell'apparenza del diritto, che è volto essenzialmente all'esigenza di tutela dei terzi in buona fede, tra i quali non possono considerarsi i condomini (Cass. 31826/2022; Cass. Sezioni Unite n. 5035/2002). L'omessa convocazione dell'effettivo condomino incide sulla regolarità della costituzione dell'assemblea e costituisce motivo di annullamento della delibera assembleare, ai sensi dell'art. 1137 c.c.. L'impugnazione della delibera può essere proposta soltanto da chi vi abbia effettivo interesse, ossia il proprietario dell'unità immobiliare, entro il termine di 30 giorni, che decorre dalla comunicazione della delibera o, comunque, dal momento in cui il condomino ne abbia avuto conoscenza. Nel caso di specie parte attrice eccepisce la mancata convocazione alle assemblee condominiali degli effettivi proprietari degli immobili, per cui il vizio che intende fare valer attiene alla costituzione delle assemblee ed è motivo di annullamento, che può essere fatto valere esclusivamente dagli stessi condomini non convocati, nel termine di giorni 20 dalla comunicazione della delibera. In definitiva, parte attrice non può eccepire il difetto di convocazione di altri condomini e, in ogni caso, è sopravvenuto il termine di decadenza dell'impugnazione delle delibere in oggetto, posto che l'azione è stata esercitata ben oltre i 30 giorni di cui all'art. 1137 c.c.. Il secondo motivo di impugnazione riguarda il punto 6) dell'ordine del giorno (Valutazione di eventuali azioni da intraprendere nei confronti del dott. (...); presentazione preventivi per l'eventuale nomina di un avvocato che intraprenda l'azione nei confronti del predetto condomino (dalla scorsa assemblea); deliberazioni conseguenziali) e precisamente l'attestazione di mancanza dei millesimi necessari per deliberare un'eventuale azione nei confronti del dott. (...). Afferma parte attrice che la tutela delle parti comuni dell'edificio investe direttamente l'amministratore senza alcun "quorum deliberativo" posto che proprio la necessaria azione a tutela è espressamente prevista dal codice civile. Anche questo motivo di impugnazione è infondato e deve essere rigettato. Per valutare la legittimità della deliberazione contestata è necessario fare riferimento all'ordine del giorno e a ciò che con esso si è richiesto all'assemblea condominiale. Con il punto 6) dell'odg, non contestato dall'attore, si chiede all'assemblea di deliberare in ordine ad eventuali azioni da intraprendere nei confronti del dott. (...), facendo riferimento all'odg della precedente assemblea (Chiusura parziale del balcone di proprietà esclusiva sul prospetto interno da parte del dott. (...): assenso o richiesta di demolizione dell'opera). L'assemblea non può che deliberare seguendo i principi del quorum e, non essendo contestato da parte attrice il mancato raggiungimento di tale quorum nel caso in esame, ma la sottoposizione a quorum deliberativo dell'esercizio della tutela delle parti comuni colpite da abuso, l'iter assembleare deve ritenersi corretto. In definitiva, parte attrice, ritenendo che la questione non poteva essere sottoposta a quorum deliberativo, avrebbe dovuto impugnare l'ordine del giorno al punto 6) e, una volta che l'assemblea è stata chiamata a deliberare non può contestarsi l'applicazione delle regole relative al quorum deliberativo. Altra questione, non attinente alla delibera impugnata, è quella ventilata dall'attore in ordine al dovere dell'amministratore di compiere atti conservativi, anche in mancanza di deliberazione dell'assemblea. Tale profilo è estraneo al presente giudizio, che ha ad oggetto l'impugnazione della delibera assembleare e non la responsabilità personale dell'amministratore per l'asserita violazione dei doveri su quest'ultimo gravanti. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, sulla base dei parametri approvati con D.M. n. 55 del 10.03.2014, pubblicato in G.U. del 02.04.2014, in considerazione del valore della controversia, della complessità delle questioni trattate e dell'attività svolta. P.Q.M. Il Tribunale, sentiti i procuratori delle parti, definitivamente pronunciando nella causa proposta da (...) contro il Condominio (...) di Messina, in persona del legale rappresentante p.t, rigetta le domande di parte attrice. Condanna (...) al pagamento, in favore del Condominio (...) di Messina, in persona del legale rappresentante p.t., delle spese di giudizio che si liquidano in Euro. 1.618,00 (fase di studio Euro. 418,00 introduttiva Euro. 370,00, decisionale Euro. 810,00), oltre spese generali, c.p.a. e i.v..a.. Così deciso in Messina il 17 aprile 2023. Depositata in Cancelleria il 18 aprile 2023.

  • Tribunale di Messina REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Messina, Seconda Sezione civile, in composizione monocratica, nella persona del Presidente istruttore dott. Giuseppe Minutoli, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 6272/2014 R.G., posta in decisione all'udienza del 7 aprile 2022 e decisa alla scadenza dei termini previsti dall'art. 190 c.p.c., vertente TRA (...) S.N.C. (GIÀ "(...) S.N.C."), sede legale in Messina, (...), P. Iva (...), in persona del socio legale rappresentante Dott. (...) rappresentata, per procura speciale rilasciata su foglio separato congiunto alla comparsa di costituzione di nuovo procuratore, dagli avvocati (...) del Foro di Palermo, congiuntamente e disgiuntamente, attore E (...) S.p.A., con sede in Siena, Piazza (...) - C.F e P.I. (...), in persona del dir. (...), nella qualità di Responsabile dell'Ufficio Credito e Legale dell'Area Territoriale Sicilia e Calabria della (...) Spa e, come tale, munito dei necessari poteri di rappresentanza - come da delibera del CDA del 25 marzo 2014 ai sensi del vigente Statuto sociale e della conseguente procura speciale ai rogiti dott. Mario Zanchi, notaio in Siena, in data 12 maggio 2014 repertorio n. 33190 raccolta n. 15728 registrata in Siena il 15 maggio 2014 al n. 2401, serie 1T, rappresentata e difesa per mandato in calce alla comparsa di costituzione dall'avv. (...), convenuto Oggetto: contratti bancari. Motivi della decisione 1. Lo Studio Diagnostico (...) S.N.C. (...) S.N.C.) ha convenuto innanzi a questo Tribunale il (...) spa e, premesso di aver intrattenuto con lo stesso presso la Filiale di Messina il conto corrente n. 17534.14 e di non ricordare di aver sottoscritto alcuna richiesta di apertura di credito ex art. 1842 c.c. che risultava concessa per Euro 25.822,84, ha dedotto la nullità di tale contratto e l'illegittimità di interessi ultralegali non pattuiti; ha dedotto altresì che la banca aveva computato, liquidato ed addebitato interessi passivi in base a criteri privi di sufficiente determinatezza, applicando, altresì, la capitalizzazione trimestrale degli interessi, violando la disposizione in tema di anatocismo; ha ancora contestato l'applicazione di competenze usurarie (interessi + cms + spese riferibili al fido), quantificate, nella consulenza tecnica di parte, in complessivi Euro 19.644,80, con illegittima applicazione di commissioni di massimo scoperto; ha ancora contestato l'illegittima applicazione dei giorni di valuta diversi dalla data in cui effettivamente sono state compiute le operazioni, favorendo, indirettamente, l'aumento degli interessi passivi, in un periodo in cui il credito non c'è stato. Tutto ciò premesso, l'attore ha formulato le seguenti domande: 1) Accertare, ritenere e dichiarare la nullità delle clausole contenenti la previsione della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, dell'applicazione degli interessi ultralegali, delle commissioni di massimo scoperto e di ogni altra spesa o costo di tenuta conto applicati al conto corrente n. 17534.14 in assenza di valida convenzione scritta o, comunque, con insufficiente determinatezza, o con mero rinvio a parametri generici ed indeterminati; 2) Accertare, ritenere e dichiarare la nullità delle clausole relative al calcolo della valuta, perché calcolate con effetto anticipato per le operazioni passive e posticipate per le operazioni attive; 3) In via subordinata, accertare, ritenere e dichiarare che le operazioni attive abbiano valuta a decorrere dalla data di effettiva acquisizione della disponibilità del denaro, e quelle passive dalla data di effettuazione della operazione; 4) Accertare, ritenere e dichiarare che il tasso di interessi applicato al conto corrente n. 17534.14 (interessi + cms + spese riferite al fido) è superiore alla soglia legale e, pertanto, che sono stati applicati interessi usurari; 5) Conseguentemente, rideterminare il saldo del conto corrente, depurandolo dal tasso ultralegale, dalle commissioni di massimo scoperto, dalle spese relative al fido e ogni altra spesa o commissione, con corretta applicazione della valuta; 6) Per l'effetto, condannare la (...) S.p.A. a pagare alla società "(...) S.n.c." la somma di Euro 26.250,72 a titolo di ripetizione di indebito, e/o la maggiore o minore somma da quantificarsi anche a mezzo di disponenda CTU, oltre rivalutazione monetaria ed interessi; 7) Condannare la (...) S.p.A., per i motivi sopra esposti, a risarcire alla società attrice il danno di cui alla superiore narrativa, derivante anche dalla mancata liquidità, quantificandolo in Euro 20.000,00, o in quella somma maggiore o minore da quantificarsi sulla scorta delle risultanze istruttorie o in via equitativa, oltre rivalutazione monetaria ed interessi. 2. Nel costituirsi in giudizio, la Banca convenuta ha eccepito che tutte le condizioni e le clausole applicate al rapporto intrattenuto dalla società attrice sono state espressamente convenute, come risulta dal documento contrattuale dallo stesso prodotto. In effetti, dall'esame di tale atto, ritualmente acquisito alla causa, risulta che il rapporto negoziale in esame è formalmente sorto con contratto del 31 agosto 2000, nel quale sono stati pattuiti il tasso di interesse mediante indicazione in cifre, la commissione massimo scoperto, i giorni valuta, le modalità di esercizio del diritto di recesso. Inoltre, il contratto reca la doppia sottoscrizione anche ai sensi dell'art.1341 c.c. Ne consegue che va subito rigettata la domanda di nullità del rapporto per difetto di forma scritta e di illegittimità degli interessi ultralegali applicati al rapporto che, invece, sono stati - come detto - pattuiti. 3. Va anche rigettata la domanda inerente il contestato anatocismo, che, invece, è stato regolarmente pattuito con medesima periodicità dal lato attivo e passivo, in data successiva alla entrata in vigore della delibera CICR 9 febbraio 2000. Sicché, in difetto di ulteriori deduzioni contrarie, la sua applicazione appare legittima. Deve, infatti, ritenersi che l'introduzione, successiva alla entrata in vigore della delibera CICR 9 febbraio 2000, di clausole che prevedono la capitalizzazione con la medesima periodicità, per gli interessi debitori e creditori, ove pattuita come nel caso in esame, esclude qualsiasi profilo di nullità, in quanto rispettose del principio di simmetria e di reciprocità (v., ex multis, Cass. 21 ottobre 2019, n. 26769). Ne consegue che la delibera CICR 9 febbraio 2000 continua ad applicarsi sino alla data del 30 settembre 2016, posto che dal 1° ottobre di quell'anno risulta in vigore la nuova delibera CICR del 3 agosto 2016, (in G.U. 10 settembre 2016, n. 212 (v. Trib. Avellino, 15 gennaio 2019, ivi). Pertanto, da quella data (differentemente che nel passato, in cui ad ogni scadenza la banca poteva automaticamente addebitare gli interessi al correntista, anche se il conto era incapiente, determinando di fatto oneri ulteriori in capo al risparmiatore) vi è una scissione per cui il capitale continuerà a produrre interessi come stabilito da contratto, mentre gli interessi saranno contabilizzati separatamente e non potranno produrre altri interessi. È inoltre previsto che al fine di assicurare al cliente un lasso di tempo adeguato per adempiere al debito da interessi gli deve essere garantito, in assenza di un termine maggiormente favorevole pattuito nel contratto, un periodo di trenta giorni dal ricevimento delle comunicazioni previste ai sensi dell'articolo 119 o 126-quater, comma 1, lettera b), TUB prima che gli interessi maturati divengano esigibili. 4. Sempre in via preliminare di merito va accolta l'eccezione della banca di inammissibilità della domanda di ripetizione formulata dall'attore durante la vigenza del rapporto di conto corrente (cfr. Cass. ss.uu. 2 dicembre 2020, n. 24418), che risultava alla data della citazione (e dello svolgimento dell'accertamento peritale) ancora in essere. Tuttavia, contrariamente a quanto assunto dalla stessa convenuta, da ciò non ne deriva la mancanza in capo alla società attrice di interesse giuridicamente tutelabile a vedere accertato il saldo ad una certa data di rapporti in corso. Infatti, quell'interesse sussiste nella misura in cui la invocata nullità di tassi e clausole applicate ai rapporti consentirebbe agli attori di riportare a legge la dinamica degli stessi, dovendo comunque procedersi alla ricostruzione dei rapporti di dare/avere tra le parti, espungendo tutte quelle voci prima ricordate. Infatti, come condivisibilmente affermato dalla Suprema Corte, il correntista ha comunque un interesse a che si accerti, prima della chiusura del conto, la nullità o validità delle clausole anatocistiche, l'esistenza o meno di addebiti illegittimi operati in proprio danno e, da ultimo, l'entità del saldo (parziale) ricalcolato, depurato delle appostazioni che non potevano aver luogo. Tale interesse rileva, sotto tre profili pratici, ovvero per l'esclusione, per il futuro, di annotazioni illegittime; per il ripristino, da parte del correntista, di una maggiore estensione dell'affidamento a lui concesso, siccome eroso da addebiti contra legem; ed infine per la riduzione dell'importo che la banca, una volta rielaborato il saldo, potrà pretendere a seguito della cessazione del rapporto (cfr. Cass. ss.uu. 2 dicembre 2010, in motivazione; Cass. 5 settembre 2018, n. 21646). 5. A questo punto, prima di verificare la fondatezza delle altre censure, funzionali alla ricostruzione del saldo del rapporto in esame, è bene ricordare che, in ordine al riparto dell'onere probatorio, qualora attore sia il correntista, come nel caso in esame, l'onere di produrre i documenti fondanti la pretesa azionata spetta allo stesso, pur se, per il principio di vicinanza della prova e di quello di buona fede contrattuale, il cliente può avvalersi della strumento previsto dall'art. 119 t.u.b. riguardo al diritto ad avere copia della documentazione che ha natura sostanziale e non meramente processuale (Cass. 28 maggio 2018, n. 13277; Cass. 12 maggio 2006, n. 11004). In caso di incompletezza della documentazione contabile addebitabile al correntista, Cass. 9 febbraio 2023, n. 4083 ha affermato che, premesso che il correntista attore è onerato del deposito degli estratti conto periodici del conto corrente, riferiti all'intera durata del rapporto, qualora egli depositi solo alcuni di essi, da un lato non adempie a detto onere per la parte di rapporto non documentata e, dall'altro, tale omissione non costituisce fatto impediente il sollecitato accertamento giudiziale del dare e dell'avere fra le parti, a partire dal primo saldo dal cliente documentalmente riscontrato: infatti, l'incompletezza degli estratti conto comporta l'impossibilità per gli attori di provare tutti i fatti posti a fondamento dell'azione e, quindi, la necessità di respingere la domanda, ma soltanto in parte qua, senza che si giustifichi in alcun modo un rigetto integrale, esteso anche agli addebiti anatocistici provati e ai relativi effetti calcolabili sulla base della documentazione prodotta e acquisita. Analogamente, Cass. 27 dicembre 2022 n. 37800 ha statuito che nei rapporti di conto corrente bancario, ove il correntista, agendo in giudizio per la ripetizione di quanto indebitamente trattenuto dalla banca, ometta di depositare tutti gli estratti conto periodici e non sia possibile accertare l'andamento del conto mediante altri strumenti rappresentativi delle movimentazioni (come le contabili bancarie riferite alle singole operazioni o le risultanze delle scritture contabili), va assunto, come dato di partenza per il ricalcolo, il saldo iniziale a debito, risultante dal primo estratto conto disponibile o da quelli intermedi dopo intervalli non coperti, che, nel quadro delle risultanze, è il dato più sfavorevole al cliente, sul quale si ripercuote tale incompletezza, in quanto gravato dall'onere della prova degli indebiti pagamenti (Nella specie la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva rigettato integralmente la domanda del correntista, poiché non aveva prodotto la sequenza completa degli estratti conto, risultando mancanti alcuni intervalli temporali). 6. Il c.t.u. dott.ssa (...) ha riferito di aver esaminato il contratto di conto corrente del 31 agosto 2000 e gli estratti conto dal 4 ottobre 2000 al 31 dicembre 2013 e dal 5 febbraio 2014 al 26 gennaio 2015, essendo mancante quello dall'1 gennaio al 4 febbraio 2014. La stessa c.t.u. ha accertato che gli interessi debitori applicati sono stati superiori a quelli contrattualmente previsti, benché non risultino comunicazioni di variazioni successivamente alla stipula del contratto e che anche il tasso di interesse creditorio pattuito non è stato applicato, in danno del correntista: pertanto, ha provveduto - correttamente - a ricalcolare i rapporti di dare/avere sulla base dei tassi previsti in contratto. 7. Quanto alle commissioni di massimo scoperto, previste in contratto nella percentuale del "0,3750% (aliquota aggiuntiva 0,5000% su sconfinamento se autorizzato), il c.t.u. le ha escluse dal ricalcolo, in quanto, al di là del tasso, non risultano concordati i criteri di calcolo e la periodicità. In effetti, tale conclusione è corretta, dovendosi dichiarare la nullità della clausola in questione. Va ricordato che il costo denominato commissione di massimo scoperto è un onere usualmente imposto ai clienti che stipulano un contratto di apertura di credito in conto corrente, calcolata normalmente applicando un determinato tasso alla massima somma utilizzata dal cliente durante il periodo di riferimento in relazione a tutta la durata dello stesso, e la cui funzione o causa è incerta. C'è, infatti, chi lo inquadra come la remunerazione del maggior rischio assunto dalla banca a seguito dell'utilizzazione della somma messa a disposizione con l'anticipazione e, chi, al contrario, ne individua la funzione nell'esigenza di compensare il semplice fatto della tenuta a disposizione di una determinata somma a favore del debitore, al di là dell'interesse compensativo sulle somme effettivamente utilizzate (cfr. sul punto Cass. 18 gennaio 2006, n. 870 e Cass. 6 agosto 2002 n. 11722). Più di recente, Cass. 15 maggio 2019 n. 12997 ha statuito che l'art. 2 bis, comma 1, secondo periodo, del d.l. n. 185 del 2008, conv. con modif. dalla legge n. 2 del 2009, disciplina le condizioni di validità della pattuizione della commissione di massimo scoperto in relazione ai soli contratti di conto corrente bancario affidati, tanto se si configuri come semplice remunerazione legata al solo affidamento, quanto se sia commisurata anche all'effettiva utilizzazione dei fondi. Tuttavia, al di là dell'evidente necessità della pattuizione scritta, secondo la più avveduta giurisprudenza di merito, alla quale questo Tribunale aderisce, qualora nel contratto non si specifichi nulla quanto ai criteri di concreta applicazione della commissione di massimo scoperto, limitandosi ad indicare un valore percentuale nella lettera contratto di apertura del conto corrente, la relativa clausola é del tutto indeterminata e non determinabile e, ai sensi dell'art. 1346 c.c., deve intendersi affetta da radicale nullità, rilevabile anche d'ufficio (Cass. 20 giugno 2022, n. 19825). E' quel che si riserva nella fattispecie in esame, i cui, al di là del tasso, non sono determinati gli altri elementi di applicazione del costo in contestazione. 8. Il c.t.u., correttamente, ha anche escluso ogni voce di costo non prevista in contratto. 9. Quanto alla denuncia usura, premessa la legittimità dei tassi al momento della stipula del contratto, poiché non è stato dedotto nè accertato che superassero la soglia c.d. usuraria, il c.t.u. ha ritenuto che il tasso annuo effettivo globale applicato dalla banca, comprendendo spese e commissioni, abbia superato la soglia usuraria nei periodi indicati nell'all. 9: ne ha tratto la conseguenza di annullare qualsiasi tasso di interesse debitore, applicando la sanzione ex art. 1815, co. 2, c.c. 9.1 - Ora, a prescindere da una certa apoditticità dell'affermato superamento del tasso soglia, il predetto modo di operare non è per nulla condivisibile. E' necessario, infatti, ricordare che Cass. Ss.uu. 19 ottobre 2017 n. 24675 ha statuito che nei contratti di mutuo, allorché il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell'usura, come determinata in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l'inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all'entrata in vigore della predetta legge o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula, né la pretesa del mutuante, di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato, può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di detta soglia, contraria al dovere di buona fede nell'esecuzione del contratto. In sostanza, le Sezioni Unite hanno sposato l'orientamento che nega la configurabilità dell'usura sopravvenuta nei mutui, essendo il giudice vincolato all'interpretazione autentica degli artt. 644 c.p. e 1815, secondo comma, c.c., come modificati dalla L. n. 108 del 1996 (rispettivamente all'art. 1 e all'art. 4), imposta dall'art. 1, comma 1, D.L. n. 394 del 2000: "ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p. e dell'art. 1815 c.c., 2° comma, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento. 9.2 - Ciò posto, benché non appaia scontata l'applicazione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite in materia di usura sopravvenuta a forme di finanziamento diverse dal mutuo in cui, come noto, il TEGM è rilevato - dalle vigenti Istruzioni Bankitalia per la rilevazione dei tassi effettivi globali medi -relativamente ai nuovi contratti stipulati nel trimestre (è quindi monitorato l'interesse pattuito nei finanziamenti con un piano di rientro predefinito), gran parte della giurisprudenza di merito - che qui si condivide - ha inteso estenderla anche all'apertura di credito in conto corrente e, in generale, anche ai contratti di conto corrente bancario, poiché non risulta possibile procedere ad approcci differenziati secondo che si verta in tema di contratto di mutuo o di conto corrente (cfr., ex multis, Trib. Pistoia, 20 aprile 2021, n. 352). 9.3 - Sulla base delle predette considerazioni in diritto, il giudice istruttore ha quindi rinnovato il mandato al c.t.u. dott.ssa (...) (poi sostituita dal dott. (...)) per effettuare una nuova verifica della legittimità del tasso di interesse convenzionale applicato dalla banca, nel rispetto della disciplina vigente così come stabilito dalle S.U. della Suprema Corte con sentenza n. 16303/2018 con l'avvertenza che, in caso di sforamento, gli interessi passivi non sarebbero dovuti essere espunti ma ricondotti al di sotto della soglia usuraria. Invero, sulla base di quanto statuito dalla Suprema Corte, la commissione di massimo scoperto non può incidere sul calcolo del TEG per i periodi compresi sino al 31/12/2009, posto che l'art. 2 bis del d.l. n. 185 del 2008, inserito dalla legge di conversione n. 2 del 2009, in forza del quale, a partire dal 1 gennaio 2010, la commissione di massimo scoperto (CMS) entra nel calcolo del tasso effettivo globale medio (TEGM) rilevato dai decreti ministeriali emanati ai sensi dell'art. 2, comma 1, della l. n. 108 del 1996, ai fini della verifica del superamento del tasso soglia dell'usura presunta, non è norma di interpretazione autentica dell'art. 644, comma 4, c.p., ma disposizione con portata innovativa dell'ordinamento, intervenuta a modificare - per il futuro - la complessa normativa, anche regolamentare, tesa a stabilire il limite oltre il quale gli interessi sono presuntivamente sempre usurari. 9.4 - Il nuovo c.t.u. ha accertato che al momento della pattuizione del contratto di c/c in data 31/08/2000 il tasso debitore TAN 13,875% ed il TAE 14,613% non superavano il limite del Tasso Effettivo Globale (T.E.G.) soglia che era determinato per il terzo trimestre 2000 dalle disposizioni della Banca d'Italia al 14,730%, per aperture di credito in conto corrente oltre 10 milioni di lire (Euro 5.164,57). Lo stesso c.t.u., evidenziata la mancanza di tutti i riassunti scalari per il periodo che va dal 31/08/2000 al 31/12/2003, con conseguente impossibilità di effettuare il calcolo della verifica del superamento del TEG e del ricalcolo a partire dall'anno 2000, ha effettuato i conteggi a partire dall'1/01/2004 fino all'ultima movimentazione disponibile in data 12/01/2015. Dalla verifica del TEG, ha rilevato la presenza di tassi usurari nei trimestri 3° e 4° anno 2010 e 1° trim. anno 2011. Ciò posto, il perito ha effettuato il ricalcolo - secondo i principi in diritto prima enunciati - utilizzando i tassi convenzionali contrattuali e nei trimestri in cui è stato riscontrato il superamento del c.d. "tasso soglia", i tassi sono stati ricondotti ai tassi soglia previsti per i periodi di riferimento; ha escluso dal calcolo la commissione di massimo scoperto applicata dalla Banca, dall'inizio del rapporto di conto corrente fino al mese di giugno 2009, in quanto non risultano determinati per iscritto, il periodo di riferimento e le modalità di calcolo; ha altresì escluso dal calcolo il "corrispettivo su accordato", posto che dall'esame della documentazione bancaria presente nel fascicolo d'ufficio non risulta la comunicazione della Banca al cliente dell'adeguamento della c.m.s. alla nuova disciplina prevista dall'art. 2 bis D.L. n. 185/2008 conv. in L. N. 2/2009, secondo quanto disposto dal comma 3 dell'art. 2 bis sopra indicato. In esito ai conseguenti calcoli, il nuovo saldo del c/c alla data del 12/01/2015 è risultato essere sempre a debito della società correntista, ma nella minor misura di - Euro 23.214,96 in luogo del saldo risultante dall'estratto di conto corrente della Banca pari a - Euro 30.219,43, con una differenza dei saldi finali di + Euro 7.004,47 a favore del correntista, di cui: + Euro 1.728,95 quale differenza generata dalla riduzione degli interessi passivi; + Euro 2.995,96 quale differenza per l'esclusione della commissione di massimo scoperto; + Euro 2.278,86 quale differenza generata dall'esclusione del corrispettivo sull'accordato; Euro 0,70 quale differenza del conteggio peritale degli interessi attivi al netto della ritenuta fiscale. 9.5 - Le superiori conclusioni sono state contestate dall'attrice, che ha invocato le più favorevoli risultanze della prima relazione della dott.ssa Borghetti, con una motivazione, tuttavia, che (al di là dell'assenza di formali contestazioni nei termini alla relazione) non appare coerente con quanto analiticamente evidenziato dal c.t.u., il quale ha spiegato perché non ha potuto tener conto del periodo dal 31 agosto 2000 al 31 dicembre 2003, laddove la dott.ssa Borghetti ha operato senza dare conto del superamento di tale carenza documentale. Analoga sorte hanno le contestazioni mosse dalla convenuta (sui criteri di calcolo del superamento del tasso soglia) al c.t.u., che ha adeguatamente risposto, sicché si rinvia a tali definitive conclusioni, che sono pienamente condivisibili, unitamente all'intero impianto motivazionale, posto che il perito ha ottemperato al mandato, scrupolosamente esaminando gli atti acquisiti e dando conto dei criteri di calcolo adottati. 10. In conclusione, la domanda attorea va accolta in parte qua, dovendosi dichiarare il nuovo saldo del conto corrente n. 17534.14 alla data del 12 gennaio 2015 era (a debito della società attrice) di - Euro 23.214,96 in luogo del saldo risultante dall'estratto di conto corrente della Banca pari a - Euro 30.219,43. 11. La domanda risarcitoria proposta dalla attrice va rigettata per difetto di prova intanto sull'an e, quindi, sul quantum. Infatti (al di là della mancata specificazione in conclusionale, in cui si insiste sostanzialmente solo sulla ricostruzione del nuovo saldo), la prospettazione attorea appare assai generica, laddove invoca un "notevole pregiudizio" derivante dalla condotta della banca, "avendo accresciuto esponenzialmente gli importi dei saldi debitori e, contestualmente, ridotto la liquidità a disposizione della stessa, limitando, di fatto, la capacità di agire della società", senza che siano stati dedotti o documentati fatti e circostanze idonei a dimostrare "una riduzione della capacità reddituale e operatività della società de quo, tale da minare concretamente la possibilità di agire ancora sul mercato, soprattutto in un periodo caratterizzato da una congiuntura economica negativa" anche per "la segnalazione dell'esposizione debitoria alla Centrale dei Rischi della Banca di Italia". Ma a monte non può sussistere il denunciato pregiudizio rispetto ad una esposizione debitoria che, come accertato giudizialmente, esisteva comunque, pur se leggermente inferiore a quella prospettata dalla banca. 12. L'esito complessivo del giudizio legittima la compensazione per due terzi delle spese di lite, dovendosi condannare la banca convenuta a pagare il residuo, liquidato in Euro 181,67 per esborsi e di Euro 2.400,00 per compensi, in base allo scaglione di riferimento (fase di studio Euro 400,00, fase introduttiva Euro 300,00, fase di trattazione Euro 1.000,00, fase decisoria Euro 700,00), oltre spese generali al 15%, c.p.a. ed iva, ai sensi dei parametri ministeriali, disciplinati dal DM 55/2014. Le spese di c.t.u. (necessarie per l'accertamento dei fatti oggetto di citazione) vanno poste a carico dell'attrice per un terzo e della convenuta per due terzi. P.Q.M. Il Tribunale di Messina, Seconda sezione civile, in persona del giudice unico dott. Giuseppe Minutoli, definitivamente pronunciando nella causa iscritta al n. 6272/2014 R.G.: 1. Rigetta la domanda di nullità del rapporto per difetto di forma scritta e di illegittimità degli interessi ultralegali; 2. Dichiara la nullità della clausola di commissione di massimo scoperto 3. Dichiara l'illegittima applicazione di voci e competenze non previste in contratto; 4. dichiara inammissibile la domanda di ripetizione; 5. dichiara che il saldo del conto corrente n. 17534.14 alla data del 12 gennaio 2015 era di - Euro 23.214,96 a debito. 6. Dichiara inammissibile la domanda di ripetizione di indebito formulata dalla attrice; 7. rigetta ogni altra domanda; 8. compensa per due terzi le spese di lite, ponendo a carico della banca convenuta e a favore della società attrice il residuo, liquidato in Euro 181,67 per esborsi e di Euro 2.400,00 per compensi, oltre spese generali al 15 %, c.p.a. ed iva; 9. pone le spese delle due c.t.u. definitivamente a carico dell'attrice per un terzo e della convenuta per due terzi. Così deciso in Messina, nella camera di consiglio della seconda sezione civile del Tribunale, il 28 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 3 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano TRIBUNALE DI MESSINA SECONDA SEZIONE CIVILE Il Tribunale di Messina, Seconda Sezione Civile, in persona del giudice istruttore in funzione di giudice unico dott.ssa Maria Carmela D'Angelo ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 3324/2019 R.G., introitata per la decisione in data 14 marzo 2023, senza assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. promossa da (...), nata a Taormina il (...), e (...), nato a Santa Teresa Riva il (...), entrambi residenti in Taormina, via (...), rappresentati e difesi dall'avv. (...), in virtù di procura in atti, - parte attrice opponente - contro (...) S.r.l., (P. Iva (...)), rappresentata e difesa dagli Avv.ti (...), - parte convenuta opposta - OGGETTO: opposizione a decreto ingiuntivo - contratti bancari. Conclusioni I procuratori delle parti hanno precisato le conclusioni come da atti e verbali di causa. Ragioni di fatto e di diritto della decisione Con atto di citazione ritualmente notificato, (...) e (...) proponevano opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 704/2019 del 28.4.2019, con il quale veniva loro ingiunto il pagamento della somma di Euro 27.190,14, oltre interessi, nonché spese e competenze di giudizio. Con comparsa di costituzione e risposta si costituiva La (...) Srl, e per essa quale procuratore la (...) Srl, che chiedeva il rigetto delle domande avversarie e la conferma del decreto ingiuntivo opposto. In via pregiudiziale deve dichiararsi l'improcedibilità e revocarsi il decreto ingiuntivo opposto per la mancata presentazione della domanda di mediazione entro il termine di quindici giorni assegnato dal Giudice Istruttore. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno di recente espresso il principio, al quale in questa sede si intende aderire, secondo cui: "nelle controversie soggette a mediazione obbligatoria ai sensi dell'articolo 5, comma 1-bis, del Dlgs n. 28 del 2010, i cui giudizi vengano introdotti con un decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, l'onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta; ne consegue che, ove essa non si attivi, alla pronuncia di improcedibilità di cui al citato comma 1-bis conseguirà la revoca del decreto ingiuntivo' (Cassazione civile sez. un., 18/09/2020, n.19596). Tale assunto, nelle parole della Corte stessa, si fonda anche su determinazioni di carattere testuale, tra le quali quelle relative alla figura dell'attore in senso sostanziale. In questi termini ha stabilito che: "l'obbligo di esperire il procedimento di mediazione è posto dalla legge a carico di chi intende esercitare in giudizio un'azione, e non c'è alcun dubbio che tale posizione sia quella dell'attore, che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo è il creditore opposto (c.d. attore in senso sostanziale). Non a caso, infatti, l'art. 643 c.p.c., comma 3, stabilisce che la notificazione del decreto ingiuntivo determina la pendenza della lite. Sul punto non è il caso di dilungarsi, perché la giurisprudenza di questa Corte, con l'avallo dell'unanime dottrina, è pacifica in questo senso". Tale soluzione è stata recepita dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha rinvenuto - in ossequio a quanto affermato dalla Suprema Corte - il fondamento del principio in esame nel presupposto che l'accesso alla giurisdizione non può giungere alla perdita del diritto di agire tutelato costituzionalmente, considerato che la revoca del decreto ingiuntivo opposto consente al creditore la possibilità di effettuare una nuova richiesta ed ottenere l'emissione di un nuovo decreto ingiuntivo (in questi termini, ex multis, Tribunale Termini Imerese, 01/06/2022, n.458). Nel caso di specie, quindi, applicando quanto statuito dalle Sezioni Unite, gravava sul soggetto opposto, quale attore sostanziale nella procedura di opposizione a decreto ingiuntivo, l'onere di azionare la procedura di mediazione obbligatoria. (...), invero, non ha azionato tale procedura, determinando una situazione di improcedibilità per mancanza di una condizione necessaria. Di conseguenza, non risultando soddisfatta la condizione di procedibilità prevista dalla legge, il presente giudizio dev'essere dichiarato improcedibile ed il decreto ingiuntivo opposto deve essere revocato. In virtù del principio della soccombenza previsto dall'art. 91 c.p.c., la parte opposta deve essere dichiarata tenuta e condannata a rimborsare alla parte opponente le spese processuali del presente giudizio, che vengono liquidate come in dispositivo, applicando i valori minimi previsti dalle tariffe forensi vigenti per ciascuna fase processuale svolta, esclusa la fase istruttoria che non si è svolta, tenuto conto del valore della causa e dell'entità poco complesse delle questioni trattate. P.Q.M. Il Tribunale di Messina, Seconda Sezione Civile, in persona del Giudice istruttore in funzione di Giudice monocratico, sentiti i procuratori delle parti, disattesa o assorbita ogni contraria istanza, eccezione e difesa, definitivamente pronunciando, così provvede: 1. Dichiara l'improcedibilità del presente giudizio. 2. Revoca il decreto ingiuntivo opposto. 3. Condanna parte opposta al pagamento delle spese processuali sostenute da parte opponente, che liquida in euro 2.906,00 per compensi professionali, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge, da distrarsi in favore del procuratore antistatario. Così deciso in Messina il 24 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 27 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI MESSINA - Prima sezione civile Il giudice della I sezione civile del Tribunale di Messina, dott. Corrado BONANZINGA, in funzione di giudice monocratico, ha reso la seguente SENTENZA nella causa iscritta al N. 3888 del Registro Generale Contenzioso 2019 TRA (...) nato a (...) il (...) cod. fisc. (...), residente a S. G. L. (V.), Via (...) rappresentato e difeso dall'Avv. Gi.Da. di Verona (C.F. (...), pec: (...), fax: (...)) con studio in Verona, Piazza (...), ove ha eletto domicilio giusta mandato in atti; PARTE ATTRICE IN RIASSUNZIONE E (...) nata a (...) il (...), cod. fisc. (...), residente in (...) via (...) is. 13/A ed elettivamente domiciliata in Messina Via (...), presso lo studio legale dell'Avv. An.Ar. (c.f. (...)) che la rappresenta e difende per procura in atti, il quale ha indicato ai fini delle comunicazioni di legge n. fax: (...) e indirizzo pec: (...); PARTE CONVENUTA IN RIASSUNZIONE E (...) cod. fisc. (...) residente in (...), Strada S. 113 n. 23/B M. con domicilio eletto presso lo studio del procuratore costituite Avv. Gi.Gi. in Messina (ME) - 98123- Via (...); PARTE CONVENUTA IN RIASSUNZIONE CONTUMACE E (...) cod. fisc.: (...), residente a (...) via C. di S. n. 25 e (...) cod. fisc.: (...), residente ad A. (R.) via (...) A. 116; CONVENUTE CONTUMACI avente per oggetto: Divisione di beni caduti in successione. IN FATTO ED IN DIRITTO Con atto di citazione ritualmente notificato il 09.09.2004, (...) e (...) convenivano in giudizio la sorella (...) esponendo che in data 24.1.2003 era deceduta la loro madre (...), lasciando eredi ab intestato i suoi tre figli; che la massa ereditaria era costituita da un appartamento sito a (...) in via (...), da preziosi e da crediti vantati nei confronti dell'INPDAP; che l'asse ereditario era gravato da alcune passività consistenti in spese condominiali relative ad altro appartamento condotto dalla de cuius e pagate da (...), da spese relative all'utenza idrica e dalle spese di giudizio contro l'ex amministratore di condominio; che la sorella (...) occupava l'immobile caduto in successione senza corrispondere alcun indennizzo ai coeredi; tutto ciò esposto, chiedevano lo scioglimento della comunione ereditaria, previa decurtazione dall'attivo delle suddette passività e la condanna della convenuta alla resa del conto per il godimento del predetto immobile ed al pagamento del relativo indennizzo. Costituitasi in giudizio, (...) rilevava, in via preliminare, che (...) - dante causa delle parti - aveva altre due figlie, nate da un precedente matrimonio, (...) e (...), le quali, dunque, erano titolari di diritti sull'asse ereditario e nei confronti delle quali doveva essere integrato il contraddittorio. Non si opponeva alla divisione dei beni comuni e chiedeva l'assegnazione dell'intero immobile in proprio favore (domanda cui rinunciava nel corso del giudizio), previo riconoscimento delle spese sostenute per la sua ristrutturazione. Contestava il valore dell'immobile indicato dagli attori in citazione e rilevava che i crediti vantati da (...) derivavano da un rapporto di locazione che lo stesso aveva in corso con la madre e, pertanto, dovevano ritenersi estranee alla successione. Espletata l'istruttoria, con sentenza del 01.12.2005 il Giudice rigettava la richiesta di integrazione del contraddittorio, rilevando che gli attori avevano agito in relazione alla successione della loro madre (...), alla quale erano estranee le figlie di primo letto del marito (...) ed a nulla rilevando che le stesse vantassero pure diritti pro quota sull'appartamento oggetto di causa, che era in comproprietà tra la (...) ed il marito nella misura del 50 % ciascuno; procedeva, quindi, allo scioglimento della comunione avente ad oggetto la quota spettante alla (...) pari a 2/3 dell'immobile oggetto di causa, non risultando l'esistenza di altri beni, ed assegnava detta quota nella sua interezza agli attori, che ne avevano fatto richiesta, con addebito della somma di Euro 12.222,22 a favore di (...) a titolo di conguaglio; condannava (...) a corrispondere agli attori la somma di Euro 2.065,97 a titolo di indennizzo per l'uso esclusivo dell'immobile dal mese di gennaio 2003 sino alla fine del 2004, nonché la somma di Euro 751,33 per la quota a suo carico delle spese di successione e per di quelle relative ad una transazione ed ai consumi idrici. Avverso la suddetta sentenza interponevano appello (...) e (...), i quali lamentavano l'errata individuazione del periodo di occupazione dell'immobile oggetto di causa da parte di (...), protrattosi per un tempo molto più ampio rispetto a quello indicato in sentenza, e si dolevano, altresì, del fatto che fosse stata riconosciuta l'esistenza di altre due figlie di primo letto di (...), pur in mancanza di prova adeguata, con conseguente riduzione della quota pervenuta, a seguito della morte di quest'ultimo, alla moglie (...) ed ai figli già parti in causa. Costituendosi in giudizio (...) chiedeva il rigetto dell'appello principale e proponeva appello incidentale, evidenziando che il giudizio di primo grado si era svolto con il contraddittorio non integro, non essendo state citate (...) e (...). Lamentava, poi, che non fossero state a lei riconosciute le spese ordinarie e straordinarie che ella aveva sostenuto per l'immobile oggetto di successione e si doleva della statuizione relativa al pagamento degli oneri condominiali. Con sentenza n. 303/2019, pubblicata il 16.04.2019, la Corte di Appello di Messina, in accoglimento dell'appello incidentale, dichiarava la nullità della sentenza impugnata, in quanto emessa con il contraddittorio non integro, ed ordinava la rimessione della causa al primo giudice, compensando interamente tra le parti le spese del giudizio di primo grado e per metà quelle di secondo grado, mentre condannava in solido gli appellanti al pagamento in favore di (...) della restante quota delle spese di secondo grado, liquidata in complessivi Euro 2.773,50, oltre spese generali, I.V.A. e c.p.a.. Il giudice del gravame, in particolare, evidenziava che gli attori avevano chiesto lo scioglimento della comunione ereditaria sul presupposto che l'appartamento oggetto di causa facesse parte per intero della massa ereditaria e, essendo il padre già deceduto, avevano fatto riferimento alla loro posizione di coeredi della madre, ma in realtà intendevano fare valere anche la loro posizione di coeredi del padre, tanto che, pure dopo l'eccezione sollevata dalla convenuta dell'appartenenza del bene pro quota alle figlie di primo letto di (...), gli attori avevano sempre insistito nella richiesta di assegnazione per intero del bene in loro favore, senza mai riferirsi alla possibilità di uno scioglimento della comunione avente ad oggetto solo le quote del predetto immobile di pertinenza della madre, sicché al giudizio dovevano partecipare tutti i condividenti, quali risultavano dallo "stato di famiglia integrale" di (...), prodotto in primo grado da (...) e da cui si evinceva l'esistenza delle due figlie (...) e (...). Con comparsa notificata il 15 luglio 2019, il 18 luglio 2019 ed il 2 agosto 2019 (...) riassumeva il giudizio davanti a questo Tribunale nei confronti di (...), di (...), di (...) e di (...), ribadendo la richiesta di scioglimento della comunione ereditaria ed affermando il proprio interesse a vedersi assegnato per intero l'immobile oggetto di causa, con addebito dell'eccedenza a favore dei coeredi, al netto delle spese sostenute e delle indennità di occupazioni maturate. Osservava che avrebbero potuto utilizzarsi gli elementi di conoscenza acquisiti con la C.T.U. disposta davanti al primo giudice; che le spese da lui sostenute con riferimento all'immobile concesso in uso alla madre consistevano nella somma di Euro 204,15, relativa alla transazione "(...)", e nella somma di Euro 1.304,50 per consumi idrici arretrati. Con riferimento alla indennità di occupazione dovuta dalla sorella (...), richiamava le argomentazioni svolte in sede di appello, sottolineando che l'indennità doveva calcolarsi a partire dal mese di gennaio 2003 sino alla data di effettivo rilascio del bene. Infine, con riferimento alla domanda avanzata da (...) di rimborso delle spese di manutenzione dell'appartamento oggetto di causa, rilevava che la convenuta non aveva dimostrato la fondatezza della domanda ed egli contestava i predetti esborsi. Si costituiva (...), la quale rilevava che l'unico bene immobile da dividere era quello posto in (...) via (...) is. 13, che era indivisibile e che, per potere essere assegnato ad uno dei condividenti, avrebbe dovuto essere previamente valutato, non potendo essere utilizzati gli atti istruttori espletati in precedenza quando il contraddittorio non era integro. Osservava, poi, che i debiti gravanti sulla eredità erano esclusivamente quelli relativi alle spese di successione, mentre quelle relative ai consumi idrici da parte della de cuius si riferivano alla transazione della causa intentata dal Condominio contro il precedente amministratore sig. (...). Contestava, poi, che ella avesse avuto l'uso esclusivo dell'immobile oggetto di causa, in quanto tutte le parti in causa ne avevano disposto ed avrebbero potuto disporne sia prima che dopo la morte della de cuius. Sottolineava, infine, che le spese da lei sostenute per la manutenzione della casa e per miglioramenti risultavano dalla documentazione allegata. Chiedeva, pertanto, lo scioglimento della comunione, previa C.T.U. per la stima dell'immobile e la quantificazione del valore dei miglioramenti da lei effettuati; chiedeva, altresì, che le fossero riconosciute le spese di ristrutturazione effettuate e che l'intero immobile in comunione fosse a lei assegnato, determinando il valore dello stesso in Euro 22.000,00. Non si costituivano, viceversa, gli altri convenuti e con ordinanza del 03.02.2021 veniva dichiarata la loro contumacia. Disposta ed espletata C.T.U. ed esaurita la prova orale ammessa mediante l'interrogatorio formale della convenuta (...) e l'escussione dei testi indicati dall'attore, all'udienza del 02.11.2022, celebrata con le modalità cartolari previste dall'art. 221 della L. 17 luglio 2020, n. 77, il Giudice, sulle conclusioni dei procuratori delle parti, assegnava la causa in decisione, ai sensi dell'art. 281 quinquies c.p.c., concedendo i termini di rito per il deposito di comparse conclusionali e di memorie di replica. Si deve premettere che il giudizio divisorio, pur avendo natura unitaria, si compone essenzialmente di due fasi, espressamente disciplinate dal legislatore: la prima, contemplata dall'art. 785 c.p.c., tesa alla verifica del fondamento del diritto a conseguire la divisione; la seconda, regolata dall'art. 789 c.p.c., volta all'attuazione di tale diritto. Entrambe le fasi sono strutturate su di un'alternativa che rappresenta il profilo di specialità del giudizio di divisione rispetto al processo di cognizione generale: se non sorgono contestazioni il giudice istruttore dispone con ordinanza; se sono sollevate contestazioni la causa è rimessa in decisione e il giudice si pronuncia mediante sentenza. A queste due fasi necessarie se ne possono, poi, aggiungere altre meramente eventuali, benché caratteristiche del processo divisorio (vendita di beni mobili o immobili, estrazione a sorte dei lotti etc.). Al fine di accertare il fondamento del diritto alla divisione, la prima questione da risolvere è la corretta determinazione dei beni oggetto di comunione. Risolto questo problema, occorre esaminare il quo modo della divisione. Nel caso in esame la prima questione non pone alcun problema, poiché è pacifico che i beni da dividere sono costituiti dal bene immobile indicato nell'atto di citazione, mentre il contrasto tra le parti verte con riferimento al quo modo della divisione. Va, nondimeno, osservato che nella specie, come diffusamente sottolineato dalla Corte di Appello nella sentenza n. 303/2019, pubblicata il 16.04.2019, gli attori (...) e (...) hanno chiesto lo scioglimento di due distinte comunioni ereditarie, quella proveniente dalla successione del padre, della quale facevano parte il coniuge e cinque figli (due di primo letto e tre di secondo letto), e quella proveniente dalla successione della madre, della quale facevano parte solo tre figli, nonché della comunione ordinaria esistente originariamente tra i due coniugi danti causa degli odierni condividenti e costituitasi, quindi, tra gli eredi di detti coniugi. Come affermato chiaramente dalla Suprema Corte (vedi recentemente Cass. civ. n. 3512 del 06/02/2019), la sussistenza di diversi titoli di provenienza dei beni determina tante comunioni quanti sono i titoli di provenienza corrispondendo alla pluralità di titoli una pluralità di masse, ciascuna delle quali costituisce un'entità patrimoniale a sé stante, e ciò "impone la diversificazione delle operazioni divisionali che, secondo un criterio logico - cronologico, devono essere compute partendo dallo scioglimento della comunione più risalente per poi procedere via via allo scioglimento di quelle successive". Inoltre la Suprema Corte, dando continuità a principi consolidati, ha chiarito che 1) "nell'ambito di ciascuna massa debbono trovare soluzione i problemi particolari relativi alla formazione dei lotti ed alla comoda divisione dei beni immobili che vi sono inclusi (conf. Cass. n. 3014/1981; Cass. n. 339/1967)", che 2) pur essendo consentito il cumulo in un unico processo delle domande di divisione delle distinte masse, occorre "sempre che sia rispettato il principio dell'autonomia delle operazioni divisionali", e che 3) "è possibile procedere ad una sola divisione, piuttosto che a tante divisioni per quante sono le masse, solo se tutte le parti vi consentano con un atto che, risolvendosi nel conferimento delle singole comunioni in una comunione unica, non può risultare da una manifestazione tacita di volontà o dal mero comportamento negativo di chi non si oppone alla domanda giudiziale di divisione unica di tutti i beni delle diverse masse, ma deve materializzarsi in un negozio specifico che, se ha per oggetto beni immobili, deve rivestire la forma scritta "ad substantiam", perché rientrante tra quelli previsti dall'art. 1350 cod. civ.; conseguentemente, in mancanza di un siffatto negozio, il comportamento tenuto dalla parte che non si è opposta alla domanda di divisione unica nel giudizio di primo grado non impedisce a quest'ultima di proporre appello per denunciare la sentenza che ha accolto tale domanda (conf. Cass. n. 314/2009; Cass. n. 3029/2009; Cass. n. 25756/2018)". La Suprema Corte ha solo eccezionalmente affermato che è possibile unificare le masse nell'ipotesi in cui gli eredi vantino quote identiche rispetto a ciascuna massa, atteso che, in questi casi, il risultato resta identico a prescindere dal metodo di divisione utilizzato (Cass. civ. n. 17576/2016), ma nel caso in esame è evidente che non ricorre questa situazione, atteso che alla diverse comunioni partecipano soggetti in parte diversi. Va, tuttavia, osservato che, nella fattispecie in esame, l'adozione rigorosa delle regole sopra indicate sulle modalità di scioglimento delle singole comunioni appare superflua nella misura in cui lo scioglimento delle comunioni ereditarie derivanti dal decesso dei genitori delle parti in causa può realizzarsi soltanto attribuendo ai condividenti delle semplici quote immobiliari, posto che i rispettivi danti causa non erano titolari dell'intero bene ma solo della quota pari al 50% ciascuno, mentre è solo con riferimento allo scioglimento della comunione ordinaria derivante dalla comproprietà del bene oggetto di causa in capo a (...) ed a (...), comunione alla quale partecipano tutte le parti in causa, ancorché per quote diverse, quali eredi dei rispettivi genitori, che devono trovare soluzione i problemi particolari relativi alla formazione dei lotti ed alla comoda divisione dei beni immobili che vi sono inclusi. L'individuazione del contenuto delle quote di ciascun comunista avviene attraverso più passaggi progressivi; infatti, una volta individuata la massa da dividere, occorre procedere alla formazione delle porzioni e, quindi, all'attribuzione o all'assegnazione dei lotti (Cass. civ. 04.03.2011 n. 5266). Questa attività è di regola diretta dal Giudice che redige, quindi, un progetto divisionale formando tante porzioni quanti sono i condividenti in proporzione alle loro quote e sottopone il progetto divisionale alle parti, fissando con decreto una udienza di discussione. Nondimeno, ove le parti al momento del deposito della relazione delle operazioni peritali manifestino il loro dissenso sulle modalità della divisione proposta dall'esperto, anche limitandosi a chiedere concordemente, come nel caso in esame, la fissazione dell'udienza di precisazione delle conclusioni, diviene superflua la fissazione della udienza di discussione del progetto divisionale, ed è possibile procedere mediante sentenza (Cass. civ. 11.01.2010 n. 242). Il principio basilare in materia di divisione di beni comuni è quello stabilito dall'art. 1114 c.c., il quale prevede che la divisione ha luogo "in natura, in parti corrispondenti alle rispettive quote"; tale principio è richiamato, poi, con specifico riferimento alla divisione della comunione ereditaria, dall'art. 718 c.c., che afferma il "diritto dei beni in natura", vale a dire il diritto di ciascun comproprietario di richiedere la sua parte dei beni comuni in natura. Altro principio fondamentale è quello previsto dall'art. 727 c.c., che richiede, di regola, la formazione di porzioni qualitativamente omogenee. Naturalmente, la divisione in natura presuppone che i beni caduti in comunione siano divisibili, dovendosi applicare, nel caso contrario, le regole stabilite nell'art. 720 c.c., a norma del quale l'immobile non divisibile deve essere preferibilmente attribuito nella porzione di uno dei coeredi aventi diritto alla quota maggiore, con addebito dell'eccedenza, salvo il caso in cui nessuno dei coeredi sia a ciò disposto, per il quale è stabilita la vendita all'incanto. Va, pertanto, compiuta un'indagine preliminare, diretta a verificare se il bene da dividere sia divisibile, tenendo presente che, per giurisprudenza costante, l'unitaria destinazione economica del bene comune non ne esclude la comoda divisibilità, ai sensi dell'art. 720 c.c., se il bene può essere materialmente ripartito, senza pregiudizio dell'originario valore economico, in parti vantaggiosamente utilizzabili dai singoli condividenti (Cassazione civile sez. II, 24 febbraio 1995, n. 2117), postulando la comoda divisibilità, sotto l'aspetto strutturale, che il frazionamento del bene sia attuabile mediante determinazione di quote concrete senza dover fronteggiare problemi tecnici eccessivamente costosi e, sotto l'aspetto economico funzionale, che la divisione non incida sull'originaria destinazione del bene e non comporti un sensibile deprezzamento del valore delle singole quote rapportate proporzionalmente al valore dell'intero, tenuto conto della normale destinazione ed utilizzazione del bene stesso (Cassazione civile sez. II, 24 novembre 1998, n. 11891; Cassazione civile, sez. II, 10 aprile 1990 n. 2989). Per valutare la consistenza del patrimonio comune ed approntare un progetto divisionale ci si è avvalsi dell'ausilio di un consulente tecnico nominato ai sensi dell'art. 194 disp. att. c.p.c., al quale è stato conferito anche l'incarico di verificare la legittimità urbanistica dei beni, di cui alla L. n. 47 del 1985 (artt. 17 e 40), e la loro conformità oggettiva catastale. Nel caso in esame il nominato C.T.U. ing. Ga.Lo., nella sua relazione depositata il 29.07.2021, ha accertato che l'appartamento oggetto di causa situato nel comune Messina, via P., (...) 13/A, n. 9, ed identificato catastalmente nel foglio di mappa n. (...), particella n. (...) sub (...) non è divisibile, anche in relazione alle vigenti normative urbanistiche, a causa della sua ridotta estensione (la superficie lorda è pari a mq. 60) e della disposizione dei locali, dei servizi e delle aperture. Tale conclusione non è stata, d'altronde, contestata dalle parti, che hanno sin dall'inizio affermato l'indivisibilità dell'immobile, chiedendone l'assegnazione o la vendita. Quanto alla regolarità urbanistica, si deve premettere che gli artt. 17 e 40 della L. n. 47 del 1985 (ed oggi l'art. 46 D.P.R. n. 380 del 2001) prevedono una fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell'immobile. Essa va ricondotta nell'ambito del comma 3 dell'art. 1418 cod. civ., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità "testuale". Le Sezioni Unite, con la recente sentenza 07.10.2019 n. 25021, hanno affermato il principio di diritto che tale nullità colpisce anche le divisioni ereditarie, posto che l'atto di scioglimento della comunione ereditaria va assimilato, quanto alla natura ed ai suoi effetti, all'atto di scioglimento della comunione ordinaria, e che è, pertanto, inibito al giudice disporre lo scioglimento di una comunione ereditaria in violazione delle suddette norme, in quanto, in caso contrario, sarebbe oltremodo agevole per i condividenti, mediante il ricorso al giudice, l'elusione della norma imperativa in questione (Cass., Sez. 2, n. 15133 del 28/11/2001; Cass., Sez. 2, n. 630 del 17/01/2003), sicché la regolarità edilizia del fabbricato in comunione, come costituisce presupposto giuridico della divisione convenzionale, parimenti costituisce presupposto giuridico della divisione giudiziale, sotto il profilo della "possibilità giuridica". Trattasi di una nullità che costituisce la sanzione per la violazione di norme imperative in materia urbanistico-ambientale, dettate a tutela dell'interesse generale all'ordinato assetto del territorio (cfr. Cass., Sez. 1, n. 13969 del 24/06/2011); ciò spiega perché tale nullità sia rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio (cfr. Cass. Sez. Un., n. 23825 del 11/11/2009; Cass., Sez. 2, n. 6684 del 07/03/2019). Inoltre, le Sezioni Unite, in altra pronuncia di poco anteriore (la n. 8230 del 22/03/2019), superando un precedente contrasto interpretativo, hanno chiarito la portata di tale nullità, evidenziando che, in presenza nell'atto della dichiarazione dell'alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all'immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato. In particolare, hanno evidenziato che - vista l'inutilità, ai fini della validità negoziale, della distinzione tra abusi di "lieve entità" e abusi "essenziali" (come definiti dall'art. 32 della legge) - la nullità può operare nella sola ipotesi in cui siano stati fatti degli interventi edilizi senza il necessario titolo abilitativo, mentre la finalità di contrasto al fenomeno dell'abusivismo, nel caso di difformità, potrà essere realizzata non attraverso la nullità dell'atto, ma con la sanzione della demolizione, che l'art. 31 commi 2 e 3 D.P.R. n. 380 del 2001 prevede in caso di interventi edilizi eseguiti in difformità dal permesso di costruire ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'art. 32. Di conseguenza, occorre distinguere l'ipotesi di immobili eseguiti in difformità parziale rispetto alla concessione edilizia, che si verifica quando la modifica concerne parti non essenziali del progetto, nel qual caso la nullità non sussiste, dall'ipotesi di immobili in difformità totale rispetto alla concessione edilizia, che si verifica quando è stato realizzato un edificio radicalmente diverso per caratteristiche tipologiche e volumetriche, nel qual caso l'opera è da equiparare a quella costruita in assenza di concessione (Cass. civ. 27.11.2018 n. 30703). Nel caso in esame il nominato C.T.U., ing. (...), ha accertato che l'immobile in questione è stato realizzato anteriormente al 1967, ma ha sottolineato che, dal confronto tra la planimetria di progetto e lo stato dei luoghi risultano delle modifiche consistenti in: - spostamento della porta di ingresso; - realizzazione di pareti in cartongesso nel vano di maggiore ampiezza per ricavare un corridoio, due stanza da letto e un ripostiglio; - eliminazione nel bagno della divisione tra antibagno e bagno. Lo stesso C.T.U. ha, pertanto, concluso che non sussiste la regolarità urbanistica e che sarebbe necessario procedere alla regolarizzazione presentando una CILA in sanatoria. Alla luce dei superiori elementi di conoscenza, è allora evidente che le piccole difformità rilevate dal C.T.U., suscettibili di sanatoria, non avendo dato luogo a una costruzione "nuova", non sono idonee a inficiare la regolarità urbanistica dell'immobile, per il quale non era necessario il titolo edilizio, essendo stata la costruzione completata in data anteriore al 1967, sicché esse e non possono determinare la nullità in esame. È, tuttavia, innegabile, alla luce degli accertamenti compiuti dal C.T.U., che lo stato di fatto dell'immobile in questione non è quello indicato nelle planimetrie depositate in Catasto e, d'altronde, il C.T.U. ha rilevato che manca agli atti la dichiarazione di conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale. Sul punto occorre tenere presente che l'art. 19, comma 14, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, ha modificato il testo dell'articolo 29 della L. 27 febbraio 1985, n. 52, aggiungendo, dopo il comma 1, il comma 1 bis, del seguente testuale tenore: "gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti, ad esclusione dei diritti reali di garanzia, devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre all'identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale. La predetta dichiarazione può essere sostituita da un'attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale. Prima della stipula dei predetti atti il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari". Deve pertanto ritenersi che anche la "conformità catastale oggettiva" rappresenti, al pari della "conformità edilizia ed urbanistica", una condizione dell'azione (Cass. civ. 29.09.2020 n. 20526), che deve sussistere al momento della decisione (cfr. SSUU n. 23825/09; da ultimo, Cass. 16068/19). Allo stesso modo, la Suprema Corte, con la sentenza n. 12654/20, ha chiarito che il disposto comma 1 bis dell'articolo 29 della L. 27 febbraio 1985, n. 52, aggiunto dall'articolo 19, comma 14, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, con la L. 30 luglio 2010, n. 122 trova applicazione anche in ordine al trasferimento giudiziale della proprietà degli immobili con sentenza. Da ciò discende che non è possibile procedere allo scioglimento della comunione con riferimento all'immobile oggetto di causa in quanto risulta carente della conformità catastale oggettiva (mentre non assume rilievo ai fini della possibilità di procedere alla divisione la sussistenza o meno della cosiddetta "conformità catastale soggettiva", che pure, in base agli accertamenti del C.T.U., risulta mancante). Dalla improcedibilità della domanda di divisione discende, poi, che non occorre esaminare né la richiesta di assegnazione per intero dell'immobile formulata da entrambe le parti (ma alla quale entrambe le parti sembra che abbiano rinunciato all'esito della valutazione del bene effettuata dal C.T.U.) né la richiesta di vendita del bene indivisibile, poiché tanto l'assegnazione che la vendita si inseriscono all'interno del procedimento divisionale. Passando, quindi, all'esame della domanda avanzata da (...) e da (...) volta alla condanna della convenuta (...) al pagamento di un "indennizzo" per il godimento esclusivo del bene oggetto di causa, va osservato che l'erede che abbia compiuto atti di gestione del patrimonio ereditario o che abbia goduto in via esclusiva di beni comuni ha l'obbligo, quale mandatario espresso o tacito degli altri partecipanti, di rendere loro il conto della gestione e rimettere i relativi frutti. E' per tale motivo che incombe sui comproprietari, ai sensi dell'art. 723 c.c., un obbligo di rendiconto, la cui ratio va individuata nel fatto che chiunque svolga attività nell'interesse di altri, deve portare a conoscenza di costoro, secondo il principio della buona fede, gli atti posti in essere ed in particolare, quegli atti e fatti da cui scaturiscono partite di dare e avere, al fine di calcolare, nella ripartizione dei frutti, le eventuali eccedenze attive o passive della gestione (Cassazione civile sez. II, 27 aprile 1991 n. 4633; Cassazione civile sez. II, 7 giugno 1993, n. 6358; Cassazione civile, sez. II, 13 novembre 1984 n. 5720). Naturalmente, perché esista un obbligo di un erede di rendere il conto all'altro occorre che quest'ultimo abbia compiuto un'attività influente nella sfera di interessi patrimoniali altrui o, contemporaneamente, nella altrui e nella propria, situazione che si verifica tipicamente quando uno degli eredi utilizzi in via esclusiva un bene comune. Sennonché, quando uno dei comproprietari utilizzi in via esclusiva un bene comune non sempre vi è un obbligo di rendere il conto all'altro o agli altri comproprietari. Va, infatti, osservato che, ai sensi della normativa di cui all'art. 1102 c.c., l'uso diretto del bene comune da parte di un comproprietario, altro non è che l'attuazione del diritto dominicale, salvo l'obbligo di non alterare la destinazione economica del bene e di non impedire agli altri condividenti l'eguale e diretto uso ovvero di trarre dal bene i frutti civili. In particolare, un diverso regime rispetto all'uso della cosa comune vale per i frutti naturali (che entrano a far parte della comunione e quindi si ripartiscono tra i partecipanti pro quota) e per i frutti civili (soggetti alla regola della divisione ipso iure, e però nella comunione ereditaria disciplinati ulteriormente dal principio della dichiaratività della divisione, di cui all'art. 757 c.c.). Di conseguenza, il semplice godimento esclusivo del bene ad opera di uno dei comproprietari, in via di principio, ove mantenuto nei limiti di cui all'art. 1102 c.c., non assume l'idoneità a produrre un qualche pregiudizio in danno degli altri comproprietari, che siano rimasti inerti o abbiano acconsentito ad esso in modo certo ed inequivoco, essendo l'occupante tenuto al pagamento della corrispondente quota di frutti civili ricavabili dal godimento indiretto della cosa solo se gli altri partecipanti abbiano manifestato l'intenzione di utilizzare il bene in maniera diretta e non gli sia stato concesso, e sempre che risulti provato che il comproprietario, il quale abbia avuto l'uso esclusivo del bene, ne abbia tratto anche un vantaggio patrimoniale, ovvero nel caso in cui l'occupante del bene abbia tratto dei frutti civili dal godimento indiretto dell'immobile (Cass. civ. 08.06.2022 n. 18548; Cass. civ. 09.02.2015 n. 2423; Cass. civ. 03.12.2010 n. 24647; Cass. civ. 04.12.1991 n. 13036). Nel caso di specie non vi è dubbio che la convenuta abbia utilizzato in via esclusiva la casa sita a (...) via (...) is. 13 int. 9, sin dall'epoca della morte della madre, posto che la stessa vi ha abitato sin da quando si è sposata e vi abita tuttora, come ammesso in sede di interrogatorio formale. Non vi è dubbio, pertanto, che a far data dalla proposizione della domanda giudiziale, data nella quale gli attori hanno chiaramente manifestato alla convenuta di non volere ulteriormente consentire tale uso esclusivo (e non dalla data anteriore di apertura della successione, come affermato dall'attore in riassunzione), grava sulla convenuta l'obbligo di corrispondere a ciascuno dei fratelli (...) e G. una somma pari ai 13/45 dei frutti civili che gli eredi avrebbero potuto trarre dall'immobile, da calcolare equitativamente in base al suo valore locativo. A tal proposito va osservato che la quota di proprietà spettante a (...) ed a (...) va determinata tenendo presente che a ciascun fratello spetta 1/3 della eredità della madre (...)A., la quale era a sua volta proprietaria di una quota pari ai 2/3 dell'immobile (alla quota 1/2 di cui la stessa era originariamente proprietaria va aggiunta, infatti, ai sensi dell'art. 581 c.c., la quota di 1/3 sull'altra metà di pertinenza del marito ed acquisita per successione di quest'ultimo), nonché 2/15 dell'eredità del padre V.F. (posto che quest'ultimo ha lasciato il coniuge e cinque figli, come risulta dalla documentazione anagrafica in atti), il quale a sua volta era proprietario di una quota pari a 1/2 del bene. Orbene, il nominato C.T.U. ing. (...) ha quantificato i frutti civili che avrebbero potuto trarsi da tale immobile dal luglio 2004 sino al 30.06.2021 nella complessiva somma di Euro 47.289,78 e, sulla base del medesimo criterio adottato dal C.T.U. si può affermare che i suddetti frutti civili ammontano alla data odierna a Euro 52.355,03, sicché la quota spettante a (...) ed a (...) e, per ciascuno, pari a Euro 15.324,79. Nella individuazione di tale valore il C.T.U. ha fatto riferimento ai valori risultanti dalla ricerca presso le principali agenzie immobiliari operanti nel settore per immobili di caratteristiche similari a quello oggetto di accertamento, mentre i consulenti parte hanno indicato dei valori diversi (più elevato il tecnico di parte attrice e più basso il tecnico della convenuta costituita), ma questo Giudice ritiene che le critiche sollevate da entrambe le parti non colgono nel segno, posto che l'indagine risulta compiuta dal C.T.U. in modo corretto e convincente ed è evidente che i tecnici delle parti si sono limitati ad affermare in modo sostanzialmente apodittico una valutazione diversa da quella fornita dal C.T.U., che si deve ritenere assistita da una presunzione di imparzialità. D'altronde, la contestazione dell'esattezza delle conclusioni della espletata consulenza mediante la pura e semplice contrapposizione ad essa delle diverse valutazioni espresse dal consulente tecnico di parte non è sufficiente ad evidenziare alcun errore delle prime, ma solo la diversità dei giudizi formulati dagli esperti (Cass. civ. 28.03.2006 n. 7078). Alla stregua delle superiori considerazioni la convenuta (...) va condannata al pagamento in favore di ciascuno degli originari attori, (...) e (...), della somma di Euro 15.324,79, oltre interessi legali dalla presente decisione sino al soddisfo. Va osservato che non è possibile condannare (...) al pagamento di una somma anche con riferimento all'eventuale futuro godimento del bene sino al rilascio, poiché la condanna "in futuro" costituisce una ipotesi eccezionale, consentita solo nelle fattispecie espressamente previste dalla legge (ad esempio nella fattispecie di cui all'art. 664 c.p.c. con riferimento ai canoni locativi), delle quali non è consentito allargare per analogia l'area (Cass. civ. 8405/2014) e non può, pertanto, trovare applicazione nella ipotesi in esame. Va, poi, evidenziato che in seguito alla riassunzione da parte dell'attore (...), l'altro attore originario, (...), non si è costituito e ne è stata dichiarata la contumacia, ma da ciò non consegue che le domande da quest'ultimo proposte debbano ritenersi rinunciate o abbandonate in quanto tali domande sono relative ad un giudizio che prosegue nella nuova fase a seguito del rinvio effettuato dalla Corte di Appello, conservando tutti gli effetti processuali e sostanziali dell'originario rapporto (Cass. civ. 30.07.1996 n. 6867; Cas. civ. 30.09.2008 n. 24331). (...) e (...) hanno, altresì, chiesto il rimborso di alcune somme che essi avevano speso a favore della madre o nell'interesse dei condividenti dopo la morte di quest'ultima. A tal proposito va osservato che i debiti ereditari non fanno parte della comunione ereditaria, poiché ai sensi dell'art. 752 c.c., essi si dividono automaticamente pro quota tra gli eredi. Ciò non toglie, però, che ove uno dei coeredi sia creditore nei confronti del de cuius, possa fare valere tale credito, pro quota, nei confronti di ciascuno degli altri coeredi. L'istruttoria espletata ha corroborato larga parte delle allegazioni degli attori. (...) ha, infatti, documentato, mediante la produzione della relativa ricevuta di pagamento, che non è stata mai contestata dalla convenuta (...), di avere sostenuto delle spese per consumo idrico dell'appartamento sito in via (...) n. 571, abitato dalla madre in forza di contratto di locazione (prodotto in atti dalla convenuta), relativamente agli anni 1997-1998-2000-2002, per un importo complessivo Euro 1.182,22. D'altronde, dall'esame di detta ricevuta risulta che il pagamento è stato effettuato solo dopo la morte della (...), sicché è evidente che quest'ultima non può avere effettuato il relativo esborso, pur riferendosi la spesa ad un servizio che era certamente a carico del conduttore. E', poi, irrilevante la circostanza che il teste (...) abbia riferito di non sapere nulla di detta spesa, posto che la menzionata documentazione è di per sé sufficiente a fornire la prova richiesta, mentre la difesa della convenuta (...), la quale ha affermato di avere effettuato i pagamenti relativi ai consumi idrici della casa sita in via (...) is. 13 da lei abitata, risulta del tutto inconducente, posto che la convenuta non ha in alcun modo affermato di avere provveduto al pagamento anche dei consumi idrici relativi alla casa sita in via (...) n. 571, di proprietà del fratello (...) e dove aveva abitato la madre sino alla morte. Sempre dalla documentazione prodotta risulta, poi, che (...) ha corrisposto le spese relative alla successione della madre per un importo complessivo di Euro 624,94 e, d'altronde, sul punto (...) ha ammesso, in sede di interrogatorio formale, di non avere sborsato alcuna somma a tale titolo, mentre, come è noto, le spese di successione costituiscono dei debiti ereditari che debbono gravare su tutti gli eredi. Quanto, infine, alla circostanza il (...) ha provveduto al pagamento delle spese di giudizio relative ad una vertenza promossa dai condomini del condominio (...) contro l'ex amministratore, sig. (...), per Euro 996,55, va osservato che tale fatto può ritenersi compiutamente accertato, sulla base della deposizione testimoniale di (...), ma non vi sono elementi per ritenere che dette spese dovessero gravare sul conduttore (vale a dire sulla (...)) anziché sul proprietario (vale a dire su (...)), specie se si tiene conto che le spese relative all'amministrazione del condominio non possono rientrare tra gli oneri che la legge pone a carico del conduttore e devono, dunque, essere sostenute dal proprietario (Cass. civ. 03.06.1991 n. 6216). Alla stregua delle superiori considerazioni (...) (coerede per la quota di 1/3 della madre) va condannata al pagamento in favore di (...) della somma di Euro 394,07 oltre interessi dalla domanda sino al soddisfo, ed in favore di (...) della somma di Euro 208,31 oltre interessi dalla domanda sino al soddisfo. Va osservato che gli attori (...) e (...) non avevano chiesto in citazione il rimborso di altre spese sicché non possono essere prese in considerazione le altre spese indicate dal C.T.U. senza, peraltro, alcuna specificazione in ordine alla individuazione del coerede che le aveva sostenute. (...) ha chiesto, dal canto suo, la condanna degli attori al rimborso pro quota delle somme da lei sborsate per interventi di manutenzione e per migliorie effettuate sull'immobile oggetto di causa. Va, nondimeno, osservato che, come risulta dalla documentazione prodotta dalla stessa convenuta, il suddetto immobile le era stato concesso dai genitori in comodato gratuito ed il comodatario, ai sensi dell'art. 1808 c.c., ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa solo "se queste erano necessarie ed urgenti", mentre "al comodatario non sono rimborsabili le spese straordinarie non necessarie ed urgenti, anche se comportano miglioramenti" potendosi riconoscere soltanto uno ius tollendi per le addizioni (Cass. civ. 06.11.2002 n. 15543; Cass. civ. 6.07.1955 n. 2083; Cass. civ. 30.10.1961 n. 2487; Cass. civ. 12.06.1963 n. 1575). Nelle pronunce citate si è, invero, ritenuto che la posizione del comodatario sia molto simile a quella del locatario sicché non può essergli riconosciuta una indennità per miglioramenti, in quanto la stessa è di regola negata, ai sensi dell'art. 1592 c.c., al locatario (Cass. civ. 27.01.2012 n. 1216). D'altronde, (...) non ha neppure allegato che le spese sostenute fossero necessarie ed urgenti e, di conseguenza, la relativa domanda di rimborso va rigettata. Le spese del giudizio nella misura di 2/3, e quelle di C.T.U. per intero vanno poste a carico della massa, atteso che l'attività processuale espletata appare strettamente funzionale allo scioglimento della comunione e le spese conseguenti possono ritenersi indispensabili per il raggiungimento del fine proprio del procedimento. Costituisce, infatti, principio consolidato in giurisprudenza quello secondo il quale nei giudizi di divisione vanno poste a carico della massa le spese dirette a condurre nel comune interesse il giudizio alla sua conclusione, mentre valgono i principi generali sulla soccombenza solo per quelle spese che, secondo il prudente apprezzamento del giudice di merito, sono state necessitate da eccessive pretese o da inutili resistenze, cioè dall'ingiustificato comportamento della parte (Cass. 12949/99, 1111/1986, 4080/86, 197/48). La restante quota di spese pari a 1/3 va, invece, posta a carico della convenuta (...), rimasta soccombente sulle domande di condanna alla al pagamento di un corrispettivo per il godimento dell'immobile in comunione e di rimborso di alcune spese sostenute dagli attori. Detta quota di spese, tenuto conto della natura ed entità della causa e della complessità delle questioni trattate, può liquidarsi in favore di (...), sulla base dei parametri di cui al D.M. n. 147 del 2022, in Euro 172,66 per spese non imponibili ed in complessivi Euro 2.610,00 per compensi di cui Euro 460,00 per fase studio, Euro 400,00 per fase introduttiva, Euro 850,00 per fase istruttoria ed Euro 900,00 per fase decisoria, oltre spese generali nella misura del 15 % dei compensi, I.V.A. e c.p.a.. P.Q.M. Il Tribunale in composizione monocratica, definitivamente pronunciando nella causa promossa davanti a questo Tribunale con atto di citazione notificato il 09.09.2004 da (...) e (...) nei confronti di (...) e riassunto da (...) nei confronti di (...), (...), (...) e (...) con comparsa notificata il 15 luglio 2019, il 18 luglio 2019 ed il 2 agosto 2019, a seguito di sentenza emessa dalla Corte di Appello di Messina di rimessione al primo giudice n. 303/2019, pubblicata il 16.04.2019, sentiti i procuratori delle parti costituite e nella contumacia di (...), (...) e (...), disattesa ogni contraria istanza, eccezione e difesa, così provvede: 1) dichiara l'improcedibilità della domanda di scioglimento della comunione avente ad oggetto l'immobile sito a via (...) is. 13/a int. 9, ed identificato catastalmente nel foglio di mappa n. (...), particella n. (...) sub (...); 2) condanna (...) al pagamento in favore di ciascuno degli attori, (...) e (...), della somma di Euro 15.324,79, oltre interessi legali dalla presente decisione sino al soddisfo; 3) condanna (...) al pagamento in favore di (...) della somma di Euro 394,07 oltre interessi dalla domanda sino al soddisfo, ed in favore di (...) della somma di Euro 208,31 oltre interessi dalla domanda sino al soddisfo; 4) rigetta la domanda riconvenzionale avanzata da (...) di rimborso delle some spese per migliorie ed interventi di manutenzione straordinaria nell'immobile oggetto di causa; 5) pone le spese del giudizio nella misura di 2/3, e quelle di C.T.U. per intero a carico della massa; 6) condanna (...) al pagamento in favore di (...) della restante quota di spese che liquida in Euro 172,66 per spese non imponibili ed in complessivi Euro 2.610,00 per compensi di cui Euro 460,00 per fase studio, Euro 400,00 per fase introduttiva, Euro 850,00 per fase istruttoria ed Euro 900,00 per fase decisoria, oltre spese generali nella misura del 15% dei compensi, I.V.A. e c.p.a. Così deciso in Messina il 31 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 2 febbraio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI MESSINA SECONDA SEZIONE CIVILE Il Tribunale di Messina, Seconda Sezione Civile, in persona del giudice istruttore in funzione di giudice unico dott.ssa Maria Carmela D'Angelo ha emesso la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 2911/2019 del Ruolo Generale degli affari civili, introitata per la decisione all'udienza del 24 gennaio 2023, senza assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. tra La Società Cooperativa (...) a.r.l., in persona del legale rappresentante p. t., sig. (...), con sede legale in G. (C.), via (...), partita iva (...), elettivamente domiciliata in Giarre (CT), Corso (...), presso lo studio dell'avv. Vincenzo Silvestro, che la rappresenta e difende in giudizio in virtù di procura in atti, - parte attrice- contro (...), nata a (...) (M.) il (...), c.f.: (...), (...), nato a L. (M.) il (...), c.f.: (...), - parte convenuta contumace- OGGETTO: azione revocatoria ordinaria. RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE La Società Cooperativa (...) a.r.l., in persona del legale rappresentante p. t., sig. (...), conveniva in giudizio dinanzi all'intestato Tribunale (...) e (...) per ivi sentire accogliere le seguenti conclusioni: "01)DICHIARARE inefficace nei confronti dell'istante, odierna attrice, il predetto atto di costituzione del fondo patrimoniale, e precisamente l'atto pubblico a rogito notaio (...) n. (...) di repertorio e n. (...) della raccolta, registrato il 23.11.2016 al n. 8076 - 1T, trascritto al r. g. n. 30497 e r. p. n. 23431, con ogni conseguenza di legge.". L'attore chiedeva altresì la condanna delle controparti alle spese del giudizio, da distrarsi ex art. 93 c.p.c.. Non si costituivano in giudizio i convenuti (...) e (...), con la conseguenza che ne va dichiarata la contumacia. Oggetto del presente giudizio è la disamina e l'accertamento della sussistenza o meno dei presupposti posti a fondamento dell'actio pauliana regolata dall'art. 2901 c.c. (eventus damni, consilium fraudis et scientia damni). La domanda di parte attrice ai sensi dell'art. 2901 c.c. é fondata e deve essere accolta. Per giurisprudenza costante, la costituzione del fondo patrimoniale di cui all'art. 167 c.c. costituisce un limite alla disponibilità dei beni che ne entrano a far parte - vincolati a soddisfare i bisogni della famiglia - e quindi rende più incerta o difficile la soddisfazione del credito. Anche qualora effettuata da entrambi i coniugi, la costituzione dei beni in fondo patrimoniale non integra, di per sé, adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ma configura un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un'attribuzione in favore dei disponenti; essa pertanto é suscettibile di revocatoria, a norma dell'art. 2901 c.c. (ex multis, Cassazione civile sez. I, 12/05/2022, n. 15257; Corte appello, Br., sez. I, 16/03/2022, n. 338; Tribunale , Teramo, sez. I, 08/03/2022 , n. 225). L'azione revocatoria ordinaria ai sensi dell'art. 2901 c.c., come noto, presuppone: il compimento di un atto pregiudizievole del debitore (eventus damni) ossia l'essere l'atto di disposizione del debitore tale da rendere più difficile la soddisfazione coattiva del credito; la consapevolezza da parte del disponente - cui va equiparata l'agevole conoscibilità di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore - di tale carattere lesivo e, in caso di atti a titolo oneroso, anche da parte del terzo (partecipatio fraudis). La domanda svolta ai sensi dell'articolo 2901 c.c. infatti ha la funzione di ricostruire il patrimonio del debitore che sia stato leso dall'atto di disposizione di cui è causa, attraverso il quale sia stata ridotta o annullata la capacità di garanzia patrimoniale generica sancita dall'articolo 2740 c.c.. L'art. 2901 cod. civ. dispone che il creditore può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle ragioni del creditore. A questo proposito si precisa che, esprimendosi in termini di pregiudizio, il legislatore ha voluto utilizzare un significato che va oltre il concetto di danno per comprendere anche quello di semplice pericolo di danno. Ciò in quanto al creditore non interessa soltanto la conservazione della garanzia patrimoniale costituita dai beni del debitore, "...ma anche il mantenimento di uno stato di maggiore fruttuosità ed agevolezza dell'azione esecutiva susseguente all'utile esperimento dell'azione" (Cass. n. 1588 del 2007). Secondo un orientamento ormai costante della Corte regolatrice infatti, l'eventus damni può consistere non solo in una variazione quantitativa del patrimonio del debitore, ma anche e unicamente in una variazione qualitativa, quando detta variazione sia tale da rendere più difficile la soddisfazione dei creditori stessi (v., ex plurimis, Cass. n. 4578 del 1998 ed anche Cass. n. 2792 del 2002). Poiché l'azione revocatoria ordinaria tutela non solo l'interesse del creditore alla conservazione della garanzia patrimoniale costituita dai beni del debitore, ma anche all'assicurazione di uno stato di maggiore fruttuosità e speditezza dell'azione esecutiva diretta a far valere la detta garanzia, il riconoscimento dell'esistenza dell'"eventus damni" non presuppone una valutazione sul pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore istante, ma richiede soltanto la dimostrazione da parte di quest'ultimo della pericolosità dell'atto impugnato, in termini di una possibile, quanto eventuale, infruttuosità della futura esecuzione sui beni del debitore (Cass. civ. n. 5105/2006). Più in particolare, per quanto concerne la prova dell'eventus damni, occorre precisare che esso può consistere in tutto ciò che determini l'aggravamento della condizione patrimoniale del debitore, tale da rendere impossibile o più difficile la soddisfazione delle ragioni creditorie (cfr. "In tema di azione revocatoria ordinaria, non essendo richiesta, a fondamento dell'azione, la totale compromissione della consistenza patrimoniale del debitore, ma soltanto il compimento di un atto che renda più incerta o difficile il soddisfacimento del credito, incombe al convenuto che eccepisca la mancanza dell"'eventus damni" l'onere di provare l'insussistenza del predetto rischio, in ragione di ampie residualità patrimoniali" Cass. Civ. sez. 3, n. 19963 del 14.10.2005), sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo (cfr. al riguardo: "In merito all'azione revocatoria, il profilo oggettivo dell'eventus damni, si configura laddove l'atto abbia determinato maggiore difficoltà nell'esazione coattiva del credito, per cui non occorre che si sia verificato un mutamento quantitativo del patrimonio essendo sufficiente anche un mutamento qualitativo come, ad esempio, la sostituzione di beni facilmente aggredibili con beni facilmente occultabili. Ne deriva pertanto che anche la vendita di un immobile al giusto prezzo possa integrare l'eventus damni laddove non risulti la presenza, nel patrimonio, di altri beni ugualmente aggredibili da parte dei creditori o vi sia un unico bene del valore nettamente inferiore rispetto all'ammontare dei debiti". Trib. Milano, Sez. II, 13/01/2012, (...) s.a.s. (...) e altri (...) redazionale, 2012). In ordine all'elemento soggettivo, ove trattasi di atto compiuto successivamente all'insorgere del credito altrui, è sufficiente la mera consapevolezza di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore ("scientia damni"), la cui prova può ritenersi acquisita anche tramite presunzioni, senza che assumano, viceversa, rilevanza l'intenzione del debitore medesimo di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore (consilium fraudis), né la relativa conoscenza o partecipazione da parte del terzo (cfr. Cass., 29.4.2009, n. 10052). Per altro verso la giurisprudenza di legittimità ha comunque statuito che, per integrare la prova del consilium fraudis, è sufficiente la semplice conoscenza nel debitore del pregiudizio che l'atto arreca alle ragioni del creditore e pertanto prescinde dalla specifica conoscenza del credito per la cui tutela la revocatoria viene proposta, essendo sufficiente che la consapevolezza investa la riduzione della consistenza del patrimonio del debitore in danno dei creditori complessivamente considerati (Cass., 20-21989, n. 987; Cass., 1-12-1987, n. 8930; Cass., 8-11-1985, n. 5451). Per quanto concerne la posizione soggettiva dei terzi acquirenti, si deve rammentare che "quanto alle condizioni per l'esercizio dell'azione revocatoria ordinaria allorché l'atto di disposizione è successivo al sorgere del credito è necessaria e sufficiente la consapevolezza di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore ("scientia damni") essendo l'elemento soggettivo integrato dalla semplice conoscenza, cui va equiparata l'agevole conoscibilità, nel debitore - e, in ipotesi di atto a titolo oneroso, nel terzo - di tale pregiudizio, a prescindere dalla specifica conoscenza del credito per la cui tutela viene esperita l'azione e senza che assumano rilevanza l'intenzione del debitore di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore ("consilium fraudis"), né la partecipazione o la conoscenza da parte del terzo, in ordine all'intenzione fraudolenta del debitore" (Cass. civ., Sez. III, 29/07/2004, n.14489); nell'ipotesi opposta, ovvero di atto antecedente al sorgere del credito, oltre alle necessità della prova che esso sia dolosamente preordinato dal debitore al fine di pregiudicare il soddisfacimento delle ragioni creditorie è indispensabile quella per cui il terzo sia parimenti consapevole del pregiudizio arrecato a tali ragioni, quale compartecipe della dolosa preordinazione del disponente (partecipatio fraudis). In ultimo, quanto al tema della legittimazione all'esperimento del rimedio che occupa, va detto che l'art. 2901 cit. ha accolto una nozione lata di credito, comprensiva della ragione o aspettativa, con conseguente irrilevanza dei normali requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità. A ciò pacificamente consegue che anche il credito eventuale, nella veste di credito litigioso, sia idoneo a determinare - sia che si tratti di un credito di fonte contrattuale oggetto di contestazione in separato giudizio sia che si tratti di credito risarcitorio da fatto illecito - l'insorgere della qualità di creditore che abilita all'esperimento dell'azione revocatoria ordinaria avverso l'atto di disposizione compiuto dal debitore (Cass. civ., Sez. III, 09/02/2012, n. 1893). Peraltro, essendo sufficiente, per l'esperimento dell'azione l'esistenza di una ragione di credito - anche se non accertata giudizialmente (in maniera definitiva), il giudizio promosso con tale azione non è soggetto a sospensione necessaria ex art. 295 cod. proc. civ. nel caso di pendenza di controversia sull'accertamento del credito, in quanto la definizione di questa seconda controversia non costituisce l'indispensabile precedente logico - giuridico della pronuncia sulla domanda revocatoria. Infatti, secondo la giurisprudenza e dottrina prevalente la sospensione necessaria di un procedimento ex art. 295 c.p.c., presuppone infatti una pregiudizialità tecnica o giuridica tra i giudizi: in altri termini, non basta che la definizione dell'uno costituisca antecedente logico necessario dell'altro, quanto suo indispensabile antecedente logico - giuridico, nel senso che la decisione del processo "pregiudicato" dipenda dall'esito dell'altra causa ovvero dal vincolo con effetto di giudicato da essa imposta ( così ad esempio "La sospensione necessaria del processo può essere disposta, a norma dell'art. 295 cod. proc. civ., quando la decisione del medesimo dipenda dall'esito di altra causa, nel senso che questo abbia portata pregiudiziale in senso stretto, e cioè vincolante, con effetto di giudicato, all'interno della causa pregiudicata, ovvero che una situazione sostanziale rappresenti fatto costitutivo, o comunqueelemento fondante della fattispecie di altra situazione sostanziale, sicché occorra garantire uniformità di giudicati, essendo la decisione del processo principale idonea a definire, in tutto o in parte, il "thema decidendum" del processo pregiudicato" (Cass. civ., Sez. VI - 1, 24/09/2013, n. 21794). È evidente che tale vincolo non ricorre nell'ipotesi di revocatoria ordinaria, giacché per la relativa introduzione basta solo che la parte vanti una ragione di credito. Ebbene, nel caso di specie, devono ritenersi integrati tutti i requisiti richiesti dall'art. 2901 c.c. per la revocatoria ordinaria dell'atto di disposizione patrimoniale oggetto di causa (atto di costituzione del fondo patrimoniale, e precisamente l'atto pubblico a rogito notaio (...) n. 10.280 di repertorio e n. 3.778 della raccolta, registrato il 23.11.2016 al n. 8076 - 1T, trascritto al r. g. n. 30497 e r. p. n. 23431). Per quanto riguarda la qualifica di creditore in capo a parte attrice, nel caso di specie, alla data dell'atto di costituzione del fondo patrimoniale da parte dei convenuti (17 novembre 2016), sussisteva una ragione di credito della Società Cooperativa (...) a.r.l., in virtù del contratto di appalto stipulato il 21.02.2014, la fattura n. (...) del 18.03.2015, con scadenza 18.07.2015 per l'importo di Euro 100.000,00, e conseguente nota di credito n. (...) del 17.06.2015 a rettifica della predetta fattura per lavori eseguiti di cui il credito residuo è pari ad Euro 59.872,61, (cfr. Doc. all. n. 01, contratto d'appalto, fattura, nota di credito ed estratti); la Società Cooperativa (...) a.r.l., successivamente azionava il suo credito in via giudiziale, ottenendo in sede monitoria il decreto ingiuntivo n. 1549/16, emesso il 12.10.2016 ritualmente notificato il 3.11.2016, per la somma di Euro 59.872,61. Venendo ora al requisito dell'eventus damni, parte attrice ha prodotto l'atto di costituzione del fondo patrimoniale avente ad oggetto i beni immobili sopra elencati intestati, alcuni per intero ed altri pro-quota, alla Sig.ra (...). Come prima rilevato, l'atto costitutivo del fondo patrimoniale è stato posto in essere dai coniugi in epoca successiva al sorgere del debito della (...) verso la Società Cooperativa (...) a.r.l.. Tale atto ha così determinato una sensibile riduzione della garanzia patrimoniale ai danni del creditore. Ed infatti il fondo patrimoniale implica la costituzione su determinati beni di un vincolo che limita la possibilità di aggredire i beni in esso conferiti e rende più incerta o comunque difficile la soddisfazione del credito e conseguentemente riduce la garanzia generale spettante ai creditori sul patrimonio dei costituenti; ciò in violazione dell'art. 2740 c.c., che impone al debitore di rispondere con tutti i suoi beni per l'adempimento delle obbligazioni a suo carico, a prescindere dalla relativa fonte. Passando ad analizzare l'elemento oggettivo dell'eventus damni, anche quest'ultimo appare sussistere nel caso di specie. Per costante giurisprudenza, infatti, la sussistenza del danno deriva dalla mera maggiore difficoltà del creditore a soddisfare il proprio diritto, che deve ritenersi integrata sia quando il patrimonio del debitore diventi incapiente, sia nell'ipotesi in cui l'atto di disposizione comporti una modifica della situazione patrimoniale del debitore tale da rendere incerta l'esecuzione coattiva del debito o da comprometterne la fruttuosità (cfr. Cassazione civile, sez. I, 06 dicembre 2007, n. 25433; Cassazione civile sez. III, 17 luglio 2007, n. 15880; conf. Tribunale Roma per il quale "Il creditore quindi risulta pregiudicato (...) nell'ipotesi in cui il creditore (...) sia costretto ad intraprendere procedure maggiormente dispendiose, aleatorie o lunghe"), essendo all'uopo sufficiente anche una mera modificazione qualitativa del patrimonio del debitore, tramite atti di dismissione di cespiti immobiliari, con conversione del patrimonio in denaro o beni facilmente occultabili (cfr. Cassazione civile, sez. II, 20 ottobre 2008, n. 25490; nella giurisprudenza di merito v. Tribunale Milano, sez. II, 26 febbraio 2019, n. 1904, per il quale "per giurisprudenza costante ai fini della sussistenza dell'eventus damni non è neppure richiesta la totale compromissione della consistenza patrimoniale del debitore ma è sufficiente anche il compimento di un solo atto che renda più incerto o difficile il soddisfacimento del credito"). Specifica, altresì, la giurisprudenza di legittimità che grava sul creditore l'onere di dimostrare le modificazioni quantitative o qualitative del patrimonio del debitore, essendo onere di quest'ultimo dimostrare che il patrimonio residuo sia tale da soddisfare ampiamente le ragioni del creditore (cfr. Cassazione civile, sez. VI, 18 giugno 2019, n.16221 e Cassazione civile, sez. III, 19 luglio 2018, n. 19207). Ebbene, dalla documentazione in atti risulta che il debito della convenuta è maturato in data 18.03.2015 con l'emissione della fattura n. (...), mai contestata e poi ingiunto con la notifica del decreto n. 1549/16 del 12.10.2016 ritualmente notificato il 3.11.2016, e successivamente dopo solo (...) giorni i convenuti abbiano posto in essere l'atto di costituzione del fondo patrimoniale. Ebbene, a fronte della indubbia rilevanza quantitativa dell'atto di disposizione per cui è causa era preciso onere dei convenuti, per sottrarsi agli effetti dell'azione revocatoria, provare che il patrimonio residuo del debitore era comunque tale da assicurare ampia soddisfazione alle ragioni dell'attrice. Tale onere della prova non è stato assolto. Quanto all'elemento soggettivo, poiché la costituzione in fondo patrimoniale è atto a titolo gratuito ed è inoltre successiva al sorgere del debito, l'art. 2901 c.c. in tal caso richiede la mera consapevolezza da parte del debitore disponente di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore (cosiddetta "scientia damni"), la cui prova può essere fornita anche tramite presunzioni. Alcun rilievo rivestono invece l'intenzione del debitore medesimo di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore (cosiddetto "consilium fraudis" rilevante nel solo caso di atto posto in essere anteriormente al sorgere del credito) e quanto alla posizione del terzo, stante la natura di atto a titolo gratuito della costituzione di beni in fondo patrimoniale, la scentia damni e, in caso di atto anteriore al sorgere del credito, la partecipatio fraudis del terzo. Nello specifico, avendo la (...) vincolato ai bisogni della famiglia, con atto successivo al sorgere del suo debito, l'intero suo patrimonio immobiliare, emerge per tabulas il pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore e la consapevolezza da parte del debitore disponente di tale pregiudizio. Ed in ogni caso, pur non avendo qui rilievo l'atteggiamento del terzo, non può non osservarsi che, avuto riguardo al rapporto di coniugio con la (...), è ragionevole ritenere che anche il (...), legittimato passivamente rispetto alla domanda attorea in quanto parte dell'atto di costituzione dei beni in fondo patrimoniale, fosse a conoscenza della posizione debitoria della moglie e quindi fosse consapevole del pericolo di pregiudizio per gli interessi del creditore, derivante dall'atto di diposizione. Alla luce di tali considerazioni, la domanda di parte attrice deve essere accolta, poiché la costituzione in fondo patrimoniale dei beni di proprietà della (...) rende difficoltoso il recupero del credito in via esecutiva, compromettendo la garanzia patrimoniale generica rappresentata dal patrimonio del debitore. Ne consegue declaratoria di inefficacia, nei confronti di parte attrice dell'atto di costituzione di fondo patrimoniale a rogito notaio (...) n. 10.280 di repertorio e n. (...) della raccolta, registrato il 23.11.2016 al n. 8076 - 1T, trascritto al r. g. n. 30497 e r. p. n. 23431, con riferimento ai beni ivi costituiti in fondo patrimoniale. La presente sentenza deve essere considerata titolo per la trascrizione nei registri immobiliari ed è provvisoriamente esecutiva. Le spese di causa seguono la soccombenza, come liquidate in dispositivo tenuto conto del valore della causa - come determinato dall'entità del credito a cui presidio l'attore ha quivi esercitato la presente azione -, applicando il minimo della tariffa, stante la natura documentale e la non particolare complessità della causa. P.Q.M. Il Tribunale di Messina, Seconda Sezione Civile, in composizione monocratica, uditi i procuratori delle parti, disattesa o assorbita ogni contraria istanza, eccezione e difesa, definitivamente pronunciando, così provvede: - accoglie la domanda di parte attrice nei confronti di (...) e (...) e per l'effetto dichiara l'inefficacia ai sensi dell'art. 2901 c.c. nei suoi confronti dell'atto di costituzione del fondo patrimoniale posto in essere da parte di (...) e (...) con atto a rogito notaio (...) n. (...) di repertorio e n. (...) della raccolta, registrato il 23.11.2016 al n. (...) - 1T, trascritto al r. g. n. (...) e r. p. n. (...); - ordina al competente ufficio di Conservatoria immobiliare, la trascrizione della presente sentenza, ove ritualmente richiesto dalle parti; - condanna parte convenuta al pagamento in favore di parte attrice delle spese e competenze del presente giudizio liquidate in complessivi Euro 4.217,00, oltre 15% per rimborso forfettario, CPA e IVA come per legge, con distrazione in favore del procuratore costituito. Così deciso in Messina il 30 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria l'1 febbraio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano TRIBUNALE DI MESSINA SECONDA SEZIONE CIVILE Il Tribunale di Messina, Seconda Sezione Civile, in persona del giudice istruttore in funzione di giudice unico dott.ssa Maria Carmela D'Angelo ha emesso la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 6785/2016 del Ruolo Generale degli affari civili, introitata per la decisione all'udienza del 15 dicembre 2022, con assegnazione dei termini minimi ex art. 190 c.p.c. tra (...), in Liquidazione, PIVA (...), in persona del suo legale rappresentante, Commissario Liquidatore, Dott. (...), elettivamente domiciliata in Messina, Corso (...), presso lo studio dell'avv. (...), che la rappresenta e difende in giudizio in virtù di procura in atti, - parte attrice- contro (...) s.p.a., in persona del legale rappresentante e amministratore unico pro-tempore, con sede in Messina Via (...), P. Iva (...), elettivamente domiciliato in Messina, Via (...), presso lo studio dell'avv. (...), che la rappresenta e difende in giudizio in virtù di procura in atti, - parte convenuta- OGGETTO: promessa di pagamento-ricognizione di debito. Conclusioni I procuratori delle parti hanno precisato le conclusioni come da atti e verbali di causa. Ragioni di fatto e di diritto della decisione Per quanto riguarda il completo svolgimento del processo, ai sensi del vigente art. 132 c.p.c., si fa rinvio agli atti delle parti ed ai verbali di causa. Nel presente giudizio le parti concordano nel richiedere che venga dichiarata la cessazione della materia del contendere, atteso che parte attrice ha dato atto del pagamento delle somme richieste. L'avvenuto integrale pagamento delle somme richieste determina la sopravvenuta carenza di interesse ad ottenere una pronuncia nel merito con conseguente cessazione della materia del contendere. Le parti non hanno, invece, raggiunto un accordo sulle spese processuali, per cui la causa deve essere decisa al solo fine della regolamentazione delle spese di lite, secondo il principio della c.d. soccombenza virtuale. In particolare, parte convenuta reitera l'eccezione di improcedibilità e/o inammissibilità della domanda per il mancato esperimento del tentativo obbligatorio di negoziazione assistita ex d.l. 132/2014 trattandosi, a suo dire, di domanda avente ad oggetto il pagamento di somme non superiori ad Euro. 50.000,00. La censura deve ritenersi infondata, in quanto la necessità di esperire previamente procedure alternative di risoluzione delle controversie va valutata con riferimento alla domanda principale oggetto del giudizio, ma nel caso di specie assume rilievo dirimente la circostanza che deve essere dichiarata cessata la materia del contendere in relazione all'oggetto principale del giudizio ovvero la domanda di pagamento e che deve essere dichiarata la sopravvenuta carenza di interesse delle parti in merito all'improcedibilità per mancato esperimento del tentativo di negoziazione assistita, residuando un contrasto solo sulle spese di lite. Poiché tra le parti permane il contrasto sulle spese di lite, va formulata una valutazione sul merito della pretesa ai fini di decidere su tale aspetto secondo il principio della soccombenza virtuale, tenuto conto che tale valutazione è possibile dalla completa ricostruzione in fatto del rapporto intercorso tra le parti offerta dalle stesse parti e dal comportamento da ciascuna mantenuto nello svolgimento dello stesso, che si ritrova coerente all'interno della documentazione prodotta agli atti del giudizio. Per ciò che rileva quindi ai fini di causa e ai fini di una chiara ricostruzione della successione degli eventi, con atto di citazione datato 5 dicembre 2015 e con relata di notifica per via telematica del 5.12.2016, l'attore ha premesso che la (...) dopo la notifica di una ordinanza del Giudice dell'esecuzione che disponeva lo svincolo delle somme ancora detenute dalla società quale terzo pignorato, ha comunicato che la somma da restituire ammontava ad euro 12.544,37. La (...) comunicava con pec in data 25.11.206 che la somma residua ammontava ad euro 12.324,47 e chiedeva alla società in liquidazione di indicare le coordinate bancarie sulle quali effettuare il bonifico bancario. La (...) in data 6.12.2016 provvedeva al pagamento della somma richiesta e con nota pec del 6.12.2016 ore 17:11, l'amministratore della società odierna convenuta trasmetteva all'avvocato (...) copia del bonifico bancario evidenziando che in data 25.11.2016 erano state fornite le coordinate bancarie e che per motivi prettamente contabili la società (...) aveva programmato il pagamento per la settimana compresa tra il 5 ed il 9 dicembre 2016; manifestava stupore sul fatto che solo a distanza di 10 giorni dalla comunicazione delle coordinate bancarie la Cooperativa (...) avesse notificato atto di citazione. Invitava l'avvocato (...) a non iscrivere la causa a ruolo. Con nota pec del 6.12.2015 ore 18:03 l'avv.to (...) comunicava di avere iscritto la causa a ruolo al n. 6785/2016 CC e per una rinuncia agli atti chiedeva il pagamento della somma di Euro. 1.615,00 oltre accessori a titolo di esame e studio nonché fase introduttiva oltre euro 264,00 a titolo di contributo unificato e marca da bollo. Ciò posto, si ritiene che il pagamento della somma richiesta effettuato dalla (...) in data 6.12.2016 non sia sufficiente a giustificare la integrale compensazione delle spese di lite; tuttavia, occorre considerare la circostanza che, se l'attore avesse dato corso, prima di notificare l'atto di citazione, alla procedura di negoziazione assistita, avrebbe potuto evitare l'instaurazione del giudizio. Non risultano, infine, elementi che facciano ritenere opportuna l'applicazione al caso in esame della disciplina di cui al terzo comma dell'art. 96 c.p.c.. Ne deriva che, in base ai citati rilievi, sussistono giustificati motivi per compensare nella misura del 50% le spese del giudizio, ponendo a carico di parte convenuta, data la sua prevalente soccombenza virtuale, il residuo 50% delle spese. Le spese si liquidano come da dispositivo, limitatamente ai compensi della fase di studio, alla fase introduttiva ed alla fase decisoria, ridotti del 50% rispetto a valori prossimi ai medi, tenuto conto dell'attività difensiva svolta, della semplicità delle questioni trattate. P.Q.M. Il Tribunale di Messina, Seconda Sezione Civile, in composizione monocratica, uditi i procuratori delle parti, disattesa o assorbita ogni contraria istanza, eccezione e difesa, definitivamente pronunciando, così provvede: - dichiara la cessazione della materia del contendere; - compensa nella misura del 50% le spese del giudizio e condanna la parte convenuta alla rifusione in favore di parte attrice del residuo 50% delle spese che liquida già al netto della compensazione, in Euro 1.500,00 per compensi, oltre spese generali, Iva e Cpa come per legge, con distrazione in favore dell'avv. (...), dichiaratosi antistatario. Così deciso in Messina il giorno 1 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 1 febbraio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI MESSINA - I sezione civile composto dai Sigg.: dott. Caterina Mangano - Presidente dott. Corrado Bonanzinga - Giudice est. dott. Viviana Cusolito - Giudice riunito in Camera di Consiglio, ha reso la seguente SENTENZA nella causa iscritta al N. 2347 del Registro Generale Contenzioso 2020 TRA (...) nato a (...) il (...) (c.f.: (...)) ed ivi residente in C.da B. Coop. (...), (...) S., elettivamente domiciliato in Messina, viale (...), nello studio dell'Avv. Ma.Pi. (c.f.: (...), pec: (...)) che lo rappresenta e difende giusta procura in atti; RICORRENTE E (...) nata a (...) il (...), ivi residente in Via S.M. n. 316, elettivamente domiciliata in Messina, Via (...), presso lo studio dell'Avv. Ka.Ca. (c.f.: (...), pec: (...); tel-fax: (...)) che la rappresenta e difende giusta procura in atti; RESISTENTE E con l'intervento del Pubblico Ministero avente per oggetto: Divorzio contenzioso - Cessazione effetti civili IN FATTO ED IN DIRITTO Con ricorso depositato in cancelleria il 22.06.2020 (...), nato a (...) il (...), chiedeva che venisse pronunciata la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario da lui contratto a Messina il 07.06.1990 con (...) nata a (...) il (...) (atto trascritto nei registri dello Stato Civile di detto Comune al n. 383 parte II serie A anno 1990), invocando l'applicazione dell'art. 3 n. 2 lettera b della L. 1 dicembre 1970, n. 898, così come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74 e dalla L. 06 maggio 2015, n. 55, atteso che con decreto depositato il 26.04.2019 era stata omologata la separazione consensuale dei coniugi ed erano ormai trascorsi dalla comparizione degli stessi davanti al Presidente del Tribunale per il tentativo di conciliazione, i termini di legge per la proponibilità dell'azione. Evidenziava che dal matrimonio era nata il 05.06.1991 la figlia (...), laureata e da qualche anno già avviata nel mondo del lavoro. Rilevava, inoltre che in sede di separazione le parti avevano concordato che la casa coniugale, di proprietà di entrambi i coniugi, continuasse ad essere abitata dal deducente, il quale si sarebbe fatto carico di tutte le spese straordinarie relative a detto immobile, e che egli dovesse corrispondere alla moglie, per il suo mantenimento, un assegno mensile di Euro 500,00 da rivalutare annualmente in base agli indici ISTAT. Chiedeva la conferma delle statuizioni contenute nell'accordo di separazione omologato relative alla casa coniugale, e dichiarava di essere disponibile a corrispondere alla (...) un assegno divorzile dell'importo di Euro 350,00 mensili, tenendo conto del fatto che egli pagava le rate di un contratto di finanziamento relativo all'acquisto di un'autovettura in uso alla figlia pari a Euro 250,00 mensili. Instaurato il contraddittorio, si costituiva (...), la quale non si opponeva alla pronuncia di divorzio, ma contestava la richiesta di riduzione dell'assegno di mantenimento per il coniuge, tenuto conto del fatto che ella non aveva alcuna occupazione e ben difficilmente avrebbe potuto inserirsi nel mondo del lavoro in ragione della età avanzata e del modesto titolo di studio (licenza media). Osservava, inoltre, che ella, benché comproprietaria della casa coniugale, viveva in un immobile in locazione, per il quale versava un canone di affitto pari a Euro 425,00 mensili, cui andavano aggiunti gli oneri condominiali pari a Euro 25,00 mensili. Rilevava, pertanto, che le entrate derivanti dall'assegno di mantenimento non erano neppure sufficienti a far fronte alle spese fisse relative all'abitazione in cui viveva ed alle utenze domestiche, tanto che era stata costretta a chiedere un aiuto economico alla propria madre ed alla figlia (...). Osservava che, viceversa, il (...), oltre ad avere il godimento della casa coniugale, era proprietario della quota pari a 1/3 di un immobile sito a C., aveva contratto nel 2008 un'assicurazione sulla vita di durata ventennale, con un premio superiore ad Euro 40.000,00, e percepiva un regolare stipendio quale dipendente della Polizia di Stato. Chiedeva, pertanto, il rigetto della domanda di riduzione dell'assegno e, in via riconvenzionale, che l'assegno divorzile fosse rideterminato in Euro 700,00 mensili. All'udienza del 18.01.2021 il Presidente delegato esperiva il tentativo di conciliazione che dava esito infruttuoso. In tale sede il (...) dichiarava che egli aveva subito una riduzione dei redditi rispetto all'epoca della separazione, poiché non poteva più svolgere lavoro straordinario a causa delle proprie condizioni di salute e dell'età avanzata. Con ordinanza resa alla medesima udienza il Presidente delegato poneva la regolamentazione concordata dalle parti nel regime della separazione quale disciplina provvisoria di divorzio e dava le disposizioni necessarie per la prosecuzione della causa davanti al Giudice Istruttore. Acquisita documentazione reddituale, all'udienza del 03.11.2022, celebrata con le modalità cartolari previste dall'art. 221 della L. 17 luglio 2020, n. 77, sulle conclusioni dei procuratori delle parti, il Giudice Istruttore rimetteva la causa al collegio per la decisione, ai sensi dell'art. 189 c.p.c., concedendo i termini di rito, ai sensi dell'art. 190 c.p.c., per il deposito di comparse conclusionali e di memorie di replica e disponendo la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero. Ritiene il Collegio che la domanda proposta dal ricorrente, diretta ad ottenere la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario da lui contratto con (...) meriti accoglimento. Come è noto, ai sensi dell'art. 3 n. 2 lett. B L. n. 898 del 1970, presupposto della domanda di divorzio è 1) che i coniugi abbiano già conseguito lo "status" di separati, il che, nell'ipotesi della separazione giudiziale, si realizza con il passaggio in giudicato della sentenza che contiene la pronuncia della separazione, mentre, nella ipotesi della separazione consensuale, si realizza con l'emissione del decreto di omologa, e 2) che lo stato di separazione dei coniugi duri per un triennio (termine che, con L. n. 55 del 2015, è stato ridotto a sei mesi in caso di separazione consensuale e ad un anno nel caso di separazione giudiziale) e sia ininterrotto sin dall'udienza presidenziale nella quale il presidente del Tribunale, preso atto della volontà dei coniugi di separarsi, abbia autorizzato gli stessi a vivere separati. Attraverso le dichiarazioni delle parti e la documentazione prodotta è emerso, infatti, che lo stato di separazione fra i coniugi, all'epoca della presentazione del ricorso introduttivo del presente giudizio, si protraeva ininterrottamente da oltre un anno a far tempo dall'avvenuta comparizione dei coniugi medesimi innanzi al Presidente del Tribunale, in data 17.04.2019, nella procedura di separazione consensuale, conclusasi con decreto di omologa del 24/26.04.2019. Di fronte alle suddette risultanze processuali e stante che la comunione di vita materiale e spirituale fra i coniugi in questione non ha più nessuna possibilità di essere ricostituita, per non avere gli stessi manifestato alcuna intenzione in tal senso, la domanda va accolta e va dichiarata la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario contratto a Messina il 07.06.1990 con atto trascritto nei registri dello Stato Civile di detto Comune al n. 383 parte II serie A anno 1990. Quanto alla domanda avanzata dalla (...) volta al riconoscimento di un assegno divorzile, va evidenziato che la decisione in ordine alla richiesta di assegno di divorzio è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti, per accordo tra la parti o in forza di decisione giudiziale, nel regime di separazione dei coniugi, in quanto diverse sono le rispettive discipline sostanziali così come diverse sono la natura, la struttura e la finalità dei relativi trattamenti. Mentre l'assegno di separazione ha funzione conservativa della precedente situazione economica, l'assegno di divorzio, quale effetto diretto della pronuncia di divorzio, deve essere determinato sulla base di criteri propri ed autonomi rispetto a quelli rilevanti per il trattamento spettante al coniuge separato, anche se l'assetto economico relativo alla separazione può costituire un indice di riferimento nella regolazione del regime patrimoniale del divorzio, nella misura in cui appaia idoneo a fornire elementi utili per la valutazione della condizioni dei coniugi e dell'entità dei loro redditi (Cass. 28 giugno 2007 n. 14921; Cass. 27 luglio 2005, n. 15728; Cass. 11 settembre 2001, n. 11575). La normativa applicabile con riferimento all'assegno divorzile è quella contenuta nell'art. 5 L. n. 898 del 1970, così come modificato dalla L. n. 74 del 1987, il quale pone le condizioni richieste per l'attribuzione e la quantificazione dell'assegno. Ciò premesso, secondo il testo dell'articolo citato, l'attribuzione dell'assegno è subordinata alla specifica circostanza di fatto della mancanza in capo all'istante di mezzi adeguati e della impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. Le Sezioni Unite della Suprema Corte nella recente pronuncia n. 18287 dell'11.07.2018, hanno interpretato il suddetto requisito nel senso che la mancanza di mezzi adeguati va esaminata alla luce degli altri criteri indicati nel medesimo articolo (durata del matrimonio, ragioni della separazione, contributo dato alla conduzione familiare ed al patrimonio comune), destinati a conferire rilievo alle scelte ed ai ruoli sulla base dei quali si è impostata la relazione coniugale, in applicazione del principio di solidarietà che deve informare la funzione perequativa e riequilibratrice dell'assegno e che trova fondamento costituzionale nel principio della pari dignità dei coniugi (art. 2, 3, 29 Cost.). Il contrasto interpretativo sul quale sono intervenute le Sezioni Unite nella pronuncia appena citata riguardava la questione del significato da attribuire all'espressione "mezzi adeguati", adoperata dal legislatore nella norma sopra citata. Erano state prospettate due opzioni, quella di riferire la "adeguatezza" alla possibilità di condurre un'esistenza economica libera e dignitosa e quella di fare riferimento al tenore di vita matrimoniale o "paraconiugale", in base alla pertinente considerazione che il divorzio impoverisce, non solo spiritualmente, entrambi i coniugi, sicché il tenore di vita coniugale può solo fittiziamente essere riferito ad un ex coniuge. Le sezioni unite della Suprema Corte, in una famosa sentenza ormai risalente nel tempo (Cass. sez. un. 11490/90), avevano stabilito il principio che l'adeguatezza dovesse essere riferita ad "un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso", operando, quindi, una dicotomia tra criteri attributivi dell'assegno in relazione all'inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante ed all'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, e criteri determinativi al fine di procedere alla quantificazione delle somme sufficienti a superare l'inadeguatezza di detti mezzi in base alla valutazione ponderata e bilaterale degli altri parametri indicati nello stesso art. 5, comma 6 (Cass. 14 gennaio 2008 n. 593; Cass. 16 maggio 2005 n. 10210, 19 marzo 2003 n. 4040). Tale interpretazione era stata ritenuta dalla Corte Costituzionale conforme a Costituzione con la sentenza n. 11 del 2015, ma successivamente la Corte di legittimità era ritornata sul tema e si era consapevolmente discostata dalla ormai consolidata soluzione ermeneutica fornita dalle Sezioni Unite, affermando che l'adeguatezza dei mezzi andasse valutata considerando tutti gli elementi sintomatici della "indipendenza economica" dell'ex coniuge, dovendosi escludere il diritto all'assegno per chi fosse economicamente autosufficiente (Cass. civ. 10.05.2017 n. 11504). Orbene, le Sezioni Unite nella citata recente pronuncia (Cass. civ. sez. un. 11.07.2018 n. 18287), superando il suddetto contrasto, hanno chiarito che l'adeguatezza dei mezzi va esaminata tenendo conto in modo unitario di tutti gli indicatori stabiliti dalla legge che sottolineano il significato del matrimonio come atto di libertà e di auto responsabilità, di modo che sia assicurato ad entrambi gli ex coniugi non soltanto il raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l'autosufficienza, ma anche un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell'età del richiedente. Naturalmente, il punto di partenza, anche nella nuova prospettiva ermeneutica indicata dalle Sezioni Unite continua ad essere la sussistenza di un apprezzabile divario nei redditi delle parti al momento della pronuncia di divorzio, quali risultano dalla documentazione fiscale prodotta (Cass. 12 luglio 2007, n. 15610; Cass. 6 ottobre 2005, n. 19446; Cass. 16 luglio 2004, n. 13169; Cass. 7 maggio 2002, n. 6541; Cass. 3 luglio 1997 n. 5986), ma l'adeguatezza dei redditi percepiti dalla parte richiedente l'assegno divorzile prescinde, a differenza dell'assegno di separazione, dal tenore di vita coniugale, dovendo essere valutata alla luce del principio costituzionale della parità sostanziale tra i coniugi, così come declinato negli artt. 2, 3 e 29 Cost. attraverso l'esame congiunto dei criteri indicati nel menzionato art. 5 L. n. 898 del 1970, che sono finalizzati al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello degli ex coniugi, tenendo conto che all'assegno divorzile, come sottolineato dalla menzionata pronuncia a Sezioni Unite, va riconosciuta sia una natura assistenziale, sia una natura perequatrice - compensativa, che discende dal principio costituzionale di solidarietà, nel rispetto dei principi di libertà, auto responsabilità e pari dignità. Infatti, la piena reversibilità del vincolo coniugale non esclude "il rilievo pregnante che questa scelta, unita alle determinazioni comuni assunte in ordine alla conduzione della vita familiare può imprimere alla costruzione del profilo personale ed economico - patrimoniale dei singoli coniugi". L'adeguatezza dei mezzi deve, pertanto, essere valutata "non solo in relazione alla loro mancanza o insufficienza oggettiva", nel qual caso l'assegno divorzile svolgerà una funzione essenzialmente assistenziale in favore di chi si trovi in stato di bisogno, "ma anche in relazione a quel che si è contribuito a realizzare in funzione della vita familiare". Per l'accertamento dei redditi delle parti occorre guardare in primo luogo alla documentazione fiscale prodotta (Cass. 12 luglio 2007, n. 15610; Cass. 6 ottobre 2005, n. 19446; Cass. 16 luglio 2004, n. 13169; Cass. 7 maggio 2002, n. 6541; Cass. 3 luglio 1997 n. 5986). Va, però, osservato che, per l'accertamento delle disponibilità economiche delle parti sovente non è possibile limitarsi alla considerazione del solo reddito emergente dalla documentazione fiscale prodotta, perché si deve tenere conto di tutti i diversi elementi di ordine economico suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti. Non occorre, in ogni caso, un accertamento dei redditi rispettivi nel loro esatto ammontare, attraverso l'acquisizione di dati numerici o rigorose analisi contabili e finanziarie, essendo sufficiente un'attendibile ricostruzione delle situazioni patrimoniali complessive di entrambi gli ex coniugi (Cass. Sez. I, 19.03.2002 n. 3974; Cass. sez. I 5.11.2007 n. 23051). Orbene, nel caso in esame risulta che il (...) percepisce circa Euro 2.000,00 al mese (somma ricavabile dal complesso delle buste paga prodotte, non essendo possibile considerare esclusivamente la busta paga del mese di aprile 2022 dove sono prese in considerazione delle ritenute fiscali e previdenziali che non ricorrono negli altri mesi) ed ha il godimento della casa coniugale in comproprietà, sulla base di un accordo intervenuto in sede di separazione consensuale; lo stesso ha sostenuto che i propri redditi si erano ridotti rispetto all'epoca della separazione, ma tale affermazione non ha alcun riscontro probatorio come si desume agevolmente dall'esame delle dichiarazioni dei redditi prodotte. La (...) è, invece, priva di redditi, essendo irrilevante che la stessa, secondo quanto affermato dal ricorrente, avesse espletato durante il matrimonio ed anche dopo la separazione l'attività lavorativa d collaboratrice domestica, poiché non risulta che attualmente lavori e, comunque, il (...) non ha in alcun modo provato neppure la capacità lavorativa della moglie, la quale deve, peraltro, farsi carico delle spese per soddisfare l'esigenza abitativa, avendo concordato con il marito, in sede di separazione, che quest'ultimo continuasse a fruire in via esclusiva della casa coniugale. Sussiste, pertanto, una evidente disparità delle condizioni economiche complessivamente intese delle parti e che la (...), a differenza del marito, non abbia neppure risorse sufficienti per condurre una esistenza dignitosa. Ritiene, pertanto, il collegio che vi siano i presupposti per il riconoscimento in favore della (...) di un assegno con funzione assistenziale. D'altronde, anche il (...) ha riconosciuto la sussistenza dei presupposti per un assegno in favore della moglie, pur chiedendo una riduzione dell'importo corrisposto nel regime della separazione. Sennonché non si comprende per quale motivo tale assegno debba essere determinato in misura inferiore rispetto a quella concordata in sede di separazione, poiché l'affermazione del (...) secondo cui egli avrebbe subito una riduzione delle entrate a cause delle sue condizioni di salute, non ha trovato alcun riscontro probatorio, mentre è evidente che la (...), in mancanza di altri redditi e dovendo pagare un canone di locazione, non possa vivere dignitosamente con un importo mensile inferiore ad Euro 500,00. Va, viceversa, disattesa la richiesta della (...) volta all'aumento dell'assegno stabilito in sede di separazione. Sul punto è sufficiente osservare che, pur essendo la decisione in ordine alla richiesta di assegno di divorzio indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti nel regime di separazione dei coniugi, non è possibile di regola riconoscere un assegno divorzile pur in mancanza dei presupposti per un assegno di mantenimento nel regime della separazione o, comunque, un assegno divorzile di importo superiore all'assegno di mantenimento previsto nel regime della separazione, in assenza di un mutamento nelle condizioni patrimoniali delle parti, in quanto, come sottolineato dalla Suprema Corte, ciò non è conforme alla natura giuridica dell'obbligo, presupponendo, l'assegno di separazione la permanenza del vincolo coniugale, e, conseguentemente, la correlazione dell'adeguatezza dei redditi con il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, mentre tale parametro non rileva in sede di fissazione dell'assegno divorzile, che deve invece essere quantificato in considerazione della sua natura assistenziale, compensativa e perequativa (Cass. civ. 28.02.2020 n. 5605). Di conseguenza, nel caso in esame, in cui le stesse parti hanno previsto in sede di separazione un assegno di mantenimento in favore della moglie dell'importo di Euro 500,00 mensili, non vi è motivo per aumentare detto assegno, non essendo stato dimostrato né un peggioramento delle condizioni economiche della (...), né un miglioramento delle condizioni economiche del (...). In particolare, va osservato che, per valutare le condizioni economiche delle parti, non può essere presa in considerazione la situazione lavorativa della figlia maggiorenne, che è già stata riconosciuta economicamente autonoma quando, in sede di separazione, gli stessi coniugi hanno escluso ogni forma di contributo al suo mantenimento. Per i motivi esposti, ritiene il Tribunale che debba essere riconosciuto alla (...) un assegno divorzile dell'importo di Euro 500,00, da rivalutare annualmente in base agli indici ISTAT. Appare, infine, equo compensare interamente tra le parti le spese processuali, tenuto conto della natura della controversia, della soccombenza reciproca e della difficile prevedibilità dell'esito della lite anche in relazione alla mutevolezza nel tempo della situazione di fatto. P.Q.M. Il Tribunale, sentiti i procuratori delle parti ed il Pubblico Ministero, disattesa ogni contraria istanza eccezione e difesa, definitivamente pronunciando nella causa n. 2347/2020 R.G., così provvede: 1) dichiara la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario contratto a Messina il 07.06.1990 con atto trascritto nei registri dello Stato Civile di detto Comune al n. 383 parte II serie A anno 1990 tra (...), nato a (...) il (...), e (...) nata a (...) il (...); 2) pone a carico di (...) l'obbligo di versare a (...) un assegno divorzile pari ad Euro 500,00 mensili, rivalutabile annualmente in base agli indici ISTAT; 3) dichiara interamente compensate tra le parti le spese processuali; 4) ordina all'Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Messina di annotare la presente sentenza a margine dell'atto di matrimonio. Così deciso in Messina il 26 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 27 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI MESSINA - PRIMA SEZIONE CIVILE composto dai Sigg.: dott. Caterina Mangano - Presidente dott. Corrado Bonanzinga - Giudice est. dott. Salvatore Irullo - Giudice riunito in Camera di Consiglio, ha reso la seguente SENTENZA nella causa iscritta al N. 4959 del Registro Generale Contenzioso 2019 TRA (...), nato a (...) il (...) (cod. fisc. (...)), elettivamente domiciliato in Messina, Via (...), presso lo studio dell'Avv. Gi.Sc. (cod. fisc. (...), pec: (...)) dal quale è rappresentato e difeso in virtù del mandato in atti; RICORRENTE E (...), nata a (...) il (...) (cod. fisc. (...)), elettivamente domiciliata a Torregrotta (ME), Via (...), presso lo studio dell'Avv. Lu.La. (cod. fisc. (...), pec: avv. (...)) dalla quale è rappresentata e difesa giusto mandato in atti; RESISTENTE E con l'intervento del Pubblico Ministero avente per oggetto: Divorzio contenzioso - scioglimento del matrimonio IN FATTO ED IN DIRITTO Con ricorso depositato in cancelleria il 10.10.2019, (...), nato a (...) il (...), chiedeva che venisse pronunciato lo scioglimento del matrimonio, da lui contratto a Messina il 16.03.1988 con (...), nata a (...) il (...) (atto iscritto nei registri dello Stato Civile di detto Comune al n. 64 Parte I anno 1988), invocando l'applicazione dell'art. 3 n. 2 lettera b della L. 1 dicembre 1970, n. 898, così come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74 e dalla L. 6 maggio 2015, n. 55, atteso che con decreto depositato il 27.11.2012 era stata omologata la separazione consensuale dei coniugi ed erano ormai trascorsi dalla comparizione degli stessi davanti al Presidente del Tribunale per il tentativo di conciliazione, i termini di legge per la proponibilità dell'azione. Evidenziava che dal matrimonio erano nati tre figli, (...), (...), maggiorenni ed economicamente autosufficienti e (...), maggiorenne ma non economicamente autosufficiente. In particolare, osservava che negli accordi di separazione era previsto un assegno a favore della moglie a titolo di contributo per il mantenimento dei figli (...), (...), all'epoca già maggiorenni ma ancora non economicamente autosufficienti e della figlia (...), minorenne, dell'importo complessivo di Euro 400,00, ma che, successivamente alla separazione consensuale, i figli (...) e (...) avevano raggiunto l'indipendenza economica, mentre la figlia (...), ormai maggiorenne, aveva manifestato nuove esigenze economiche legate alla formazione universitaria. Chiedeva, pertanto, che venisse revocato l'obbligo a suo carico di contribuire al mantenimento dei figli (...) e (...) e, in subordine all'accoglimento della predetta domanda, che venisse aumentato l'assegno in favore della figlia (...) sino alla somma di Euro 250,00. Rilevava, poi, che l'assegno stabilito per la moglie in sede di separazione, pari a Euro 150,00 mensili, risultava eccessivo, dal momento che la (...) era dipendente della cooperativa sociale I., mentre egli era dipendente della Azienda (...) ed aveva percepito nell'anno 2018 un reddito lordo pari a Euro 28.602,00. Chiedeva, pertanto, che l'assegno in favore della moglie fosse revocato, anche in considerazione del fatto che la (...) aveva il godimento della casa coniugale. Manifestava, per il resto, la volontà di rispettare e confermare gli accordi posti alla base della separazione consensuale. Instaurato il contraddittorio, si costituiva (...), la quale non si opponeva alla pronuncia di divorzio. Rilevava, però, che la propria condizione economica non era migliorata rispetto all'epoca della separazione, evidenziando di non essere stata assunta alle dipendenze della Cooperativa Sociale I., ma di figurare come socia lavoratrice (lavoratrice socialmente utile), e che percepiva un sussidio di Euro 589,00 mensili. Chiedeva, pertanto, che fosse confermato il proprio diritto a percepire un assegno di mantenimento di Euro 150,00 mensili. Rilevava, poi che mentre il figlio (...) aveva effettivamente raggiunto l'indipendenza economica, il figlio (...), sebbene maggiorenne, non risultava economicamente autosufficiente, mentre concordava con controparte circa le sopravvenute esigenze economiche della figlia (...). Chiedeva, pertanto, che fosse confermato l'assegno di mantenimento in favore dei figli (...) e (...), per un importo totale di Euro 400,00. Chiedeva, poi, che il debito del (...) nei confronti della moglie a titolo di spese straordinarie per i figli fosse compensato con il debito maturato della (...) relativamente al pagamento delle spese condominiali; e di ritenere e dichiarare che il ricorrente era debitore nei confronti della resistente della somma di Euro 1.229,41 a titolo di aggiornamento ISTAT dal 2012 al 2020 delle somme versate per il mantenimento dei figli e, pertanto, di condannarlo al pagamento di tale importo in favore della moglie. All'udienza del 12.07.2021 il Presidente delegato esperiva il tentativo di conciliazione che dava esito infruttuoso e, con ordinanza depositata il 12 luglio 2021, dava gli opportuni provvedimenti temporanei ed urgenti nell'interesse dei coniugi e della prole, ponendo a disciplina provvisoria del divorzio gli accordi così raggiunti dalle parti: revoca dell'obbligo del (...) di corrispondere l'assegno di mantenimento ordinario in favore dei figli (...) e (...), avendo questi completato gli studi e avuto esperienze lavorative; ripartizione al 50% delle spese straordinarie relative ai predetti figli; obbligo a carico del ricorrente di corrispondere direttamente alla figlia (...) l'assegno mensile di Euro 300,00, rivalutabile annualmente secondo gli indici ISTAT oltre al 50% delle spese straordinarie; conferma in via provvisoria dell'assegno di mantenimento dovuto alla moglie; conferma dell'assegnazione della casa coniugale alla (...), in considerazione del fatto che la figlia (...) risiedeva con la madre. Il Presidente delegato dava, quindi, le disposizioni necessarie per la prosecuzione del giudizio davanti al Giudice Istruttore. Con memoria integrativa del 02.09.2021 il (...) rappresentava che nelle more del giudizio era andato in pensione e che, pertanto, il proprio reddito si era ridotto rispetto a quanto rappresentato documentalmente al momento del deposito del ricorso introduttivo, in quanto percepiva un emolumento mensile di Euro 1.400,00 netti. Con ordinanza depositata il 17.02.2022, alla scadenza dei termini concessi con decreto del 31.12.2021, ai sensi dell'art. 221 della L. 17 luglio 2020, n. 77, in sostituzione dell'udienza in presenza delle parti del 17.02.2022, il Giudice Istruttore, ritenuto che le richieste istruttorie avanzate dal ricorrente fossero superflue alla luce della documentazione prodotta in atti dalla resistente, rinviava la causa per la precisazione delle conclusioni all'udienza del 26.05.2022. Rimessa, quindi, la causa al collegio per la decisione, il Tribunale, con Provv. del 27 settembre 2022, ordinava a (...) di depositare i cedolini delle "buste paga" relative agli ultimi dodici mesi, posto che non era contestato che la stessa fosse stata nelle more del giudizio assunta con contratto a tempo indeterminato alle dirette dipendenze di A.M., ma non era noto quali compensi percepisse. Acquisita detta documentazione, all'udienza del 03.11.2022, celebrata con le modalità cartolari previste dall'art. 221 della L. 17 luglio 2020, n. 77, sulle conclusioni dei procuratori delle parti, il Giudice Istruttore rimetteva la causa al collegio per la decisione, ai sensi dell'art. 189 c.p.c., concedendo i termini di rito, ai sensi dell'art. 190 c.p.c., per il deposito di comparse conclusionali e di memorie di replica, previa trasmissione degli atti al Pubblico Ministero. Ritiene il Collegio che la domanda proposta dal ricorrente, diretta ad ottenere lo scioglimento del matrimonio civile da lui contratto con (...) meriti accoglimento. Come è noto, ai sensi dell'art. 3 n. 2 lett. B L. n. 898 del 1970, presupposto della domanda di divorzio è 1) che i coniugi abbiano già conseguito lo "status" di separati, il che, nell'ipotesi della separazione giudiziale, si realizza con il passaggio in giudicato della sentenza che contiene la pronuncia della separazione, mentre, nella ipotesi della separazione consensuale, si realizza con l'emissione del decreto di omologa, e 2) che lo stato di separazione dei coniugi duri per un triennio (termine che, con L. n. 55 del 2015, è stato ridotto a sei mesi in caso di separazione consensuale e ad un anno nel caso di separazione giudiziale) e sia ininterrotto sin dall'udienza presidenziale nella quale il presidente del Tribunale, preso atto della volontà dei coniugi di separarsi, abbia autorizzato gli stessi a vivere separati. Attraverso le dichiarazioni delle parti e la documentazione prodotta è emerso, infatti, che lo stato di separazione fra i coniugi, all'epoca della presentazione del ricorso introduttivo del presente giudizio, si protraeva ininterrottamente da oltre sei anni a far tempo dall'avvenuta comparizione dei coniugi medesimi innanzi al Presidente del Tribunale nella procedura di separazione consensuale, conclusasi con decreto di omologa del 27.11.2012. Di fronte alle suddette risultanze processuali e stante che la comunione di vita materiale e spirituale fra i coniugi in questione non ha più nessuna possibilità di essere ricostituita, per non avere gli stessi manifestato alcuna intenzione in tal senso, la domanda va accolta e va dichiarato lo scioglimento del matrimonio civile contratto a Messina il 16.03.1988, con atto iscritto al n. (...) Parte I anno 1988. Quanto ai provvedimenti relativi alla prole, non essendo emerse in fase decisoria circostanze tali da modificare quanto concordato dalle parti all'udienza del 12.07.2021, si ritiene opportuno confermare quanto previsto dall'ordinanza presidenziale, che ha revocato l'obbligo del (...) di corrispondere in favore della moglie un assegno a titolo di mantenimento dei figli (...) e (...), in quanto ormai economicamente indipendenti ed ha posto a carico del ricorrente l'obbligo di corrispondere in favore della figlia (...) un assegno a titolo di mantenimento di Euro 300,00, oltre rivalutazione ISTAT, essendo la stessa non ancora economicamente autosufficiente, oltre la ripartizione delle spese straordinarie per i figli nella misura del 50%. Va, d'altronde, osservato che, in caso di accordo tra le parti con riferimento ai provvedimenti da assumere nell'interesse della prole, l'esame del Tribunale risulta elettivamente diretto alla verifica dell'adeguatezza dell'accordo all'interesse dei figli, alla luce del disposto normativo di cui all'art. 337 ter c.c. comma secondo, c.c. ("Prende atto, se non contrari all'interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole") nel testo introdotto dalla Novella n. 154/2013. L'ordinanza presidenziale va, altresì, confermata nella parte in cui ha ribadito l'assegnazione alla (...) della casa coniugale in comproprietà, come già disposto in sede di separazione, poiché la figlia (...), ancora non autonoma, vive con lei nella casa familiare e vi è, pertanto, l'esigenza di salvaguardare il suo habitat domestico. Va, infine, rigettata la domanda avanzata dalla (...) diretta ad ottenere la corresponsione di un assegno divorzile. In proposito va evidenziato che la decisione in ordine alla richiesta di assegno di divorzio è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti, per accordo tra la parti o in forza di decisione giudiziale, nel regime di separazione dei coniugi, in quanto diverse sono le rispettive discipline sostanziali così come diverse sono la natura, la struttura e la finalità dei relativi trattamenti. Mentre l'assegno di separazione ha funzione conservativa della precedente situazione economica, l'assegno di divorzio, quale effetto diretto della pronuncia di divorzio, deve essere determinato sulla base di criteri propri ed autonomi rispetto a quelli rilevanti per il trattamento spettante al coniuge separato, anche se l'assetto economico relativo alla separazione può costituire un indice di riferimento nella regolazione del regime patrimoniale del divorzio, nella misura in cui appaia idoneo a fornire elementi utili per la valutazione della condizioni dei coniugi e dell'entità dei loro redditi (Cass. 28 giugno 2007 n. 14921; Cass. 27 luglio 2005, n. 15728; Cass. 11 settembre 2001, n. 11575). La normativa applicabile con riferimento all'assegno divorzile è quella contenuta nell'art. 5 L. n. 898 del 1970, così come modificato dalla L. n. 74 del 1987, il quale pone le condizioni richieste per l'attribuzione e la quantificazione dell'assegno. Ciò premesso, secondo il testo dell'articolo citato, l'attribuzione dell'assegno è subordinata alla specifica circostanza di fatto della mancanza in capo all'istante di mezzi adeguati e della impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. Le Sezioni Unite della Suprema Corte nella recente pronuncia n. 18287 dell'11.07.2018, hanno interpretato il suddetto requisito nel senso che la mancanza di mezzi adeguati va esaminata alla luce degli altri criteri indicati nel medesimo articolo (durata del matrimonio, ragioni della separazione, contributo dato alla conduzione familiare ed al patrimonio comune), destinati a conferire rilievo alle scelte ed ai ruoli sulla base dei quali si è impostata la relazione coniugale, in applicazione del principio di solidarietà che deve informare la funzione perequativa e riequilibratrice dell'assegno e che trova fondamento costituzionale nel principio della pari dignità dei coniugi (art. 2, 3, 29 Cost.). Il contrasto interpretativo sul quale sono intervenute le Sezioni Unite nella pronuncia appena citata riguardava la questione del significato da attribuire all'espressione "mezzi adeguati", adoperata dal legislatore nella norma sopra citata. Erano state prospettate due opzioni, quella di riferire la "adeguatezza" alla possibilità di condurre un'esistenza economica libera e dignitosa e quella di fare riferimento al tenore di vita matrimoniale o "paraconiugale", in base alla pertinente considerazione che il divorzio impoverisce, non solo spiritualmente, entrambi i coniugi, sicché il tenore di vita coniugale può solo fittiziamente essere riferito ad un ex coniuge. Le sezioni unite della Suprema Corte, in una famosa sentenza ormai risalente nel tempo (Cass. sez. un. 11490/90), avevano stabilito il principio che l'adeguatezza dovesse essere riferita ad "un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso", operando, quindi, una dicotomia tra criteri attributivi dell'assegno in relazione all'inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante ed all'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, e criteri determinativi al fine di procedere alla quantificazione delle somme sufficienti a superare l'inadeguatezza di detti mezzi in base alla valutazione ponderata e bilaterale degli altri parametri indicati nello stesso art. 5, comma 6 L. n. 898 del 1970 (Cass. 14 gennaio 2008 n. 593; Cass. 16 maggio 2005 n. 10210, 19 marzo 2003 n. 4040). Tale interpretazione era stata ritenuta dalla Corte Costituzionale conforme a Costituzione con la sentenza n. 11 del 2015, ma successivamente la Corte di legittimità era ritornata sul tema e si era consapevolmente discostata dalla ormai consolidata soluzione ermeneutica fornita dalle Sezioni Unite, affermando che l'adeguatezza dei mezzi andasse valutata considerando tutti gli elementi sintomatici della "indipendenza economica" dell'ex coniuge, dovendosi escludere il diritto all'assegno per chi fosse economicamente autosufficiente (Cass. civ. 10.05.2017 n. 11504). Orbene, le Sezioni Unite nella citata recente pronuncia (Cass. civ. sez. un. 11.07.2018 n. 18287), superando il suddetto contrasto, hanno chiarito che l'adeguatezza dei mezzi va esaminata tenendo conto in modo unitario di tutti gli indicatori stabiliti dalla legge che sottolineano il significato del matrimonio come atto di libertà e di auto responsabilità, di modo che sia assicurato ad entrambi gli ex coniugi non soltanto il raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l'autosufficienza, ma anche un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell'età del richiedente. Naturalmente, il punto di partenza, anche nella nuova prospettiva ermeneutica indicata dalle Sezioni Unite continua ad essere la sussistenza di un apprezzabile divario nei redditi delle parti al momento della pronuncia di divorzio, quali risultano dalla documentazione fiscale prodotta (Cass. 12 luglio 2007, n. 15610; Cass. 6 ottobre 2005, n. 19446; Cass. 16 luglio 2004, n. 13169; Cass. 7 maggio 2002, n. 6541; Cass. 3 luglio 1997 n. 5986), ma l'adeguatezza dei redditi percepiti dalla parte richiedente l'assegno divorzile prescinde, a differenza dell'assegno di separazione, dal tenore di vita coniugale, dovendo essere valutata alla luce del principio costituzionale della parità sostanziale tra i coniugi, così come declinato negli artt. 2, 3 e 29 Cost. attraverso l'esame congiunto dei criteri indicati nel menzionato art. 5 L. n. 898 del 1970, che sono finalizzati al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello degli ex coniugi, tenendo conto che all'assegno divorzile, come sottolineato dalla menzionata pronuncia a Sezioni Unite, va riconosciuta sia una natura assistenziale, sia una natura perequatrice - compensativa, che discende dal principio costituzionale di solidarietà, nel rispetto dei principi di libertà, auto responsabilità e pari dignità, e che impone di accertare se l'eventuale rilevante disparità della situazione economico patrimoniale degli ex coniugi al momento dello scioglimento del vincolo sia dipendente dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti, anche in relazione alla durata del rapporto, all'età del coniuge richiedente, alla conformazione del mercato del lavoro. L'adeguatezza dei mezzi deve, pertanto, essere valutata "non solo in relazione alla loro mancanza o insufficienza oggettiva", nel qual caso l'assegno divorzile svolgerà una funzione essenzialmente assistenziale in favore di chi si trovi in stato di bisogno, "ma anche in relazione a quel che si è contribuito a realizzare in funzione della vita familiare". Fatta questa necessaria premessa sul nuovo orientamento della Cassazione, al quale questo Tribunale aderisce, passando al caso concreto, si rileva innanzitutto una disparità reddituale tra le parti, ma non anche una apprezzabile disparità nelle condizioni economiche complessive dei coniugi. Per l'accertamento dei redditi delle parti occorre guardare in primo luogo alla documentazione fiscale prodotta (Cass. 12 luglio 2007, n. 15610; Cass. 6 ottobre 2005, n. 19446; Cass. 16 luglio 2004, n. 13169; Cass. 7 maggio 2002, n. 6541; Cass. 3 luglio 1997 n. 5986). Non occorre, in ogni caso, un accertamento dei redditi rispettivi nel loro esatto ammontare, attraverso l'acquisizione di dati numerici o rigorose analisi contabili e finanziarie, essendo sufficiente un'attendibile ricostruzione delle situazioni patrimoniali complessive di entrambi gli ex coniugi (Cass. Sez. I, 19.03.2002 n. 3974; Cass. sez. I 5.11.2007 n. 23051). Orbene, dalla documentazione reddituale prodotta emerge che il (...) percepisce un trattamento di quiescenza di importo pari a poco più di Euro 1.400,00 mensili, come risulta dai cedolini prodotti (apprezzabilmente inferiore rispetto allo stipendio che percepiva all'epoca della separazione quale dipendente dell'Azienda (...)), mentre la (...), è stata assegnata con decreto dell'Assessorato Regionale della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro, emesso ai sensi della L.R. n. 24 del 2000, all'(...) di (...) per essere utilizzata in mansioni riconducibili al titolo di studio di inserimento nell'originario progetto di lavori socialmente utili ed ha così beneficiato di una stabilizzazione della sua situazione lavorativa, a seguito della quale oggi percepisce poco più di Euro 800,00 mensili, come emerge dalle buste paga prodotte. Nondimeno, va osservato che la (...) fruisce della casa coniugale in comproprietà che è stata a lei assegnata quale genitore convivente con la figlia (...), e non vi è dubbio che il valore economico del godimento di tale immobile vada preso in considerazione per valutare le condizioni economiche complessive delle parti. In ogni caso appare, poi, assorbente la considerazione che la (...), grazie ai proventi derivanti dal suddetto rapporto di lavoro non versa in una situazione di bisogno, anche in considerazione del fatto che non deve sostenere spese per soddisfare l'esigenza abitativa, sicché non è configurabile una funzione assistenziale dell'assegno divorzile. Quanto, poi, alla funzione compensativa dell'assegno divorzile, la (...) non ha allegato alcuna circostanza che possa corroborare la fondatezza della sua domanda, non essendo certamente sufficiente rilevare che il matrimonio ha avuto una lunga durata e che dal matrimonio sono nati tre figli. Infatti, come evidenziato dalla Suprema Corte (Cass. civ. 29920/2022), condizione per l'attribuzione dell'assegno divorzile in funzione compensativa non è il fatto in sé che uno dei coniugi si sia dedicato prevalentemente alle cure domestiche e dei figli, circostanza che, peraltro, neppure emerge dagli atti di causa, ma occorre che il coniuge richiedente l'assegno dia prova, nella specie del tutto mancante, di avere rinunciato a realistiche occasioni professionali e reddituali, così da potere affermare che la sua attuale situazione economica sia causalmente riconducibile alle scelte collegabili ai ruoli endo-familiari che hanno caratterizzato l'unione coniugale. Vanno, infine, dichiarate inammissibili le ulteriori domande avanzate da parte resistente ed aventi ad oggetto la compensazione dei debiti maturati reciprocamente dai coniugi e la condanna del (...) al pagamento di somme da lui dovute a titolo di aggiornamento ISTAT, in quanto l'art. 40 c.p.c. consente il cumulo nello stesso processo di domand e soggette a riti diversi esclusivamente in presenza di ipotesi qualificate di connessione cd. "per subordinazione" o "forte" (artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c.), stabilendo che le stesse, cumulativamente proposte o successivamente riunite, devono essere trattate secondo il rito ordinario, salva l'applicazione del rito speciale quando una di esse riguardi una controversia di lavoro o previdenziale. Detto cumulo, pertanto, non può operare nelle ipotesi in cui si prospettano domande soggette al rito ordinario che, come nel caso in esame, siano autonome e separate rispetto alla domanda di separazione personale (cfr. Cass. civ. sez. I del 13 ottobre 2005 n. 19886). Peraltro, va osservato che non può essere emessa alcuna condanna a carico del (...) per il pagamento delle somme da lui dovute a titolo di aggiornamento ISTAT, posto che la (...) è già in possesso di un titolo, costituito dall'accordo di separazione omologato. Appare, infine, equo compensare interamente tra le parti le spese processuali, tenuto conto della natura della controversia e della difficile prevedibilità dell'esito della lite in relazione alla complessità della situazione di fatto ed alla sua mutevolezza nel tempo. P.Q.M. 1) dichiara la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario contratto a Messina il 16.03.1988 tra (...), nato a (...) il (...) e (...), nata a (...) il (...), con atto trascritto al n. (...) Parte I Serie Mandamento anno 1988; 2) conferma l'ordinanza presidenziale del 12.07.2021 con riferimento al mantenimento della prole ed all'assegnazione della casa coniugale; 3) rigetta la domanda di assegno divorzile avanzata da (...); 4) dichiara inammissibili le altre domande di parte resistente; 5) dichiara interamente compensate tra le parti le spese processuali; 6) ordina all'Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Messina di annotare la presente sentenza a margine dell'atto di matrimonio. Così deciso in Messina il 26 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 27 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI MESSINA SECONDA SEZIONE CIVILE in composizione monocratica, nella persona del Presidente istruttore dott. Giuseppe Minutoli, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 3607/2014 R.G., posta in decisione all'udienza del 12 maggio 2022 e decisa alla scadenza dei termini previsti dall'art. 190 c.p.c., vertente TRA (...), c.f. (...) , titolare della omonima ditta, con sede in G. N. (M.) via C. V. n. 150, P. IVA (...), rappresentato e difeso dall'avv. FR.GE., c.f. (...) , che lo rappresenta e difende per procura a margine dell'atto di citazione, attore E (...) SOCIETA' COOPERATIVA, c.f., in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dall'avv. MA.CA., che lo rappresenta e difende per procura in calce alla comparsa di costituzione, convenuta Oggetto: Bancari (deposito bancario, cassetta di sicurezza, apertura di credito bancario). MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Premessa in fatto. 1.1 - Il signor (...), titolare della omonima ditta, premesso di avere avuto con il (...) Soc. Coop. due rapporti, uno di conto corrente n. (...) ed uno di mutuo fondiario n. (...), ha convenuto innanzi a questo Tribunale la predetta banca, lamentando che la propria esposizione debitoria fosse stata negativamente influenzata dal comportamento della controparte, per l'illegittima applicazione di "interessi, commissioni di massimo scoperto, spese, costi e giorni di valuta illegittimi e/o non dovuti". IN particolare, l'attore ha dedotto che l'istituto di credito ha applicato spese di gestione, costo per ogni singola operazione, costo di scritturazione, costo di invio dell'estratto conto, assicurazione ed altri costi o commissioni dalla variegata denominazione, non preventivamente pattuiti in modo chiaro e sufficientemente determinato o determinabile, e comunque ingiustificati; applicato interessi ultralegali, commissioni di massimo scoperto, spese e valute bancarie prive di specifica pattuizione scritta così come spese di istruzione pratica e spese infra trimestre anch'esse non pattuite; addebitato le operazioni passive per il cliente con data anticipata rispetto a quella di effettuazione dell'operazione e, ad un tempo, accreditato le operazioni attive al cliente con valuta posticipata rispetto a quella della singola operazione, così elevando l'importo degli interessi debitori e delle commissioni di massimo scoperto; praticato l'anatocismo bancario; applicato, in aggiunta agli interessi, le c.d. commissioni di massimo scoperto (c.m.s.), le indennità di sconfinamento e le commissioni istruttoria veloce, in mancanza di valida convenzione; ha superato il tasso soglia ex L. n. 108 del 1996; ha variato unilateralmente, senza giustificato motivo e senza farne preventiva comunicazione al cliente per iscritto, le condizioni economiche applicate ai rapporti in esame e ciò in violazione dell' art. 118 del TUB; ha sostituito le cms con commissioni utilizzi oltre la disponibilità e commissioni disponibilità immediata fondi e ciò in violazione dell' art. 2- bis del D.L. n. 185 del 2008; ha illegittimamente capitalizzato (anatocismo) gli interessi di mora, perché calcolati sulle intere rate di mutuo scadute e non pagate (comprensive di una quota capitale e una quota interessi corrispettivi) piuttosto che sulla sorte capitale residua, determinando un aumento esponenziale ed illegittimo del debito residuo; ha applicato al mutuo fondiario un tasso variabile agganciato all' EURIBOR e non il tasso legale; ha illegittimamente sviluppato un piano di ammortamento del mutuo con il metodo dell' interesse composto in luogo di quello semplice determinando una discrasia tra il tasso nominale e quello effettivo nonché dando luogo ad un fenomeno di anatocismo nascosto vietato dall' art. 1283 c.c.. Quanto sopra premesso, ha chiesto - che il saldo del conto corrente ed il piano di ammortamento del mutuo fossero (mediante apposita c.t.u.) rideterminati al netto di quanto (a suo dire) illegittimamente addebitato e/o convenuto; - che, "una volta compensati eventuali crediti derivanti dal rapporto di conto corrente con il debito residuo del mutuo ricalcolato", la banca convenuta fosse condannata al pagamento di Euro 25.000,00, a titolo di risarcimento dei danni. 1.2 - Instaurato rituale contraddittorio, il giudice istruttore ha disposto una consulenza tecnica d'ufficio, richiamando lo stesso c.t.u. per integrazioni, sulle contestazioni della banca. 2. L'onere probatorio nelle cause bancarie e gli artt. 119 t.u.b. e 210 c.p.c.. 2.1 - Va premesso in punto di diritto, perché funzionale alla decisione, quanto alla ripartizione dell'onere della prova nei rapporti bancari, che ove attore sia la Banca (es. nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo proposto dal cliente avverso il titolo monitorio notificato dall'Istituto di credito), quest'ultima deve produrre tutta la documentazione (es., contratto di conto corrente, estratti conto a partire dall'apertura del rapporto) necessaria per la ricostruzione dell'intero andamento del rapporto stesso (Cass. 11 giugno 2018, n. 15148; Cass. 19 settembre 2013, n. 21466). 2.2 - Qualora, invece, attore sia il correntista, come nel caso in esame, l'onere di produrre i documenti fondanti la pretesa azionata spetta allo stesso, pur se, per il principio di vicinanza della prova e di quello di buona fede contrattuale, il cliente può avvalersi della strumento previsto dall'art. 119 t.u.b. riguardo al diritto ad avere copia della documentazione che ha natura sostanziale e non meramente processuale (Cass. 28 maggio 2018, n. 13277; Cass. 12 maggio 2006, n. 11004). Peraltro, Cass. 8 febbraio 2019, n. 3875 ha affermato che il titolare di un rapporto di conto corrente ha sempre diritto di ottenere dalla banca il rendiconto, ai sensi dell'art. 119 del D.Lgs. n. 385 del 1993 (TUB), anche in sede giudiziaria, fornendo la sola prova dell'esistenza del rapporto contrattuale, non potendosi ritenere corretta una diversa soluzione sul fondamento del disposto di cui all'art. 210 c.p.c., perché non può convertirsi un istituto di protezione del cliente in uno strumento di penalizzazione del medesimo, trasformando la sua richiesta di documentazione da libera facoltà ad onere vincolante. In tal modo superando la pregressa giurisprudenza che riteneva come la domanda di accesso alla documentazione bancaria da parte del cliente - ex art. 119 TUB, 4 comma - prima della proposizione del giudizio fosse condizione di proponibilità dell'istanza di esibizione ex art. 210 c.p.c. In caso di incompletezza della documentazione contabile non addebitabile al correntista: a) relativamente al contratto, consegue l'applicazione dell'art. 117 T.U.B., il quale dispone che l'inosservanza della forma prescritta determina la nullità del contratto stesso e, quanto agli accessori, si applicano gli interessi legali ivi indicati. b) Relativamente alla omessa integrale produzione degli estratti conto, il credito può essere ricostruito sulla base del saldo risultante dal più antico degli estratti conto allegati (con il saldo ivi esposto), mentre non può farsi riferimento al c.d. tasso zero, atteso che si trattasi di un dato contabile privo di qualsiasi fondamento probatorio (con specifico riferimento alla situazione in cui sia il correntista ad agire in ripetizione ed alla conseguente necessità di muovere dalle risultanze del primo estratto conto, per la giurisprudenza di merito cfr. App. Milano 6/12/2012, Trib. Nocera Inferiore 29/1/2013, Trib. Bari sez. dist. Monopoli 17/11/2011). 3. Il rapporto di conto corrente. 3.1 - L'accertamento tecnico contabile ha interessato il solo rapporto di c/c n. (...), acceso in data 01/12/1994, come da lettera contratto con numero di conto (...), presso (...) - filiale di (...). Successivamente, dal 01/01/2007, il conto prosegue cambiando numerazione e diviene (...) presso agenzia di Calatabiano. Infine dal 01/04/2010 al 31/12/2013 il rapporto viene trasferito dall'agenzia di Calatabiano all'agenzia di (...) (...) con numero di conto (...). 3.2 - Il c.t.u. ha potuto ricostruire l'andamento del rapporto, senza soluzione di continuità, dalla data del 01.01.1997 (primo saldo utile) e sino alla data del 31.12.2013, non essendo stati prodotti gli estratti conto del periodo antecedente, essendo il relativo onere - come detto prima - a carico dell'attore correntista. Per il correlato conto corrente anticipi, non è risultata in atti alcuna documentazione (estratti conto capitale e scalare). Nel contratto di apertura del conto corrente di corrispondenza n. (...) (ex (...)) sottoscritto il 1 dicembre 1994 (ovvero precedentemente all'introduzione della L. n. 108 del 7 marzo 19960 in tema di tassi usurari) è stato espressamente indicato per iscritto il tasso di interesse per scoperto di conto nella misura del 18,00%. Il c.t.u., dopo una prima relazione (ossia quella del 31 maggio 2017) nella quale aveva omesso di applicare, nella verifica del rispetto dei tassi soglia, le formule dettate dalle Istruzioni della (...) secondo le indicazioni riportate nel mandato conferitogli e di ricalcolare il saldo del conto corrente applicando, a far data dal 23 maggio 2008 (o, in subordine, dal 17 giugno 2009), la capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori, per come era stato espressamente pattuito nel documento di sintesi costituente il frontespizio del contratto di apertura di credito del 23/05/2008 e nel documento di sintesi riportato nella Convenzione "Conto idea commercianti plus" del 17/06/2009, su mandato integrativo del giudice istruttore, ha depositato relazione suppletiva (rectius: foglio di calcolo) in data 30 dicembre 2017 ed ulteriore relazione in data 25 settembre 2019. In sostanza, in queste ultime elaborazioni, il c.t.u.: 1. ha accertato che il superamento dei tassi soglia da parte della banca è avvenuto soltanto in due trimestri (I e II trimestre 2012), con conseguente riduzione entro soglia; 2. ha provveduto a ricalcolare il saldo del c/c n. (...) secondo due distinte elaborazioni: a) in prima battuta la ricostruzione della posizione debitoria/creditoria è stata fatta al netto della capitalizzazione delle competenze e con esclusione della commissione di massimo scoperto (C.M.S.) sino al 22 maggio 2008, mentre a partire da tale data addebitando/accreditando gli interessi passivi/attivi maturati nel trimestre precedente: il relativo calcolo ha comportato all'1 gennaio 2014 un saldo rettificato pari a Euro 54.508,24 a debito del correntista, a fronte di un saldo a debito prospettato dalla banca di Euro 64.969,41, con una differenza tra saldo banca e saldo ricalcolato pari a Euro 10.461,17; b) in subordine si è proceduto a ricostruire la posizione debitoria/creditoria del conto corrente al 01/01/2014 al netto della capitalizzazione delle competenze e con esclusione della commissione di massimo scoperto (C.M.S.) sino al 16 settembre 2009, mentre da tale data addebitando/accreditando gli interessi passivi/attivi maturati nel trimestre precedente; il calcolo ha comportato all'1 gennai 2014 un saldo rettificato pari a Euro 53.193,77 a debito del correntista, con una differenza tra saldo banca e saldo ricalcolato pari a Euro 11.775,64. 3.3 - L'attore non ha preso posizione alcuna su tali conclusioni del c.t.u., fermandosi in conclusionale a far riferimento alla prima relazione peritale che, sulla base di un numero maggiore di sforamenti dei tassi di interesse oltre soglia antiusura rispetto alle conclusioni integrative, aveva quantificato il saldo reale del conto corrente in e 41.081,06 a debito del correntista in luogo del saldo banca apparente dagli estratti conto pari ad Euro 64.969,41 a debito del correntista. La banca convenuta, invece, ha fatto propri gli ultimi calcoli, privilegiando quello sub a). 3.4 - Ritiene il Tribunale che intanto è corretta l'esclusione delle CMS. Osserva il decidente che il costo denominato commissione di massimo scoperto è un onere usualmente imposto ai clienti che stipulano un contratto di apertura di credito in conto corrente, calcolata normalmente applicando un determinato tasso alla massima somma utilizzata dal cliente durante il periodo di riferimento in relazione a tutta la durata dello stesso, e la cui funzione o causa è incerta. C'è, infatti, chi lo inquadra come la remunerazione del maggior rischio assunto dalla banca a seguito dell'utilizzazione della somma messa a disposizione con l'anticipazione e, chi, al contrario, ne individua la funzione nell'esigenza di compensare il semplice fatto della tenuta a disposizione di una determinata somma a favore del debitore, al di là dell'interesse compensativo sulle somme effettivamente utilizzate (cfr. sul punto Cass. 18 gennaio 2006, n. 870 e Cass. 6 agosto 2002 n. 11722). Tuttavia, al di là dell'evidente necessità della pattuizione scritta, secondo la più avveduta giurisprudenza di merito, alla quale questo Tribunale aderisce, qualora nel contratto non si specifichi nulla quanto ai criteri di concreta applicazione della commissione di massimo scoperto, limitandosi ad indicare un valore percentuale nella lettera contratto di apertura del conto corrente, la relativa clausola é del tutto indeterminata e non determinabile e, ai sensi dell'art. 1346 c.c., deve intendersi affetta da radicale nullità, rilevabile anche d'ufficio (Tribunale di Monza, 12 dicembre 2006; Tribunale di Milano, 4 luglio 2002 e, più di recente, Tribunale Torino 02 luglio 2015, www.ilcaso.it, secondo cui è illegittima l'applicazione della commissione di massimo scoperto, laddove la stesa non sia stata pattuita per iscritto e laddove non constino i criteri di applicazione della commissione medesima). Nel caso in esame nel documento contrattuale non si rinviene alcuna determinazione riguardo la commissione di massimo scoperto quanto alla base di calcolo di riferimento, al di là della mera indicazione della percentuale da applicare. Di tali voci non può, quindi, tenersi conto nella ricostruzione del rapporto bancario in esame. 3.5 - Deve anche condividersi il metodo integrativo di calcolo del tasso usurario (sollecitato con ordinanza del 22 giugno 2017) basato sulle Istruzioni della (...), che appare il criterio più omogeneo applicato dalla prevalente giurisprudenza di merito e di legittimità, avallato da ultimo anche dalle Sezioni Unite (sentenza n. 19597/2020) al contrario della formula di matematica finanziaria, da altri utilizzata per la verifica del rispetto della L. n. 108 del 1996, che è disomogenea. Pertanto, pur difettando in capo alla (...) il potere normativo nella definizione del metodo di calcolo, questo non può tradursi nella possibilità, per l'interprete, di prescindervi, ove sia in gioco - in una unitaria dimensione afflittiva della libertà contrattuale ed economica - l'applicazione delle sanzioni penali e civili, derivanti dalla fattispecie della cd. usura presunta (cfr. App. Bologna, 20 aprile 2021 n. 1247). Analogamente (in assenza, peraltro, di specifiche contestazioni sul punto) vanno condivisi i risultati contabili espressi dal c.t.u., che appaiono scevri da vizi logici e di calcolo, avendo tenuto conto della rideterminazione dei tassi entro la soglia antiusura, ove vi sia stato uno sconfinamento, delle clausole e spese non pattuite e di ogni altro elemento portato alla cognizione di questo Ufficio. E tra le due modalità di calcolo è da preferire il primo (quello che dal 22 maggio 2008 fa decorrere l'accredito/addebito degli interessi passivi/attivi maturati nel trimestre precedente), in quanto - come condivisibilmente dedotto dalla banca convenuta - attribuisce il giusto risalto all'identica (e pertanto legittima) periodicità trimestrale di capitalizzazione degli interessi creditori e debitori, periodicità espressamente prevista a pag. 02 della Sezione Condizioni Economiche del Documento di sintesi costituente il frontespizio del contratto di apertura di credito del 23 maggio 2008. E' noto, infatti, che, successivamente all'entrata in vigore della Del.CICR 9 febbraio 2000 in tema di legittimità della medesima periodicità trimestrale della capitalizzazione delle poste attive e passive, l'introduzione di clausole che prevedono la capitalizzazione con la medesima periodicità, per gli interessi debitori e creditori è da ritenersi peggiorativa e, quindi, necessita di una espressa pattuizione/rinegoziazione tra le parti, oppure di una introduzione unilaterale conforme al meccanismo dello ius variandi disciplinato dall'art. 118 D.Lgs. n. 385 del 1993. E nel caso di specie la pattuizione, come detto, risale al 22 maggio 2008. 3.6 - Né a diversa conclusione potrebbe pervenirsi sulla base di alcune censure mosse alla c.t.u. dall'attore. 3.6.1 - Invero, la contestata applicabilità della Del.CICR del 2000 in tema di capitalizzazione reciproca all'apertura di credito non coglie nel segno, trattandosi, nel caso in esame, comunque di un contratto di conto corrente, stipulato in data 1 dicembre 1994. 3.6.2 - Né sembra fondata la contestazione all'operato del c.t.u. che, secondo l'attore, avrebbe dovuto espungere radicalmente dal saldo gli interessi passivi addebitati nei trimestri in cui ha rilevato lo sforamento delle soglie e non ricondurre il tasso alla soglia stessa, vertendosi non in ipotesi di usura sopravvenuta dovuta all' innalzamento delle soglie, fermi restando i tassi praticati dalla Banca convenuta, bensì - come emerge dalla relazione di c.t.u. - di usura pattizia conseguente alla modifica unilaterale dei tassi effettuata dalla banca convenuta con il meccanismo delle proposte di modifica unilaterale dei tassi originariamente convenuti e tacita accettazione da parte del correntista che non ha esercitato il diritto di recesso. Dalla stessa prospettazione attorea, infatti, si deduce che, per l'appunto, l'usura è dovuta a modifiche intervenute nel corso del rapporto, sicché, non derivandone la nullità della clausola determinativa originaria, il tasso di interesse va ricondotto alla soglia. 3.7 - Ne consegue che, in parziale accoglimento della domanda dell'attore, dichiarata la nullità dei tassi di interesse oltre soglia nel I e II trimestre 2012, espunta la commissione di massimo scoperto ed applicata la capitalizzazione degli interessi passivi dal 22 maggio 2008, il saldo del conto corrente n. (...) all'1 gennaio 2014 è pari a Euro 54.508,24 a debito del correntista, con una differenza tra saldo banca e saldo ricalcolato pari a Euro 10.461,17. 4. Il rapporto di mutuo. Quanto al rapporto di mutuo fondiario n. (...), nessun approfondimento tecnico-contabile è stato disposto né l'attore ha chiesto alcunché dal punto di vista istruttorio, limitandosi in conclusionale a insistere nella seguente conclusione: "(...) VIII. Accertare e dichiarare che la complessiva clausola contrattuale del mutuo fondiario n. (...) - che prevede insieme un tasso fisso (come base per il calcolo delle quote di rimborso del capitale), delle restituzioni rateali calcolate col sistema dell' ammortamento di un prestito a rate costanti (c.d. alla francese) e un tasso variabile agganciato all'EURIBOR - è nulla per indeterminatezza del suo oggetto perché viola l'art. 1346 c.c.; detta clausola non è univoca ma indeterminata e incerta perché la sua applicazione richiede una scelta tra più alternative possibili, ciascuna delle quali comporta l'applicazione di tassi di interesse diversi (Tribunale di Milano, sentenza del 30-10-2013, dott.ssa (...)), alternativa rimessa ad una libera scelta dell' istituto di credito che rende appunto la clausola non sufficientemente determinata o determinabile". Le censure appaiono, in effetti, generiche, non ravvisandosi comunque la dedotta genericità del criterio determinativo del tasso di interesse rispetto alle clausole contrattuali desumibili dal documento prodotto dalla banca. LA domanda va quindi rigettata. 5. Le spese di lite. Tenuto conto dell'esito complessivo del giudizio con un parziale accoglimento delle domande attoree, ricorrono i presupposti per compensare per tre quarti le spese di giudizio, ponendo a carico della banca il residuo, liquidato in Euro 58,25 per esborsi ed Euro 1.350,00 per compensi (fase di studio Euro 250,00, fase introduttiva Euro 200,00, fase istruttoria Euro 400,00, fase decisoria Euro 500,00), oltre spese generali ex art. 2 D.M. n. 55 del 2014 nella misura del 15 %, c.p.a. ed iva. Le spese di c.t.u. vanno poste a carico per un quarto dell'attore e per tre quarti della banca. P.Q.M. Il Tribunale di Messina, Seconda sezione civile, in persona del giudice unico dott. Giuseppe Minutoli, definitivamente pronunciando nella causa n. 3607/2014 R.G., 1. in parziale accoglimento della domanda dell'attore, dichiarata la nullità dei tassi di interesse oltresoglia nel I e II trimestre 2012, espunta la commissione di massimo scoperto ed applicata la capitalizzazione degli interessi passivi dal 22 maggio 2008, accerta che il saldo del conto corrente n. (...) all'1 gennaio 2014 è pari a Euro 54.508,24 a debito del correntista, con una differenza tra saldo banca e saldo ricalcolato pari a Euro 10.461,17; 2. rigetta ogni altra domanda; 3. compensa per tre quarti le spese di lite, ponendo a carico della banca convenuta il residuo, liquidato in Euro 58,25 per esborsi ed Euro 1.350,00 per compensi (, oltre spese generali, c.p.a. ed iva. 4. Pone le spese di c.t.u. a carico per un quarto dell'attore e per tre quarti della banca. Così deciso in Messina il 23 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 23 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI MESSINA SEZIONE SECONDA Il Tribunale, nella persona del G.O.P. dott. Pietro Rosso ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di cognizione iscritto al n. r.g. 5051/2017 promosso da: (...) ((...)), residente in Messina, viale (...), rappresentata e difesa dall'Avv. (...) (C.F. (...)) - pec: (...), del Foro di Messina ed elettivamente domiciliata presso il suo studio legale sito in Messina - (...) - ATTRICE- contro (...) (P.I. (...)), in persona del suo legale rappresentante in carica pro-tempore con sede legale in Torino, Piazza (...), rappresentata e difesa dall'Avv. (...) (C.F.: (...), pec: (...)) del Foro di Messina, presso il cui studio - in Messina, via (...)- è elettivamente domiciliata; - CONVENUTA - CONCLUSIONI All'udienza di precisazione delle conclusioni del 16.06.2022 le parti hanno concluso come da verbale. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE La presente sentenza è stata stesa in conformità all'art. 132, co. 2 n. 4, c.p.c., come novellato dall'art. 45, co. 17, L. 18 giugno 2009, n. 69, disposizione immediatamente applicabile a tutti i giudizi pendenti alla data (4.07.2009) di entrata in vigore della detta legge, ai sensi dell'art. 58, co. 2, L. n. 69 del 2009. Con atto di citazione del 3-8-2017, ritualmente notificato, (...) conveniva in giudizio (...) s.p.a. premettendo di essere titolare da diversi anni del conto corrente n. 537 aperto presso la (...), Filiale di Messina Via (...). Premetteva altresì che tale conto veniva alimentato dallo stipendio mensile dalla stessa percepito per la propria attività professionale e che le era necessario per mantenere la Sua famiglia e provvedere ai pagamenti periodici. Esponeva che, a seguito di sequestro presso terzi notificato il 28 luglio 2017 tale (...), in forza di un provvedimento giudiziario, sottoponesse a sequestro "somme di pertinenza della Sig.ra (...)". Tali somme dovevano derivare da un fantomatico versamento ricevuto da parte dell'INPS. L'atto di sequestro, specificava che il provvedimento cautelare era stato concesso dal Tribunale di Messina nel corso di un giudizio di revocatoria avente ad oggetto un credito ceduto dal Dott. (...) alla (...) ed avente ad oggetto somme che sarebbero state versate dall'INPS quale quota del TFR del cedente. Esponeva -altresì- che sulla base del tenore letterale del provvedimento, con la correttezza dovuta dalla Banca nella esecuzione della sua attività, la Banca poteva sottoporre a sequestro solo le somme eventualmente ricevute sul conto corrente solo dall'INPS e non già tutti gli importi presenti sul conto di altra natura (in particolar modo, il già citato stipendio). Per lo effetto, deduceva come l'atto di sequestro conservativo non fosse stato attentamente letto dalla Banca convenuta, chiamata ad eseguire l'ordine del Giudice. Narrava, comunque, che tale circostanza veniva immediatamente contestata con comunicazione del 31.07.2017 a firma del procuratore attoreo il quale, con tale missiva, indicava chiaramente l'errore in cui era incorso l'istituto bancario, e chiariva come il "vincolo fosse illegittimo e non corrispondente a quanto stabilito dall'ordinanza emessa dal Tribunale di Messina in data 26.07.2017 che aveva autorizzato il sequestro solo ed esclusivamente per le somme pagate dall'INPS e riferite al TFR del Corapi cedute alla (...). Evidenziava, altresì, all'istituto bancario che le somme bloccate non derivano né dal pagamento effettuato a tale scopo dall'INPS, nè tantomeno da un giroconto effettuato dalla Banca Unione di Banche Italiane ove l'INPS aveva dichiarato che il TFR sarebbe stato pagato". Deduceva che detta comunicazione rimaneva priva di riscontro, e che -addirittura- in data 02.08.2017, a seguito di un ulteriore accredito sul detto conto corrente, da parte del Ministero Istruzione Università e Ricerca, della somma di Euro.26.855,76 quale rimborso per le spese sostenute dalla deducente per la propria specializzazione, anche tali somme venivano illegittimamente dalla Banca sottoposte a sequestro e ciò nonostante la contestazione formale di quanto precedentemente accaduto e la specifica comunicazione inviata all'istituto con specifica degli importi oggetto del provvedimento giudiziario. Esponeva che con ulteriore pec del 02.08.2017, sempre il procuratore della (...) provvedeva a diffidare la Banca convenuta allo svincolo immediato delle somme sequestrate inerenti il rimborso ricevuto dal Ministero, ma stante l'inerzia dell'istituto di credito, la Dott.ssa (...) si vedeva costretta ad adire l'autorità giudiziaria intraprendendo il presente giudizio. Si costituiva nel giudizio la (...) S.p.A. contestando quanto dedotto dalla difesa attorea, tentando di creare confusione circa l'accadimento dei fatti e le diverse azioni giudiziarie intraprese dall'attrice per la tutela dei propri diritti. Su richiesta delle parti venivano concessi i termini di cui all'art. 183, VI comma c.p.c. Le rispettive difese depositavano nei termini le dette memorie, articolando anche -parte attrice- mezzi istruttori orali. La causa veniva assunta in riserva. Con provvedimento del 30.04.2019 ritenuti non necessari i mezzi istruttori e la causa matura per la decisione, dopo alcuni rinvii interinali a seguito di congestione del ruolo di sezione, all'udienza del 16 giugno 2022 il Giudice assumeva la causa in decisione, concedendo alle parti termine per il deposito della comparsa conclusionale e delle memorie di replica ai sensi dell'art. 190 c.p.c. Le parti depositavano, nei termini, rispettivamente comparse e memorie di replica. Preliminarmente, alla luce delle istanze interposte dall'attrice a fase istruttoria ormai espletata, vanno esaminate le questioni concernenti l'avanzata istanza ex art. 185-bis cpc e l'omesso espletamento della procedura di mediazione. Vediamo la prima, avanzata da parte attrice, a non voler errare, con la prima memoria istruttoria 183 co. VI cpc. L'art. 77, co. 1, lett. a) del D.L. 21 giugno 2013, n. 69 - convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98 - ha introdotto nel codice di rito l'art. 185 bis. La disposizione prevede che il giudice formuli, ove possibile, una proposta transattiva o conciliativa alle parti. L'art. 185 bis c.p.c. è, dunque, volto ad evitare il protrarsi del contenzioso, soprattutto nelle controversie "seriali", già oggetto di decisione del Tribunale (anche con sentenze "pilota"). La collocazione sistematica della disposizione induce a ritenere che essa trovi applicazione solo con riferimento ai procedimenti di cognizione ordinaria aventi ad oggetto diritti disponibili. La norma in commento distingue tra proposta conciliativa e transattiva. Si tratta di istituti notoriamente differenti. La conciliazione giudiziale deve necessariamente riguardare la materia del contendere, porta ad una soluzione condivisa da entrambe le parti, a prescindere dalle relative domande e mira alla soddisfazione degli interessi in gioco. La proposta transattiva può, invece, interessare anche rapporti ulteriori e diversi da quelli dedotti in causa; le parti, dunque, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite attraverso una soluzione negoziale. Il giudice può formulare la proposta conciliativa in prima udienza o, al massimo, in fase istruttoria, con la conseguenza che tale soluzione pare vietata nella fase decisionale. In giurisprudenza (cfr. Trib. Caltanissetta, 20.01.2016) è controverso se il giudice possa formulare la proposta anche in sede di precisazione delle conclusioni. Un primo orientamento è contrario a tale facoltà, perché la formulazione della proposta in questa fase imporrebbe al giudice di anticipare la sua probabile decisione finale. In adesione alla giurisprudenza del Tribunale di Fermo (21-11-2013) questo Giudice ritiene invece possibile un diverso indirizzo, il quale consentirebbe al giudice di elaborare la proposta anche in sede di precisazione delle conclusioni o, addirittura, dopo che la causa è già stata trattenuta in decisione, rimettendola in istruttoria proprio a tal fine. Tuttavia. Indipendentemente dalle modalità e dalla fase del processo in cui il giudice formula la proposta, quest'ultima è -però- inevitabilmente condizionata al rispetto di criteri valutativi normativamente fissati ("natura del giudizio, valore della controversia, esistenza di questioni di facile e pronta soluzione"). Essa dovrà, pertanto essere alquanto dettagliata, così da evidenziare le criticità delle reciproche posizioni delle parti. Solo in tal modo le parti saranno in grado di valutare la proposta stessa e, nel caso, giustificarne l'eventuale rifiuto. In tale linea di orientamento, il relativo provvedimento può avere anche altro contenuto oltre alla proposta conciliativa (ammissione mezzi istruttori, invio delle parti in mediazione delegata). E, così, giungiamo alla seconda delle due questioni preliminari, l'omesso tentativo di mediazione obbligatoria, a non errare, sollevata dalla difesa attorea negli ultimi atti difensivi. La questione circa l'ammissione dei mezzi istruttori proposti è stata già affrontata con l'ordinanza di scioglimento della riserva post adempimenti ex art. 183 cpc. Quanto all'invio delle parti in mediazione delegata su materia obbligatoria. Come è noto, il D.Lgs. n. 28/2010 istituisce un procedimento obbligatorio di mediazione: chi intende esercitare un'azione in giudizio in certe aree del diritto deve necessariamente prima esperire un tentativo di conciliazione. L'iniziativa del legislatore italiano trova il suo fondamento nella normativa comunitaria: la Comunità Europea ha difatti adottato, nel 2008, una direttiva concernente la mediazione. Tale direttiva, a dire il vero, non prevede affatto l'obbligatorietà della mediazione. L'art. 5, par. 1, direttiva n. 52/2008 stabilisce una mera facoltà in capo al giudice di dare corso a un tentativo di conciliazione: l'organo giurisdizionale investito di una causa può, se lo ritiene appropriato e tenuto conto di tutte le circostanze del caso, invitare le parti a ricorrere alla mediazione allo scopo di dirimere la controversia. Il tentativo di conciliazione è facoltativo e, soprattutto, presuppone che una causa sia già stata instaurata. Completamente diverso è l'approccio che è stato seguito dal nostro legislatore, il quale ha previsto - in certe materie - l'obbligatorietà della preventiva mediazione, il cui esperimento costituisce condizione di procedibilità dell'azione in giudizio. Il legislatore italiano è andato dunque al di là di quanto impone il diritto comunitario. Tale iniziativa legislativa risulta peraltro coperta da legittimazione comunitaria, in quanto la direttiva lascia impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l'inizio del procedimento giudiziario, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario (art. 5, par. 2, dir. n. 52/2008). Nel disciplinare in questo modo la mediazione, l'intento principale del legislatore è quello di "deflazionare" la giustizia statale. Tutte le volte che la conciliazione riesce si evita l'avvio di un processo, eliminando così i costi e i tempi che esso comporta. Procedimenti di mediazione efficienti beneficiano ovviamente anche le parti in causa, realizzando una risoluzione delle controversie veloce e poco costosa. Nei casi in cui il mediatore recepisce un accordo intercorso fra le parti (ciò non avviene nelle procedure di tipo decisorio), è probabile che tale pattuizione sia poi rispettata dalle parti. Quando un sistema alternativo di risoluzione delle controversie di tipo decisorio è a regime e ben funzionante, vi è un controllo - preventivo rispetto al processo - sulla corretta applicazione della normativa. Ciò incentiva i soggetti interessati al rispetto delle regole vigenti. L'art. 5 D.Lgs. n. 28/2010, di attuazione della direttiva comunitaria, prevede le materie nelle quali il ricorso alla mediazione è obbligatorio. Nel contesto bancario l'art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 28/2010 prevede che il potenziale attore debba esperire il procedimento di mediazione disciplinato da tale decreto oppure, in alternativa, il procedimento istituito in attuazione dell'art. 128-bis t.u.b. Vi è da chiedersi per quale ragione il legislatore preveda per la materia bancaria un procedimento speciale di mediazione. La ragione è semplice ed è di natura cronologica: la normativa sulla mediazione bancaria è stata emanata prima di quella sulla mediazione in generale. Il legislatore del 2010 ha preferito non cancellare tale regolamentazione speciale, permettendo che conviva con il procedimento di tipo generale. Il vantaggio principale della mediazione bancaria è il livello di specializzazione dell'organo decidente. In materia bancaria esiste un procedimento speciale di mediazione, che deroga al procedimento generale previsto dal D.Lgs. n. 28/2010, istituito in attuazione dell'art. 128-bis t.u.f. In ambito bancario sussiste senz'altro l'obbligo di mediazione ex art. 5 D.Lgs. n. 28/2010. È bene chiarire da subito che la parte che desidera agire in giudizio contro la banca non è obbligata ad avvalersi della mediazione speciale bancaria, ma può attivare la procedura generale di mediazione. In altre parole l'attore ha facoltà di scelta: scegliere la mediazione speciale oppure quella generale. Addirittura in alcuni casi il ricorso all'ABF è escluso, cosicché dovrà essere attivato un diverso procedimento di mediazione. Tuttavia. La legge prevede l'obbligatorietà della mediazione per i contratti "bancari". La disciplina di tali contratti risulta distribuita in due diversi testi legislativi: il codice civile e il testo unico bancario. Nel caso di specie, però, non siamo di fronte a controversia avente ad oggetto la gestione di un contratto "bancario" quanto, piuttosto, ad una istanza di risarcimento danni a seguito del comportamento -ritenuto- illegittimo dall'attrice rispetto all'effettivo operato della Banca convenuta cui, in vocatio, è stata abbinata una istanza risarcitoria. Tale questione è stata, implicitamente, esaminata con il rinvio della causa per la decisione all'udienza del 16.6.2022 con ciò escludendosi e la possibilità di formulare una proposta ex art. 185-bis cpc e la possibilità di fare ricorso al procedimento di mediazione, anche se tardivamente richiesto proprio dalla difesa attorea che avrebbe dovuto preliminarmente proporlo. Entrambe le questioni, pertanto, vanno -in reitera- rigettate poiché infondate. Nel merito. La domanda attorea è solo parzialmente fondata e, come tale, va accolta con gli adeguati correttivi solo per quanto di ragione. Infatti. Alla luce della costituzione della convenuta, in corso di causa la difesa attorea ha altresì modificato la propria domanda rinunciando al capo 4 delle domande in vocatio avendo preso atto dello sblocco delle somme ultroneamente vincolate. Su tale capo, pertanto, va dichiarata la cessata materia del contendere in corso di causa. Quanto alla petizione risarcitoria, la domanda attorea non è provata documentalmente, né poteva essere provata mediante articolazioni istruttorie orali, e -come tale- non meritevole di accoglimento. De residuo, la questione all'esame di questo Decidente va affrontata unicamente sui capi 1 e 2 della domanda attorea. È fondato ritenere che la (...) SpA ha illegittimamente applicato il blocco al conto corrente dell'attrice in modo ultroneo rispetto alle somme oggetto del provvedimento a quo. La Banca convenuta, a pag. 3 della comparsa di costituzione, riporta testualmente quanto notificato dall'Ufficiale Giudiziario, ove si legge chiaramente ed inequivocabilmente "ho sequestrato nei limiti di legge, in virtù del suddetto titolo tutte le somme, titoli e, comunque, giacenze, dovute o maturande dall'INPS di Messina" nessun dubbio pertanto può esserci sulle somme che sono state sottoposte a sequestro, ovvero tutte quelle esclusivamente riferibili all'INPS. Ciò nonostante la Banca convenuta ha erroneamente ed illegittimamente sottoposto a sequestro tutte le somme, ivi compreso lo stipendio derivante dall'attività professionale della deducente (non ricompreso nel sequestro) e la somma accreditata da parte del Ministero Istruzione Università e Ricerca, pari ad Euro. 26.855,76 quale rimborso per le spese sostenute dall'attrice per la propria specializzazione (anch'esse assolutamente estranee al sequestro). Infatti. Nell'atto di sequestro conservativo -depositato da entrambe le parti- nella premessa si legge chiaramente l'oggetto del giudizio di merito vale a dire "ritenere e dichiarare inefficace nei confronti della ricorrente l'atto di cessione di credito registrato a Messina il 21.04.2016 al n. 2875 serie I Notaio (...) con cui il Sig. (...) ha ceduto alla Sig.ra (...) parte del trattamento di fine rapporto di lavoro vantato nei confronti dell'INPS di Messina fino al raggiungimento dell'ammontare di Euro. 120.000,00; dichiarare inefficaci gli eventuali versamenti disposti dall'INPS di Messina a favore della Sig.ra (...) in forza dell'atto di cessione sopra richiamata". Si legge ancora nell'atto di sequestro "in corso di causa è stato proposto ricorso per sequestro conservativo dell'ultima rata della liquidazione pari ad Euro. 104.181,73 che l'INPS di Messina doveva erogare al Sig. (...); (...) che all'udienza dell'11 luglio 2017 l'INPS di Messina ha dichiarato che il beneficiario (...) ha chiesto l'accredito delle somme a favore del percettore (...) sulla Banca Unione di Banche Italiane (...) ed infine a pag. 2 si legge testualmente "il Giudice con provvedimento del 26.07.2017 ha autorizzato l'istante a procedere a sequestro conservativo sui crediti oggetto della cessione del credito di cui è causa meglio descritti nelle conclusioni del ricorso cautelare". La Banca convenuta, quindi, è incorsa in questo errore di poi, senza porvi immediato rimedio, resistendo in questo giudizio con le argomentazioni dedotte in atto di costituzione e nei propri scritti successivi. Si evince chiaramente -infatti- dall'atto di sequestro che oggetto dello stesso sono le somme derivanti dalla cessione del credito del TFR, quindi le uniche somme che potevano essere sottoposte a sequestro da parte della Banca potevano essere quelle provenienti: a) dall'INPS (nonostante quest'ultima avesse dichiarato che sarebbero state versate su altro conto corrente); b) dal sig. (...) (ove mai le cose nelle more fossero cambiate e pertanto l'INPS le avesse a lui versate). Ma, in ogni caso, il sequestro si riferisce alla "giacenza" e, cioè alle somme che esistevano sul conto il giorno della notifica e, cioè il 28.07.2017 senza con ciò potersi sottoporre a sequestro somme pervenute successivamente e per causale diversa. Nessun dubbio può aversi pertanto circa la assoluta illegittimità del vincolo posto tanto sullo stipendio presente al momento della notifica del sequestro, quanto sulle somme derivanti con la causale BORSA DI STUDIO da parte della odierna convenuta che in nessun caso, anche con le "poche" informazioni avute da quanto espressamente indicato nell'atto di sequestro era perfettamente a legale conoscenza della circostanza secondo cui le somme sottoposte a sequestro erano solo quelle derivanti da una cessione di credito fatta dal Corapi alla (...) avente ad oggetto quota del TFR pagato dall'INPS. Del resto, nella dichiarazione del terzo formulata in data 16 agosto 2017 infatti, e depositata in atti dalla difesa attorea (tanto nel fascicolo originario di produzione, quanto nuovamente unitamente alle memorie ex art. 183 VI comma n.3), si legge chiaramente "Specifichiamo che in data 02.08 è pervenuto sul predetto rapporto di conto corrente, un accredito di Euro.26.855,76 con causale Borsa di Studio. Per quanto riguarda tale importo si rimette all'Ill.mo Sig. Giudice dell'esecuzione ogni decisione in merito alla assegnabilità di dette somme". Quindi, alla Banca convenuta il problema era noto, e ciò nonostante ha bloccato "tout court" anche le somme pervenute successivamente e per causale diversa. Tale argomentazione, concorre -de plano- con l'invocata cessata materia del contendere quanto alla distribuzione delle spese per il principio della cd. "soccombenza virtuale". Quanto alla istanza risarcitoria, la relativa domanda non può essere accolta in quanto parte attrice, ampiamente narrando il fatto presupposto, non ha fornito prova documentale del patito danno. È vero, il blocco illegittimamente operato dalla Banca convenuta ha -di fatto- messo l'attrice nella impossibilità di disporre delle proprie somme di danaro ma, di converso, quest'ultima, non ha dato prova alcuna dei modi e dei termini in cui la stessa ha affrontato l'immanente problema per la risoluzione della evocata patologia. Sul punto la documentazione sanitaria prodotta dall'attrice non è per ciò solo elemento adeguato e sufficiente alla prova del danno patito poiché, di fatto, da ciò che emerge comprendersi è la unica circostanza che a seguito del blocco l'attrice pare non abbia potuto sostenere l'intervento chirurgico esplorativo per la risoluzione delle proprie patologie. Null'altro, e con ciò solo l'elemento documentale -sebbene non contestato- non ha valenza sufficiente per la monetizzazione della relativa istanza risarcitoria. Nel merito, la natura del giudizio è, sì, pacifica, ma non aderente a tutte le conclusioni stimate -e sperate- dalla difesa attorea; così come il valore della controversia non è di natura bagatellare e, infine, le questioni prospettate con il giudizio, sebbene chiaramente poste -in alcuni punti anche reciprocamente-, non sono -però- di facile soluzione. Pertanto, anche per tali ordini di ragioni, è convincimento di questo Decidente ritenere non esperibile il procedimento di cui all'art. 185-bis cpc Diversamente, invece, per quanto concerne le petizioni ex art. 96 co.1 e 3 cpc avanzate dalla difesa attrice. Quanto alle prime, visto l'art. 152 disp. att. cpc, va infatti ritenuta esistente l'illegittimità della condotta posta in essere dalla convenuta la quale, oltre alla condotta illecita posta in essere, ha altresì -in modo inequivocabile- resistito in giudizio con colpa grave. Ciò porta questo Decidente nella necessaria condizione di sanzionare, in modo equitativo, la condotta di parte convenuta che, al momento della propria costituzione avrebbe dovuto prescegliere diversa condotta processuale prettamente mirata, concesso lo svincolo, alla definizione di un giudizio protrattosi per complessivi cinque anni. Quanto alle seconde, visti gli artt. 91 e 96 co.3 cpc, è convincimento motivato come in premessa da parte di questo Decidente quello relativo alla assoluta inesistenza del diritto per cui è stato eseguito il vincolo a quo oggetto di controversia e, pertanto, letta la specifica istanza della parte danneggiata, ritiene legittimo pronunciamento di condanna della convenuta al risarcimento dei danni in favore dell'attore che, stante la gravità della condotta, può essere equitativamente determinato per equivalente al vincolo illegittimo medesimo. Di specie, trattandosi di debito di valuta, la somma liquidata in dispositivo -in applicazione del principio nominalistico ex art. 1227 c.c.- andrà soggetta al calcolo degli interessi, nel caso di specie, determinati ex art. 1284 co.4 c.c. dal tempo del suo vincolo -2.8.2017- sino alla data della odierna pronuncia e, da qui in avanti, con applicazione del tasso di interesse in misura legale ex art. 1284 co.1 c.c. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e vanno poste a carico della parte convenuta per quanto accolto tra le ragioni attoree. P.Q.M. Il G.O.P. dott. Pietro Rosso, in funzione di Giudice Unico del Tribunale di Messina, sentiti i procuratori delle parti, disattesa ogni contraria istanza, difesa ed eccezione, definitivamente pronunciando sulla causa civile iscritta al R.G. n. 5051/ 2017, promossa da (...) contro (...) Spa, così provvede: 1) Dichiara la cessata materia del contendere in relazione al capo n.4) della domanda attorea per l'intervenuto svincolo delle somme illegittimamente vincolate; 2) Dichiara l'illegittimità del vincolo generalizzato apposto dalla (...) Spa al conto corrente intestato alla attrice (...) per le ragioni esposte in parte motiva; 3) Dichiara l'illegittimità del vincolo ultroneo apposto dalla (...) Spa alla somma di Euro. 26.855,76 derivante dal bonifico effettuato dal MIUR avente ad oggetto il rimborso delle spese sostenute per la specializzazione professionale dell'attrice in quanto estranee all'ambito del procedimento a quo; 4) Rigetta la domanda risarcitoria proposta poiché parte attrice non ha fornito la prova della fondatezza delle proprie istanze di refusione del danno asseritamente patito; 5) Condanna parte convenuta, alla rifusione delle spese del presente giudizio in favore della attrice che, in ragione della parziale soccombenza si liquidano ai sensi del D.M. 37 dell'08.03.2018 ai medi di tariffa in complessive Euro. 2.738,00 per compensi di avvocato, oltre rimborso forfettario al 15%, IVA e CPA come per legge; 6) Dispone la distrazione delle somme così liquidate in favore del procuratore di parte attrice che ne ha reso l'esplicita dichiarazione di legge; 7) Condanna parte convenuta, per l'illegittimità della condotta tenuta e per la ulteriore sua resistenza nell'odierno giudizio, all'ulteriore risarcimento del danno per responsabilità aggravata, ex art. 96 co.1 cpc, equitativamente determinato in Euro 2.500,00 in favore della parte attrice; 8) Condanna, infine, parte convenuta, ritenendone sussistere la responsabilità aggravata per l'inesistenza assoluta delle ragioni a sostegno del vincolo ultroneo apposto al conto corrente dell'attrice, ex art. 96 co.3 cpc, all'ulteriore risarcimento del danno nella misura -per equivalente al vincolo medesimo- pari ad Euro 26.855,76 (euro ventiseimilaottocentocinquantacinque/76) oltre interessi a decorrere dal 03 agosto 2017 fino all'effettivo soddisfo, secondo i criteri di calcolo indicati in parte motiva. Così deciso in Messina, il 12 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 13 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI MESSINA - Prima sezione civile composto dai Sigg.: dott. Caterina Mangano - Presidente dott. Corrado Bonanzinga - Giudice est. dott. Viviana Cusolito - Giudice riunito in Camera di Consiglio, ha reso la seguente SENTENZA nella causa iscritta al N. 1492 del Registro Generale Contenzioso 2018 TRA (...), nata a (...) (M.) il (...), C.F.: (...), ivi residente in Via N. P. dello (...) n. 1390 Pal. C, elettivamente domiciliata a (...) presso lo studio dell'avv. GU.GI. (C.F.: (...), fax (...), pec (...)), che la rappresenta e difende per procura in atti; PARTE ATTRICE E (...), nato a (...) (M.) il (...), C.F.: (...), residente a (...) (M.) via N. 328, rappresentato e difeso, unitamente e disgiuntamente, dall'avv. An.De. ((...), tel. (...) - fax (...), c.f. (...)) e dall'avv. Ca.Ve. (c.f. (...), pec (...) tel (...)) ed elettivamente domiciliato presso lo studio sito in Messina, Via (...), per mandato in atti; PARTE CONVENUTA avente per OGGETTO: azione di riduzione - divisione di beni caduti in successione IN FATTO E IN DIRITTO Con atto di citazione del 14.03.2018 (...) conveniva in giudizio davanti a questo Tribunale il fratello (...), esponendo che in data 05.10.2013 era deceduta a Messina la madre, (...), senza lasciare testamento. Evidenziava che al momento del decesso l'asse ereditario si componeva solo del denaro depositato in un conto corrente postale, ma in precedenza la defunta aveva effettuato atti dispositivi che avevano avvantaggiato il figlio (...); che in data 24.03.2006 (...) ed il figlio (...) avevano acquistato rispettivamente l'usufrutto e la nuda proprietà di un appartamento, dichiarando un corrispettivo di Euro 29.000,00, ma dall'estratto del conto intestato alla de cuius presso (...) s.p.a. risultava che nei giorni antecedenti la stipula dell'atto pubblico la stessa aveva effettuato in favore del figlio un bonifico di Euro 36.000,00; che in data 29.12.2008 la (...) aveva donato ai figli (...) e L. 1/3 indiviso di due appartamenti siti a (...) in via (...) ed in Viale (...) E.; che in data 16.07.2013 (...) aveva venduto al figlio (...) la nuda proprietà di un immobile sito a (...) via O., riservandosi l'usufrutto, per il corrispettivo di Euro 63.000,00, che sarebbe stato versato mediante assegno bancario non trasferibile mai portato - a suo dire - all'incasso; che in data 22.05.2006 la (...) aveva sottoscritto una polizza assicurativa sulla vita per un importo di Euro 43.000,00, il cui beneficiario in caso di morte era il figlio (...); che il convenuto era stato cointestatario di 7 buoni postali fruttiferi per un importo complessivo di Euro 10.000,00, rimborsati prima del decesso della de cuius; che dal giorno del decesso della de cuius erano stati effettuati cinque prelievi dal conto a lei intestato con la carta bancomat, per un importo complessivo di Euro 2.750,00; che i suddetti atti di disposizione, simulanti delle donazioni, avevano leso i diritti della deducente quale legittimaria. Tutto ciò esposto, chiedeva la riduzione delle disposizioni lesive e la condanna del convenuto alla corresponsione dei frutti, nonché la divisione dei beni ereditari. Il convenuto, costituendosi, contestava la fondatezza delle domande avversarie. In particolare, deduceva che l'attrice aveva abitato - a titolo gratuito - sin dall'anno 1979 e fino all'anno 1994, in un immobile di proprietà della madre; che dall'anno 1979 all'anno 2010, l'attrice aveva goduto gratuitamente nel periodo estivo della casa di Casabianca, di proprietà dei suoi genitori; che il bene donato all'attrice con atto pubblico del 29.12.2008 aveva un valore di molto superiore a quello donato al deducente con il medesimo atto; che con atto del 18.01.2010 la de cuius aveva donato al figlio dell'attrice un immobile, trasferendogli il bene per un corrispettivo di Euro 120.000,00, che non era stato mai corrisposto; che l'atto di vendita del 16.07.2013 non era simulato; che la stessa madre aveva dichiarato di avere aiutato in egual modo entrambi i figli; che egli aveva assistito la madre e pagato le spese funerarie. Chiedeva, pertanto, il rigetto delle domande avversarie e la condanna di controparte per lite temeraria. C. i termini ex art. 186, comma 6, c.p.c. e svolta l'attività istruttoria, all'udienza del 04.11.2020 il Giudice Istruttore invitava i procuratori delle parti a precisare le conclusioni in ordine alle verifiche prodromiche alla richiesta di consulenza tecnica d'ufficio e, in data 03.02.2021, rimetteva la causa al Collegio. Con sentenza non definitiva del 25.05.2021, il Tribunale così provvedeva: 1) dichiarava che (...), con atto del 24.03.2006, aveva donato al figlio (...) la nuda proprietà dell'immobile sito nel Comune di (...) (M.), Via N. n. 330 int. 2; 2) dichiarava che (...) aveva donato a L. e (...) con atto pubblico del 29.12.2008 la quota indivisa pari a 1/3 dei due appartamenti indicati nel suddetto atto; 3) dichiarava la simulazione della vendita stipulata, in data 16.07.2013, con atto in notar G.L., avente per oggetto la nuda proprietà dell'immobile sito in M., via O., n. 42 pal C, in quanto dissimulante una donazione; 4) dichiarava la nullità della suddetta donazione avente per oggetto la nuda proprietà dell'immobile sito in M., via O., n. 42 pal C per mancanza dei requisiti di forma; 5) dichiarava che (...) aveva donato a (...) la somma di Euro 43.000,00, utilizzata per la stipulazione della polizza di investimento (...) plus n. (...); 6) dichiarava che (...) aveva donato la somma di Euro 40.000,00 ai nipoti (...), (...) in data 18.01.2010 e avente ad oggetto l'immobile sito in (...) c/da C.; 7) dichiarava che (...) aveva donato a L. e (...) la somma di Lire 25.000.000 ciascuno; 8) rigettava le altre domande volte all'accertamento di ulteriori donazioni indirette avanzate da entrambe le parti; 9) rimetteva la causa sul ruolo istruttorio come da separata ordinanza; 10) riservava alla sentenza definitiva la decisione sulle spese di lite. Disposta ed espletata C.T.U., all'udienza del 5 ottobre 2022 il Giudice rimetteva la causa al Collegio, con la concessione dei termini di rito per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica. Si deve premettere che, nel caso di pronuncia di una sentenza non definitiva, con prosecuzione del giudizio per l'ulteriore istruzione della controversia, al giudice che ha adottato la pronuncia è precluso il riesame delle questioni già decise, avendo egli, con la precedente sentenza non definitiva, esaurito la sua potestas iudicandi. Ne segue che lo stesso giudice non può risolvere in senso diverso quelle stesse questioni con la sentenza definitiva e la prosecuzione del giudizio non può che riguardare le questioni non coperte dalla prima pronuncia (Cass. civ. Sez. II 22.08.2003 n. 12346; Cass. civ., sez. lavoro, 18.05.1999 n. 4821). Con la presente sentenza, pertanto, occorre pronunciarsi sulla domanda di riduzione avanzata da (...) nei confronti del fratello convenuto ed avente ad oggetto le donazioni disposte in vita dalla madre, nonché sulla richiesta di divisione. Al fine di accertare se l'attrice sia stata lesa, quale legittimaria, nei suoi diritti, occorre determinare, mediante una operazione algebrica disciplinata dall'art. 556 c.c., il valore della massa ereditaria, quello della quota disponibile e quello della quota di legittima, che della massa ereditaria costituiscono una frazione. L'art. 556 c.c. va, poi, coordinato col disposto dell'art. 809 c.c., per cui le liberalità, anche se risultano da atti diversi dal contratto di donazione, sono soggette alle stesse norme sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari, mentre l'azione di riduzione va esclusa solamente con riferimento "alle liberalità previste dal secondo comma dell'articolo 770 e a quelle che a norma dell'articolo 742 non sono soggette a collazione". Dal che si trae che sono soggetti a riduzione tutti i beni di cui sia stato disposto a titolo gratuito, direttamente o indirettamente (art. 737 c.c.), ancorché in modo simulato. Si deve, pertanto, procedere alla formazione della massa dei beni relitti ed alla determinazione del loro valore al momento dell'apertura della successione, alla detrazione dal relictum dei debiti contratti dal defunto da valutare con riferimento alla stessa data, alla riunione fittizia tra attivo netto e donatum, costituito dai beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione in vita dal de cuius (da stimare, nella loro consistenza oggettiva, con riferimento al momento della donazione, e nel loro valore economico sulla base del potere d'acquisto della moneta al momento dell'apertura della successione - art. 747 c.c.), al calcolo della quota indisponibile sulla massa risultante dalla somma del valore del relictum e del valore del donatum ed alla imputazione, infine, delle liberalità fatte al legittimario, salvo che questi ne sia stato espressamente dispensato (art. 564 c.c.) con conseguente diminuzione, in concreto, della quota ad esso spettante (v. Cass. civ., 01.12.1993, n. 11873). Bisogna dunque partire dall'accertamento contenuto nella sentenza citata, considerando tutti gli ulteriori elementi di conoscenza acquisiti a seguito di C.T.U. È emerso documentalmente - né, invero, è stato mai contestato - che dal giorno della morte della de cuius sono stati effettuati alcuni prelievi con la carta Bancomat a quest'ultima intestata presso - tra l'altro - l'ufficio postale di Fiumicino, luogo di residenza del convenuto, per un importo complessivo di Euro 2.750,00. Come già chiarito la somma non ha formato oggetto di donazione, ma essendo stata prelevata post mortem fa sicuramente parte del relictum. Sotto questo profilo, non può invero condividersi la relazione peritale in atti nella parte in cui ha individuato nel minore importo di Euro 1.991,84 il saldo del conto corrente n. (...) giacente presso (...) S.p.A.: il calcolo non tiene conto dell'accredito alla (...) - pochi giorni prima del suo decesso - di una rata di pensione pari a Euro 826,00; accredito che determina il complessivo saldo di Euro 2.817,84. Pertanto, rilevato che i prelievi effettuati in corrispondenza e in data successiva alla morte ammontano a Euro (...).750,00 si ha che quest'ultimo importo entra a far parte dei beni relitti, essendo stato il residuo, pari ad Euro 67,84, prelevato automaticamente da P. a titolo di costi di gestione del conto corrente, nonché di addebito della rate connesse alla polizza assicurativa (v. estratto conto allegato). All'importo di Euro 2.750,00 va poi aggiunto quello di Euro 157.000,00, quale valore dell'appartamento sito nel Comune di M., Via (...) n. 42 - individuato in catasto al foglio (...), particella (...), sub (...) che, in base agli accertamenti della sentenza non definitiva, fa parte del patrimonio ereditario in quanto oggetto di una donazione dissimulata nulla per difetto di forma. Le conclusioni in ordine al valore venale del bene cui è pervenuto il C.T.U. sono fondate su accurate indagini di mercato e, pertanto, pienamente condivisibili. Il valore del relictum è quindi di Euro 159.750,00. Vanno dunque detratti i debiti sorti a causa della morte, quali le spese funerarie e di sepoltura, da valutare con riferimento alla stessa data, che, come documentato dal convenuto (v. all. 3 alla comparsa di costituzione) e non contestato da controparte, sono pari a Euro 3.230,00. Ne consegue che il patrimonio relitto, al netto dei debiti, ammonta complessivamente a Euro 156.520,00. A questo importo occorre, infine, aggiungere il donatum. Esso consiste, in primo luogo, nell'appartamento per civile abitazione, composto da quattro vani catastali, posto al piano primo di un fabbricato a quattro elevazioni fuori terra, sito nel comune di (...) (M.), Via N. n. 330 int. 2 (individuato in catasto al foglio (...), particella (...), sub (...)), che ha formato oggetto di donazione indiretta in favore di (...) e di cui la de cuius si era riservata l'usufrutto. È ius receptum che, siccome il valore dei beni donati in vita dal defunto va determinato con riferimento al momento dell'apertura della successione, per effetto della quale l'usufrutto riservato dal donante (indiretto) si consolida con la nuda proprietà, la donazione va considerata, ai fini di un'eventuale lesione della quota riservata, come donazione in piena proprietà (Cass. civ., 24.07.2008 n. 20387). A tale principio, tuttavia, non pare essersi attenuto il C.T.U. che ha stimato il valore del bene in Euro 29.000,00 sulla base del prezzo di vendita indicato nel contratto stipulato a rogito del notaio A.. Come già accertato dalla sentenza non definitiva, oggetto della donazione indiretta non è stato il denaro ma l'immobile; pertanto, ai sensi degli artt. 556 e 747 c.c., il consulente d'ufficio avrebbe dovuto imputare al donatum il relativo valore "al tempo dell'aperta successione". Vanno dunque accolte le osservazioni del consulente tecnico di parte attrice, perito industriale S.C., nella parte in cui, impiegando il medesimo parametro (i.e. le Quotazioni immobiliari fornite dall'Agenzia del Territorio, con riferimento all'Anno 2013 - (...) semestre 2013) utilizzato dal consulente d'ufficio per la stima di altri cespiti nel periodo in questione (la morte della de cuius - si ricordi - è avvenuta il 05.10.2013), ha rilevato che l'immobile di (...) aveva un valore di Euro 49.054,50. E tale valore va ricompreso nel donatum perché, da un lato, il C.T.P. ha impiegato un parametro già riconosciuto come valido dal C.T.U. per la stima di altri immobili al tempo della morte della (...) e, dall'altro, poiché quest'ultimo non ha compiutamente replicato alle censure di parte, limitandosi a osservare - in maniera, appunto, non condivisibile - che "effettuando la valutazione dell'immobile in (...) con il procedimento adottato dal Per. Ind. S.C. comporta un aumento di valore dello stesso ma detta valutazione non è quella richiesta nel mandato ricevuto dal sottoscritto C.T.U." (v. pag. 4 delle note del 29 marzo 2022). La verosimiglianza di questa stima si coglie del resto anche in base ad altri elementi. Da un canto, infatti, è emerso che, sedici giorni prima della compravendita del bene, (...) ha ricevuto dalla madre un bonifico di Euro 38.500,00 (v. doc. 3 fasc. di parte attrice); dall'altro la stessa de cuius ha dichiarato - in uno scritto agli atti dalla provenienza incontestata - che alla Ditta E. s.n.c. di F.C., venditrice dell'immobile in R., erano stati complessivamente versati Euro 37.400,00 (v. pag. 15 della sentenza non definitiva del 25.05.2021). Ciò consente di ritenere che al tempo della compravendita il valore effettivo dell'immobile non corrispondeva evidentemente al prezzo dichiarato in contratto - Euro 29.000, appunto - e corrobora ulteriormente il criterio - si noti, oggettivo - impiegato dal consulente di parte, giacché è verosimile che a far data dal 2006 il valore effettivo dell'immobile originariamente attestantesi su Euro 37.950,00 (importo risultante dalla media degli esborsi prima indicati) si sia incrementato fino a stabilizzarsi, nell'ottobre 2013 e dopo la nota crisi immobiliare del 2011, sulla somma di Euro 49.054,50. Vanno altresì computati nel donatum: - l'attribuzione fatta e accettata "in conto di legittima e, per l'eventuale eccedenza, sulla disponibile" (doc. 4 fasc. parte attrice, pag. (...)) a entrambi i figli di un indiviso di due appartamenti siti in Messina, l'uno, in via (...) (già via S.T.G.), riportato nel Catasto Fabbricati del Comune di Messina al foglio (...): particella (...) sub. cat. (...) classe (...) vani 5 e, l'altro, in Viale (...), riportato nel Catasto Fabbricati del Comune di Messina al foglio (...) particella: (...) sub (...) Viale (...) piano 3 cat. (...) classe (...) vani 5, caduti in successione agli eredi legittimi a seguito della morte del marito (...), e che i figli, divenuti proprietari in parti uguali, hanno già diviso, del valore di Euro 36.069,00 ciascuno (valore della quota correttamente determinato dal C.T.U. sulla base del potere d'acquisto della moneta al momento dell'apertura della successione); - la somma di Euro 43.000,00 pari al premio dell'assicurazione sulla vita (...) plus n. (...) in favore di (...), che è stato pagato dalla defunta una tantum in data 22.05.2006 e che - in virtù degli artt. 556, 751 e 1923, comma 2, c.c. - va computato secondo il valore nominale; - l'importo di Euro 25.822,84 quale somma derivante dalla donazione in data 01.01.1979 di Lire 25.000.000 a ciascuno dei figli; importo convertito, secondo il valore legale della specie di moneta sostituita al tempo di apertura della successione, in Euro 12.911,42 e moltiplicato per due. Sotto questo profilo - si noti - non può condividersi la stima del C.T.U. che, da un lato, si è limitato a considerare la donazione di Lire 25.000.000 una sola volta, mentre la pronuncia non definitiva ha accertato che entrambi i figli risultavano donatari della medesima somma e, dall'altro, ha operato la rivalutazione della somma alla data di apertura della successione in violazione dell'art. 751 c.c. che impone di applicare il principio nominalistico. - la somma di Euro 40.000,00 (e non già quella di Euro 43.240,00 determinata dal C.T.U. sulla base del potere d'acquisto della moneta al momento dell'apertura della successione, giacché, ai sensi dell'art. 751 c.c., va anche in questo caso applicato il principio nominalistico) ai nipoti (...), (...) in data 18.01.2010 avente ad oggetto l'immobile sito in (...) c/da C.. Su quest'ultimo punto non possono accogliersi i rilievi formulati dal consulente tecnico di parte convenuta, che ha chiesto "di considerare, in riferimento all'atto di vendita dell'appartamento di Casabianca, non tanto la somma di Euro.43.240,00 pari ai buoni a favore dei nipoti, ma quanto la somma di Euro 80.000,00 (rivalutata ad 86.480,00 Euro.) riscossa effettivamente dalla vendita dell'appartamento stesso". Infatti, nella riunione fittizia necessaria per verificare una eventuale violazione della quota riservata vanno computate le donazioni fatte dal de cuius e non già il corrispettivo della vendita dei beni. Nel caso di specie, inoltre, la sentenza non definitiva del 25.05.2021 ha accertato, da un lato, che (...) ha rinunciato alla quota di corrispettivo a lei destinata, così beneficando la parte acquirente e smentendo quindi la considerazione del C.T.P.; dall'altro, ha chiarito come il convenuto abbia ricevuto - sempre a titolo di prezzo - l'importo di Euro 40.000,00. Ne consegue che non vi è alcuna somma diversa dai Euro 40.000,00, attribuiti dalla de cuius ai nipoti con spirito di liberalità, da imputare al donatum. Il valore complessivo del donatum ammonta, pertanto, a Euro 230.015,34. La massa risultante dalla somma del valore del relictum e del donatum è allora pari a Euro (156.520,00 + 230.015,34=) 386.535,34. Applicato l'art. 537 c.c., la quota di riserva spettante a (...) è pari a 1/3, vale a dire Euro 128.845,11. Procedendo, quindi, alla imputazione delle liberalità fatte alla legittimaria, ai sensi dell'art. 564 c.c., risulta che (...) ha ricevuto complessivamente la somma di Euro 48.980,42 e che, pertanto, ella ha diritto a ottenere nella qualità di riservataria la residua somma di Euro 79.864,69. Vanno quindi respinti i rilievi formulati sul punto dal consulente tecnico di parte convenuta che ha chiesto di considerare nel calcolo della quota di riserva la metà del valore dell'appartamento di M., via O., n. 42 sul presupposto che "tale immobile risulterebbe ancora in comproprietà fra le parti, indiviso al 50% ciascuno" (v. osservazioni dell'ing. (...)): l'appartamento, infatti, fa parte dell'asse ereditario relitto, né si può imputare a titolo di liberalità un bene che - per le valutazioni già espresse in sentenza non definitiva - a rigore non è mai uscito dal patrimonio della de cuius. Tutto ciò premesso, per affermare l'esistenza di una lesione occorre comunque verificare se i beni oggetto della successione ab intestato siano sufficienti a soddisfare la quota di riserva come sopra determinata. In linea generale va osservato che, nel caso in cui operi la successione ab intestato, la legge stabilisce l'ordine di riduzione delle disposizioni lesive della legittima, stabilendo all'art. 553 c.c. che, anzitutto, si procede alla riduzione delle quote legali ab intestato (norma pacificamente applicabile anche nel caso in cui tutti i successori sono legittimari, come chiarito da Cass. civ., 06.03.1980, n. 1521 recentemente richiamata, in parte motiva, da Cass. civ., 25.09.2017, n. 22325). Naturalmente la lesione in questo caso può derivare da precedenti donazioni effettuate dal de cuius, per effetto delle norme di legge che regolano la successione ab intestato, poiché la quota riservata ai legittimari, pur essendo minore di quella attribuita agli stessi come eredi legittimi, si calcola non sul solo relictum, ma sull'intera massa composta da relictum e da donatum. Va, però, sottolineato che tale riduzione si realizza ope legis senza l'intervento del Giudice, in quanto è lo stesso legislatore che stabilisce una compressione delle quote di legittima per evitare il verificarsi della lesione mentre è necessario esperire l'azione di riduzione ove tale meccanismo di automatica riduzione non sia sufficiente ad eliminare la lesione. Nel caso di specie, i beni sui quali si è aperta la successione ab intestato hanno un valore sufficiente ad impedire la configurabilità di una lesione tale da imporre una riduzione delle donazioni effettuate in favore di (...). Come a più riprese indicato, oltre alla somma di Euro 2.750,00 depositata sul conto della de cuius, è caduto in successione legittima anche l'appartamento sito in M., Via (...) n. 42, individuato in catasto al foglio (...), particella (...) sub (...) che, alla data di apertura della successione, aveva un valore condivisibilmente stimato dal C.T.U. in Euro 157.000. Siccome l'intangibilità della quota di legittima va intesa in senso quantitativo e non anche qualitativo (essendo al legittimario riservata una quota del valore netto dell'asse e non già l'assegnazione di beni specifici: cfr., ex multis, Cass. civ., n. 13310/2002; Cass. civ., n. 2617/2005), è evidente che per soddisfare le pretese della riservataria è sufficiente assegnarle, ai sensi dell'art. 566 c.c., la metà dell'asse ereditario relitto, pari a Euro 79.875. La domanda di riduzione va pertanto respinta. Deve quindi dichiararsi aperta la successione legittima di A. (...) nata a (...) il 18.04.1934 e ivi deceduta il 05.10.2013 e, infine, procedersi allo scioglimento della comunione ereditaria, come pure domandato da parte attrice nell'atto introduttivo del giudizio. Si deve premettere che il giudizio divisorio, sebbene abbia natura unitaria, si compone essenzialmente di due fasi, espressamente disciplinate dal legislatore: la prima, contemplata dall'art. 785 c.p.c., tesa alla verifica del fondamento del diritto a conseguire la divisione; la seconda, regolata dall'art. 789 c.p.c., volta all'attuazione di tale diritto. Entrambe le fasi sono strutturate su di un'alternativa che rappresenta il profilo di specialità del giudizio di divisione rispetto al processo di cognizione generale: se non sorgono contestazioni il giudice istruttore dispone con ordinanza; se sono sollevate contestazioni la causa è rimessa in decisione e il giudice si pronuncia mediante sentenza. A queste due fasi necessarie se ne possono, poi, aggiungere altre meramente eventuali, benché caratteristiche del processo divisorio (vendita di beni mobili o immobili, estrazione a sorte dei lotti etc.). Al fine di accertare il fondamento del diritto alla divisione, la prima questione da risolvere è la corretta determinazione dei beni oggetto di comunione. Risolto questo problema, occorre esaminare il quo modo della divisione. Orbene, con riferimento all'individuazione dei beni da dividere, è pacifico che al momento del decesso (...) era titolare dell'importo di Euro 2.750,00 depositato in un conto corrente a lei intestato, nonché dell'appartamento sito nel Comune di (...), Via (...) n. 42 in catasto al foglio (...), particella (...), sub (...) facente parte del patrimonio ereditario in virtù della dichiarazione di nullità della donazione dissimulata per difetto di forma pronunciata con la sentenza non definitiva. Nondimeno, in forza dell'istituto della collazione vanno conferiti alla massa ereditaria i beni dei quali la de cuius ha disposto con donazioni in favore degli stessi coeredi, non risultando che questi ultimi siano stati dispensati dalla collazione. Infatti, ai sensi dell'art. 737 c.c. "i figli legittimi e naturali e i loro discendenti legittimi e naturali ed il coniuge che concorrono alla successione devono conferire ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione direttamente o indirettamente, salvo che il defunto non li abbia da ciò dispensati". La collazione ereditaria costituisce, invero, uno strumento giuridico volto alla formazione della massa ereditaria da dividere al fine di assicurare, nei reciproci rapporti tra i condividenti equilibrio e parità di trattamento, in guisa da non alterare il rapporto di valore tra le rispettive quote, da determinarsi in relazione alla misura del diritto di ciascun condividente, sulla base della sommatoria del relictum (nel suo complesso e, di conseguenza, a prescindere dalle diverse quote che potrebbero spettare alle parti in virtù del meccanismo sopra indicato previsto dall'art. 553 c.c.) e del donatum al momento dell'apertura della successione. L'obbligo della collazione dei beni ricevuti per donazione diretta o indiretta sorge automaticamente a seguito dell'apertura della successione, salva l'espressa dispensa da parte del de cuius e sempre nei limiti della sua validità, con la conseguenza che i beni donati devono essere conferiti anche in mancanza di una specifica domanda in tal senso da parte dei condividenti, essendo sufficiente la domanda di divisione e la menzione in essa di determinati beni, indicati come oggetto di pregressa donazione diretta o indiretta e quali facenti parte dell'asse ereditario da ricostruire, a sollecitare che il preliminare accertamento da parte del giudice della consistenza dell'asse abbia luogo con riferimento anche ai detti beni (Cass. civ., sez. II, 18.07.2005, n. 15131; Cass. civ., sez. II, 19.11.2004, n. 21895). La collazione nel giudizio di divisione ereditaria ha, pertanto, per oggetto la ricomposizione, in modo reale, dell'asse ereditario e la legge prevede due modi di conferimento del bene: in natura e per imputazione. La collazione in natura consiste nella restituzione del diritto all'asse ereditario, mentre quella per imputazione si differenzia dalla prima per il fatto che i beni già oggetto di donazione rimangono di proprietà del medesimo condividente, sulla base del valore che il bene aveva al momento dell'apertura della successione, e consta di due operazioni, vale a dire l'addebito del valore dei beni donati a carico della quota dell'erede donatario, con eventuale corresponsione in denaro agli altri coeredi dell'eccedenza, ed il contemporaneo prelevamento di una corrispondente quantità di beni da parte degli eredi non donatari (Cass. civ. 28.06.1976 n. 2453) secondo il meccanismo previsto dall'art. 725 c.c. (Cass. 17022/2017) avendo cura di effettuare i prelevamenti, per quanto possibile, con oggetti della stessa natura e qualità di quelli non conferiti in natura (Cass. 27410/2005), mentre solo nella ipotesi in cui la donazione superi il valore complessivo della quota ereditaria del donatario, la collazione potrà attuarsi imputando alla quota del donatario il valore. Va osservato che, ai sensi dell'art. 750 c.c., la collazione dei mobili si fa soltanto per imputazione, mentre la collazione di immobili, ai sensi dell'art. 746 c.c., si fa in natura o per imputazione a scelta di chi conferisce. In ogni caso, va osservato che la forma tipica di conferimento anche per gli immobili è quella per imputazione, in quanto si ritiene comunemente che l'atto di scelta del conferimento in natura si configuri come un negozio unilaterale recettizio che, avendo efficacia traslativa, deve rivestire la forma scritta, con la conseguenza che, ove il donatario non eserciti tale scelta con le forme prescritte la collazione anche di immobili non può che essere effettuata per imputazione. Nella fattispecie in esame si deve, allora, concludere nel senso che tutte le donazioni effettuate dalla de cuius ai figli, eredi ab intestato, devono essere conferite per imputazione, giacché nessuna delle parti ha chiesto di effettuare il conferimento in natura degli immobili ricevuti, e che non può formare oggetto di collazione la donazione di Euro 40.000,00 ai nipoti (...), (...) (M.), Via N. n. 330 int. 2, riservandosene l'usufrutto. Pertanto, esso va valutato con riferimento al valore della piena proprietà, poiché, come sottolineato dalla giurisprudenza di legittimità, "la collazione per imputazione dell'immobile donato in nuda proprietà con riserva di usufrutto va effettuata con riferimento al valore corrispondente alla piena proprietà come acquisita dal donatario all'epoca di apertura della successione, sia perché solo in tale momento si può stabilire il valore dell'intera massa da dividere ed attuare lo scopo della collazione di ricomposizione in modo reale dell'asse ereditario, sia perché l'acquisizione della piena proprietà del bene in capo al donatario alla morte del donante (ovvero al tempo di apertura della successione, come individuato dall'art. 456 cod. civ.) è, comunque, effetto riconducibile al suddetto atto di donazione" (Cass. civ. 16.12.2010 n. 25473). Ciò premesso e considerato il valore attribuito dal C.T.U. ai beni donati anche alla luce delle precedenti considerazioni, si deve concludere che (...) deve conferire alla massa la somma di Euro (36.069,00 + 12.911,42 =) 48.980,42 e (...) deve conferire la somma di Euro (49.054,50 + 36.069 + 12.911,42 + 43.000 =) 141.034,92. Rilevato, poi, che il valore dei beni relitti al momento di apertura della successione era di Euro 159.750, si può concludere che l'asse ereditario di (...) aveva il valore di Euro 349.765,34 e che, conseguentemente, la quota di ciascun figlio (pari a metà in base alle regole della successione ab intestato ai sensi dell'art. 566 c.c.) aveva il valore di Euro 174.882,67. È possibile dunque osservare come (...) ha diritto a ricevere ancora beni per un valore di Euro 125.902,25, mentre (...) deve ricevere beni per un valore di Euro 33.847,75. Ora, il principio basilare in materia di divisione di beni comuni è quello stabilito dall'art. 1114 c.c., il quale prevede che la divisione ha luogo "in natura, in parti corrispondenti alle rispettive quote"; tale principio è richiamato, poi, con specifico riferimento alla divisione della comunione ereditaria, dall'art. 718 c.c., che afferma il "diritto dei beni in natura", vale a dire il diritto di ciascun comproprietario di richiedere la sua parte dei beni comuni in natura. Sennonché, nella specie, mentre per il denaro relitto non si pone alcun problema di divisibilità, sono necessarie due precisazione in ordine all'immobile sito nel Comune di M., via O., n. 42. La prima precisazione prende le mosse dall'art. 726, comma 1, c.c. secondo cui la divisione va effettuata avuto riguardo al valore venale del bene (v., e.g., per tutte, Cass. civ., 10.11.1980, n. 6035: "la stima dei beni per la formazione delle quote nella divisione, a norma dell'art. 726 cod. civ., deve farsi con riferimento al loro stato e valore venale al tempo della divisione stessa. La scelta del criterio tecnico da adottare per determinare il valore dei beni che formano oggetto della divisione rientra nel potere esclusivo del giudice del merito, salvo il limite di una motivazione adeguata e scevra da vizi logici"). Orbene, nel caso di specie, non pare necessario rivalutare alla data odierna la stima di Euro 157.000 già compiuta dal C.T.U. con riferimento al tempo di apertura della successione. Ciò per due ordini di ragioni: la prima è che la stasi del mercato immobiliare insieme alla grave crisi economica attraversata dall'Italia nel periodo compreso tra l'apertura della successione e il momento attuale inducono ad escludere l'intervento di un'apprezzabile variazione di valore tale da comportare un qualche adeguamento; la seconda riposa sulla considerazione che nessuna delle parti ha dedotto un diverso stato delle cose oppure ha allegato un'asserita lievitazione (o, viceversa, diminuzione) del prezzo di mercato dei beni intervenute successivamente alla stima presa a base per le operazioni divisionali. La seconda precisazione poggia sul rilievo per cui "dal confronto tra la planimetria catastale datata 02.01.2006 (all.to n. 7) e quella dello stato di fatto (all.to n. 5) risulta eliminato l'angolo cottura e chiuso con struttura metallica e vetri una porzione del balcone ove è stata realizzata la cucina" quindi, in buona sostanza, sull'irregolarità urbanistica e la non conformità catastale oggettiva riscontrate dal C.T.U. (v. pagg. 16 e 19 della relazione peritale). Quanto alla irregolarità urbanistica, è noto che gli artt. 17 e 40 della L. n. 47 del 1985 (ed oggi l'art. 46 D.P.R. n. 380 del 2001) prevedono una fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell'immobile. Essa va ricondotta nell'ambito del comma 3 dell'art. 1418 cod. civ., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità "testuale". Le Sezioni Unite, con la recente sentenza 07.10.2019 n. 25021, hanno affermato il principio di diritto che tale nullità colpisce anche le divisioni ereditarie, posto che l'atto di scioglimento della comunione ereditaria va assimilato, quanto alla natura e ai suoi effetti, all'atto di scioglimento della comunione ordinaria, e che è, pertanto, inibito al giudice disporre lo scioglimento di una comunione ereditaria in violazione delle suddette norme, in quanto, in caso contrario, sarebbe oltremodo agevole per i condividenti, mediante il ricorso al giudice, l'elusione della norma imperativa in questione (Cass., Sez. 2, n. 15133 del 28/11/2001; Cass., Sez. 2, n. 630 del 17/01/2003), sicché la regolarità edilizia del fabbricato in comunione, come costituisce presupposto giuridico della divisione convenzionale, parimenti costituisce presupposto giuridico della divisione giudiziale, sotto il profilo della "possibilità giuridica". Trattasi di una nullità che costituisce la sanzione per la violazione di norme imperative in materia urbanistico-ambientale, dettate a tutela dell'interesse generale all'ordinato assetto del territorio (cfr. Cass., Sez. 1, n. 13969 del 24/06/2011); ciò spiega perché tale nullità sia rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio (cfr. Cass. Sez. Un., n. 23825 del 11/11/2009; Cass., Sez. 2, n. 6684 del 07/03/2019). La nullità, tuttavia, non è impedita dalla dichiarazione di un titolo abilitativo inesistente; mentre la mancata dichiarazione del titolo abilitativo esistente può essere emendata - ex art. 46, comma 4, del D.P.R. n. 380 del 2001 e 40, comma 3, della L. n. 47 del 1985 - con atto successivo che contenga la dichiarazione prescritta. Invero, le Sezioni Unite, in altra pronuncia di poco anteriore (la n. 8230 del 22/03/2019), superando un precedente contrasto interpretativo, hanno chiarito la portata di tale nullità, evidenziando che, in presenza nell'atto della dichiarazione dell'alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all'immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato. In particolare, hanno evidenziato che - vista l'inutilità ai fini della validità negoziale della distinzione tra abusi di "lieve entità" e abusi "essenziali" (come definiti dall'art. 32 della legge) - la nullità può operare nella sola ipotesi in cui siano stati fatti degli interventi edilizi senza il necessario titolo abilitativo, mentre la finalità di contrasto al fenomeno dell'abusivismo, nel caso di difformità, potrà essere realizzata non attraverso la nullità dell'atto, ma con la sanzione della demolizione, che l'art. 31 commi 2 e 3 D.P.R. n. 380 del 2001 prevede in caso di interventi edilizi eseguiti in difformità dal permesso di costruire ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'art. 32. Nondimeno, va osservato - e il rilievo è essenziale ai fini della vicenda in esame - che la Suprema Corte ha, in più casi, affermato che occorre distinguere l'ipotesi di immobili eseguiti in difformità parziale rispetto alla concessione edilizia, che si verifica quando la modifica concerne parti non essenziali del progetto, nel qual caso la nullità non sussisterebbe, dall'ipotesi di immobili in difformità totale rispetto alla concessione edilizia, che si verifica quando è stato realizzato un edificio radicalmente diverso per caratteristiche tipologiche e volumetriche, nel qual caso l'opera sarebbe da equiparare a quella costruita in assenza di concessione (Cass. civ. 27.11.2018 n. 30703). Ebbene, dalla lettura del contratto avente ad oggetto l'immobile emerge che "la parte venditrice, da me (notaio) edotta sulle responsabilità cui andrà incontro in caso di dichiarazioni mendaci, ai sensi del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, dichiara che per la costruzionedell'immobile oggetto del presente atto è stata rilasciata dal Comune di Rometta concessione edilizia n. 24/01 del 16 marzo 2004, successiva variante depositata l'1 novembre 2004". Alla luce delle superiori considerazioni, è quindi evidente che l'eliminazione dell'angolo cottura e la chiusura di una porzione del balcone con struttura metallica e vetri ivi riscontrate dal C.T.U. non sono idonee a inficiare la regolarità urbanistica dell'immobile; pertanto, vista l'esistenza del titolo edilizio, esse non danno luogo a una costruzione nuova e non possono considerarsi stricto sensu abusive ai fini della nullità in esame. È, tuttavia, innegabile che lo stato di fatto dell'immobile non è quello indicato nelle planimetrie depositate in Catasto. Sul punto occorre tenere presente l'art. 19, comma 14, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, che ha modificato il testo dell'articolo 29 della L. 27 febbraio 1985, n. 52, aggiungendo, dopo il comma 1, il comma 1 bis, del seguente testuale tenore: "gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti, ad esclusione dei diritti reali di garanzia, devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre all'identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale. La predetta dichiarazione può essere sostituita da un'attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale. Prima della stipula dei predetti atti il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari". Deve pertanto ritenersi che anche la "conformità catastale oggettiva" rappresenti, al pari della "conformità edilizia ed urbanistica", una condizione dell'azione (Cass. civ. 29.09.2020 n. 20526), che deve sussistere al momento della decisione (cfr. SSUU n. 23825/09; da ultimo, Cass. 16068/19). Allo stesso modo, la Suprema Corte, con la sentenza n. 12654/20, ha chiarito che il disposto comma 1 bis dell'articolo 29 della L. 27 febbraio 1985, n. 52, aggiunto dall'articolo 19, comma 14, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, con la L. 30 luglio 2010, n. 122 trova applicazione anche in ordine al trasferimento giudiziale della proprietà degli immobili con sentenza. Pertanto, rilevato che ciascun condividente ha diritto a domandare la divisione (art. 713 c.c.) e a conseguire i presupposti che permettono di sciogliere la comunione ereditaria, occorre rimettere la causa sul ruolo istruttorio e invitare le parti a sanare detta difformità, nonché a procedere alla dichiarazione della conformità allo stato di fatto delle planimetrie catastali (dichiarazione che dovrà essere resa da uno dei proprietari o da un tecnico abilitato), riservando alla sentenza definitiva ogni ulteriore statuizione anche in ordine alle comoda divisibilità del cespite, alla ripartizione dei debiti ereditari, nonché sulle spese di lite. P.Q.M. Il Tribunale in composizione collegiale, non definitivamente pronunciando nella causa promossa da (...) nei confronti di (...), con atto di citazione notificato il 14.03.2018, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e difesa, così provvede: 1) dichiara aperta la successione legittima di (...), nata a (...) il (...) e ivi deceduta il 05.10.2013; 2) rigetta la domanda di riduzione avanzata da (...) nei confronti del fratello (...); 3) rimette la causa sul ruolo istruttorio come da separata ordinanza; 4) riserva alla sentenza definitiva la decisione sulle spese di lite. Così deciso in Messina il 12 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 13 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Messina, Prima Sezione Civile, composto dai Sigg.ri Magistrati: 1) dott.ssa Caterina Mangano - Presidente 2) dott. Corrado Bonanzinga - Giudice, 3) dott.ssa Viviana Cusolito - Giudice est., ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 2547/2022 R.G., posta in decisione, con rinunzia ai termini di cui all'art. 190 c.p.c., all'udienza di precisazione delle conclusioni del 21.12.2022 e promossa da (...), c.fisc. (...), elettivamente domiciliata presso lo studio dell'avv. CR.FA. che la rappresenta e difende giusta procura in atti RICORRENTE CONTRO (...), c.fisc. (...), RESISTENTE e con l'intervento del PM presso il Tribunale di Messina OGGETTO: Interdizione. FATTO E DIRITTO Con ricorso depositato in data 26.5.2022 (...) chiedeva che venisse dichiarata la interdizione del fratello (...) esponendo che lo stesso risultava affetto da schizofrenia ed aveva subito, per questo, nel tempo vari TSO di cui l'ultimo il 20 Maggio 2022. Aggiungeva che l'interdicendo, ormai da anni, viveva in uno stato di isolamento non seguendo le cure prescritte e disertando gli incontri terapeutici presso Centro Salute Mentale (CSM) di (...) dell'A. 5, ove era in cura. Per questi motivi, lo stesso risultava incapace di provvedere ai propri interessi, come dimostravano i fatti analiticamente indicati in ricorso. Concludeva, pertanto, chiedendo che fosse dichiarata la interdizione del resistente ed emesso, nel corso del giudizio, provvedimento urgente di sua nomina quale tutore provvisorio al fine di assumere le iniziative necessarie per garantire la salute e la incolumità del fratello e per provvedere alle sue esigenze economiche. Con decreto del 14.6.2022, veniva disposta la integrazione del contraddittorio, ed, attese le condizioni del (...), veniva disposta in via di urgenza la nomina della ricorrente quale amministratore di urgenza del fratello. Nonostante la regolarità della notifica il resistente non si costituiva. Alla udienza del 23.11.2022 si procedeva alla audizione della ricorrente la quale comunicava che il fratello, in atto ricoverato presso una Star, non intendeva partecipare alla udienza. Veniva, pertanto, fissata ulteriore udienza, che si svolgeva in data 21.12.2022 con modalità telematiche: in detta udienza si procedeva alla audizione del resistente, collegato dalla struttura. In esito alla audizione, parte ricorrente chiedeva che non si procedesse alla interdizione del resistente bensì alla conferma della nomina di ads ed il PM, presente anch'esso in collegamento, aderiva alle conclusioni di parte ricorrente. Ritiene il Collegio che, alla luce della documentazione sanitaria depositata in atti e dell'esito della audizione, possa disporsi conformemente alle richieste di parte ricorrente. Invero, come è noto, a seguito della introduzione della figura della amministrazione di sostegno, le misure della interdizione e della inabilitazione hanno assunto carattere assolutamente residuale. Inoltre, come affermato anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 440/2005, il criterio per applicare l'interdizione o la misura di protezione prevista dalla nuova normativa non è rappresentato dalla gravità o dalla natura della infermità (patologia) psichica: l'art. 404 c.c. prevede, infatti, la nomina dell'amministratore di sostegno a favore di "persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi", il che significa che l'impossibilità di provvedere ai propri interessi può essere anche totale e definitiva. Ancora, l'interdizione può essere applicata solo se necessaria ad assicurare un'adeguata protezione della persona: il giudizio di adeguatezza implica pertanto una relazione tra misura di protezione e interessi da tutelare e bisogni da soddisfare. Nel caso di specie, deve ritenersi che la misura già disposta in via di urgenza sia perfettamente in grado di soddisfare le esigenze, personali e patrimoniali, del (...), come dimostrano i positivi risultati di detta misura già verificatasi dalla emissione del decreto di nomina. Pertanto, alla luce della nuova disciplina delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia, un'adeguata tutela del convenuto può essere realizzata applicando l'amministrazione di sostegno (cfr. l'art. 418, 3 comma, c.c.). La riduzione dell'autonomia del convenuto, invero, può dunque essere adeguatamente fronteggiata dall'amministrazione di sostegno. L'art. 6 della 1. 9 gennaio 2004, n. 6 ha aggiunto quale ultimo comma dell'art. 418 c.c. la seguente disposizione: "se nel corso del giudizio di interdizione o di inabilitazione appare opportuno applicare l'amministrazione di sostegno, il giudice, d'ufficio o ad istanza di parte, dispone la trasmissione del procedimento al giudice tutelare. In tal caso il giudice competente per l'interdizione o per l'inabilitazione può adottare i provvedimenti urgenti di cui al quarto comma dell'articolo 405". Tale norma è stata interpretata nel senso che se, da un lato, l'espressione "trasmissione del procedimento al giudice tutelare" deve intendersi come trasmissione degli atti ai fini dell'attivazione del procedimento per la nomina di amministratore di sostegno (cfr. l'art. 429, 3 comma, c.c.), dall'altro, il procedimento di interdizione di norma va definito con sentenza ( in tal senso Trib. Bologna, 8 marzo 2005, n. 649 e n. 651; Trib. Bologna, 11 luglio 2005, n. 1833; Corte cost., 9 dicembre 2005, n. 440). Come rilevato dal Tribunale di Bologna, "Nell'attuale quadro normativo sono astrattamente ipotizzabili tre esiti del giudizio d'interdizione o d'inabilitazione: a) accoglimento dell'istanza (sia pure in via residuale); b) rigetto dell'istanza puro e semplice; c) rigetto dell'istanza con trasmissione degli atti al giudice tutelare per l'applicazione dell'amministrazione di sostegno. Aderendo a detto orientamento , questo Collegio ritiene di respingere l'istanza di interdizione, con trasmissione di copia degli atti al giudice tutelare. Tuttavia, appare opportuno sin d'ora confermare l'amministratore provvisorio nella persona della ricorrente ferma restando ogni altra ulteriore valutazione del giudice tutelare. I poteri dell'amministratore vengono individuati come previsto nel decreto del 14.6.2022. Le spese del giudizio, atteso il tenore della decisione e, di fatto, la assenza di contestazione, possono essere interamente compensate. P.Q.M. Il Tribunale di Messina, Prima Sezione Civile, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta dal (...) con ricorso depositato in data 26.5.2022 nei confronti di (...), disattesa ogni contraria domanda, eccezione e difesa, così provvede: 1) rigetta la richiesta di interdizione di (...); 2) conferma la nomina in via provvisoria amministratore di sostegno del (...) già disposta con decreto del 14.6.2022; 3) compensa interamente le spese del giudizio; Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 423 c.c. Così deciso in Messina il 2 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 3 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Messina, Prima Sezione Civile, composta dai Sigg.ri Magistrati: 1) dott. Caterina Mangano - Presidente, 2) dott. Corrado Bonanzinga - Giudice, 3) dott. Viviana Cusolito - Giudice rel., ha pronunciato la seguente: SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 1781/2022 R.G., posta in decisione all'udienza di precisazione delle conclusioni del 14/12/2022 e vertente TRA (...), c.fisc. (...), elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv. MO.SE. che lo rappresenta e difende giusta procura in atti RICORRENTE CONTRO PUBBLICO MINISTERO PRESSO IL TRIBUNALE DI MESSINA, c.fisc. (...), OGGETTO: Mutamento di sesso e rettifica degli atti dello Stato Civile. IN FATTO ED IN DIRITTO Con atto di citazione depositato in data 11/04/2022 (...) esponeva che, pur presentando caratteristiche anatomiche maschili, sin dalla prima infanzia e negli anni successivi, aveva sempre sentito di appartenere al genere femminile. Deduceva che, a causa di forti disagi sfociati in bulimia, egli era stato preso in cura dal dott. (...), il quale, ravvisata una disforia di genere, gli aveva consigliato di intraprendere un percorso con un endocrinologo e, in esito allo stesso, aveva intrapreso la terapia ormonale come confermato dalle certificazioni provenienti dal Policlinico di Messina. Esponeva che egli si presentava in società come donna e, per questi motivi, chiedeva che fosse disposta la rettifica degli atti dello Stato Civile, con la assunzione de nome (...) e pronunziata autorizzazione per procedere all'intervento chirurgico. Alla udienza del 14.12.2022, alla presenza del PM, si procedeva alla audizione di parte ricorrente. Tutto ciò premesso la domanda avanzata dal Conti è fondata e deve essere accolta. La sentenza della Suprema Corte n. 15138/2015 - preceduta da alcune decisione di merito innovative, fra le quali la prima emessa da questo Tribunale - ha affermato che "alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata, e conforme alla giurisprudenza della CEDU, dell'art. 1 della L. n. 164 del 1982, nonché del successivo art. 3 della medesima legge, attualmente confluito nell'art. 31, comma 4, del D.Lgs. n. 150 del 2011, per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile deve ritenersi non obbligatorio l'intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari. Invero, l'acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale sia oggetto, ove necessario, di accertamento tecnico in sede giudiziale". Precisa in particolare la Suprema Corte che "La scoperta dell'identità di genere costituisce un percorso che, grazie al minor stigma sociale, prende spesso avvio già in età preadolescenziale e si compone di terapie ormonali, di chirurgia estetica, sostegno psicoterapeutico. Lo stesso dell'identità di genere non è più menzionato nel DSM V (il manuale statistico diagnostico delle malattie mentali) ma si fa soltanto riferimento alla "disforia di genere". Allo stato attuale si possono individuare tre componenti dell'identità di genere : il corpo, l'auto percezione e il ruolo sociale. L'apparenza fisica non può essere slegata dall'autopercezione e dalla relazione che si sviluppa con la società e con le sue norme comportamentali concernenti la sfera della sessualità in un'interazione costante tra cervello, corpo, esperienza. "... La chirurgia in tale prospettiva non è la soluzione ma solo un eventuale ausilio per il benessere della persona. Se si perde di vista questa prospettiva socioculturale da cui emerge la domanda di giustizia non si può procedere ad una corretta interpretazione delle norme ...". Afferma, ancora, la Corte che "L'espressione identità di genere è da poco entrata nel nostro ordinamento attraverso la Direttiva 2011/95/UE che ha previsto nel trentesimo considerando "l'identità di genere" tra gli aspetti connessi al sesso del richiedente che possono essere motivi di persecuzione. Ha, pertanto, assunto il rilievo di una caratteristica peculiare dell'individuo attinente all'espressione dell'identità personale ..." e che "Negli ultimi venti anni si è avuto un progressivo sviluppo della scienza medica e degli approdi della psicologia e della psichiatria parallelo alla crescita di una cultura, largamente condivisa a livello europeo, come evidenziato anche nell'ampia motivazione della sentenza della Corte Edu sopra richiamata, della cultura dei diritti delle persone, particolarmente sensibile alle libertà individuali e relazionali che compongono la vita privata e familiare. Tale movimento ha influenzato l'emersione ed il riconoscimento dei diritti delle persone transessuali, alle quali è stato possibile, diversamente che in passato, poter scegliere il percorso medico-psicologico più coerente con il personale processo di mutamento dell'identità di genere. Il momento conclusivo di tale percorso è individuale e certamente non standardizzabile attenendo alla sfera più esclusiva personalità. Deve, tuttavia, evidenziarsi; che il punto d'arrivo ovvero il desiderio di realizzare la coincidenza tra soma e psiche è, anche in mancanza dell'intervento di demolizione chirurgica, il risultato di un'elaborazione sofferta e personale della propria identità di genere realizzata con il sostegno di trattamenti medici e psicologici corrispondenti ai diversi profili di personalità e di condizione individuale. Il momento conclusivo non può che essere profondamente influenzato dalle caratteristiche individuali. Non può in conclusione che essere il frutto di un processo di autodeterminazione verso l'obiettivo del mutamento di sesso, realizzato mediante i trattamenti medici e psicologici necessari, ancorché da sottoporsi a rigoroso controllo giudiziale. La complessità del percorso, in quanto sostenuto da una pluralità di presidi medici (terapie ormonali trattamenti estetici) e psicologici mette ulteriormente in luce l'appartenenza del diritto in questione al nucleo costitutivo dello sviluppo della personalità individuale e sociale, in modo da consentire un adeguato bilanciamento con l'interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche che costituisce il limite coerentemente indicato dal nostro ordinamento al suo riconoscimento. L'individuazione del corretto punto di equilibrio tra le due sfere di diritti in conflitto oltre che su un criterio di preminenza e di sovraordinazione, può essere ancorata al principio di proporzionalità. Tale parametro, elaborato dalla giurisprudenza della CEDU al fine di stabilire il limite dell'ingerenza dello Stato all'esplicazione del diritto alla vita privata e familiare (art. 8 CEDU, cfr. per una recente applicazione del principio, la sentenza del 25 settembre 2012 (...) contro Italia in tema di diritto all'accesso alle informazioni sulle proprie origini al figlio adottivo non riconosciuto) si fonda sulla comparazione tra il complesso dei diritti della persona e l'interesse pubblico da preservare mediante la compressione o la limitazione di essi. In particolare si richiede la valutazione della necessità del sacrificio di tali diritti al fine di realizzare l'obiettivo della certezza della distinzione tra i generi e delle relazioni giuridico-sociali. Il canone della proporzionalità può, di conseguenza, costituire un utile indicatore ermeneutico nella scelta dell'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata degli artt. 1 e 3 della L. n. 164 del 1982 ..." Infine, precisa la Corte , in ordine al diritto al mutamento dei dati anagrafici "Deve precisarsi, tuttavia che il riconoscimento giudiziale del diritto al mutamento di sesso non può che essere preceduto da un accertamento rigoroso del completamento di tale percorso individuale da compiere attraverso la documentazione dei trattamenti medici e psicoterapeutici eseguiti dal richiedente, se necessario integrati da indagini tecniche officiose volte ad attestare l'irreversibilità personale della scelta". Nel caso di specie, dalla documentazione acquisita nonché dalla audizione di parte ricorrente, può affermarsi che il Conti ha effettuato tale percorso, avendo ormai compiuto irreversibilmente una scelta, conseguente ad un lungo e profondo percorso psicologico, oltre che alla terapia ormonale assunta già da diversi anni. Tutto ciò premesso ritiene il Tribunale che il Conti abbia compiuto in maniera completa il percorso individuale al quale fa riferimento la Suprema Corte nella sentenza citata. Ciò consente di affermare che la scelta dello stesso sia ormai irreversibile e che ciò giustifichi - anche in assenza dell'intervento chirurgico, rispetto al quale parte ricorrente ha comunque chiesto la necessaria autorizzazione - la rettificazione degli atti dello Stato Civile e degli ulteriori documenti anagrafici, al fine di realizzare la piena corrispondenza tra la realtà anagrafica e quella psicosessuale. La domanda può essere accolta anche in relazione alla chiesta assunzione del nome (...), nome con il quale il ricorrente viene riconosciuto in società. Può, infine, essere accolta la domanda di autorizzazione a sottoporsi all'intervento di rettifica del sesso, sulla scorta della documentazione medica prodotta in atti e proveniente da struttura pubblica. Nulla sulle spese in assenza di contradditori. P.Q.M. 1) autorizza ex L. n. 164 del 1982 (...) a sottoporsi ad intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali; 2) Ordina all'ufficiale di Stato Civile del Comune di Messina di effettuare la rettificazione nel relativo registro, dell'atto concernente (...), nato a M. (M.) in data (...) (atto del Comune di Messina n. 1361/1/A), con assunzione del nome (...) in luogo di (...) e degli ulteriori documenti anagrafici; 3) nulla sulle spese. Così deciso in Messina il 2 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 3 gennaio 2023.

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