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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE ORDINARIO DI NOVARA - SEZIONE CIVILE - in composizione monocratica e nella persona della dott.ssa Gabriella Citro ha pronunziato la seguente SENTENZA nella controversia civile iscritta al n. 611 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell'anno 2019, vertente TRA (...), C.F. (...), e (...)O, C.F. (...), rappresentati e difesi dall'avv. (...), presso il cui studio sono elettivamente domiciliati in Milano, Via (...), giusta procura in atti ATTORI E CONDOMINIO (...) in Bogogno (NO) (C.F. (...)) CONVENUTO CONTUMACE Oggetto: impugnazione delibera assembleare Conclusioni: come da verbale in atti RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con atto di citazione ritualmente notificato, (...) e (...)o convenivano in giudizio il Condominio di (...) proponendo impugnazione avverso la delibera condominiale adottata in data 10.11.2018, chiedendo di dichiararne l'annullamento/nullità, relativamente ai punti n. 1, 2 e 3 dell'ordine del giorno, per violazione dell'art. 1137 c.c. A fondamento della domanda deducevano: - l'omessa indicazione del quorum deliberativo relativamente ai punti n. 2 e 3 dell'o.d.g., non essendo specificata l'approvazione all'unanimità o a maggioranza e mancando l'individuazione nominativa dei condomini favorevoli, dissenzienti e astenuti e i valori delle rispettive quote millesimali; - la mancata allegazione delle deleghe di voto al verbale, necessaria per controllare la regolarità del procedimento collegiale; - la mancanza del quorum deliberativo previsto dalla legge per la nomina dell'amministratore, dovendo la relativa delibera essere approvata con la maggioranza stabilita dal secondo comma dell'art. 1136 c.c. e dunque con almeno 500 millesimi, nonché l'omessa allegazione del preventivo relativo al compenso; - l'omesso invio ai condomini dei piani di riparto dei bilanci approvati, in violazione anche dell'art. 8 del regolamento condominiale. Non si costituiva il condominio convenuto e, pertanto, alla prima udienza del 18.6.2019, ne veniva dichiarata la contumacia. Rigettata l'istanza di sospensione della delibera assembleare per assenza del periculum in mora, su richiesta di parte attrice la causa veniva rinviata per la precisazione delle conclusioni. Dopo una serie di rinvii dovuti all'emergenza sanitaria da Covid-19 e ai carichi di ruolo, all'udienza del 13.12.2022, la causa veniva riservata in decisione con l'assegnazione dei termini ordinari ex art. 190 c.p.c. per lo scambio degli scritti conclusionali. La domanda attorea è parzialmente fondata e va accolta nei limiti e per i motivi di seguito esposti. Occorre brevemente rammentare che in tema di condominio degli edifici, l'azione di annullamento delle delibere assembleari costituisce la regola generale, ai sensi dell'art. 1137 c.c., come modificato dall'art. 15 della l. n. 220 del 2012, mentre la categoria della nullità ha un'estensione residuale ed è rinvenibile nelle seguenti ipotesi: - mancanza originaria degli elementi costitutivi essenziali; -impossibilità dell'oggetto in senso materiale o giuridico (quest'ultima da valutarsi in relazione al "difetto assoluto di attribuzioni"); - contenuto illecito, ossia contrario a "norme imperative" o all'"ordine pubblico" o al "buon costume". In particolare, nel caso di specie vengono in discussione ipotesi di annullabilità della delibera, secondo il principio sancito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, "devono qualificarsi nulle le delibere prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o sevizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all'oggetto. Debbono, invece, qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme che richiedono qualificate maggioranze in relazione all'oggetto" (Cass. SS.UU. 7 marzo 2005 n. 4806). Ciò posto, preliminarmente deve ritenersi priva di conseguenze, in punto di validità della delibera, l'indicazione nel verbale dei presenti nel numero di 14 (quattordici), trattandosi mero refuso agevolmente superabile dall'analisi complessiva dell'atto, ove risultano singolarmente indicati 15 condomini presenti, personalmente o per delega, con le rispettive quote millesimali, la cui somma porta al totale indicato nel verbale, pari a complessivi millesimi 443,98. Tanto premesso, deve accogliersi la domanda di annullamento della delibera con riferimento ai punti nn. 2 e 3 - relativi rispettivamente alla nomina amministratore e suo compenso e all'approvazione del bilancio preventivo 2018/2019 e suo riparto - in quanto risulta del tutto assente l'indicazione del quorum deliberativo, necessaria al fine di consentire il controllo di validità della deliberazione. Ed infatti, al punto 2 dell'ordine del giorno si legge unicamente: "Viene riconfermato lo Studio (...) sas nella persona del geom. (...) per la gestione ordinaria 2018/2019 con il seguente compenso (...)". Al punto n. 3 dell'ordine del giorno si legge: "Viene approvato il preventivo gestione ordinaria 2018/2019 per un totale di Euro 49.600,00 unitamente alla tabella di ripartizione degli acconti con le seguenti rate: 1° Rata al 15/09/2018; 2° Rata al 15/03/2019". Dall'esame del verbale non è dato comprendere, dunque, se le suddette deliberazioni siano state assunte all'unanimità o con una delle maggioranze richieste dall'art. 1136 c.c.. Al riguardo appare opportuno evidenziare che, secondo quanto statuito dalla Suprema Corte, "Il verbale dell'assemblea condominiale rappresenta la descrizione di quanto è avvenuto in una determinata riunione e da esso devono risultare tutte le condizioni di validità della deliberazione, senza incertezze o dubbi, non essendo consentito fare ricorso a presunzioni per colmarne le lacune. Il verbale deve pertanto contenere l'elenco nominativo dei partecipanti intervenuti di persona o per delega, indicando i nomi dei condomini assenzienti e di quelli dissenzienti, con i rispettivi valori millesimali, perché tale individuazione è indispensabile per la verifica della esistenza dei quorum prescritti dall'articolo 1136 c.c." (cfr. Cass. Sez. II n.24132 del 13 novembre 2009). La mancata verbalizzazione del numero dei condomini votanti a favore o contro la delibera approvata, oltre che dei millesimi da ciascuno di essi rappresentati, invalida la delibera stessa, impedendo il controllo sulla sussistenza di una delle maggioranze richieste dall'art. 1136 c.c.. (cfr. Cassazione civile sez. II, 10/08/2009, n.18192, che aggiunge altresì: "In tema di delibere di assemblee condominiali, non è annullabile la delibera il cui verbale, ancorché non riporti l'indicazione nominativa dei condomini che hanno votato a favore, tuttavia contenga, tra l'altro, l'elenco di tutti i condomini presenti, personalmente o per delega, con i relativi millesimi, e nel contempo rechi l'indicazione, nominatim, dei condomini che si sono astenuti e che hanno votato contro e del valore complessivo delle rispettive quote millesimali, perché tali dati consentono di stabilire con sicurezza, per differenza, quanti e quali condomini hanno espresso voto favorevole, nonché di verificare che la deliberazione assunta abbia superato il quorum richiesto dall'art. 1136 c.c."). Ne discende che non è conforme alla disciplina normativa omettere di riprodurre nel verbale l'indicazione nominativa dei singoli condomini favorevoli e contrari e le loro quote di partecipazione al condominio, limitandosi a prendere atto del risultato della votazione (es. "l'assemblea, a maggioranza, ha deliberato") (cfr. sul punto, tra le altre, Tribunale Roma sez. V, 22/09/2020, n.12692; Tribunale Genova sez. III, 11/02/2014, n.514; Tribunale Verona, 22/06/2004). Nel caso di specie, pertanto, la mancata verbalizzazione espressa dell'approvazione "all'unanimità" (presente, invece, con riferimento alla delibera di cui al punto n. 1) - o, in caso di approvazione a maggioranza, dell'indicazione nominativa dei singoli condomini favorevoli e contrari e delle loro quote di partecipazione al condominio - rende del tutto incerto il raggiungimento del quorum deliberativo richiesto dalla legge. Le deliberazioni di cui ai nn. 2 e 3 dell'ordine del giorno devono, pertanto, essere annullate. L'accoglimento di tale motivo di impugnazione rende superfluo, per il principio della decisione secondo la ragione più liquida, l'esame delle ulteriori doglianze relative alla delibera di nomina dell'amministratore, pur dovendosi evidenziare che la stessa appare ulteriormente viziata dal mancato rispetto della maggioranza richiesta dal secondo comma dell'art. 1136 c.c.. Deve, invece, essere rigettata l'impugnazione della delibera di cui al punto n. 1 dell'ordine del giorno, avente ad oggetto l'approvazione del rendiconto consuntivo della gestione 2017/18. Nel verbale si legge: "Dopo breve esame, l'assemblea all'unanimità approva il consuntivo gestione ordinaria 2017/2018 per un totale di Euro 46.501,40 unitamente alla tabella delle ripartizioni con un saldo di Euro 7.713,05 a debito". Parte attrice lamenta di non aver mai ricevuto, né prima dell'assemblea né successivamente, alcun piano di riparto dei bilanci approvati, sostenendo altresì che gli stessi avrebbero dovuto essere inseriti per esteso nel contesto della deliberazione, ovvero indicati espressamente nella deliberazione come allegati della stessa. Occorre evidenziare come risulti invece tardiva l'allegazione, contenuta solo nella comparsa conclusionale, relativa all'omesso invio "né con l'avviso di convocazione dell'assemblea, né, soprattutto, con il verbale di assemblea" di "copia del rendiconto di gestione e del preventivo di gestione". Ritiene il Tribunale di condividere l'orientamento giurisprudenziale secondo cui "In tema di condominio, la validità dell'approvazione, da parte dell'assemblea dei condomini, del rendiconto di un determinato esercizio e del bilancio preventivo dell'esercizio successivo, nonché dei relativi riparti, non postula che la predetta contabilità sia stata redatta dall'amministratore in osservanza di forme rigorose, analoghe a quelle prescritte per i bilanci delle società, essendo, a tal fine, sufficiente che essa sia idonea a rendere intellegibili ai condomini medesimi le voci di entrata e di spesa, con le quote di ripartizione. Né è richiesto che queste voci siano trascritte nel verbale assembleare ovvero siano oggetto di analitico dibattito ed esame, alla stregua della documentazione giustificativa, in quanto rientra nei poteri di quell'organo deliberativo la facoltà di procedere sinteticamente all'approvazione stessa, prestando fede ai dati forniti dall'amministratori" (Cassazione civile sez. II, 27/12/2022, n.37820). Nel caso di specie, dalla lettura del verbale risulta che "la tabella delle ripartizioni" sia stata sottoposta all'assemblea, la quale, "dopo breve esame", ha approvato all'unanimità il consuntivo di gestione unitamente alla tabella delle ripartizioni. Si ritiene sufficiente, ai fini della validità della delibera, che l'organo amministrativo abbia assicurato l'esame dello stato di riparto sottoponendolo all'assemblea per la relativa approvazione, mentre è da escludere che le voci di entrata e di spesa, con le relative ripartizioni, debbano essere trascritte nel verbale o necessariamente allegate allo stesso. I singoli condomini, poi, hanno facoltà in ogni tempo di prenderne visione, unitamente a tutti i documenti giustificativi di spesa e, dall'altro lato, l'amministratore ha l'obbligo di ostensione a seguito della specifica richiesta dell'interessato. La giurisprudenza, del resto, ha chiarito che spetta al condomino, che si duole della violazione degli obblighi informativi a carico dell'organo di gestione, fornire la prova di non essere stato posto in condizione di esercitare la facoltà riconosciutagli dalla legge (Cass. n. 1544/2004). Nel caso in esame, non risulta che gli attori (assenti in assemblea) abbiano formulato, prima o dopo l'assemblea, richiesta di prendere visione dello stato di riparto a corredo del bilancio condominiale. Né appare fondata la doglianza relativa alla violazione dell'art. 8 del regolamento condominiale, posto che lo stesso pone in capo all'amministratore esclusivamente l'obbligo di sottoporre lo stato di riparto all'assemblea alla fine di ogni esercizio - obbligo che nella fattispecie in esame risulta adempiuto - mentre non si rinviene alcun riferimento alla necessità che lo stato di riparto sia trascritto per esteso nel (o allegato al) verbale. Da ultimo, parte attrice ha dedotto l'illegittimità della delibera in quanto le deleghe non sarebbero state allegate al verbale assembleare. Al riguardo va osservato che l'amministratore ha l'obbligo di notificare ai condomini assenti all'assemblea la delibera adottata e non anche le deleghe dei condomini rappresentati, comunque indicate nel preambolo della stessa delibera, nella parte in cui si procede al calcolo dei presenti, ove sono stati indicati i rappresentati per delega con accanto i nominativi dei singoli delegati. Come sopra evidenziato, la legge n.220/2012 sancisce espressamente il diritto del singolo condomino di prendere visione e avere copia dei documenti condominiali, cui è speculare l'obbligo per l'amministratore, previo appuntamento, di esibire in visione ed anche fornire tali documenti al condomino interessato e che ne abbia fatto espressa richiesta. (art. 1129, 1130 bis e seg. c.c.). Anche sotto tale profilo, non risulta che gli attori (condomini assenti in assemblea e ai quali pertanto è stata notificata la delibera assembleare adottata) abbiano chiesto all'amministratore di prendere visione delle deleghe dei rappresentati. In senso contrario depone, anzi, la genericità della doglianza per come proposta nel presente giudizio, avendo parte attrice omesso di precisare se, quali e quante deleghe fossero inesistenti o invalide. A ciò si aggiunga che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, "solo il condomino delegante è legittimato a far valere gli eventuali vizi della delega e non gli altri condomini estranei a tale rapporto" (Cass. n. 3952 del 1994; n. 8116 del 1999). Difatti, "i rapporti tra il rappresentato ed il rappresentante intervenuto in assemblea sono disciplinati dalle regole del mandato (...) Ne consegue che a contestare la regolarità del voto del delegato, o la presunta firma falsa, può essere solo chi ha conferito la delega, sulla base del verbale nel quale, per legge, deve essere indicato nell'elenco dei presenti anche il condomino delegante. Quindi solo l'interessato avrebbe la possibilità di disconoscere l'operato del delegato, qualora avesse apposto una firma falsa. Nessun altro, invece, può contestare il voto al suo posto" (Tribunale di Milano, sentenza n.2669 del 2017; nei medesimi termini cfr. Tribunale Napoli sez. IV, 29/06/2017, n.7535; Tribunale Napoli sez. IV, 23/05/2018, n.5136; Tribunale Catania sez. III, 16/05/2017, n.2291; Tribunale Reggio Calabria sez. II, 22/11/2021, n.1482). In definitiva, la delibera del 10.11.2018 deve essere annullata con riguardo al punto 2) e al punto 3) dell'ordine del giorno. L'accoglimento parziale della domanda per le ragioni esposte giustifica la compensazione, nella misura di 1/3, delle spese di lite, che seguono, per i restanti 2/3, la soccombenza del convenuto. Esse si liquidano come da dispositivo, in applicazione dei parametri dettati dal D.M. 147/2022, concretamente rapportati alla natura e alla complessità delle questioni trattate, nonché all'attività processuale e difensiva effettivamente svolta, con esclusione della fase istruttoria in quanto non espletata. P.Q.M. Il Tribunale di Novara, sezione civile, definitivamente pronunciando sulla domanda, così provvede: a) in parziale accoglimento della domanda attorea, annulla la delibera impugnata del 10.11.2018 limitatamente alle determinazioni assunte al punto 2) e al punto 3); b) compensa nella misura di 1/3 le spese di lite e condanna il convenuto condominio al rimborso, in favore di (...) e (...)o, dei restanti 2/3, che, in tale ridotta misura, liquida in Euro 365,00 per spese ed Euro 2.700,00 per compensi, oltre spese generali al 15%, IVA e CPA come per legge. Così deciso in Novara, in data 1 luglio 2023 Depositata in Cancelleria il 3 luglio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO di NOVARA Prima CIVILE Il Tribunale, nella persona del Giudice Onorarlo, dr.ssa Monica Bellini, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 529/2019 promossa da: (...) (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. (...) ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Novara, corso (...), giusta delega in atti; attrice-opponente contro (...) S.R.L. (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. (...) ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Varedo, (...), giusta delega in atti Convenuta-opposta Avente ad oggetto: opposizione a decreto ingiuntivo- appalto-; Conclusioni di parte attrice opponente: L'Avv.to (...) quale procuratore di (...), richiamate in toto tutte le difese già precedentemente svolte, così precisa le proprie conclusioni Voglia l'Ill.mo Tribunale adito, contrariis rejectis. In via principale e nel merito e salvo gravame revocare e dichiarare privo di ogni effetto giuridico il decreto ingiuntivo n. 21/2019, emesso dal Tribunale di Novara, per i motivi di cui in narrativa; In via di subordine accertare e determinare l'eventuale entità dei compensi ancora spettanti alla ditta (...) S.r.l. a seguito degli importi ingiunti, anche ai sensi dell'art. 1667 ultimo comma, per i seguenti motivi esposti in narrativa, con riferimento alle prestazioni eseguite sia effettivamente che a regola d'arte, al netto dei difetti e dei vizi emendandi; In via istruttoria Si chiede nuovamente l'esibizione dell'originale del documento prodotto da controparte "dichiarazione fine lavori" (cfr. doc. 4 controparte), ribadendo le osservazioni di cui all'atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo ed il disconoscimento di firma. Si chiede l'ammissione di interrogatorio formale e per testi sui seguenti capitoli di prova: 1) "Vero che i preventivi non furono mai sottoscritti dal Sig. (...) poiché difformi gli uni dagli altri e riportanti cifre completamente differenti, rispetto al preventivo concordato verbalmente nel novembre 2016"; 3) "Vero che le doglianze sui serramenti furono fatte ripetutamente perché risultavano montati infissi con misure sbagliate e con altri vizi"; 4) "Vero che la porta d'ingresso montata si bloccò svariate volte e fu necessario l'intervento dei montatori per sbloccarla"; 5) "Vero che, nel tentativo di porre rimedio al blocco della porta fu sostituita anche la serratura"; 6) "Vero che a causa delle misure sbagliate, prese dalla Ditta (...) S.r.l, vi fu l'impossibilità di montaggio della quarta finestra e della portafinestra"; 7) "Vero che gli interventi fatti dalla Ditta (...) S.r.l. per tentare di ovviare ai gravi vizi vennero fatti dopo parecchie settimane dalle richieste del Sig. (...)"; 8) "Vero che la fattura dei lavori eseguiti mai fu consegnata al Sig. (...) ma fu inviata dall'Avv. (...) solo in data 8/11/2018 all'Avv. (...), su sua specifica richiesta". Si indicano a testi: - Sig.ra (...), Via (...), 11 San Maurizio D'Opaglio; - Sig. (...), (...), 11 San Maurizio D'Opaglio; - Sig.ra (...) San Maurizio D'Opaglio; - (...) S.r.l., in persona del legale rappresentante, Via (...), 39 - Borgomanero; Conclusioni di parte convenuta opposta: Il procuratore di (...) s.r.l. precisa come in appresso le relative c o n c l u s i o n i Voglia il Tribunale adito, ogni contraria istanza ed eccezione respinta: respingere l'opposizione perché infondata in fatto e diritto confermando il decreto ingiuntivo n. 21/19 condannando in ogni caso il Sig. (...) al pagamento della somma di Euro 5.175,02 per i titoli di cui è causa. Il tutto con interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo; in ogni caso: con vittoria di spese, competenze ed onorario del presente giudizio. Fatto e motivi della decisione (...) proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 21/2019 emesso dal Tribunale di Novara con il quale veniva ingiunto il pagamento della somma di euro 5.175,02 a favore di (...) srl per la fornitura e posa di serramenti da quest'ultima effettuata. A fondamento della svolta opposizione l'attore deduceva di non aver mai ricevuto la fattura per la quale la ditta (...) S.r.l. aveva richiesto il decreto ingiuntivo; di non aver mai sottoscritto alcun preventivo e che la fattura in oggetto non corrispondeva a nessuno dei preventivi proposti. In particolare lo stesso assumeva che in data 17.11.2016 la ditta (...) S.r.l., dopo essere stata contattata dal Sig. (...) per eseguire la posa di serramenti, forniva un preventivo per la posa di n. 4 finestre, n. 1porta-finestra, n. 1 porta di ingresso. Tuttavia, solamente in data 04.05.2018, venivano installate n. 3 finestre e n. 1 porta, non conformi alle richieste, con evidenti vizi e difetti. Furono segnalati, tramite mail, al responsabile della (...) S.r.l. le difformità riscontrate tra il preventivo ricevuto il 17.11.2016 ed i successivi preventivi inviati in data 14.05.2018, con sostanziale differenza di costi. Infine, l'opponente lamentava che la posa dei serramenti era stata completata solo nel mese di luglio 2018, pur persistendo le problematiche più volte evidenziate, alla ditta anche verbalmente, tant'è che nei mesi successivi furono fatti diversi interventi per rimediare ai vizi e difetti, senza completa messa a regola d'arte. Su tali presupposti l'attore concludeva per la revoca del decreto e, gradatamente, per la rideterminazione del quantum ancora spettante all'ingiungente. Si costituiva la (...) s.r.l., la quale contestava in fatto e in diritto la svolta opposizione. La stessa sottolineava che i fatti costitutivi della domanda attorea, tale da intendersi il diritto di credito azionato con l'ingiunzione, trovavano pieno suffragio già nelle stesse allegazioni di controparte, laddove a pag. 2 rigo 6 di citazione affermava che" ...la posa dei serramenti e' stata completata .. nel mese di luglio 2018..."e che tutto il resto dell'avverso scritto appariva come un affastellato coacervo di affermazioni prive del benché minimo riscontro e non solo documentale. Incomprensibile appariva, inoltre, l'invocato presunto preventivo addirittura risalente al 2016, di cui peraltro non vi era traccia, riconducendo in esso gli elementi qualificanti il rapporto in questione così come quale fosse la ratio dell'avversa doglianza circa una presunta incongruenza tra i serramenti indicati in quel inesistente documento e quelli oggetto di fornitura. L'unico documento che aveva posto le basi del contratto interpartes era quello del 13/02/18 in cui venivano dettagliati i manufatti che controparte ammetteva essere stati posati, riportati poi nella fattura azionata, inoltrato all'opponente, che lo aveva condiviso con la mail pari data, avendo peraltro corrisposto a fronte di esso l'acconto di Euro 2.217,86. L'opposta evidenziava poi come le lagnanze avverse in ordine ai paventati vizi non potessero assurgere al rango di eccezioni giacché non era dato evincere quali manufatti ne fossero interessati e la loro consistenza. In ogni caso la Sig.ra (...) (sempre in luogo del (...)) aveva confinato le proprie censure solo ed esclusivamente sul presunto malfunzionamento del portoncino di ingresso; da ciò conseguiva che ogni eventuale pregressa lagnanza fosse stata nel frattempo tacitata. Prova ne era la dichiarazione di fine lavori a regola d'arte intervenuta all'epilogo della posa e sottoscritta dai posatori e da chi, per parte committente, era presente in tale contesto. Parte opposta concludeva, quindi, come in premessa. Orbene così ripercorsi i termini della questione deve rilevarsi che l'opposizione peraltro generica, al limite (non superato) della nullità, si palesa infondata. Infatti, il teste (...), rappresentante libero professionista che aveva rapporti di lavoro con la società convenuta, dichiarava che, "ad inizio marzo 2018 il Sig. (...) chiedeva all'opposta la formulazione di un preventivo afferente la fornitura e posa, presso la propria abitazione, in fase di ristrutturazione, di serramenti in PVC con rinforzo in acciaio zincato e vetrocamera anche se non ricordava le misure". Lo stesso affermava che "era lui ad aver fatto le misurazioni ma che successivamente gli alloggiamenti erano stati modificati perché l'impresa aveva apportato delle modifiche alle aperture senza avvisarli; un'apertura era stata poi modificata perché la signora (...) la voleva con l'apertura a sinistra piuttosto che a destra. Le modifiche erano state effettuate dopo che lui aveva preso le misure". Più precisamente solo " in occasione della posa si appurava che gli alloggiamenti di una finestra e della porta finestra erano stati nel frattempo modificati, risultando inferiori rispetto alle misure comunicate dal (...) per i manufatti all'uopo destinati; in quel contesto il committente o meglio la sig.ra (...) con la quale aveva sempre avuto a che fare, chiedeva a "(...)" la fornitura di manufatti sostitutivi nelle misure adeguate e, dato il tempo occorrente per la relativa realizzazione, il montaggio di una finestra e di una portafinestra provvisorie, di fatto installate il 18/05/18". A sua volta il teste (...), dipendente della società convenuta con mansioni di posatore, affermava che "pur non essendo presente al momento della richiesta avanzata dal (...) in ordine al preventivo in ogni caso le finestre posate erano quelle riportate in capitolo anche se non ricordava le misure; dato corso all'ordire, la posa iniziava nel maggio 2019, venendo contestualmente consegnata al (...) anche la fattura accompagnatoria n. 103/2018; in occasione della posa si appurava che gli alloggiamenti di una finestra e della porta finestra erano stati nel frattempo modificati, risultando inferiori rispetto alle misure comunicate per i manufatti all'uopo destinati; la finestra e la porta finestra venivano montate provvisoriamente in attesa della sistemazione; in quel contesto il committente chiedeva a "(...)" la fornitura di manufatti sostitutivi nelle misure adeguate e, dato il tempo occorrente per la relativa realizzazione, il montaggio di una finestra e di una portafinestra provvisorie. Il 24/07/2018, dopo due mesi dall'ordine della porta e finestra nelle nuove misure, queste ultime venivano posate nei relativi alloggiamenti, venendo in quell'occasione anche sostituita la maniglia della porta con altra uguale a quelle delle preesistenti e lasciati smontati i coprifili, su indicazione del committente, da installarsi poi dall'elettricista al termine delle sue lavorazioni". Di segno conforme risultano essere le dichiarazioni rese dal teste (...), dipendente della società opposta con mansioni di posatore. Quindi, alla luce delle risultanze istruttorie, deve concludersi che, in applicazione delle regole sulla distribuzione dell'onere probatorio in materia di adempimento contrattuale (artt.2967 c.c. e 1453 c.c.) l'attore sostanziale abbia assolto l'onere probatorio che gli incombeva. Invero l'attore ha provato l'esistenza del titolo (contratto di appalto per il quale non è prescritta la forma scritta, né ad substantiam né ad probationem; v. sul punto ex multis Cass. n.4911-1983), poiché esso è stato esplicitamente ammesso dalla controparte, nonché del corrispettivo nella misura allegata. Proprio su quest'ultimo punto deve evidenziarsi che l'opponente ha invocato alla base del rapporto contrattuale in oggetto un pregresso preventivo stilato nel 2016 rilevando la difformità riscontrate tra il preventivo ricevuto il 17.11.2016 ed i successivi preventivi inviati in data 14.05.2018, con sostanziale differenza di costi. A sua volta la convenuta opposta ha, di contro, allegato che l'unico documento che ha posto le basi del contratto inter partes e' quello inoltrato il 13/02/18 all'opponente. Ora nella fattispecie deve rammentarsi che vige il principio secondo cui è consentito alle parti di prescindere da un accordo, esplicito e puntuale, in merito al corrispettivo, senza che da questo ne derivi la nullità integrale del contratto (art. 1657 c.c.; cfr. sul punto Cass. n.17386.2004); il dettato normativo assegna al pactum consensus una ovvia priorità (art. 1657 c.c.) nella gerarchia delle "fonti" deputate a regolamentare l'entità del compenso dell'appaltatore, ed in mancanza di esso sancisce la gradata possibilità di ricorrere alle "tariffe esistenti o usi", o in via ulteriormente subordinata al potere equitativo. Inoltre, sotto il profilo processuale, a ciascuna delle parti (committente ed appaltatore privato) incombe l'onere di provare quanto rispettivamente dedotto (nel caso in cui entrambe alleghino di aver pattuito un corrispettivo); invece incombe all'appaltatore di dare dimostrazione della congruità del prezzo richiesto (per la particolare natura dell'opera prestata), allorché sia pacifico che le parti non abbiano convenuto alcunché, ovvero non si dia dimostrazione di un accordo sul corrispettivo (preventivo o successivo). Quindi, a ciascuna delle parti incombeva di provare che fosse stata raggiunta un'intesa sulla misura del corrispettivo, essendo incontestata la conclusione di un contratto. Detto ciò l'opponente (qualora si legga l'eccezione nel senso di un intervenuto accordo su altri prezzi atteso l'invocato precedente preventivo) non solo non ha fornito siffatta (puntuale) dimostrazione ma, ancor prima, neppure fornito idonea allegazione atteso che del prospettato preventivo agli atti non vi è traccia (né sul punto potrà soccombere il documento sub 3) di parte attrice in quanto documento di provenienza dell'opponente medesima). Di contro, la convenuta opposta ha dimostrato il proprio assunto come risulta dal documento inoltrato il 13/02118 all'opponente, da quest'ultimo condiviso con la email pari data (doc. 1 DI), avendo peraltro corrisposto a fronte di esso l'acconto di Euro2.217,86 (doc. 7)". Infatti, in data 13.02.2018 la società convenuta inviava preventivo identificato con la dicitura "Offerta 58710/OPAGLIO". In risposta, alle ore 10,32 dello stesso giorno, la sig. Alessandra (...) ed il sig. (...) inviavano mail avente ad oggetto "offerta OPAGLIO - 58710", pertanto proprio il preventivo invocato da parte convenuta, affermando di aver controllato il preventivo e precisando quanto segue:".......l'anticipo sarà del 30%, chiediamo che faccia il possibile di consegnare entro 40 gg. dal bonifico. Per il bonifico cosa facciamo?.. Dobbiamo aspettare la fattura di anticipo o possiamo farlo." Sempre in data 13.02.2018 alle ore 18.03 il sig., (...) comunicava gli estremi del soggetto al quale doveva essere intestata la fattura, l'aliquota iva da applicarsi e gli estremi della pratica edilizia e successivamente corrispondeva l'acconto richiesto dimostrando così di accettare così il preventivo in oggetto. Risulta altresì essere circostanza pacifica che la posa dei manufatti è stata completata nel luglio 2018 (cfr. atto di citazione in opposizione: ...la posa dei serramenti e' stata completata .. nel mese di luglio 2018..."). Pertanto il credito vantato dall'opposta all'esito dell'istruttoria risulta comprovato nei suoi fatti costitutivi. Diversamente si deve invece argomentare in ordine agli asserti e non meglio precisati vizi e difetti lamentati dall'opponente. Invero dal tenore degli atti risulta che quest'ultimo abbia limitato le doglianze avanzate ad "un blocco" del portoncino. In merito i testi indotti da parte convenuta hanno affermato che "nella prima settimana di agosto la madre del (...), chiamato per sollecitare il saldo dei lavori, chiedeva un intervento di "CP" per verificare il sistema di apertura del portoncino; nell'agosto 2018 due montatori incaricati dall'opposta si sono recati nell'abitazione del (...) 3 volte appurando che il portoncino si apriva e chiudeva senza rimanere bloccato ; in occasione dell'ultimo accesso, sollecitato telefonicamente dal (...) che, chiamato nuovamente per il saldo, lamentava il bloccaggio della serratura del portoncino, , non riscontrandosi il difetto denunciato, essa veniva sostituita e recapitata alla ditta produttrice, la quale comunicava poi all'opposta il suo perfetto funzionamento tant'è che tale serratura veniva utilizzata su altro portoncino". I testi indotti da parte convenuta hanno, invece, confermato che ancora al momento della loro escussine ("tuttora") "il portoncino si bloccava e la porta non si apriva". Tale assunto è stato però categoricamente smentito dalle risultanze della CTU. Infatti il CTU officiato ha accertato che il vizio del blocco della serratura non è presente. Non potrà, invece, tenersi conto dell'ulteriore valutazione effettuata dal CTU atteso che il quesito era espressamente circoscritto al blocco della serratura non essendo emersi ma ancor prima non essendo stati dall'opponente puntualmente allegati eventuali ulteriori vizi. Ad abundantiam deve aggiungersi che la firma apposta alla dichiarazione di fine lavori a dire della stessa convenuta sia stata apposta non dall'opponente bensì dalla di lui madre con il ché non si capisce come il sig. (...) possa disconoscere la firma altrui, cioè di altra persona fisica, di cui non è né erede, né avente causa (agli effetti dell'art. 214 c.p.c.). Non ha poi trovato conforto neppure il prospettato ritardo nella posa dei serramenti atteso, da un lato, che non vi è prova che sia stato concordato tra le parti un termine essenziale per la consegna e posa dei serramenti e, dall'altro, risulta provato che l'eventuale dilatazione dei tempi per il completamento della fornitura e posa dei serramenti era stata determinata dall'omessa comunicazione delle variazioni di alcuni degli alloggiamenti effettuate in un momento successivo rispetto ai rilevamenti/misurazioni ad opera del rappresentante della società convenuta (sul punto si richiamano le dichiarazioni rese dal teste (...)). Quindi, tirando le fila, l'opposizione andrà rigettata e il decreto ingiuntivo confermato. In relazione alle istanze istruttorie riproposte in sede di precisazione delle conclusioni si richiama l'ordinanza 13.12.2019 che si conferma integralmente. Deve infine essere disatteso l'istanza avente ad oggetto l'ordine di esibizione in quanto superflua ai fini della decisione. Le spese di lite in applicazione del principio della soccombenza andranno poste a carico di parte attrice opponente così come le spese di CTU come liquidate in atti (tenuto conto della doppia attività in relazione alla fase decisionale). Parimenti le spese sostenute da parte convenuta per il consulente tecnico di parte (sul punto "le spese della consulenza di parte la quale ha natura di allegazione difensiva vanno ricomprese fra le spese processuali al cui rimborso la parte vittoriosa ha diritto sempre che il giudice non ne rilevi l'eccessività o la superfluità, ai sensi del primo comma dell'art.92 c.p.c. (cass. Civ. 3716/1980) andranno poste a carico di parte opponente ma, considerata la loro eccessività, potranno essere riconosciute nella complessiva somma di euro 500,00. P.Q.M. Il Tribunale di Novara, definitivamente decidendo nella causa di cui in epigrafe, rigettata ogni contrari istanza, eccezione e deduzione così pronuncia: Rigetta l'opposizione e conseguentemente conferma il decreto ingiuntivo n. 21/2019 emesso dal Tribunale di Novara; Condanna (...) al pagamento delle spese di lite che si liquidano in euro 875,00 per fase studio, euro 740,00 per fase introduttiva, euro 1.680,00 per fase per fase trattazione/istruttoria, euro 1.900,00 per fase decisionale, euro 32,50 per anticipazione oltre rimb. Fordet. Cpa e Iva di legge oltre euro 500,00 per spese di Ctp. Pone definitivamente le spese di CTU come liquidate in atti a carico di parte attrice opponente. Così deciso in Novara, 19 aprile 2023. Depositata in Cancellaria il 19 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI NOVARA SEZIONE CIVILE in persona del Giudice Unico, Lorena Casiraghi, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di primo grado iscritta al n. 2250 del ruolo generale per gli affari contenziosi dell'anno 2020, trattenuta in decisione all'udienza del 20.9.2022 con concessione alle parti del termine di giorni sessanta per il deposito di comparse conclusionali e di giorni venti per repliche tra (...) (C.F. (...)), (...) (C.F. (...) ) in proprio e quale genitore esercente la responsabilità su (...) (C.F. (...) ), (...) (C.F. (...) ), (...) (C.F. (...) ), (...) (C.F. (...) ), (...) (C.F. (...) ) e (...) (C.F. (...) ), tutti elettivamente domiciliati in Novara, Corso (...), presso lo studio dell'avv. Va.Ch. che li rappresenta e difende, giusta procura allegata all'atto di citazione Attori e (...) (C.F. Convenuto contumace nonché (...) S.A. in persona del legale rappresentante pro tempore (P.IVA (...)) elettivamente domiciliata in Novara, corso (...), presso lo studio dell'avv. La.Fo. e rappresentata e difesa dall'avv. Ma.Ca. e dall'avv. Pa.Ci. giusta procura allegata alla comparsa di costituzione e risposta Convenuta OGGETTO: Sinistro stradale - morte. RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con atto di citazione ritualmente notificato, gli attori in epigrafe hanno convenuto in giudizio, dinnanzi al Tribunale Civile di Novara, (...) e la (...), nelle rispettive qualità di proprietario della (...) tg. (...)e di compagnia assicurativa della predetta autovettura, per sentirli condannare, in solido tra loro, al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali patiti, sia iure proprio che iure successionis, in seguito al decesso del proprio congiunto, (...), a seguito del sinistro occorso in data 22.9.2017. A tal fine, gli attori hanno allegato che, in data 22.9.2017, intorno alle ore 17,35, (...) si trovava a percorrere la via (...) in S. P. (...) in direzione della SP 12 a bordo della (...) tg. (...)di proprietà della (...) Polizia Ittica Ambientale quando, giunto all'incrocio con la SP 12, dopo essersi fermato allo stop, si era immesso sulla SP 12 e, in fase di completamento della manovra, era stato travolto dalla vettura (...) tg. (...)di proprietà di (...) e condotta da (...) la quale, sopraggiungendo a forte velocità sulla SP 12 in direzione Novara, aveva impresso alla (...) una rototraslazione in senso orario per effetto della quale (...) era stato espulso dal veicolo per spirare sul colpo a seguito dell'impatto con l'asfalto; che il decesso di (...) era riconducibile a colpa esclusiva del conducente della vettura (...) per l'eccessiva velocità sostenuta, non rispettosa dei limiti di velocità, che non le avrebbe impedito di avvedersi dell'auto condotta dal V. e arrestare per tempo il proprio mezzo. Nonostante la regolarità della notifica, (...) non si è costituito in giudizio e ne è stata dichiarata la contumacia. Si è costituita in giudizio la (...) contestando la dinamica del sinistro come descritta dagli attori e la responsabilità esclusiva in capo alla conducente della (...) nella verificazione del medesimo in quanto smentita dalla stessa relazione di incidente redatta dai Carabinieri e dall'intervenuta archiviazione del procedimento penale aperto nei confronti di ignoti dalla Procura di Novara. Ha inoltre contestato la richiesta di risarcimento del danno biologico iure hereditatis non sussistendone i presupposti e ha concluso per il rigetto della domanda attorea e comunque, per il caso di accoglimento anche parziale della stessa, per la liquidazione nei limiti dei danni provati, tenuto conto dell'eccepito concorso colposo della stessa vittima. La causa è stata istruita sulla base delle produzioni documentali relative al sinistro, senza svolgimento di ulteriore attività istruttoria. All'udienza del 20.9.2022 le parti hanno precisato le conclusioni come da relativo verbale e la causa è stata trattenuta in decisione con la concessione del termine di giorni sessanta per il deposito di comparse conclusionali e di giorni venti per repliche. Preliminarmente va disattesa la richiesta attorea di rimessione della causa in istruttoria con l'ammissione delle prove orali e della CTU cinematica dedotte nella memoria ex art. 183 co. VI n. 2 c.p.c. dovendosi confermare il contenuto dell'ordinanza datata 5.4.2022 con la quale, a fronte del tardivo deposito della memoria predetta, è stata respinta l'istanza di rimessione in termini per legittimo impedimento depositata dal difensore di parte attrice in data 15.10.2021 con conseguente decadenza dalla relativa prova. Quanto alle ulteriori considerazioni in punto di tempestività del deposito della memoria ex art. 183 co. VI n. 2 c.p.c. svolte con l'istanza ex art. 177 c.p.c., depositata in data 14.6.2022 allorchè era già stata respinta l'istanza di rimessione in termini per legittimo impedimento, preme evidenziare che all'udienza del 19.10.2021, in cui la difesa di parte convenuta ha tempestivamente eccepito il tardivo deposito della seconda memoria istruttoria, la difesa degli attori si è limitata a formulare istanza di rimessione in termini per legittimo impedimento così implicitamente riconoscendo il tardivo deposito dell'atto rispetto ai termini assegnati. In ogni caso si osserva che all'udienza dell'8.4.2021 venivano concessi i termini ex art. 183 co. VI c.p.c con decorrenza differita dal successivo 10.6.2021 e con avvertimento espresso che il dies a quo avrebbe dovuto computarsi nei termini. Il temine per il deposito della memoria ex art. 183 co. VI n. 2 c.p.c. scadeva pertanto in data 8.9.2021 mentre il deposito di parte attrice è dell'11.9.2021. Va dunque confermata la tardività del deposito della memoria ex art. 183 co. VI n. 2 c.p.c. di parte attrice e la decadenza dalle relative istanze istruttorie. Va ribadito infatti che, trattandosi di decorrenza differita, non trova applicazione la disciplina generale dell'art. 155, co. 1 c.p.c. non essendo il dies a quo indisponibile per l'attività difensiva e come espressamente sottolineato dall'ordinanza con la quale sono stati concessi i termini istruttori (cfr. Trib. Milano 7.11.2022 n. 8711; Trib. Monza 20.9.2022 n. 1871). La ratio dell'art. 155 c.p.c. si rinviene nel fatto che il giorno iniziale è riservato all'acquisizione della conoscenza dell'evento rilevante, di talchè è dal compimento di questo dato temporale che l'ordinamento può pretendere la reazione comportamentale della parte interessata al compimento dell'atto procedimentale conseguente. Viceversa, nel caso in esame, la decorrenza dei termini ex art. 183, comma VI, c.p.c. era stata fissata in un giorno non coincidente con quello dell'udienza, ma esplicitamente differito a data successiva e, al precipuo fine di evitare fraintendimenti, era stata precisata la modalità di computo dei termini assegnati. Pertanto, non vi è spazio nel caso di specie per diverse interpretazioni della regola della decorrenza (tanto più che la stessa è stata rispettata per il deposito delle memorie ex art. 183 comma Vi n. 1 e 3 c.p.c.) o possibilità di rimessione in termini ex art. 153 c.p.c. poiché come già evidenziato l'attestazione di ricovero dell'avv. Ch. dal 14 al 18 marzo 2021, in occasione della nascita della figlia, in difetto di ulteriori allegazioni, non pare in nesso di causalità con la decadenza in cui la medesima è incorsa tenuto conto che il termine perentorio per il deposito della memoria ex art. 183 co. VI n. 2 c.p.c. scadeva a distanza di ben sei mesi dall'evento asseritamente impeditivo. In forza della rilevata tardività delle memorie ex art. 183 comma VI n. 2 c.p.c. di parte attrice, va dichiarata l'inammissibilità delle prove ivi dedotte e dei documenti prodotti. Oggetto di causa è la domanda risarcitoria svolta dagli odierni attori per i danni patrimoniali e non patrimoniali, subiti iure proprio e iure hereditatis, in occasione del sinistro stradale avvenuto in Novara in data 22.9.2017 nel quale aveva perso la vita il loro congiunto (...). Va innanzitutto disattesa, anche a prescindere dall'accertamento delle responsabilità nella causazione del sinistro per cui è causa, la richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale patito dal de cuuis prima del decesso ed azionato dagli attori iure hereditatis. La giurisprudenza di legittimità, in caso di morte causata da un illecito, da tempo distingue tra il danno morale terminale e quello biologico terminale. Il primo (danno da lucida agonia o danno catastrofale o catastrofico) consiste nel pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nella ineluttabile consapevolezza dell'approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall'apprezzabilità dell'intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando soltanto l'integrità della sofferenza medesima; di contro, il secondo, quale pregiudizio alla salute che, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità e intensità, sussiste per il tempo della permanenza in vita, a prescindere dalla percezione cosciente della gravissima lesione dell'integrità personale della vittima nella fase terminale della stessa, e richiede, ai fini della risarcibilità, che tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo (cfr., da ultimo, ex multis, Cass. ord. n. 11719/2021). Il danno non patrimoniale consistito nella formido mortis (danno morale terminale, anche detto catastrofale), dunque, va verificato caso per caso e ricorre esclusivamente ove la vittima abbia avuto la consapevolezza della propria sorte e della morte imminente, incombendo sui richiedenti l'onere di dimostrare la sofferenza e lo stato di consapevolezza della vittima prima del decesso (cfr., ex multis, in motivazione, Cass. sent. n. 17320/2012). Viceversa, il danno c.d. biologico terminale, avente fondamento medico legale, consiste nella forzosa rinuncia alle attività quotidiane durante il periodo della invalidità e sussiste anche quando la vittima sia stata incosciente, purché la lesione della salute si sia protratta per un tempo, normalmente superiore alle 24 ore, che ne consenta "l'accertabilità medico legale" che costituisce il fondamento del danno biologico temporaneo, essendo il giorno l'unità di misura medico legale della invalidità temporanea (cfr. Cass. ord. n. 18056/2019). Nel caso di specie, parte attrice nulla ha dedotto in ordine ad una eventuale consapevolezza del de cuius dell'imminenza della propria morte (c.d. danno catastrofale), mentre la richiesta di ristoro del danno biologico terminale non potrebbe in ogni caso trovare accoglimento sulla base delle stesse allegazioni attoree essendo pacifico che la morte di (...) è stata immediata (il de cuius non è sopravvissuto nemmeno un giorno al sinistro essendo morto sul colpo) impedendo concretamente di configurare un'effettiva compromissione dell'integrità psicofisica del soggetto leso. La richiesta di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale rivendicato dagli attori iure proprio, invece, presuppone il previo accertamento delle responsabilità nella causazione del sinistro in esame. A tal fine occorre preliminarmente ricostruire la dinamica dell'incidente tenuto conto del rilevamento tecnico compiuto dai Carabinieri di Novara, intervenuti nell'immediatezza dei fatti, in assenza di testimoni oculati del sinistro. Dalla relazione di incidente stradale può ritenersi pacifico che: - Il sinistro per cui è causa si è verificato in S.P.M. intorno alle ore 17.35 del giorno 22.9.2017 in corrispondenza dell'incrocio tra la via (...) e la S. 12; - Il manto stradale al momento del sinistro era asciutto, le condizioni meteo erano di tempo sereno, la visibilità buona e il traffico di scarsa intensità; - La via (...) è una strada a doppio senso di marcia che, in corrispondenza dell'intersezione con la SP 12 e lungo la direzione di marcia tenuta dall'automobile condotta da (...), presenta un segnale verticale di stop integrato da una striscia orizzontale di arresto in buono stato di manutenzione; - Gli accertamenti sullo stato psico-fisico della conducente dell'autovettura (...) hanno dato esito negativo e alla medesima non è stata irrogata alcuna contravvenzione; - A carico di (...) è stata accertata la violazione dell'art. 145 D.Lgs. n. 285 del 1992 (codice della strada) per avere impegnato l'incrocio con la SP 12 senza arrestarsi al segnale di stop. Il verbale di sinistro stradale redatto Carabinieri di Novara, sulla base dei rilievi svolti nell'immediatezza dei fatti e degli accertamenti investigativi effettuati, ha così ricostruito la dinamica del sinistro "Il veicolo (...) (A) condotto da (...) percorreva Via (...) della Frazione M.. Giunto all'altezza dell'incrocio con la S.P.12. fuori centro abitato, impegnava l'incrocio senza fermarsi al segnale di STOP, andando a collidere lateralmente con il veicolo (...) condotto da (...) che sopraggiungeva. Il veicolo condotto dal (...) è stato trovato con inserita la seconda marcia; pertanto, si ritiene che il conducente non abbia in nessun modo prestato cautela nell'impegnare l'incrocio, non permettendo alla (...) di poter evitare la collisione. Si ritiene che il decesso del (...) sia dovuto al politrauma causatogli dalla fuoriuscita dal veicolo poiché non indossava le cinture di sicurezza. Nei fatti sopraesposti è emersa la violazione dell'art. 15 e 71 del D.Lgs. n. 285 del 1992 e successive modificazioni a carico di (...).". Ritiene il Tribunale che vada condivisa la ricostruzione della dinamica del sinistro operata dai verbalizzanti. Va premesso che, in caso di scontro tra veicoli, "entrambe le parti processuali che agiscono e resistono nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento dei danni derivati da uno scontro di veicoli, per superare la presunzione legale di pari concorso nella causazione del sinistro sono onerate non soltanto della prova della condotta dell'altro conducente - violativa della regola che impone il principio del neminem laedere e delle norme che disciplinano la circolazione stradale - ma, altresì, della prova (positiva) della propria condotta, che deve risultare conforme alle prescrizioni del codice della strada e immune da colpa generica, dovendo essere improntata, la condotta di guida, sempre alla massima attenzione, ed essendo pertanto tenuto, il conducente del veicolo, a fare tutto quanto possibile per evitare il danno e a porre in atto le manovre di emergenza che, avuto riguardo alle concrete circostanze di fatto, erano esigibili" (Cassazione Civile, Sez. III, 20/03/2017, n. 7057). In tal senso, va evidenziato che la giurisprudenza ha delineato un orientamento genericamente restrittivo in ordine all'art. 2054 comma 2 c.c. affermando che, per escludere l'applicazione della presunzione di corresponsabilità, il danneggiato coinvolto in uno scontro tra veicoli deve provare non solo che il conducente dell'auto investitrice sia in colpa, ma altresì che egli si sia uniformato alle norme di circolazione ed a quelle di comune prudenza, ed abbia fatto tutto il possibile per evitare l'incidente (cfr. Cass. Civ. Sezione III, 22.09.2015 n.18631; Cass. Civ. Sezione VI, ordinanza 12.04.2011 n.8409; Cass., Sez. III, n. 4639 del 2/04/2002). Quindi, la prova liberatoria di cui all'art. 2054, comma 2 c.c. deve ritenersi fornita solo laddove il danneggiato dimostri che il comportamento illegittimo della controparte assorba in sé l'intero profilo causale del sinistro, a nulla rilevando che quest'ultimo non si sia difeso in giudizio. Sulla base di tale principio, la giurisprudenza ha chiarito che neanche l'infrazione grave commessa da uno dei conducenti (ad esempio l'invasione della semicarreggiata riservata ai veicoli provenienti in senso inverso oppure l'inosservanza del diritto di precedenza) comporta necessariamente la colpa esclusiva del conducente, che abbia commesso la violazione de qua, di guisa che l'altro conducente non può dirsi liberato dalla presunzione di colpa di cui all'art. 2054 c.c. ove non risulti accertato che il suo comportamento sia stato pienamente conforme alle norme della circolazione stradale e di comune prudenza (cfr. Cass. Civ. Sezione III, ordinanza 20.03.2017 n.7057; Cass. Civ. Sezione III, 28.06.2016 n.13271; Cass. Civ. Sezione III, 26.06.2015 n.13216). Ovviamente, la presunzione di colpa, nel senso appena specificato, ha funzione meramente sussidiaria ed opera soltanto quando è impossibile determinare la concreta misura delle rispettive responsabilità, in modo che, ove risulti accertata l'esclusiva colpa di uno di essi, l'altro conducente è esonerato dalla presunzione e non è tenuto a provare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno (cfr. Cass, Civ. Sezione III, 22.09.2015 n.18631; Cass. Civ. Sezione VI, ordinanza 12.04.2011 n.8409). La Corte di Cassazione ha, anche recentemente, ribadito che se viene accertato che un sinistro stradale è da ascriversi, sotto il profilo eziologico, al comportamento colpevole del conducente deve ritenersi superata la presunzione di concorso di colpa di cui all'art. 2054 c.c., comma 2, avendo tale presunzione funzione meramente sussidiaria, operante solo se non sia possibile in concreto, accertare le rispettive responsabilità (cfr. Cass. n. 7439 del 2011, Cass. n. 4055 del 2009). Ritiene il Tribunale che la presunzione di responsabilità enunciata dall'art. 2054 comma 1 c.c. ed invocata dagli attori con riferimento alla condotta della conducente della (...), così come la presunzione sussidiaria di pari responsabilità di cui all'art. 2054 comma 2 c.c. debbano ritenersi superate dal positivo accertamento della responsabilità esclusiva di (...) nella causazione del sinistro che ne ha cagionato la morte. Gli attori, infatti, non hanno provato la responsabilità esclusiva/concorrente della conducente della (...) nella verificazione del sinistro per cui è causa, né che la condotta del proprio congiunto sia stata pienamente conforme alle norme sulla circolazione stradale oltre che a quelle di comune prudenza. Infatti, il conducente della (...), (...), percorrendo la via (...) in direzione della SP 12, giunto all'intersezione con la predetta SP 12 regolata da segnaletica orizzontale e verticale di stop, non ha provveduto, all'atto di immettersi sulla predetta arteria stradale, ad arrestare la marcia del proprio veicolo, come era tenuto a fare secondo quanto previsto dagli artt. 145 e 146 C.d.S. per dare la precedenza all'autovettura condotta da (...) che sopraggiungeva sulla SP 12 e a causa dell'immediatezza della manovra posta in essere dal conducente della (...) non è riuscita a evitare l'impatto con le irreparabili conseguenze che ne sono derivate. Sul punto, è pacifico in giurisprudenza che il conducente di un autoveicolo non solo è tenuto ad arrestare la propria marcia al segnale di stop ma, prima di riprendere la marcia, ha obbligo di ispezionare la strada preferita per assicurarsi che sia libera da sopraggiungenti veicoli e, in caso negativo, ha l'obbligo di accordare la precedenza a tutti i veicoli circolanti sulla detta strada, sia provenienti da destra che da sinistra. Infatti, l'obbligo imposto ai conducenti di veicoli di arrestare la marcia e cedere la precedenza nei due sensi, quando vi sia un cartello di stop in prossimità di un crocevia, ha carattere rigido (Cass. n. 4055/2009). In altri termini, il segnale di stop pone a carico dei conducenti di autoveicoli l'obbligo di arrestare sempre e comunque la marcia del proprio mezzo, quand'anche la strada nella quale intendano confluire sia sgombra da veicoli. Il carattere rigido del divieto consente di ritenere che lo stesso non possa essere derogato o contemperato dalle condizioni dei luoghi. L'assunto attoreo, per cui (...) si sarebbe arrestato al segnale di stop per immettersi sulla SP 12 solo dopo aver assolto all'obbligo di dare la precedenza ai veicoli provenienti dalla SP 12, risulta smentito dalla ricostruzione del sinistro operata dai Carabinieri intervenuti sul posto. Si deve ricordare che dalla relazione di incidente stradale è emerso che la (...) condotta dalla vittima venne rinvenuta nella posizione statica assunta nella fase terminale dell'evento con la seconda marcia inserita, segno inequivocabile del fatto che il (...) non si arrestava allo stop. Se infatti lo scontro si fosse verificato non appena il (...) aveva ripreso la marcia, dopo essersi arrestato al segnale di stop, il veicolo sarebbe stato rinvenuto con la prima marcia inserita. Si osserva inoltre che lo scontro tra le due vetture è avvenuto in maniera ortogonale come dimostrato dai danni riportati dai due mezzi a ulteriore riprova del fatto che il (...) aveva impegnato l'incrocio nonostante il sopraggiungere sulla SP 12 della (...) condotta da (...). Tale circostanza peraltro consente di escludere che la (...), al momento dell'impatto, avesse quasi completamente superato la linea di mezzeria perché in tal caso l'urto si sarebbe verificato con la parte laterale posteriore della (...) e l'impatto avrebbe conferito al mezzo una rotazione in senso antiorario. Peraltro, che la manovra posta in essere dal (...) sia stata improvvisa e repentina, impedendo qualsiasi manovra di emergenza alla conducente della (...) si evince anche dall'assenza di segni di frenata sull'asfalto da parte della conducente di tale mezzo. Al contrario che la velocità tenuta dalla conducente della (...) non fosse rispettosa dei limiti di velocità e comunque non adeguata allo stato dei luoghi non ha trovato alcun riscontro. Ora, se è vero che, in caso di sinistro stradale, la violazione commessa da un conducente (in questo caso il F.) non dispensa il giudice dal verificare l'eventuale concorso di colpa dell'altro soggetto coinvolto, è altrettanto vero, però, che per quest'ultimo la prova liberatoria può scaturire anche in modo indiretto dall'accertamento che la condotta del conducente trasgressore è legata da un esclusivo rapporto di causa-effetto all'evento dannoso (si vedano Cass. n. 2834 del 1988; Cass. n. 8622 del 1990; Cass. n. 1724 del 1998; Cass. n.5226 del 2006; Cass. n. 9550 del 2009; Cass. n. 14064 del 2010; Cass. n. 8885 del 2020; App. Campobasso 10.01.2017 e, da ultimo, App. Na. n. 3246 del 2020). Tale orientamento si fonda sul condivisibile convincimento secondo cui, in tema di scontro tra veicoli e di applicazione dell'art. 2054 c.c., la regola per la quale l'accertamento in concreto della colpa di uno dei conducenti non comporta di per sé il superamento della presunzione di colpa concorrente dell'altro (all'uopo occorrendo - come già rilevato - che quest'ultimo fornisca la prova liberatoria, ovvero la dimostrazione di essersi uniformato alle norme sulla circolazione e a quelle della comune prudenza, e di essere stato messo in condizioni di non potere fare alcunché per evitare il sinistro) non può essere intesa nel senso che, anche quando questa prova non sia in concreto possibile e sia positivamente accertata la responsabilità di uno dei conducenti per avere tenuto una condotta in sé del tutto idonea a cagionare l'evento, l'apporto causale colposo dell'altro conducente debba essere, comunque, in qualche misura riconosciuto. La Suprema Corte ha affermato che il principio secondo il quale, in tema di scontro tra veicoli e di applicazione dell'art. 2054 c.c., ove sia stato accertato in concreto che uno dei due conducenti ha tenuto una condotta inequivocabilmente idonea a cagionare il danno, l'impossibilità, per l'altro conducente, di fornire la prova liberatoria non implica l'automatico addebito a quest'ultimo di un concorso di colpa, rischiandosi altrimenti che l'applicazione dell'art. 2054 c.c. assuma "l'impropria valenza di clausola limitativa della responsabilità piuttosto che di norma volta a sollecitare la cautela dei conducenti ed a risolvere i casi dubbi" (così Cass. n. 12408 del 2011). Va pertanto affermata l'assorbente responsabilità del defunto, (...), il quale, non fermandosi allo stop, ha innescato il processo causale che ha determinato il sinistro, rendendo impossibile alla conducente della (...) qualsiasi manovra per scongiurare l'impatto. La domanda attorea va dunque respinta. La soccombenza regola le spese di lite che si liquidano sulla base dei parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014 (nella versione antecedente alle modifiche introdotte dal D.M. n. 147 del 2022 per le attività difensive compiute anteriormente all'entrata in vigore delle nuove tariffe) tenuto conto del valore della causa e dell'attività processuale svolta. P.Q.M. Il Tribunale di Novara, definitivamente pronunciando, ogni altra eccezione, conclusione e difesa disattesa, così provvede: - Rigetta la domanda; - Condanna (...), (...) in proprio e quale genitore esercente la responsabilità su (...) ed altri, in solido tra loro, alla refusione delle spese di lite in favore della convenuta che si liquidano in complessivi Euro 5.000,00 oltre il 15% del compenso a titolo di spese forfettarie oltre IVA e CPA. Così deciso in Novara l'11 aprile 2023. Depositata in Cancelleria il 12 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI NOVARA - SEZIONE CIVILE - in composizione monocratica e nella persona della dott.ssa Gabriella Citro ha pronunziato la seguente SENTENZA nella controversia civile iscritta al n. 546 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell'anno 2018, vertente TRA (...), C.F. (...), e (...), C.F. (...), rappresentati e difesi dall'avv. El.Gn. ed elettivamente domiciliati presso lo studio del medesimo, in Torino, Via (...), giusta procura in atti ATTORI E (...) P.L.C., P. I. (...), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Ma.Ri., Fr.Ca. e Ri.Sa., elettivamente domiciliata presso lo studio di quest'ultimo in Novara, Corso (...), giusta procura in atti CONVENUTA NONCHE' (...) S.P.A., P.I. (...), in persona dei procuratori Dott. F.G. e Dott. (...), rappresentata e difesa dall'avv. Fa.Ci. e dall'avv. Fu.La., elettivamente domiciliata presso lo studio di quest'ultima, sito in Novara, Corso (...), giusta procura in atti INTERVENUTA Oggetto: contratti bancari; restituzione dell'indebito RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con atto di citazione ritualmente notificato (...) e (...) hanno convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Novara, (...) P.L.C., chiedendone la condanna alla ripetizione delle somme indebitamente percepite in esecuzione del rapporto di mutuo, previa declaratoria di nullità di talune clausole contrattuali per indeterminatezza e per usurarietà dei tassi applicati. A sostegno della domanda hanno esposto: - di aver stipulato in data 27.03.2012, con (...) PLC, in T., un contratto di mutuo fondiario a tasso variabile per Euro 100.000,000, per atto Notaio (...) di T., Rep. (...) - Racc. n. (...), da corrispondersi in 180 rate mensili posticipate; - che con il predetto mutuo erano stati pattuiti il tasso d'interesse corrispettivo del 5,10%, il tasso d'interesse moratorio del 4.933%, penale per l'estinzione anticipata del contratto pari al 3,00%, oltre alle altre voci a titolo di diritti, commissioni e spese varie; - che alla data della convenzione il tasso soglia era pari a 8,288% (L. n. 108 del 1996 - doc. 3), superato per effetto delle pattuizioni di cui sopra; - di aver fatto redigere una perizia tecnica, rilevando i seguenti profili di illegittimità: a) la natura usuraria degli interessi applicati, con conseguente gratuità del contratto; b) la nullità della clausola di determinazione del tasso nella parte in cui è previsto un tasso alternativo indeterminato in caso di cessazione del parametro di riferimento per il calcolo del tasso corrispettivo, ex art. 1284, 3 comma c.c., per cui gli interessi saranno dovuti nella misura legale, nonché nella parte in cui non è indicato il valore del parametro di indicizzazione (tasso variabile), in violazione delle norme di trasparenza di cui all'art. 117, co. 4 e 8, TUB, con conseguente rideterminazione del piano di ammortamento con il Tasso sostitutivo imposto per legge costituito dal Tasso Minimo dei Bot; c) la difformità tra il TAEG/ISC dichiarato in contratto rispetto a quello effettivamente praticato e verificato, con conseguente nullità della relativa clausola ai sensi dell'art. 117, co. 6 T.U.B. ed applicazione del tasso sostitutivo. Per effetto delle predette poste illegittime, hanno dedotto di avere "nel tempo corrisposto alla Banca interessi non dovuti per almeno Euro 17.222,51 (per il caso di ravvisata usura e quindi gratuità del mutuo ai sensi dell'art. 1815 c. 2 c.c.), oltre ad interessi non dovuti per almeno Euro 15.163,55 (per il caso di violazione dell'art. 117 TUB e ricalcolo del piano di ammortamento al Tasso minimo dei BOT), e ad Euro 11.696,97 (per il caso di violazione dell'art. 1346 c.c. per indeterminatezza delle condizioni e ricalcolo del piano di ammortamento al tasso legale)". Hanno chiesto, pertanto, l'accoglimento delle seguenti conclusioni: "1) accertare e dichiarare la pattuizione di interessi usurari da parte della Banca nel contratto oggetto di causa; accertare che l'istituto di credito abbia pattuito in contratto l'applicazione di interessi di mora in aggiunta agli interessi convenzionalmente stabiliti e se vi sia stato nel corso del rapporto il pagamento di tali interessi; accertare se il TAEG applicato al contratto di mutuo comprensivo degli oneri e spese, risulti essere superiore ai tassi soglia/usura in vigore; per l'effetto: dichiarare il contratto de quo gratuito ai sensi dell'art. 1815, c. 2, c.c., per la pattuizione di tassi usurari e pertanto accertare ed ordinare alla banca convenuta, alla luce delle risultanze dell'espletanda istruttoria, la ripetizione delle somme indebitamente percepite quali corrispettivo del prestito, con interessi e rivalutazione dalla domanda al saldo; in ogni caso: dichiarare dovuta la restituzione del solo capitale prestato e quindi, le rate a scadere composte del solo capitale; 2) accertare tutte le spese, gli oneri e le commissioni sostenute all'atto di stipula del contratto di mutuo, voci che devono essere ricomprese nel calcolo del tasso effettivo sostenuto dalla parte attrice; per l'effetto accertare: - se il TAEG risulti pattuito all'atto della stipula, e se pattuito conforme a quello applicato; - la violazione dell'art. 117 TUB e per l'effetto dichiarare illegittimi, in tutto o in parte, gli addebiti effettuati dalla banca all'odierno attore durante il corso del rapporto in quanto non dovuti per i motivi dedotti in narrativa e rideterminare il piano di ammortamento con il Tasso sostitutivo imposto per legge costituito dal Tasso Minimo dei Bot; - la violazione dell'art. 1346 c.c. e per l'effetto dichiarare illegittimi, in tutto o in parte, gli addebiti effettuati dalla banca all'odierno attore durante il corso del rapporto in quanto non dovuti per i motivi dedotti in narrativa e rideterminare il piano di ammortamento con il Tasso sostitutivo imposto per legge costituito dal Tasso Legale". Si è tempestivamente costituita in giudizio (...), eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva e chiedendo l'estromissione dal giudizio, per aver ceduto in data 26 agosto 2016, a rogito del Dott. (...), a (...) S.p.A. un ramo d'azienda consistente nel complesso di beni organizzato per l'esercizio dell'attività bancaria e costituito esclusivamente dalle attività, passività e rapporti giuridici relativi alla rete di sportelli, di cui fanno parte anche i rapporti intrattenuti con gli attori. Con comparsa del 27.7.2018 è ritualmente intervenuta (...) S.p.A., quale successore a titolo particolare in relazione al rapporto contrattuale oggetto di causa, contestando nel merito la domanda attorea, in quanto infondata in fatto ed in diritto. Alla prima udienza, su accordo delle parti, è stata dichiara l'estromissione del processo della (...) P.l.c., con condanna degli attori alla refusione delle spese di lite, ed è stato assegnato alle parti termine per introdurre il procedimento di mediazione. Concessi i termini perentori, ai sensi dell'art. 183, 6 comma, c.p.c., non è stata ammessa la CTU richiesta dagli attori e la causa è stata rinviata per la precisazione delle conclusioni. All'udienza del 19.9.2022, fatte precisare le conclusioni, la causa è stata trattenuta in decisione, disponendo il deposito delle comparse conclusionali entro il termine perentorio di 60 giorni e delle memorie di replica entro il successivo termine perentorio di 20 giorni a norma dell'art. 190 c.p.c.. La domanda attorea è infondata e deve essere rigettata per i motivi di seguito indicati. 1. Sulla natura usuraria degli interessi applicati. Dal tenore delle argomentazioni svolte dalla difesa attorea, e tenuto conto dei risultati della consulenza tecnica di parte prodotta, è possibile inferire che, posta la necessità di determinare il T.E.G. tenendo conto di "tutte le spese e i costi e gli oneri sostenuti all'atto di stipula", il carattere usurario si riscontrerebbe solo in caso di applicazione di interessi di mora per ritardato pagamento e di estinzione anticipata del finanziamento. Ed infatti, nella perizia di parte è espressamente escluso che il T.A.E.G., così come determinato sulla base della modalità di calcolo utilizzata dalla difesa attorea, superi il tasso soglia usura in caso di cd. funzionamento fisiologico del contratto per cui è causa (ovverosia, qualora siano corrisposti unicamente interessi corrispettivi). Rispetto a tale accertamento, quindi, non può che concludersi per l'assenza d'interesse ad agire degli attori. Ebbene, in disparte ogni considerazione in ordine all'inutilizzabilità di una formula di determinazione del T.E.G/T.A.E.G. diversa da quella prevista dalle Istruzioni della (...), deve in primo luogo rilevarsi che l'annosa questione del controllo di usurarietà degli interessi moratori è stata di recente risolta dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con la sentenza n. 19597 del 18.9.2020, che hanno enunciato i seguenti principi di diritto: "La disciplina antiusura si applica agli interessi moratori, intendendo essa sanzionare la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria sia dovuta in relazione al contratto concluso. La mancata indicazione dell'interesse di mora nell'ambito del T.e.g.m. non preclude l'applicazione dei decreti ministeriali, i quali contengano comunque la rilevazione del tasso medio praticato dagli operatori professionali, statisticamente rilevato in modo del pari oggettivo ed unitario, essendo questo idoneo a palesare che una clausola sugli interessi moratori sia usuraria, perché "fuori mercato", donde la formula: "T.e.g.m., più la maggiorazione media degli interessi moratori, il tutto moltiplicato per il coefficiente in aumento, più i punti percentuali aggiuntivi, previsti quale ulteriore tolleranza dal predetto decreto. Ove i decreti ministeriali non rechino neppure l'indicazione della maggiorazione media dei moratori, resta il termine di confronto del T.e.g.m. così come rilevato, con la maggiorazione ivi prevista". In altri termini, risolto positivamente il contrasto giurisprudenziale relativo all'applicabilità della disciplina antiusura agli interessi moratori, il Supremo Consesso si è preoccupato di fornire un'indicazione pratica in ordine all'individuazione di un tasso soglia usura che sia adeguato per tale raffronto, con ciò riconoscendo la rilevanza di quel principio di simmetria già argomentato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 16303/2018 in materia di C.M.S., ma pur sempre ammettendo, in via assolutamente residuale - qualora, cioè, manchi la rilevazione statistica degli interessi di mora e, quindi, un'elaborazione solida dei dati di base, rilevati sul mercato, che rappresenti il livello delle condizioni medie di mercato - la legittimità del confronto con il T.E.G.M. non maggiorato. Facendo, quindi, applicazione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite, deve essere esclusa la natura usuraria degli interessi di mora contrattualmente pattuiti. L'interesse moratorio applicabile, per il caso di ritardo, è sempre inferiore al tasso soglia (anche a non voler considerare la maggiorazione di 2,1 p.p.), di modo che la pretesa attorea si appalesa infondata. D'altronde è la stessa parte attrice a riscontrare il superamento del tasso soglia solo applicando diverse metodologie di rilevazione. Sostengono gli attori che, ai fini della verifica del rispetto del limite di L. n. 108 del 1996, dovrebbero sommarsi il tasso di interesse corrispettivo e il tasso di mora e che ciò implicherebbe il superamento del limite. In realtà, a differenza di quanto argomentato dalla parte, la pretesa sommatoria dei tassi non è giustificata dalla giurisprudenza di legittimità, né confermata dal dato contrattuale. È, in particolare, la stessa struttura del contratto di mutuo ad impedire che si verifichi questa sommatoria. Il tasso corrispettivo si applica solo sul capitale a scadere, visto che la causa dell'interesse-frutto civile consiste nel diritto del mutuatario a godere della somma secondo il piano di rimborso graduale (art. 820 e 1815 c.c.). Viceversa, il tasso di mora non può mai applicarsi al debito per il quale non è ancora decorso il termine di esigibilità, perché per definizione finché il termine pende non si dà mora (arg. ex art. 1219 n. 3 c.c.). Egualmente, sulle rate che vengono man mano a scadenza non spetta e non può competere altro che l'interesse moratorio, perché la funzione dell'interesse-frutto civile si esaurisce nel momento in cui il mutuatario è obbligato a restituire il capitale (art. 820 c.c.) (cfr. Tribunale Torino sez. I, 16/06/2022, n.2641). Tali interessi hanno, invero, una funzione del tutto differente e non omogenea: gli interessi corrispettivi assicurano infatti la remunerazione del capitale in base al principio della natura fecondità del denaro (di cui è espressione la disposizione dell'art. 1282 cod. civ.); gli interessi moratori rappresentano invece una sanzione contro l'inadempimento e perseguono l'obiettivo d'una sorta di predeterminazione del danno derivante dall'inadempimento nelle obbligazioni pecuniarie (cfr. l'art. 1224 cod. civ.). La riferita natura non omogenea degli interessi in questione comporta che gli stessi non possano essere sommati ai fini della determinazione del confronto del tasso convenzionalmente pattuito con il tasso soglia antiusura: l'applicazione degli interessi di mora è infatti del tutto alternativa rispetto all'applicazione degli interessi corrispettivi, postulando in particolare l'inadempimento da parte del mutuatario e conseguentemente l'inapplicabilità per tale parte degli interessi corrispettivi. Le basi di calcolo infatti, sono, quasi per definizione, diverse. Il tasso corrispettivo si calcola sull'intero capitale a scadere e copre il periodo contrattualmente previsto dall'erogazione alla scadenza del termine di rimborso (o della rata); il tasso di mora (formulato in termini assoluti o tramite maggiorazione del tasso corrispettivo) si calcola sulla sola rata scaduta ed è dovuto per il periodo successivo alla scadenza della rata. Il tasso di mora, pertanto, sostituisce il tasso corrispettivo, a decorrere dalla scadenza della rata insoluta, senza cumularsi con quest'ultimo (cfr. Tribunale Napoli 31.5.2019). Sul punto, possono richiamarsi anche le seguenti pronunce: Tribunale Lanciano 20.5.2020; Appello Napoli, 18.1.2021, n. 143; Tribunale Torino, Prima Sez. Civile, Sent. 02 marzo 2018 n. 1037; Tribunale Velletri 19 dicembre 2017; Tribunale Sondrio 20 novembre 2017; Tribunale Bergamo 25 luglio 2017; Tribunale Milano 16 febbraio 2017; Tribunale Siracusa sez. II, 10 febbraio 2017, n. 235; Tribunale Milano sez. III, 28 settembre 2016, n. 10450 i; Tribunale Monza sez. I, 13 gennaio 2015, n. 94; Tribunale Torino 17 settembre 2014. Tale affermazione trova riscontro anche a termini di contratto, poiché l'art. 5.1 prevede la decorrenza di interessi moratori "se una qualsiasi somma dovuta in dipendenza del contratto di mutuo viene pagata in ritardo" e l'art. 5.2. precisa che gli interessi di mora sono "calcolati sulla quota capitale delle rate scadute". Pertanto, il mutuatario è tenuto a pagare, periodo per periodo, o il tasso corrispettivo (sul capitale a scadere) o il tasso di mora (sulla quota capitale della rata scaduta), mentre non può pagare nel medesimo periodo di tempo sullo stesso debito principale un tasso pari alla sommatoria dei due tassi. Ancora, la difesa degli attori ha eccepito la natura usuraria degli interessi de quibus altresì applicando la modalità di conteggio del cd. tasso effettivo di mora (cd. T.E.M.O.), ovvero ipotizzando un ritardo nell'adempimento dell'obbligazione di ventinove giorni. Anche tali assunti sono privi di qualsivoglia fondamento. Il calcolo del c.d. TEMO ("tasso effettivo di mora") è operazione sconosciuta alla normativa, sia primaria che regolamentare, e non ha alcuna attendibilità, conducendo ad un risultato privo di significato (cfr. in tal senso: Tribunale Milano 14 marzo 2017 n. 2982 secondo cui l'invenzione del TEMO costituisce un mero artificio contabile, costruito su dati arbitrari e privo di base normativa; tale indice è pertanto assolutamente privo di attendibilità e non ha alcuna rilevanza in ordine al supposto superamento del tasso soglia). L'operazione di elaborazione di detto tasso- sulla base dell'incidenza delle spese, costi e commissioni e il successivo confronto, in termini percentuali, dell'importo degli interessi di mora così ottenuto con la quota capitale della rata ipoteticamente scaduta e non pagata, assumendo un ritardo nel pagamento della prima rata di ammortamento di 29 giorni (cfr. perizia allegata sub doc. 2 citazione) - è del tutto arbitraria, non solo perché ipotizza un ritardo di 29 giorni che non ha alcun riscontro con i fatti di causa, ma soprattutto perché è il T.E.M.O. in sé a non presentare alcuna caratteristica di effettività. Come puntualmente evidenziato dalla più attenta giurisprudenza di merito - alla quale di presta piena adesione, in condivisione degli argomenti addotti - detto parametro è frutto di un calcolo assolutamente "creativo" che non tiene in alcun conto della metodologia indicata nelle Istruzioni della (...) per la determinazione del TEG. Sul punto si richiama, anche ai sensi dell'art. 118 c.p.c., Tribunale Torino sez. I, 11/05/2021, n.2364. In altri termini: "È infondata la pretesa di determinare un tasso effettivo di mora (cd. TEMO) in quanto la formula per il calcolo del TAEG esprime su base annua l'eguaglianza fra la somma dei valori attualizzati di tutti i prelievi e la somma dei valori attualizzati dei rimborsi e dei pagamenti delle spese collegate all'erogazione del credito, esclusi oneri fiscali, pertanto quando è riferita al momento della pattuizione richiede la conoscenza in via anticipata degli interessi da pagare e ciò non è evidentemente possibile per quelli di mora, dei quali non si conosce ex ante né la base di calcolo, né la durata. La pretesa, quindi, di calcolare un tasso effettivo di mora al momento della conclusione del contratto di mutuo non solo non ha alcuna base normativa, ma è intrinsecamente impossibile ed assolutamente priva di attendibilità." (cfr. in tal senso: Tribunale di Milano, Sentenza 11 gennaio 2018 n. 220). Deve inoltre osservarsi che, al fine del calcolo dell'effettiva usurarietà di un tasso, è necessario che esso sia giuridicamente dovuto, per essersi realizzate le condizioni contrattuali cui ne era subordinata l'applicabilità e che abbia avuto un impatto effettivo sul costo del credito (cfr. sul punto: Tribunale Torino, sez. I, 28 settembre 2017, n. 4555; Tribunale Brescia sez. II, 08 giugno 2017, n. 1828). Invero, anche aderendo alla tesi secondo cui l'interesse moratorio (e più in generale "ogni altro onere eventuale") entra nel calcolo del TEG al verificarsi del ritardo nel pagamento della rata (ovvero nel caso in cui si siano verificate le diverse condizioni di contratto cui era subordinata la loro applicabilità), ne consegue comunque, a contrario, l'irrilevanza, ai fini della verifica di usurarietà, delle voci di costo collegate sì all'erogazione del credito, ma meramente potenziali, perché non dovute per effetto della mera conclusione del contratto, essendo le stesse subordinate al verificarsi di eventi futuri ancora possibili ma concretamente non verificatisi. Sulla nota e vexata quaestio della rilevanza usuraria degli scenari ipotetici, ma non verificatisi si è espressa Cass. SS.UU. 19597/20, la quale ha affermato che l'interesse ad agire per l'accertamento della eventuale illegittimità del tasso "astratto" (ossia potenziale) "cade" se "non applicato", ossia che è, in definitiva, insufficiente la mera promessa a determinare l'usurarietà delle condizioni ed è invece necessario, al fine di elidere gli interessi e il complessivo "prezzo del denaro", che lo scenario che importa il superamento del limite di legge si sia effettivamente verificato. Nel caso di specie, dalle deduzioni di parte e dalla documentazione prodotta non emerge in alcun modo che sia stata applicata in corso di contratto la mora contrattuale, di modo che la questione dell'eventuale dedotta usurarietà del tasso di mora (a prescindere di ogni altra considerazione) è irrilevante al fine del decidere. Può in ogni caso aggiungersi che la pattuizione in esame contiene una specifica clausola di salvaguardia in virtù della quale, ove il tasso di interesse sia superiore al tasso soglia, il tasso effettivamente convenuto è quello corrispondente al tasso soglia così come determinato ai sensi della L. n. 108 del 1996. Secondo l'orientamento della giurisprudenza prevalente, meritevole di essere condiviso, la clausola di salvaguardia, per la quale il tasso di interesse corrisponde al tasso soglia usura impedisce "ab origine" che la pattuizione possa violare la soglia dell'usura (cfr. in tal senso: Tribunale Torino, Prima Sez. Civile, Sent. 07 gennaio 2019 n. 29; Tribunale Torino, Prima Sez. Civile, Sent. 26 giugno 2018 n. 3285; Tribunale Bologna sez. III, 31 gennaio 2018 n. 20087; Tribunale Padova, 13 gennaio 2016). Infine, in piena adesione alla maggioritaria e preferibile giurisprudenza, deve escludersi che la penale di estinzione anticipata concorra alla determinazione del T.E.G. (ex multis, da ultimo, Trib. Cosenza 7.1.2020; Trib. Napoli 16.6.2020; Trib. Lucca 7.7.2020; Trib. Torino 5.3.2021). È infondata la tesi secondo cui la commissione di estinzione anticipata costituisce un "costo collegato all'erogazione del credito". Ciò in quanto: 1) tale debito viene a esistenza solo se il mutuatario esercita il diritto potestativo di recedere dal contratto; 2) tale atto di esercizio costituisce espressione di autonomia negoziale del cliente, su cui la banca non può influire; 3) in ultimo, la banca non ha a sua volta alcun potere contrattuale di anticipare la chiusura dell'operazione per maturare il diritto al pagamento di questa commissione, contro la volontà del cliente "adempiente" e difetta dunque, in radice, la possibilità di approfittamento della debolezza e/o impotenza finanziaria del debitore che costituisce il tratto qualificante della condotta usuraria. Sul punto si richiama anche la motivazione di Corte appello Torino sez. I, 01/10/2020, n.967: "La commissione di estinzione anticipata, infatti, non assume rilevanza ai fini della valutazione dell'usurarietà del contratto di mutuo. La sua funzione, invero, non è quella di remunerare l'erogazione del credito, come richiesto dalla L. n. 108 del 1996 ai fini della valutazione della usurarietà dei tassi pattuiti, bensì quella di compensare la Banca mutuante delle conseguenze economiche derivanti dall'estinzione anticipata del debito da restituzione, nell'ipotesi in cui il mutuatario intenda esercitare la facoltà di recesso prima della scadenza naturale del contratto. La possibilità di recedere anticipatamente dal contratto va, infatti, ricondotta alla facoltà di recesso di cui all'art. 1373 c.c., ed il relativo compenso costituisce il corrispettivo previsto dal terzo comma di tale articolo. La facoltà in esame attribuisce al mutuatario la possibilità di terminare unilateralmente il contratto altrimenti non consentita: non e pertanto un costo che debba sopportare per accedere all'operazione nè una remunerazione del mutuo, ma è il costo di una utilità (solutio ante diem) che, determinando una perdita economica per l'istituto mutuante, viene monetizzata. La c.d. penale, di fatto, sostituisce dal punto di vista economico gli interessi corrispettivi che, a seguito del recesso, non dovranno essere più corrisposti alla banca: in altri termini, si tratta di un compenso corrispettivo della rinuncia da parte del creditore al potere consentitogli dall'art. 1815 c.c., compenso che riequilibra il sinallagma altrimenti alterato dal recesso". A conferma della totale estraneità della commissione di estinzione anticipata ai costi inerenti all'erogazione del credito, si riporta il principio statuito da Cass. 14.3.2022 n. 8109: "non sono accomunabili, nella comparazione necessaria alla verifica delle soglie usuraie, voci del costo del credito corrispondenti a distinte funzioni. È impossibile, pertanto, cumulare, ai fini in esame, la commissione di estinzione anticipata con gli interessi moratori. La prima costituisce, infatti, una clausola penale di recesso, che viene richiesta dal creditore (mutuante) e pattuita in contratto per consentire al mutuatario di sciogliersi anticipatamente dagli impegni di durata, per i liberi motividi ritenuta convenienza più diversi, e per compensare, viceversa, il venir meno dei vantaggi finanziari che il mutuante aveva previsto, accordando il prestito, di avere dal negozio. I secondi, invece, costituiscono una clausola penale risarcitoria volta a compensare il ritardo nella restituzione del denaro, così da sostituire, incrementati, gli interessi corrispettivi. A ben vedere, pertanto, proprio la natura di penale per recesso della commissione di estinzione anticipata comporta che si tratta di voce non computabile ai fini della verifica di non usurarietà. La commissione in parola non è collegata se non indirettamente all'erogazione del credito, non rientrando tra i flussi di rimborso, maggiorato del correlativo corrispettivo o del costo di mora per il ritardo nella corresponsione di quello. Non si è di fronte, cioè, a "una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall'effettiva durata dell'utilizzazione dei fondi da parte del cliente"" (in senso conforme anche Cass. 7.3.2022 n. 7352). Ecco quindi che, l'impossibilità di sommare la commissione di estinzione anticipata con gli interessi corrispettivi e le spese collegate all'erogazione del finanziamento, rilevanti per la determinazione del T.E.G., deriva - per un verso - dalla logica esigenza di comparare grandezze omogenee e - per altro verso - dalla diversità di funzioni e presupposti della prima rispetto ai secondi, non potendosi far dipendere la natura usuraria del finanziamento dalla condotta tenuta ex post dal mutuatario, configurandosi in tal modo un'usura secundum eventum (in tal senso, Trib. Vicenza 17.4.2020). Deve comunque rilevarsi che la commissione non risulta essere mai stata applicata sul contratto. Vale, pertanto, quanto in precedenza argomentato per gli interessi di mora in punto di irrilevanza degli scenari ipotetici. 2. Sulla nullità per indeterminatezza del tasso alternativo e per mancata indicazione valore assunto dal parametro di indicizzazione (tasso variabile) alla stipula. Gli attori hanno incentrato le loro doglianze anche sull'indeterminatezza del "tasso alternativo" che, in base alle previsioni contrattuali, sarebbe stato applicato dalla Banca nell'ipotesi di omesso calcolo del tasso Euribor da parte della Federazione B.E.. Tuttavia, è decisivo considerare che esso non è mai stato applicato. Si richiama, pertanto, anche sotto questo profilo, Cass. SS.UU. n. 19597/2020, secondo cui ciò che rileva, ai fini della verifica di usurarietà, è esclusivamente il tasso applicato (principio che, sia pure con riferimento agli interessi moratori, riveste carattere generale, come tale applicabile anche nell'ipotesi in cui venga in discussione l'usurarietà del tasso degli interessi corrispettivi). Del tutto pretestuosa risulta, poi, la doglianza, peraltro allegata in via generica, relativa all'omessa indicazione del valore di indicizzazione alla stipula, non trattandosi di indicazione prevista a pena di nullità della clausola, essendo piuttosto una mera violazione dell'obbligo informativo posto a carico dell'istituto di credito che - tuttalpiù e come già si è avuto modo di sottolineare - integra un'ipotesi di inadempimento contrattuale, cui la legge riconosce la tutela risarcitoria, non esplicitamente azionata nel presente giudizio. 3. Sulla nullità parziale del contratto per violazione dell'art. 117, co. 6 T.U.B. Gli attori contestano che l'indicatore sintetico di costo dichiarato nel contratto di mutuo (c.d. "ISC") sarebbe inferiore da quello poi effettivamente applicato (cd. verificato), il che comporterebbe la nullità della clausola di determinazione ai sensi dell'art. 117, comma 6, del TUB, con conseguente sostituzione del tasso contrattuale nella misura di cui al comma 7 dello stesso articolo. La tesi non può essere accolta. Come evidenziato anche dalla giurisprudenza di merito (cfr. in particolare Corte appello Torino sentenze 01/10/2020, n. 967, n. 83/2019 e n. 654/2020) con indirizzo al quale si intende dare continuità, l'Indicatore sintetico di costo (ISC) esprime in percentuale il costo effettivo e complessivo di un finanziamento o di altra operazione bancaria di concessione di una linea di credito. Introdotto dalla direttiva europea 90/88/CEE, è stato recepito nel sistema normativo italiano, per la prima volta, dalla Deliberazione del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio n. (...) del 4.03.3003, che, all'art. 9, comma 2, prevedeva, in relazione alle operazioni e ai servizi individuati dalla (...), l'obbligo, per tutti gli intermediari, "a rendere noto un "Indicatore Sintetico di Costo" (ISC) comprensivo degli interessi e degli oneri che concorrono a determinare il costo effettivo dell'operazione per il cliente, secondo la formula stabilita dalla (...) medesima". L'ISC non costituisce, quindi, un tasso di interesse o una specifica condizione economica da applicare al contratto di finanziamento, ma svolge unicamente una funzione informativa finalizzata a mettere il cliente nella posizione di conoscere il costo totale effettivo del finanziamento prima di accedervi e al fine di poter confrontare adeguatamente e consapevolmente una pluralità di proposte bancarie prima di scegliere il contraente che offra condizioni migliori. L'ISC riassume in un unico dato percentuale l'onere complessivo che il cliente andrà a sopportare in relazione all'operazione bancaria (nel caso di specie, al mutuo ipotecario), onere complessivo derivante dal conteggio di tutti i costi connessi alla stessa, costi che -essi sì- devono essere specificamente stabiliti nel contratto e pattuiti con la Banca; l'indicazione dell'ISC è dunque connesso all'onere informativo del cliente ma non rappresenta un (ulteriore e distinto) costo dell'operazione, né una "clausola" o "condizione" della stessa intesa come pattuizione (in quanto tale soggetta ad una valutazione di validità o invalidità). La mancata o erronea indicazione dell'ISC "ripercuote i suoi effetti unicamente sull'aspetto della completezza ed immediatezza informativa per il cliente, dato che l'ISC è l'unico valore che consenteal cliente di essere perfettamente consapevole del costo complessivo del finanziamento, permettendogli anche un eventuale confronto con altre offerte presenti sul mercato. Tuttavia, non si tratta di informazione la cui carenza è idonea ad incidere sulla validità dei tassi e costi pattuiti. (?) L'eventuale omissione o errata indicazione, rappresentando una violazione degli obblighi informativi e di pubblicità sulle condizioni economiche del credito da parte della banca, non riverbera sul contenuto principale del contratto stesso, ma può determinare l'intervento sanzionatorio della (...) nel caso in cui l'istituto di credito, in via di autoregolamentazione, non abbia provveduto all'adeguamento dei propri moduli contrattuali in uso" (Tribunale Monza, 17 agosto 2017, n. 2403). Ciò ritenuto, appare evidente l'inconferenza del parametro normativo invocato a sostegno della tesi della nullità quale conseguenza dell'errata indicazione dell'ISC. Alla luce di tutti i principi di diritto sopra richiamati e delle argomentazioni svolte, la richiesta istruttoria di disporsi consulenza tecnica contabile, così come avanzata dalla difesa attorea anche in sede di comparsa conclusionale, non può che essere dichiarata inammissibile in quanto del tutto superflua ai fini del decidere. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della parte attrice e si liquidano come in dispositivo, in base al valore della domanda nella misura dichiarata nell'atto di citazione (indeterminato) e secondo lo scaglione "complessità media" in considerazione del numero e della complessità questioni giuridiche esaminate, in base all'attività in concreto espletata, facendo applicazione dei criteri di cui al D.M. 10 marzo 2014, n. 55 (così come modificato dal D.M. n. 147 del 2022, trattandosi di prestazioni professionali esaurite successivamente all'entrata in vigore dello stesso). P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando nel contraddittorio delle parti, disattesa o assorbita ogni diversa domanda o eccezione: 1. rigetta le domande; 2. condanna (...) e (...) al pagamento, in favore di (...) S.p.A., delle spese del presente giudizio, che si liquidano in Euro 9.000,00 per compensi, oltre Iva e Cpa, come per legge, nonchè rimb. forf. (pari al 15% del compenso). Così deciso in Novara il 4 aprile 2023. Depositata in Cancelleria il 6 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO il Tribunale Ordinario di Novara in funzione di giudice del lavoro, nella persona del dott. Gabriele Molinaro, all'udienza del 30.3.2023, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa di primo grado iscritta al n. r.g. 330/2021 promossa da: (...) (c.f. (...)), elettivamente domiciliata in Novara, via (...), presso lo studio dell'Avv. BA.MA., che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso introduttivo; - ricorrente contro (...) FONDAZIONE ONLUS (c.f. (...)), in persona del suo legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Novara, C.so Cavallotti n. 40, presso lo studio dell'Avv. SC.PI., che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce alla memoria difensiva; - convenuto OGGETTO: Licenziamento individuale per giusta causa FATTO E DIRITTO Con ricorso depositato in data 31.5.2021, (...) ricorreva al Tribunale di Novara, in funzione di giudice del lavoro, per sentire accogliere le sopra indicate conclusioni. Riferiva la ricorrente di essere stata assunta da parte convenuta il 1.2.2013 e di avere lavorato presso il centro servizi per anziani sito in (...), vicolo (...) n. 11, con mansioni di operatrice socio assistenziale, in forza di vari contratti a tempo determinato, trasformati a tempo indeterminato dal 10.12.2015. L'orario di lavoro aveva, nel tempo, subito diverse variazioni, come da lettere e buste paga che produceva. Il 23.10.2020, ella aveva ricevuto una contestazione disciplinare (doc. 15 ric.) in cui, premesso che ella rientrava tra il personale operante in aree ad alto rischio di infezione, secondo il piano di sorveglianza per la prevenzione Covid-19 prot. (...) del 2.9.2020 della Direzione sanitaria e welfare della Regione Piemonte e che conseguentemente era soggetta alla sottoposizione obbligatoria a tampone rinofaringeo ogni 15 giorni, le veniva contestato: "ai sensi e per gli effetti del combinato disposto di cui all'art. 7 della L. n. 300 del 1970 e degli artt. 72 e ss del CCNL a lei applicabile - il gravissimo episodio di cui si è resa protagonista nel corso della mattinata di ieri 22 ottobre u.s. quando si è categoricamente rifiutata di sottoporsi al tampone rinofaringeo programmato secondo le suddette prescrizioni (...) e ha abbandonato il posto di lavoro, lasciando il reparto del tutto scoperto e gli ospiti privi di assistenza. Alle ore 10.00 di ieri mattina, invitata dal personale infermieristico ad effettuare il suddetto test, si è categoricamente rifiutata di sottoporti all'esame e ha abbandonato il posto di lavoro, lasciando il reparto completamente scoperto e gli ospiti privi di assistenza. Recatasi all'esterno della struttura ha telefonato al marito, il quale, presentatosi immediatamente, ha contattato i Carabinieri, sollecitandone l'intervento. Arrivati in struttura e preso atto delle circostanze i Carabinieri stessi non hanno fatto altro che confermarle e ribadirle il suo obbligo di sottoporsi al tampone". La missiva, evidenziando la gravità del fatto, la violazione di prescrizioni sanitarie obbligatorie e la turbativa al normale esercizio dell'attività, aveva assegnato il termine di cinque giorni per le giustificazioni, disponendo, nelle more, la sospensione cautelare dall'attività lavorativa. Con lettera datata 3.11.2020 (doc. 16 ric.), la lavoratrice aveva reso le proprie giustificazioni e il 30.10.2020, con messaggio di posta elettronica del sindacalista (...), aveva altresì domandato l'audizione personale (doc. 19 ric.). Con lettera datata 13.11.2020, richiamata la contestazione e ritenute infondate le giustificazioni, il datore di lavoro l'aveva licenziata per giusta causa (doc. 20 ric.). Il licenziamento era stato impugnato stragiudizialmente con missiva del 5/9 dicembre 2020 (doc. 21 ric.). Sosteneva il carattere pretestuoso del recesso, a suo dire motivato dalle proprie legittime richieste alla datrice di lavoro, argomentando circa l'insussistenza del fatto contestato. Allegava, infatti, di non essersi mai rifiutata di sottoporsi al tampone, ma che in occasioni di precedente esecuzione di tale test, ad aprile e maggio 2020, aveva avuto sanguinamenti dal naso e forti emicranie. Pertanto, ella aveva chiesto al datore di lavoro di essere sottoposta ad altra forma di test. Tali richieste erano state disattese e anzi il mattino stesso del 22.10.2020, la ricorrente aveva appreso che sarebbe stata sottoposta al tampone rino faringeo. Negava di aver lasciato il reparto scoperto, in quanto, durante l'esecuzione dell'esame, la collega (...), che vi si era già sottoposta, l'avrebbe sostituita nelle more. Allegava che, recatasi al piano inferiore, dove si stavano eseguendo i tamponi, ella si era limitata a chiedere spiegazioni e la possibilità di sottoporsi a un esame diverso (tampone salivare o test sierologico), a causa delle precedenti reazioni avverse. Evidenziava che, nel modulo di consenso informato (doc. 17 ric.), era teoricamente prevista tale possibilità, ma di fatto il (...) non consentiva esami diversi dal tampone rinofaringeo. La ricorrente consegnava, pertanto, la documentazione prodotta sub doc. 18 ric. e chiedeva informazioni circa il produttore del tampone, il soggetto che avrebbe eseguito il test e il soggetto responsabile e chiedeva che parte convenuta si assumesse la responsabilità di eventuali eventi avversi. Riferiva che, a quel punto, la Direttrice del Centro aveva iniziato a urlare e la ricorrente aveva chiamato il marito e i Carabinieri, che erano intervenuti. Dopo l'allontanamento di questi ultimi, (...) e A.E. avevano preteso che la ricorrente sottoscrivesse il modulo del consenso informato, dichiarando il rifiuto a sottoporsi a qualsiasi test. Affermava di averlo sottoscritto in una situazione di forte stress e senza comprenderne il significato. Allegava di avere, quindi, chiesto di tornare in possesso del modulo e sottoporsi al test, ma era stata invitata ad abbandonare la struttura. Ne era seguita la contestazione disciplinare e il licenziamento, che riteneva illegittimo, domandando la condanna della controparte alla reintegrazione o, in subordine, il riconoscimento della tutela indennitaria. Si costituiva il (...) FONDAZIONE ONLUS con memoria difensiva depositata in data 8.11.2021. Riferiva che, con comunicazione email dell'8.4.2020, l'(...)N. aveva ordinato alla RSA di sottoporre gli operatori sanitari alle sue dipendenze a test molecolare per il Covid-19, ogni 15 giorni. L'Ente aveva ottemperato alla richiesta, organizzando la somministrazione dei test dal 15.4.2021, congiuntamente con il SISP (Centro igiene e sanità pubblica). In tale prima occasione, la ricorrente era risultata positiva ed era stata sottoposta a quarantena e poi nuovamente sottoposta a tampone il 1.5.2020 e il 5.5.2020. Il 29.9.2020, quando era prevista una nuova somministrazione del test, ella non si era presentata e si era resa irreperibile. Precisava di essere obbligata a trasmettere alla Regione Piemonte gli esiti dei tamponi e che la Regione stessa forniva i materiali da utilizzare per il test. Il 22.10.2020, la ricorrente avrebbe dovuto sottoporsi all'esame, ma si era rifiutata dichiarando che esso violava i suoi diritti e le sue libertà e successivamente aveva chiamato il marito e i Carabinieri e dopo il loro allontanamento, aveva sottoscritto il modulo con cui aveva negato il consenso alla sottoposizione a qualsiasi test ed era conseguentemente stata allontanata dalla struttura. Deduceva che la condotta della ricorrente aveva costretto una collega a lavorare da sola in reparto e aveva creato turbamento nella struttura. Quanto alla richiesta di audizione, allegava che il sindacalista D.P. aveva revocato la richiesta di audizione, affermando di non assistere più la ricorrente. Argomentava, quindi, in ordine alla correttezza del procedimento seguito, alla gravità della condotta della ricorrente e alla proporzionalità della sanzione, attesa la resistenza all'ordine, impartito dall'Autorità sanitaria, di sottoporre il personale al tampone. Riteneva che essa costituisse insubordinazione grave, ai sensi dell'art. 72, lett. i), del CCNL applicabile. Ciò anche in ragione del pregiudizio recato all'organizzazione aziendale e il turbamento dell'attività. Deduceva che, qualora fosse stato consentito alla ricorrente di lavorare in violazione delle direttive sanitarie, l'(...) sarebbe intervenuta a tutela dell'incolumità di ospiti e visitatori. Argomentava, quindi, in ordine alla nozione di insubordinazione, citando vari precedenti di legittimità sul punto. Sosteneva, in ogni caso, l'impossibilità della reintegrazione, sia per la fondatezza della contestazione, sia in quanto l'azienda presso cui la lavoratrice operava era stata, nelle more, affittata ad altra società. Contestava, infine, la dedotta natura ritorsiva del recesso. Fallito il tentativo di conciliazione, veniva disposta richiesta di informazioni ex art. 213 c.p.c. ai Carabinieri di Cameri ed escussi i testi ammessi all'udienza del 6.12.2022, le parti rinunciavano ai residui testi e chiedevano fissarsi udienza di discussione. All'udienza odierna, udite le conclusioni delle parti, la causa veniva posta in decisione. 1. Il ricorso non è fondato e va respinto. I fatti contestati alla ricorrente hanno trovato piena conferma nell'istruttoria svolta, fatta eccezione per la scopertura del reparto, che non è stata totale ma limitata a un operatore sui due presenti in turno ma comunque, come confermato dai testi, tale da impedire lo svolgimento di alcune attività e da violare le disposizioni aziendali, che prevedevano la presenza costante di due operatori (del tutto ragionevolmente, atteso che nell'assenza prolungata di uno dei due, l'altro non avrebbe potuto allontanarsi nemmeno in caso di urgenze, se non lasciando soli i pazienti). Per contro, hanno trovato riscontro il rifiuto di sottoporsi al tampone, l'abbandono del reparto dovuto a tale scelta e il pregiudizio che ne è derivato all'attività assistenziale. Giova, quindi, riportare gli esiti dell'istruttoria. Il Comandante della Stazione Carabinieri di Cameri, a cui è stata rivolta richiesta di informazioni ex art. 213 c.p.c. circa l'intervento menzionato da entrambe le parti, ha trasmesso annotazione redatta dal personale intervenuto, che così ha riferito: "In data 22.10.2020 alle ore 10.15 circa (?) venivamo mandati (...) presso la casa di Cura per anziani San Michele Arcangelo per dei dissidi tra la direttrice della struttura e una sua dipendente. Giunti sul posto alle successive ore 10,30, si prendeva contatti con la richiedente (...), la quale ci aveva contattato perché la direttrice della struttura Dott.ssa (...), non le voleva far iniziare il turno di servizio, perché si rifiutava di sottoporsi al tampone Covid-19. Presente sul posto insieme alla (...), c'era anche il marito (...), chiamato sul posto dalla moglie. La richiedente agli operanti riferiva che lei non era contraria a fare il tampone ma che voleva un documento firmato dalla direttrice che si assumeva la responsabilità di eventuali danni, dovuti alla somministrazione dei tamponi naso faringei, in modo così frequente. La direttrice informava i presenti che lei non era obbligata a firmare nessuna presa di responsabilità, per la somministrazione dei tamponi, in quanto era scritto in nessuna circolare e/o disposizione in materia di contenimento della pandemia Covid-19. Inoltre sottolineava come le disposizioni impartite sia dal Ministero della Salute che dall'(...), vietavano l'accesso alle strutture come le RSA, senza un tampone in corso di validità. La (...) ribadiva che senza un documento firmato dalla direttrice lei non si sarebbe sottoposta ad alcun tampone. A questo punto vedendo che la situazione non poteva risolversi sul posto e che le parti rimanevano saldamente sulle proprie idee, si invitava la richiedente a tornare a casa in quanto impossibilitata a entrare nella struttura, insieme alla richiedente anche gli operanti lasciavano la struttura alle ore 11.00". La teste (...), direttrice della struttura RSA (...), ora dipendente di altra società gestrice, ha riferito "Ero presente nella struttura il 22.10.2020. La ricorrente si è rifiutata di fare il tampone che l'(...) ci aveva prescritto di fare e che tutt'ora facciamo. Aveva motivato il rifiuto dicendo che aveva avuto esperienze negative precedenti con tamponi effettuati presso la (...) e quindi non voleva fare il tampone in struttura, questo a parole, non mi ha mai consegnato nulla. La ricorrente era in turno, in assistenza con la collega in un reparto. All'epoca i tamponi erano quindicinali, come da prescrizione dell'(...), che ci comunicava il giorno in cui dovevano essere somministrati. Io andavo a prenderli in (...), erano contati e venivano fatti a tutto il personale, non solo sanitario. All'epoca erano tamponi molecolari, avevamo due ore di tempo per fare il tampone a tutti gli operatori da quando ci venivano consegnati. Dovevamo dare una motivazione per tutti i tamponi che non venivano effettuati e l'unica motivazione che l'(...) riteneva valida era l'assenza per malattia in quel giorno. In quel caso, al rientro in servizio, l'(...) forniva un altrotampone da effettuare. Noi appendevamo un cartello con scritto il giorno e l'orario di effettuazione dei tamponi, in modo che il personale che era a casa per riposo venisse a fare il tampone e poi tornasse a casa. Il cartello veniva esposto circa due giorni prima. Venivano chiamati tutti al telefono, tranne i dipendenti in turno, che venivano chiamati in reparto e poi rientravano in servizio. I tamponi venivano eseguiti da un'infermiera che aveva seguito un corso specifico presso l'(...). Mentre la ricorrente è stata chiamata dal reparto era in turno con un'altra collega, in tutti i reparti ci sono due operatori, perché ciascun reparto ospita 20 pazienti non autosufficienti e quindi un solo operatore non è sufficiente. Un operatore sarebbe stato sufficiente solo per i cinque minuti di esecuzione del tampone. Quando la ricorrente è scesa, ha cercato di consegnarmi dei fogli, dicendomi che avrei dovuto firmare per accettazione, che io ho rifiutato di firmare per accettazione, rendendomi disponibile a firmarli per ricevuta. Come sempre, le fu sottoposto un modulo di consenso, fornito dalla Regione Piemonte. Ciascun dipendente sottoposto a tampone compilava da sé il proprio modulo. Non era possibile scegliere altro tipo di tampone, rispetto a quello fornito dalla Regione. Le caselline sul modulo servivano solo per sapere quale tipo di tampone sarebbe stato eseguito, ma non c'era alcuna possibilità di scelta. Preciso che la ricorrente voleva che firmassi un'assunzione di responsabilità per il caso di eventi avversi, cosa che io non potevo fare. Preciso altresì che non è mai capitato che qualcuno del mio personale si sia rifiutato di fare il tampone. Al mio rifiuto di firmare i moduli suddetti, la ricorrente, urlando, nel mio ufficio all'ingresso della struttura, nei pressi della reception, senza dirmi cosa stava facendo è andata a telefonare al marito, nonostante il divieto aziendale di tenere il cellulare con sé. Il marito è entrato in struttura senza mia autorizzazione e poi loro hanno chiamato i Carabinieri. Se non l'avessero fatto loro, l'avrei fatto io, anche perché era un momento molto difficile. Io ho detto al marito di non entrare nella struttura e loro hanno chiamato i Carabinieri. Questi ultimi hanno invitato il marito ad andarsene, hanno parlato con la ricorrente e hanno chiesto di fronte a me se si sarebbe sottoposta al tampone. Alla sua risposta negativa, le ho chiesto di sottoscrivere il diniego del consenso e dopo non le ho più consentito di risalire al piano. La discussione è durata oltre un'ora. Poi la ricorrente è scesa nello spogliatoio e quando è risalita mi ha chiesto di stracciare il foglio del consenso, perché non aveva capito cosa aveva firmato. Allora glielo ho rispiegato, precisando che si trattava del diniego del consenso a effettuare il tampone e le ho dato una fotocopia. Io le ho chiesto se si sarebbe sottoposta il tampone e alla sua risposta negativa, mi sono rifiutata di stracciare il foglio. Poi me ne ha dette di tutti i colori, dicendo in particolare che era stata costretta a firmare il foglio. Era presente la mia coordinatrice dott.ssa (...). Preciso che la ricorrente, nel ricorso, l'ha chiamata (...), ma non esiste nessuno con quel nome in struttura. ADR: ho letto il ricorso, che mi è stato sottoposto dall'Avv. (...). Abbiamo chiesto più volte, anche in presenza dei Carabinieri, e la ricorrente ha sempre rifiutato di sottoporsi al tampone. ADR: la struttura non poteva consentire la scelta del tipo di tampone da somministrare. ADR: la ricorrente aveva chiesto di sottoporsi al tampone salivare, ma non c'era possibilità di scelta, noi dovevamo somministrare il tampone fornitoci dall'(...). ADR: al momento della firma del modulo sub doc. 17 ric., sicuramente non era presente il marito, non ricordo se fossero presenti, o meno, i Carabinieri. Alla teste viene sottoposto il doc. 18 ric. e conferma che era quello il documento che la ricorrente voleva che firmasse. ADR: non ricordo che la ricorrente avesse dato disponibilità a sottoporsi al tampone in caso di firma di quel documento. In ogni caso preciso che non avevo le competenze per valutarlo e che l'(...) non avrebbe comunque accettato alcuna giustificazione diversa dalla malattia per evitare il tampone. ADR: io avevo chiamato il sindacalista per fissare una data per l'audizione e il sindacalista mi ha risposto che lui non seguiva più la signora, perché c'era stata un'incomprensione tra di loro. La teste (...), già dipendente della convenuta e coordinatrice del personale, ha dichiarato: "Il 22.10.2020 ero presente in struttura. ADR: sapevo di questa causa, quando ero ancora coordinatrice la direttrice mi aveva riferito che era pendente questo contenzioso. Non ho letto gli atti. La ricorrente lavorava in reparto con un'altra collega, facevamo scendere una persona alla volta dal reparto per non lasciarlo scoperto. In ogni reparto ci sono due operatori. È possibile che temporaneamente uno dei due debba assentarsi, ma alcune pratiche lavorative non possono essere svolte da un operatore solo. Io mi occupavo di etichettare le provette, quindi ero presente nel luogo dove la coordinatrice infermieristica eseguiva il tampone. Ricordo che la ricorrente è scesa con un plico di fogli, che mi ha consegnato dicendomi che non si sarebbe sottoposta al tampone e che portava questa documentazione a giustificazione del proprio rifiuto. Alla teste viene sottoposto il doc. 18 ric. e risponde: non credo che fossero questi, ricordo che c'era un articolo scaricato da internet. Inizialmente le ho chiesto di attendere la fine dell'esecuzione dei tamponi, poi le ho spiegato che era l'(...) a imporre il tipo di tampone da effettuare e non eravamo in grado di rispondere alle sue domande su lotto e provenienza del tampone, non sapevamo questi dati perché i tamponi ci venivano forniti dall'(...) in numero esatto. La ricorrente ha continuato a rifiutarsi di sottoporsi al tampone e ha chiamato in struttura suo marito e i Carabinieri. È rimasta per diverso tempo all'esterno della struttura, perché non avevamo permesso a suo marito di entrare. I Carabinieri ci hanno detto che non potevano fare nulla, se non avvertirla che in caso di dissenso all'effettuazione del tampone, avrebbe dovuto lasciare il posto di lavoro. A seguito del colloquio con marito e Carabinieri, questi ultimi ci hanno comunicato che non voleva sottoporsi al tampone. A quel punto le ho sottoposto il modulo del consenso informato fornitoci dall'(...), in cui c'erano le opzioni presta o nega il consenso e le ho chiesto di barrare "nega" e di firmarlo. Quel modulo era in uso anche in precedenza, le avevamo spiegato che si trattava del modulo di consenso e che se non avesse voluto sottoporsi al tampone avrebbe dovuto barrare "nega il consenso" per mettere per iscritto quello che aveva detto verbalmente. Questo anche perché noi mandavamo all'(...) in precedenza gli elenchi del personale e i tamponi non effettuati andavano giustificati per iscritto. Dopodiché, la ricorrente è scesa negli spogliatoi a cambiarsi e poi è risalita nell'ufficio chiedendo di stracciare il documento. Le ho risposto che lo avrei fatto solo in caso disottoposizione al tampone, altrimenti quello era la trasposizione per iscritto di quello che stava facendo. Anche dopo aver chiesto di stracciare il modulo la ricorrente non ha dato il consenso a fare il tampone. Dopodiché, la ricorrente si è allontanata dalla struttura. ADR: nego che la ricorrente avesse lamentato disturbi in occasione dei precedenti tamponi in struttura, dal momento che nelle occasioni precedenti aveva presentato giustificazioni per motivi familiari e in un'altra non si era presentata senza giustificazione. In seguito a eventi di questo tipo, la (...) ci aveva inviato un richiamo in merito ai tamponi non effettuati, precisando che qualunque lavoratore era obbligato a presentarsi. ADR: forse la ricorrente aveva proposto un esame alternativo, ma non siamo noi della struttura a poter scegliere quale tipo di test eseguire, noi ci limitiamo a eseguire le indicazioni dell'(...). ADR: non ricordo che la ricorrente avesse dato disponibilità a sottoporsi al tampone in caso di firma del documento che lei ci aveva sottoposto". La teste (...), ha reso dichiarazioni poco rilevanti, in quanto non presente in struttura all'epoca dei fatti e a conoscenza soltanto di ciò che le era stato riferito dalla ricorrente stessa, precisando di provare a sua volta disappunto per la sottoposizione a una procedura poco piacevole. Il teste (...), marito della ricorrente, ha riferito: "Il 22.10.2020, mia moglie mi ha chiamato ripetutamente, perché è arrivata al lavoro e le hanno detto che avrebbe dovuto fare il tampone. Lei era un po' intimorita perché aveva avuto problemi con tamponi fatti in precedenza e aveva chiesto di sottoporsi a un esame diverso. Io ho cercato di tranquillizzarla, dicendole: ci dovrebbe essere la possibilità di fare altre prove. Poi mi ha richiamato e mi ha detto che la casa di riposo non dava la possibilità di fare altre prove. A quel punto le ho detto di sottoporre di nuovo il problema che aveva avuto e di insistere per ottenere un altro tipo di esame e se avessero insistito avevo detto che era nostro diritto sapere chi avrebbe eseguito la prova e il lotto del materiale utilizzato, per il caso che fosse successo qualcosa. Siccome l'ho sentita particolarmente allarmata, l'ho raggiunta sul lavoro. Sono arrivato nell'atrio, lei è venuta lì, ho visto che c'erano anche i Carabinieri, mi ha rispiegato la situazione, le posizioni tra la direttrice e mia moglie erano divenute inconciliabili. Io le ho detto di stare tranquilla, suggerendole di chiedere una serie di informazioni per stare tranquilla, se proprio avesse dovuto sottoporsi al tampone. Siamo stati una mezz'ora in attesa e ho parlato con i Carabinieri, ho cercato di spiegare loro che non ero arrivato per recare turbamento, anche loro mi hanno detto che non sapevano bene che intervento fare, non vedevano il perché essere lì e intervenire. Io ho fatto presente che il lavoro era importante ma che i precedenti tamponi avevano causato emicrania e sanguinamenti, chiedendo a mia volta informazioni. Loro hanno concordato che la situazione si poteva tranquillizzare tra le due parti. Io sono andato via un po' prima di loro, e poi sono andati via anche loro. ADR: io non sono entrato a parlare con la direttrice. A me interessava tranquillizzare mia moglie e cercare di avere un atteggiamento costruttivo. Quando ho visto che lei non era in pericolo, ho ritenuto di essere tranquillo. Preciso che io poi sono andato via, presumendo che la situazione si sarebbe risolta o mediante lasottoposizione a un test differente, o mediante la fornitura delle informazioni richieste. Io le ho raccomandato di stare lì e fare quello che il datore di lavoro le avesse chiesto. Preciso altresì che poi mi ha richiamata e mi ha detto che le avevano fatto firmare un modulo, che lei non ha letto. Mi ha mandato la foto e si trattava di un modulo in cui dichiarava che non era disponibile a fare il tampone. Lei mi ha detto che pensava di aver firmato un modulo dopo il quale le avrebbero fatto fare il tampone. In realtà mi ha detto che poi l'hanno mandata a casa perché non poteva restare nella struttura senza fare il tampone, rifiutandosi di riconsegnarle il modulo firmato. ADR: quando ci siamo sentiti, lei mi ha detto che aveva con sé il modulo che avevamo preparato insieme per avere le informazioni (confermo che si tratta del doc. 18 ric. che mi viene rammostrato). Non ho assistito ad alcun colloquio tra mia moglie e il personale della struttura". 2. Va, poi, detto che il doc. 18 ric., che la ricorrente pretendeva essere sottoscritto dalla direttrice della struttura, non si limita a un'assunzione di responsabilità, peraltro prevista dalla legge, per qualsiasi struttura sanitaria che cagioni danni nell'esecuzione delle prestazioni diagnostiche e terapeutiche. Esso consiste in un'articolata dichiarazione in cui, tra l'altro, si legge: - che il tampone non è uno strumento diagnostico affidabile per la ricerca della malattia; - che esso costituisce un "atto sanitario invasivo e pericoloso", che non può essere imposto ad alcuno, se non in violazione di riconosciuti principi internazionali; - che esso non è obbligatorio e che quindi la struttura avrebbe dovuto dichiarare il nome del produttore del tampone e dell'esecutore del test (dato, quest'ultimo, certamente noto alla ricorrente, dato che si tratta di un esame che si svolge con il paziente presente e sveglio); - che stante "la volontà da parte vostra di sottopormi a tampone nonostante io non presenti sintomi di una qualche rilevanza medica", parte convenuta avrebbe dovuto assumersi la responsabilità per eventi avversi e segnalare il nome di un soggetto "che risponderà per questo punto". Appare, dunque, evidente che non potesse esigersi dalla direttrice della struttura la sottoscrizione di un documento recante dichiarazioni di tal fatta, né che si possa ritenere che la sua mancata firma renda ingiustificato il licenziamento. D'altro canto, qualora la ricorrente avesse subito un danno biologico dall'esecuzione dell'esame, non vi è dubbio che essa avrebbe trovato tutela ai sensi della legislazione vigente. È, poi, il caso di rilevare incidentalmente che la ricorrente ha offerto prove del tutto insufficienti circa i presunti effetti avversi che avrebbe subito in occasione delle precedenti somministrazioni del tampone. Non solo, infatti, i testimoni hanno riferito la circostanza per averla appresa dalla ricorrente stessa e quest'ultima non ha offerto alcuna evidenza medica (certificazioni, attestati di visite o simili documenti). Anche a voler ritenere sussistenti i sintomi lamentati, non vi è alcuna evidenza della loro riconducibilità causale all'esame diagnostico in parola. 3. Non vi è stata seria contestazione circa il fatto che il tampone molecolare rinofaringeo fosse stato imposto dall'(...), su disposizioni della Regione Piemonte, a sua volta derivanti dalle linee guida del Ministero della salute. Ciò ha, peraltro, trovato ampia conferma sia documentale (docc. 2-6-7-8 conv.), sia nelle sopra riportate testimonianze. Si trattava, peraltro, com'è noto, dell'unica misura possibile per la limitazione dei contagi da Covid-19, in un'epoca, quella dei fatti, in cui la vaccinazione non era ancora diffusa e vi erano forti limitazioni alla mobilità delle persone e alle attività economiche e sociali, dovute alla preoccupante situazione sanitaria. Poste queste premesse, si deve rammentare che "Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, quella di giusta causa di licenziamento è nozione legale che prescinde dalla previsione del contratto collettivo. L'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del lavoratore, contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (cfr. in termini Cass. n. 19023 del 2019, 27004 del 2018 ed ivi le richiamate Cass. n. 14321 del 2017; Cass. n. 52830 del 2016 e Cass. n. 9223 del 2015). 7. Ne consegue che il giudice chiamato a verificare l'esistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento incontra solo il limite che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione, vale a dire alla condotta contestata al lavoratore, (oltre Cass. n. 27004 del 2018 e Cass. n. 14321 del 2017, citate, anche Cass. n. 6165 del 2016 e n. 19053 del 2005). 8. Al giudice del merito è consentito, perciò, di escludere che un comportamento, pur sanzionato dal contratto collettivo con il licenziamento, integri una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, avuto riguardo sia alle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato sia alla compatibilità con il principio di proporzionalità. 9. Stante, però, l'inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, il giudice è sempre tenuto a verificare se la previsione del contratto collettivo sia conforme alle nozioni di giusta causa e giustificato motivo (in argomento, Cass. n. 6498 del 2012, in motivaz.). Come è stato già affermato (Cass. n. 9396 del 2018), la scala di valori recepita dai contratti collettivi esprime le valutazioni delle parti sociali in ordine alla gravità di determinati comportamenti e costituisce solo uno dei parametri a cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto le clausole generali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo. Queste ultime possono anche non coincidere completamente o esaurirsi nelle previsioni della contrattazione collettiva. 10. Ne discende che il giudice deve verificare la condotta, in tutti gli aspetti soggettivi ed oggettivi che la compongono, anche al di là della fattispecie contrattuale prevista (Cass. n. 27004 del 2018, in motivazione, p. 7.5) (Cass., sez. lav., 27.3.2020, n. 7567, in motivazione). Trattasi, d'altronde, del consolidato indirizzo giurisprudenziale per cui nella valutazione dei motivi del licenziamento il giudice deve fare riferimento anzitutto alle disposizioni di legge in materia di giusta causa e tenere conto delle fondamentali regole del vivere civile (Cass. 17 luglio 2018, n. 19013), dell'oggettivo interesse dell'organizzazione e delle tipizzazioni di giusta causa presenti nei contratti collettivi di lavoro (anche aziendali) stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi o nei contratti individuali di lavoro stipulati con l'assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione. Il contratto collettivo applicabile al rapporto (doc. 22 ric.) prevede, all'art. 71, la sanzione del licenziamento in caso di "insubordinazione grave verso i superiori" (lett. i) e di "abbandono del posto di lavoro o grave negligenza nell'esecuzione del lavoro o di ordini ricevuti che implichino pregiudizio all'incolumità delle persone o alla sicurezza degli ambienti". Per altro verso, anche in considerazione dell'obbligo, imposto dall'Autorità sanitaria, di stretto monitoraggio del personale operante in strutture frequentate da pazienti fragili (qual è, senza dubbio, un centro per anziani) e del conseguente divieto di ammettervi persone non controllate, non può, ad avviso del Tribunale, non ritenersi che la condotta tenuta dalla ricorrente sia preclusiva della continuazione, anche temporanea, del rapporto. E che essa, come correttamente osservato dalla convenuta, ha causato un serio pregiudizio all'organizzazione aziendale, tale da ritenere fondato il dubbio circa il futuro adempimento degli obblighi contrattuali della lavoratrice. Nessuna prova è, poi, stata offerta circa il carattere ritorsivo del provvedimento, in ogni caso scarsamente rilevante, attesa la grave rilevanza disciplinare del comportamento. 4. Insussistenti sono pure i vizi formali eccepiti dalla ricorrente, atteso che tanto le giustificazioni, quanto la richiesta di audizione, sono pervenute in ritardo rispetto al termine a difesa di cinque giorni, concesso dalla datrice di lavoro, in conformità all'art. 7 St. lav. Come dichiarato dalla stessa ricorrente, infatti, la lettera di contestazione disciplinare risale al 23.10.2020 (p. 3 ricorso), mentre la richiesta di audizione è stata formulata il 30.10.2020 e le giustificazioni scritte, comunque ampiamente considerate nella lettera di licenziamento (doc. 20 ric.), sono datate 3.11.2020. Per altro verso, la teste E. ha confermato di aver contattato il sindacalista per fissare un appuntamento e che questi ha rifiutato, sicché non pare davvero di poter mettere in dubbio la correttezza di parte convenuta. 5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano, a norma del D.M. n. 55 del 2014, come modificato dal D.M. n. 147 del 2022, tenuto conto del valore indeterminabile della causa e della non particolare complessità delle questioni di fatto e di diritto che ne hanno costituito oggetto, in complessivi Euro 6.500, oltre rimborso spese forfettario 15% e accessori fiscali e previdenziali come per legge. P.Q.M. Il Tribunale Ordinario di Novara, in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, ogni contraria e ulteriore istanza, domanda ed eccezione disattesa, così provvede: 1) rigetta il ricorso; 2) condanna (...) alla rifusione delle spese processuali a vantaggio di (...) FONDAZIONE ONLUS, liquidate in complessivi Euro 6.500, oltre a rimborso spese forfettario 15% e agli accessori fiscali e previdenziali previsti ai sensi di legge. Così deciso in Novara il 30 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 30 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO di NOVARA Sezione civile Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Annalisa Boido ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. r.g. 2467/2020 promossa da: (...) (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. GU.CO. e dell'avv. AN.PE., elettivamente domiciliato presso i difensori in Vercelli, Viale (...) ATTORE contro (...) SPA (C.F. (...)), rappresentata da (...) Spa (già T. Spa), in forza di procura speciale del 28.11.2018, in autentica notaio C.M. di M. n. (...) di rep. registrata a Milano 1 in data 29.11.2018 al n. 39847 serie 1T, in persona del procuratore speciale Dott. (...), giusta procura del 10.07.2019, a rogito del Notaio Dott. (...) registrata in M. il (...), al N. (...) Serie 1T, con il patrocinio dell'avv. LE.BO., elettivamente domiciliata presso il difensore in Milano, Via (...) CONVENUTO Oggetto: contratti e obbligazioni - confessione MOTIVI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso depositato ai sensi dell'art. 702 bis c.p.c., (...) ha convenuto in giudizio (...) spa dinanzi a questo Tribunale, esponendo: - di essere unico erede della nonna materna, (...), deceduta in Vercelli il 9.4.2018, vedova e unica erede del marito (...), a lei premorto; - che i suddetti (...) e (...) avevano prestato fideiussione a garanzia degli impegni assunti dall'Immobiliare (...) e (...) s.n.c. nel contratto di leasing finanziario da quest'ultima stipulato con la società (...) S.p.A., alla quale è subentrata (...) S.p.A. - che chiamata all'eredità della (...) era stata l'unica figlia (...), in quanto alla madre era premorto l'altro unico figlio, (...), deceduto in Novara il 25.06.1988, celibe e senza figli; - che (...) in (...) ebbe a rinunciare in data 26.04.2018 all'eredità, così che, alla stessa erano subentrati, quali eredi legittimi, i tre figli (...), (...) e (...); - che (...) e (...), entrambe nubili e senza figli, rinunciarono a loro volta all'eredità in data 26.04.2018; - di avere, invece, esso attore accettato puramente e semplicemente l'eredità in data 26.04.2018, divenendo così unico erede legittimo della defunta nonna materna; - di essersi determinato ad accettare l'eredità per essere venuto in possesso della lettera 01.07.2016 di (...), indirizzata all'avv. (...), in allora legale della Sig.ra (...), in risposta alla comunicazione di quest'ultimo, formulata in data per conto e nell'interesse della in allora sua cliente Sig.ra (...); - che in tale lettera (...) specificava e comunicava che "...alla data odierna la posizione debitoria del contratto di leasing n. 814703 risulta di Euro 63.098,13 con mora alla stessa data"; - di essere stato altresì consapevole che i suoi co-fideiussori erano anche (...) e (...), al quale nel frattempo erano subentrati, a seguito del suo decesso, gli eredi legittimi (...), (...) e (...); - di essersi in definitiva determinato ad accettare puramente e semplicemente l'eredità della nonna materna in ragione dell'entità del debito dell'Immobiliare (...) S.n.c. di (...) e (...) nei confronti di (...) S.p.A. - che aveva dichiarato detto debito, alla data del 01.07.2016, in Euro 63.098,13 con mora alla pari data - anche tenuto conto che si trattava di una fideiussione prestata da più soggetti in solido; - di avere successivamente chiesto chiarimenti, tramite il legale della (...), avv. (...), riguardo al motivo per cui il capannone, oggetto della locazione finanziaria n. (...), in origine stipulato tra (...) S.p.A. e Immobiliare (...) s.n.c. di (...) e (...), fosse ancora occupato dalla predetta società nonostante la dichiarata situazione di mora della stessa già alla data del 01.07.2016; - di aver dovuto segnalare l'assenza di risposte da parte di (...) alla Filiale di M. della (...), con pec del 21.06.2018; - che a seguito di tale lettera (...) era intervenuta con pec 03.08.2018 e solo a questo punto, con lettera 03.09.2018, (...) aveva comunicato all'avv. (...) che il credito maturato nei confronti dell'Immobiliare (...) s.n.c., alla data del 03.09.2018, garantito dalla fideiussione prestata anche dai danti causa dell'attuale ricorrente, ammontava ad Euro 67.375,63 con valuta al 03.09.2018 e, inoltre, a Euro 636.662,82 per debito residuo in linea capitale; - che nel frattempo, tuttavia, (...), prima della lettera 3.9.2018 di (...) S.p.A., aveva già il 26.4.2018 accettato, puramente e semplicemente, l'eredità a cui era stato chiamato a seguito della morte della nonna materna. Ciò premesso in fatto, in diritto l'attore ritiene che la lettera 1.7.2016 indirizzata da (...) all'avv. (...), il quale per conto della sua cliente, Sig.ra (...), aveva avanzato richiesta di informazioni al riguardo - integri una confessione stragiudiziale, ai sensi dell'art. 2735 c.c., con riferimento alla dichiarazione relativa all'ammontare del credito della resistente nei confronti dell'Immobiliare (...) s.n.c. e, di riflesso, nei confronti della Sig.ra (...), quale fideiussore, confessione stragiudiziale avente la stessa efficacia probatoria della confessione giudiziale in quanto fatta al legale che rappresentava la parte. Da tale premessa parte attrice fa discendere la conseguenza che debba ritenersi ormai incontrovertibile tra le parti e aventi causa l'ammontare del credito nella misura, dichiarata, di Euro 63.098,13 alla data del 01.07.2016, e che (...) non possa pretendere nei confronti dell'attore importi maggiori; nonché l'ulteriore conseguenza che (...) dovrà tenere l'attore manlevato da eventuali pretese di rivalsa avanzate dai cofideiussori per quanto dagli stessi eventualmente pagato a seguito dell'escussione della fideiussione medesima, per la parte dell'importo superiore a quello indicato a debito dell'Immobiliare (...) s.n.c. nella lettera del 01.07.2016 oltre interessi maturati e maturandi ed accessori, giacché il credito massimo di cui (...) potrà pretendere il pagamento dall'attore sarà pari a quello indicato nella lettera 01.07.2016 oltre accessori maturati. In via subordinata, l'attore, rilevato che, nell'ipotesi di mancato accoglimento della sua precedente prospettazione, egli si troverebbe esposto a garantire, ove sussistente, l'inadempienza dell'Immobiliare (...) s.n.c. per un credito il cui ammontare, secondo (...), dovrebbe quantificarsi alla data del 03.09.2018 in Euro (67.375,63 + 636.662,82) 704.038,75 e rilevato altresì di essere stato indotto in errore, rispetto all'accettazione pura e semplice dell'eredità della de cuius, dalla dichiarazione suddetta resa da (...), addebita a quest'ultima di essere unica responsabile del danno derivatogli e chiede, conseguentemente, di essere tenuto manlevato dalla resistente rispetto a richieste di pagamento correlate alla fideiussione della sua dante causa così come da eventuali rivalse dei co-fideiussori, per importi superiori a Euro 63.098,13, oltre interessi ed accessori dal 1.7.2016. L'attore ha infine precisato, sin dall'atto introduttivo, di aver agito dinanzi al Tribunale di Novara ritenendo invalida la clausola di deroga alla competenza territoriale contenuta nel contratto di fideiussione, in quanto stipulata in violazione dell'art. 1469 ter c.c. e dell'art. 34 del Codice del Consumatore, ritenuto applicabile anche ai contratti stipulati prima della sua entrata in vigore, contratti i cui effetti non si erano esauriti antecedentemente a tale data, ragioni per le quali anche la procedura di mediazione, cui la resistente non ha partecipato, era stata introdotta dinanzi a organismo avente sede in Novara. Rinviata d'ufficio al 16.9.2021 l'udienza già fissata per la comparizione delle parti per il 15.6.2021, si è costituita, in data 3.9.2021, (...) spa, confermando, in fatto, l'avvenuta stipula di contratto di locazione finanziaria con cui l'immobile meglio indicato nell'atto veniva concesso in leasing alla IMMOBILIARE (...) S.N.C. DI (...) E (...) e la fideiussione prestata da (...) e (...) per tutte le obbligazioni derivanti dal contratto di leasing citato. La convenuta ha altresì esposto di vantare un credito derivante dall'inadempimento dell'utilizzatrice nel versamento degli importi contrattualmente dovuti, inadempimento in seguito al quale la concedente si era avvalsa della clausola risolutiva espressa, comunicando la risoluzione del contratto e agendo in giudizio al fine di ottenere, come in effetti aveva ottenuto, ordinanza per il rilascio dell'immobile da parte della IMMOBILIARE (...) S.N.C. in favore di (...) spa, ad oggi non ancora eseguita. Ciò premesso, la resistente ha eccepito, in primo luogo, l'incompetenza territoriale dell'adito Tribunale di Novara in favore del Tribunale di Milano, prevedendo il contratto di fideiussione una clausola, munita di doppia sottoscrizione ai sensi dell'art. 1341 c.c., di elezione di Foro esclusivo individuato nel Foro di Milano per le controversie inerenti il contratto citato e agendo il ricorrente nella medesima posizione contrattuale della de cuius, la garante (...), di cui ha contestato la qualità di consumatore. La resistente ha altresì contestato il ricorso allo strumento del rito sommario di cognizione, nonché, nel merito, la prospettazione attorea, dal momento che l'allora legale della signora (...) aveva ricevuto dettagliata descrizione della posizione debitoria della garante sin dalla comunicazione fax del 18.07.2016 con cui era stato inviato il Piano di Ammortamento Finanziario del contratto di locazione finanziaria in questione ed espressa precisazione che dallo stesso sarebbe stato possibile riscontrare l'intera posizione contrattuale, comunicazione poi richiamata nella corrispondenza successiva, sicché se l'attore avesse debitamente considerato tutta la corrispondenza intercorsa con il già legale della signora (...), avrebbe potuto facilmente avere completa cognizione del debito residuo completo, concludendo come indicato in epigrafe. Mutato il rito, in relazione alla complessità delle questioni poste dalla causa, e ritenute superflue le prove orali articolate dalla convenuta, la causa è giunta all'udienza del 20.9.2022 per la precisazione delle conclusioni e, all'esito, è stata trattenuta in decisione. 1. Va preliminarmente dichiarata inammissibile l'eccezione di incompetenza per territorio del Tribunale di Novara, adito da parte attrice, essendosi parte convenuta costituita oltre il termine perentorio di cui al quarto comma dell'art. 702 bis c.p.c. Richiamato che il procedimento è stato introdotto con le forme del rito sommario e che l'udienza, già fissata a norma dell'art. 702 bis, co. 3 c.p.c. per il 15.6.2021, è stata differita d'ufficio al successivo 16.9.2021, si ritiene di dover dare applicazione analogica al principio stabilito da Cass., n. 2394/2020, a norma del quale il differimento della prima udienza ex art. 168 bis, comma 5, c.p.c. intervenuto dopo la scadenza del termine per la costituzione del convenuto ex art. 166 c.p.c. non determina la rimessione in termini dello stesso convenuto ai fini della sua tempestiva costituzione e, di conseguenza, restano ferme le decadenze già maturate a suo carico ai sensi dell'art. 167 c.p.c., trattandosi di principio applicabile, per identità di ratio, alla fattispecie concreta qui in esame. Nella sentenza in esame la Suprema Corte, avuto riguardo a un'ipotesi di differimento in cui, in un giudizio ordinario di cognizione, dopo la scadenza dei termini previsti dall'art. 167 c.p.c. per la costituzione del convenuto l'udienza di comparizione delle parti era stata differita, rispetto a quella indicata nell'atto di citazione, ha osservato che - esclusa nella specie la riconducibilità del differimento alla previsione del comma 4 dell'art. 168 bis c.p.c. (in quanto l'udienza era stata rinviata a oltre un anno dopo la data indicata nell'atto di citazione) e quand'anche esso fosse da ritenersi effettuato, irritualmente, ai sensi del comma 5 dell'art. 168 bis c.p.c. - non potrebbe comunque applicarsi la previsione di cui all'art. 166 c.p.c., secondo cui i termini per la costituzione del convenuto decorrono dall'udienza fissata d'ufficio dal giudice e non da quella indicata nell'atto di citazione. Richiamato che lo spostamento del termine per la costituzione del convenuto (con le connesse decadenze di cui all'art. 167 c.p.c.) ha luogo, secondo il regime conseguente all'introduzione della facoltà dell'istruttore di differire l'udienza di prima comparizione ai sensi dell'art. 168 bis, comma 5, c.p.c., esclusivamente nel caso previsto da tale ultima disposizione e non nell'ipotesi di cui al comma 4 del medesimo art. 168 bis c.p.c., la Corte ha rilevato: "L'esercizio del potere assegnato al giudice istruttore è stato peraltro regolato in modo da non alterare nella sostanza la posizione delle parti processuali e soprattutto in modo da escludere la possibilità che esso potesse risolversi in una arbitraria misura di favore per una di esse. Il differimento dell'udienza di prima comparizione ai sensi dell'art. 168 bis, comma 5, c.p.c., deve infatti avvenire con decreto emesso entro cinque giorni dalla presentazione del fascicolo (che avviene, a norma dell'art. 168 bis, comma 3, c.p.c., subito dopo la designazione dell'istruttore, la quale a sua volta va effettuata nei due giorni dalla costituzione della parte più diligente, ai sensi dell'art. 168 bis, comma 2, c.p.c.) ed il differimento dell'udienza non può essere superiore ai quarantacinque giorni. Certamente non si tratta di termini perentori; di conseguenza, anche se il decreto di differimento non intervenga nei cinque giorni dalla presentazione del fascicolo al giudice (e quindi nei sette giorni dalla sua iscrizione a ruolo) ed anche se la dilazione sia superiore ai quarantacinque giorni deve ritenersi che il provvedimento abbia comunque l'effetto di fissare di fatto la prima udienza di comparizione alla nuova data indicata dal giudice. Non può però ritenersi altrettanto per quanto riguarda il correlativo differimento del termine di costituzione del convenuto di cui all'art. 166 c.p.c., quanto meno nel caso in cui il decreto stesso intervenga addirittura - in modo sostanzialmente abnorme, rispetto all'ordinaria previsione di legge - quando il predetto termine per la costituzione del convenuto sia già scaduto. In tal caso la misura avrebbe effetti, conseguenze e significato completamente diversi da quelli che ha inteso attribuirgli il legislatore, contraddicendo la sua stessa ratio: non si tratterebbe più di un mero provvedimento organizzativo per la migliore predisposizione dei ruoli di udienza in modo da garantire una più efficiente trattazione delle varie controversie, consentendo al giudice di poter conoscere l'effettivo thema decidendum fin dal momento iniziale della trattazione della causa, ma costituirebbe una sostanziale rimessione in termini di una parte a carico della quale sono già maturate significative decadenze, ai sensi degli artt. 166 e 167 c.p.c.. Tale rimessione in termini, oltre tutto, prescinderebbe completamente da una ragionevole giustificazione ricollegabile alla non imputabilità della decadenza alla parte, come invece richiesto, in via generale, dall'art. 153, comma 2, c.p.c., risulterebbe anzi completamente arbitraria e non sarebbe neanche assoggettabile ad alcun controllo giurisdizionale, finendo così per alterare la stessa posizione di parità delle parti nel processo (si consideri che in teoria il differimento potrebbe addirittura intervenire a costituzione del convenuto già tardivamente intervenuta, in tal modo consentendo a quest'ultimo di presentare una nuova comparsa di costituzione nella quale effettuare attività processuali dalle quali era già decaduto o, addirittura, determinare una sorta di "convalida" di tali attività, quali la proposizione di domande riconvenzionali o di eccezioni in senso stretto o di chiamate in causa di terzi, già tardivamente, e quindi illegittimamente, svolte; in tutti questi casi sarebbe ancor più manifesta l'inammissibile alterazione dell'equilibrio della posizione di parità delle parti nel processo in ragione di una attività discrezionale del giudice). Pare evidente alla Corte che una siffatta interpretazione della disposizione di cui all'art. 166 c.p.c. debba escludersi, anche per la sua manifesta incompatibilità con importanti valori costituzionali (quali gli artt. 3, 24 e 111, comma 2, Cost.)". Sulla base di tali premesse, la Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto: "nel caso in cui il differimento della prima udienza di comparizione da parte del giudice istruttore, ai sensi dell'art. 168 bis, comma 5, c.p.c., intervenga dopo che sia già scaduto il termine di cui all'art. 166 c.p.c. per la costituzione del convenuto, il differimento stesso non determina la rimessione in termini del convenuto ai fini della sua tempestiva costituzione e, di conseguenza, restano ferme le decadenze già maturate a suo carico, ai sensi dell'art. 167 c.p.c.". Ove il procedimento si svolga con il rito sommario, non si rinvengono in rito previsioni analoghe a quelle di cui all'art. 168, co. 4 e 5 c.p.c., essendo la data per la comparizione delle parti fissata con decreto dallo stesso giudice designato alla trattazione del procedimento. Rimane fermo, tuttavia, non essendovi ragione che giustifichi una diversa soluzione, che l'eventuale necessità, riferibile all'ufficio, di differimento dell'udienza suddetta non può avere la funzione di sostanziale remissione del convenuto nel termine per la costituzione, là dove il decreto di differimento venga adottato quando detto termine (in riferimento all'udienza in origine fissata) sia già scaduto e la decadenza sia ormai maturata. In ciò si trova il punto di composizione del suddetto principio con quello, solo apparentemente confliggente, fissato dalla Suprema Corte rispetto ai procedimenti che si svolgono con il rito del lavoro (e, dunque, come nel caso del rito sommario di cognizione, con termine decadenziale per la costituzione del convenuto fissata a ritroso rispetto a una data d'udienza ab origine fissata con decreto giudiziale), secondo cui, al fine di verificare il rispetto dei termini fissati con riferimento all'"udienza di discussione", non si deve aver riguardo a quella originariamente fissata dal provvedimento del Giudice, ma a quella fissata a seguito di rinvio d'ufficio, che concreta modifica del precedente provvedimento di fissazione, ed effettivamente tenuta al posto della prima (Cass., SS.UU., n. 14288/2007), ciò sul presupposto che "nel rinvio d'ufficio fuori (e prima) dell'udienza di discussione, prima cioè che la stessa udienza si sia aperta, seppure senza svolgimento di una concreta attività processuale, sia ravvisabile una sostanziale revoca del precedente provvedimento di fissazione, steso in calce al ricorso introduttivo, e che il termine di decadenza, previsto dall'art. 416, commi primo e secondo, c.p.c, debba intendersi così spostato alla data in cui il Pretore, revocato il precedente provvedimento, ha fissato la nuova data della prima udienza, senza che, da tale ricostruzione interpretativa del sistema, siano minimamente pregiudicati la concreta, corretta attuazione del contraddittorio e il principio di concentrazione che caratterizza il processo del lavoro e che sta alla base delle disposizioni di cui all'art. 416 c.p.c." (Cass. n. 3126/2003). Precisamente, deve ritenersi che, nei procedimenti introdotti da ricorso, ove il rinvio avvenga d'ufficio anteriormente alla scadenza dei termini originariamente fissati per la costituzione del convenuto, la nuova fissazione avrà l'effetto di spostare anche la scadenza di detto termine. Ove, invece, esso avvenga quando detto termine sia già scaduto, il differimento non è idoneo a produrre lo stesso effetto, dal momento che in questo caso, diversamente ritenendo, esso inciderebbe sullo svolgimento del regolare contraddittorio fra le parti, vanificando una decadenza già prodottasi. Poiché l'eccezione di incompetenza territoriale, là dove basata su clausola convenzionale asseritamente contrastante con l'individuazione del Tribunale prescelto dall'attore, rientra a norma dell'art. 702 bis, co. 4 c.p.c. fra le eccezioni in senso stretto, proponibili solo dalla parte nei termini decadenziali previsti da tale norma, essa risulta nella specie inammissibile, in quanto tardiva. 2. In via di principalità, l'attore chiede accertarsi il ritenuto valore confessorio della comunicazione datata 1.7.2016, proveniente da (...) e indirizzata all'avv. (...), in allora legale della Sig.ra (...), nella quale, fra l'altro, in risposta a una precedente richiesta del fideiussore, tramite l'avv. (...) suddetto, "dell'estratto conto completo del contratto di leasing n. (...) in capo alla Immobiliare (...) s.n.c. di (...) e (...)", (...), richiamati l'obbligo contrattuale del fideiussore di tenersi aggiornato presso l'utilizzatore sull'andamento del contratto garantito e la previsione per cui il concedente sarebbe stato tenuto unicamente a comunicare al fideiussore l'entità del debito residuo dell'utilizzatore, quale risultante al momento della richiesta, scriveva testualmente "alla data odierna la posizione debitoria del contratto di leasing n. 814703 risulta di Euro 63.098,13 con mora alla stessa data". 2.1. Giova riepilogare le comunicazioni intercorse fra l'avv. (...) e (...), rilevanti rispetto al tema della individuazione del debito della de cuis (...) all'atto del decesso. La missiva su esaminata faceva seguito al reclamo proposto in data 21.06.2016 dall'Avv. (...) a (...) per mancato invio di documentazione richiesta (doc. 4 attrice), consistente in "copia dell'estratto conto completo, dalla prima all'ultima rata dovutaVi dall'Immobiliare (...) snc, con evidenziato quanto da Voi incassato e quanto impagato"; il reclamo era sottoscritto dalla stessa (...), unitamente al difensore. Il 07.07.2016 l'Avv. (...), ricevuta la comunicazione del 1.7.2016, rispondeva alla Banca: "mi pare di capire dalla Vostra dell'01.07.2016 che la Immobiliare (...) sia rientrata della maggior parte del debito che, alla data del 23.07.2012, ammontava a Euro 440.871,00" (doc. 6 convenuta). Con fax del 18.07.2016 (doc. 7 convenuta), l'Avv. (...), in nome e per conto della Banca, riscontrava la missiva, inviando all'Avv. (...) il piano di ammortamento "dal quale può riscontrare in modo puntuale, preciso e analitico l'intera posizione contrattuale". Nella stessa data, a mezzo mail l'avv. (...) riscontrava la missiva e osservava: "se il debito residuo è di Euro 63.098,13 non comprendo come siano stati incassati gli altri Euro 560.000,00", considerato che nella documentazione trasmessagli non era stata indicata alcuna fattura a partire dalla data n. 32 in avanti, chiedendo delucidazioni; con la stessa missiva chiedeva di concordare un accesso congiunto dei tecnici di tutte le parti per l'individuazione della situazione, essendo l'immobile oggetto di leasing occupato da conduttore unitamente all'adiacente immobile facente parte del trust della Famiglia (...). Parte attrice lamenta che non ci sia stato riscontro alla missiva 18.07.2016, né ai successivi solleciti del 24.10.2016, del 07.12.2016, del 14.12.2017, dell'8.01.2018 e dell'8.06.2018. In ragione di tale situazione, veniva inviato reclamo il 21.06.2018 alla (...). A seguito del suddetto reclamo, con missiva 03.09.2018 (...) comunicava che il debito doveva essere quantificato in Euro 67.375,63 con valuta al 03.09.2018 e, inoltre, in Euro 636.662,82 per debito residuo in linea capitale. Ciò premesso, va richiamato che secondo la giurisprudenza (cfr. Cass., sez. un., 25.03.2013, n. 7381), affinché una dichiarazione sia qualificabile come confessione, devono sussistere due elementi: uno soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all'altra parte (l'animus confitendi) ed uno oggettivo, ricorrente qualora dall'ammissione del fatto obiettivo derivi un concreto pregiudizio all'interesse del dichiarante ed al contempo un corrispondente vantaggio nei confronti del destinatario della dichiarazione. L'animus confitendi, ai sensi ed agli effetti degli art. 2730 ss. c.c., postula la volontà e consapevolezza di riconoscere la verità del fatto dichiarato, il quale sia obiettivamente sfavorevole al dichiarante e favorevole all'altra parte, ma non richiede l'ulteriore consapevolezza di tale oggettiva incidenza del fatto stesso e del valore probatorio della confessione (Cassazione civile sez. III, 16/04/1982, n.2328). L'elemento soggettivo della confessione non consiste nella intenzione di fornire una prova alla controparte ma nella consapevolezza e volontà di riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e vantaggioso per l'altra parte, indipendentemente dal fine per il quale la dichiarazione sia stata resa ed indipendentemente dalla consapevolezza delle conseguenze giuridiche che ne possono derivare (Cassazione civile sez. lav., 09/04/2013, n.8611; Cassazione civile sez. I, 05/03/1990, n.1723; Cassazione civile sez. lav., 22/01/1980, n. 525). La confessione, sia essa giudiziale o stragiudiziale, è atto personale: deve essere resa personalmente dalla parte del processo in cui la confessione è destinata a spiegare i suoi effetti; chi rende la confessione, inoltre, deve essere capace di disporre del diritto cui i fatti oggetto di confessione si riferiscono. L'art. 2731 c.c., nel prevedere che la confessione non è efficace se non proviene da persona capace di disporre del diritto, equipara dunque la confessione medesima ad un atto di disposizione, postulando pertanto che la dichiarazione provenga da persona che abbia la capacità e la legittimazione ad agire negozialmente in ordine al rapporto controverso (Cassazione civile sez. VI, 09/11/2017, n.2662). Ne consegue che, qualora sia resa da un rappresentante, dunque, essa è efficace solo se fatta entro i limiti e nei modi in cui questa vincola il rappresentato; e, inoltre, che non hanno valore confessorio le dichiarazioni rese dal mero mandatario del titolare del diritto medesimo (Cassazione civile sez. II, 20/06/2013, n.15538; cfr. altresì Cass. civ. Sez. III, 06/07/1990, n. 7125, secondo cui, dovendo la confessione provenire da chi ha la disponibilità del diritto controverso, non hanno valore confessorio le dichiarazioni rese da chi, come un mandatario, pur legittimato ad agire, non sia titolare del diritto su chi verte la lite). Per il rappresentante delle persone giuridiche valgono, ai fini della confessione, i limiti ai poteri previsti dallo statuto o dalla legge (v. Cass., n. 5264/1989); inoltre, è necessario che il rapporto di rappresentanza sia in vita nel momento in cui è resa la confessione, dovendosi escludere, in mancanza, l'efficacia confessoria delle dichiarazioni rilasciate (Cass., n. 28711/2008). 2.2. Tutto ciò premesso, ritiene il Tribunale che nella missiva in questione non ricorrano gli elementi necessari per poterne considerare il contenuto confessorio. Trattasi di missiva redatta su carta intestata all'"Ufficio reclami (...)", sottoscritta da due soggetti di cui non sono note le qualifiche e che, in assenza di qualsivoglia allegazione al riguardo da parte dell'attore e, comunque, in mancanza di elementi in tal senso emergenti dagli atti, non risulta provenire da soggetto munito del potere dispositivo del diritto in questione. Va richiamato che la de cuius, per il tramite del legale avv. (...), aveva sporto reclamo all'istituto di credito per non avere ricevuto, nonostante le richieste avanzate in qualità di fideiussore, la documentazione informativa necessaria ad appurare la posizione debitoria dell'utilizzatore. Il "reclamo" suddetto, sporto dal cliente (in senso lato) alla banca, per quanto si comprende dal tenore dello stesso e al di là della terminologia utilizzata rientra pur sempre nell'ambito privatistico delle relazioni fra parti contrattuali e si colloca nella dinamica dei diritti e dei doveri, compreso quello di buona fede, che fanno capo a ciascuna nei confronti dell'altra. Può desumersi dalla denominazione della doglianza e dall'organizzazione, da parte della banca, al proprio interno di un ufficio appositamente dedicato a occuparsene (che, di regola, ha la caratteristica di avere una certa indipendenza interna rispetto a quelli propriamente esecutivi, come richiesto dai meccanismi di internal audit, ciò al fine di garantire una più oggettiva valutazione delle istanze della clientela), che la banca avesse regolamentato tale aspetto, verosimilmente impegnandosi a prendere in considerazione e a rispondere alle contestazioni inviate come "reclami", come in effetti avvenuto nel caso qui in esame. Ribadito che nulla è stato allegato al riguardo e volendo ricavare indici presuntivi dalla mera disamina del documento, potrebbe al più concludersi, sulla base della tipologia del rapporto intercorso fra "reclamante" e ufficio preposto a valutarlo, che quest'ultimo fosse munito dei poteri di dare risposta al reclamo, ma non vi è alcun elemento per concludere che esso - in particolare, i funzionari di esso facenti parte, e precisamente quelli firmatari della missiva - fosse altresì munito di poteri di disposizione del diritto di credito sottostante. In altri termini, pur volendosi ritenere che i firmatari della missiva fossero autorizzati a "decidere" sul reclamo, impegnando la posizione della banca, ciò implicherebbe, tuttavia, unicamente il conferimento da parte di quest'ultima di poteri di tipo dichiarativo, e non di poteri di tipo dispositivo, di cui non vi è traccia in atti e che, peraltro, esulerebbero dalla normale competenza, secondo ragionevolezza, di un ufficio volto unicamente a garantire correttezza e trasparenza nell'esecuzione del rapporto con il cliente. Nel caso di specie, con la comunicazione in questione la banca, tramite i soggetti a ciò addetti nella propria organizzazione interna, rispose alla pretesa del fideiussore - che reputava di avere diritto ad ottenere compiuta informativa sul rapporto garantito mediante consegna di copia dell'"estratto conto" del rapporto - di ritenere dovuta, invece, la sola informazione sulla posizione debitoria dell'utilizzatrice alla data della risposta, informazione che veniva contestualmente fornita indicando detta posizione debitoria, appunto, in Euro 63.098,13 con mora alla data della missiva: dato ricognitivo, ma non reso con volontà confessoria e con potere dispositivo del diritto, di cui - si ribadisce - non emerge indicazione né dalla comunicazione, né da ulteriori atti. Ciò non esclude che il documento in questione, nella ricostruzione dei rapporti di debito fra la banca e l'utilizzatore, e dunque l'erede del fideiussore, possa avere un rilievo probatorio: ciò, tuttavia, non è tema del presente giudizio, avendo l'attore chiaramente agito unicamente per veder dichiarare il contenuto confessorio del documento in questione e, dunque, per veder accertare in Euro 63.098,13 l'importo dallo stesso dovuto alla Banca, in conseguenza dell'accoglimento della posizione attorea sulla questione pregiudiziale suddetta: non, invece, per ottenere l'accertamento della sussistenza e dell'esatto importo del debito, qualunque esso sia, a prescindere dalla risposta fornita alla suddetta questione, domanda che neppure è stata proposta in via riconvenzionale dalla convenuta. La domanda principale proposta dall'attore, in conclusione, alla luce delle suesposte considerazioni, va rigettata. 3. Neppure può trovare accoglimento la domanda subordinata. L'attore ha chiesto che, previo accertamento della responsabilità della convenuta per averlo indotto ad accettare puramente e semplicemente l'eredità della Sig.ra (...) sull'erroneo presupposto di cui alla dichiarazione contenuta nella lettera 01.07.2016, la convenuta sia condannata a manlevarlo "dalle richieste che dovessero essere fatte allo stesso da chicchessia a seguito di eventuale inadempimento della debitrice principale al contratto di leasing n. (...) e ciò per la parte di importo superiore a quello indicato nella lettera 01.07.2016". La domanda, pur formulata in termini di manleva, deve essere intesa come domanda risarcitoria, di cui parte attrice non ha indicato, neppure tramite richiamo normativo, il fondamento, né specificamente gli elementi costitutivi. Va rilevato che, ove pure l'attore avesse inteso far valere la propria posizione di fideiussore, acquistata per via ereditaria, e, pertanto, avesse inteso azionare la responsabilità contrattuale convenuta, neppure risulterebbe dedotto, in modo specifico, l'inadempimento da parte della convenuta a specifici doveri, adeguatamente delineati come aventi fonte nel rapporto contrattuale. Ove, invece, l'attore avesse voluto addebitare alla convenuta una responsabilità da fatto illecito, dovrebbe rilevarsi che non risulterebbero individuati, né tantomeno dimostrati, l'ingiustizia del preteso danno e il necessario elemento soggettivo. In ogni caso, qualunque sia la fonte della pretesa attorea, risultano assorbenti le seguenti considerazioni. In primo luogo, nessun danno risulta essersi verificato, né vi è certezza che esso si verifichi in futuro. La vicenda relativa al leasing non è stata qui neppure a grandi linee ricapitolata, né è possibile stabilire quale sarà l'esito di eventuali pretese che la convenuta o terzi in futuro avanzino, là dove lo facciano nei confronti dell'odierno attore. In secondo luogo, posto che non è evidentemente possibile stabilire qui se il danno paventato, quando dovesse verificarsi, sarà conseguenza e immediata e diretta, a norma dell'art. 1223 c.c., della dichiarazione della convenuta qui in esame, può però escludersi, sulla base degli elementi in atti, che vi sia nesso di causalità immediata e diretta fra la dichiarazione oggetto di causa e l'atto con cui l'attore ha accettato l'eredità puramente e semplicemente, anziché determinarsi diversamente (accettandola con beneficio d'inventario o addirittura rigettandola, come gli altri chiamati). La responsabilità delle indagini circa la consistenza dell'asse ereditario grava sul chiamato, in vista delle scelte collegate all'eventuale accettazione. L'attore assume di essersi determinato sulla base del contenuto della dichiarazione qui in esame. Se così fosse, tuttavia, egli avrebbe del tutto ignorato - fatto ascrivibile unicamente alla sua sfera di responsabilità - il prosieguo delle interlocuzioni fra il legale della de cuius e la banca (o soggetti alla stessa riferibili). Come riepilogato, infatti, immediatamente dopo la ricezione della dichiarazione dell'Ufficio reclami, l'avv. (...), rilevando evidentemente la particolarità della risposta, chiedeva conferma del fatto che la società debitrice fosse rientrata della maggior parte del proprio debito; e all'ulteriore riscontro da parte dell'avv. (...), che in nome e per conto della banca gli inviava il piano di ammortamento, l'avv. (...), ancora interlocutoriamente ed evidentemente al fine di ottenere conferma in una situazione non chiara, rilevava: "se il debito residuo è di Euro 63.098,13 non comprendo come siano stati incassati gli altri Euro 560.000,00", considerato che nella documentazione trasmessagli non era stata indicata alcuna fattura a partire dalla data n. 32 in avanti, chiedendo delucidazioni. La risposta dell'avv. (...) fu, invero, equivoca, giacché il mero invio del piano di ammortamento non è utile a ricostruire le vicende di un rapporto, peraltro complesso, e l'ammontare del debito residuo a una certa data. Se, poi, l'intento era quello di chiarire che la risposta dell'Ufficio reclami si riferiva alle sole rate scadute e impagate, ma che vi era il concorrente debito per il residuo capitale, la missiva mancava di dati fondamentali, quali l'indicazione dell'avvenuta risoluzione del rapporto a una certa data. Ciò nondimeno, lo scambio di comunicazioni fra legali - dopo quella di cui qui si discute - unitamente alla conoscenza quantomeno del piano di ammortamento, da cui era possibile ricavare quale sarebbe dovuto essere l'andamento normale dei pagamenti, e dei soli pagamenti con certezza avvenuti, in quanto fatturati, pari ad un ammontare enormemente inferiore rispetto al complessivo ammontare dovuto, erano elementi più che sufficiente a ritenere la situazione debitoria della massa non acclarata. Lo dimostra, d'altra parte, la circostanza che l'avv. (...), a quel punto per conto dell'ormai erede (...), scrisse in data 8.6.2018, segnalando dopo pochi giorni la perdurante assenza di risposte alla (...), al fine di ottenere informazioni e chiarimenti mai precedentemente ricevuti dalla de cuius: ciò, tuttavia, dopo aver ormai accettato l'eredità (in data 18.5.2018), entro i tre mesi dal decesso della (...) (avvenuto il 9.4.2018). Ben avrebbe potuto l'attore, in tale situazione, prima richiedere informazioni e solo alla luce delle stesse assumere le proprie determinazioni, così come, prudenzialmente, avrebbe potuto accettare con beneficio d'inventario, usufruendo del tempo previsto per accertare la reale consistenza del debito della massa, mentre non può addebitare la scelta compiuta alla semplice presenza della missiva in esame nel complesso del carteggio intercorso, lacunoso e tale da far insorgere fondati dubbi sulla ricostruzione del rapporto. Anche la domanda in esame, pertanto, deve essere rigettata. 4. Quanto alla regolamentazione delle spese, si ritiene che la particolarità della vicenda e della questione giuridica sottoposta alla valutazione del Tribunale giustifichi l'integrale compensazione delle spese di lite, anche alla luce dei più ampi spazi aperti dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 77/2018, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del vigente testo dell'art. 92, co. 2 c.p.c. nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni differenti da quelle già previste dalla norma. P.Q.M. il Tribunale di Novara, in composizione monocratica, ogni ulteriore domanda, istanza, eccezione o deduzione assorbita, definitivamente pronunciando nella causa R.G. n. 2467/2020: 1) rigetta tutte le domande attoree; 2) compensa integralmente le spese di lite fra le parti. Così deciso in Novara il 22 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 23 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO il Tribunale Ordinario di Novara in funzione di giudice del lavoro, nella persona del dott. Gabriele Molinaro, all'udienza del 28.2.2023, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa di primo grado iscritta al n. r.g. 761/2022 promossa da: (...) (c.f. (...)), elettivamente domiciliata in Busto Arsizio, corso (...), presso lo studio dell'Avv. LO.GA., che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso introduttivo; - ricorrente contro (...) SOCIETA' COOPERATIVA (c.f. (...)); - convenuta contumace OGGETTO: Licenziamento collettivo FATTO E DIRITTO Con ricorso depositato in data 2.12.2022, (...) ricorreva al Tribunale di Novara, in funzione di giudice del lavoro, per sentire accogliere le sopra indicate conclusioni. Riferiva la ricorrente di essere stata assunta dalla cooperativa convenuta il 1.5.2021, con contratto a tempo indeterminato e parziale al 92,10% e inquadramento al livello C2 CCNL cooperative sociali (doc. 1 ric.). Il 19.5.2022, ella aveva ricevuto comunicazione ex art. 4, L. n. 223 del 1991, con cui era stata informata dell'apertura di una procedura di licenziamento collettivo, motivata con la prossima scadenza del contratto di appalto con l'ente gestore della struttura dove operava, il 31.5.2022 (doc. 3 ric.). Il 26.5.2022, era stata licenziata per giustificato motivo oggettivo, consistente nella chiusura del servizio di gestione della comunità "(...)" di (...) s/T. (doc. 5 ric.). Agiva, in questa sede, contestando la legittimità del suddetto licenziamento, contestando varie violazioni della L. n. 223 del 1991 e in particolare: - dell'art. 4, per la genericità della comunicazione e per non essere state precisate le ragioni dell'inesistenza di soluzioni alternative al licenziamento; - dell'art. 5, per mancato rispetto dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare; Contestava, inoltre, la mancata considerazione di altre unità produttive nel progetto di ristrutturazione aziendale, osservando che, come emergeva dalle visure camerali prodotte, la società aveva 45 dipendenti con mansioni simili tra loro. Deduceva, inoltre, la violazione dell'obbligo di rêpechage. Allegava di essere portatrice di carichi familiari particolarmente gravosi, essendo madre di una figlia di ventitré anni, invalida al 75% (doc. 7 ric.). (...) SOCIETA' COOPERATIVA non si costituiva e il Giudice, verificata la regolarità della notificazione, ne dichiarava la contumacia. All'udienza odierna, udite le conclusioni della parte costituita, la causa veniva posta in decisione. 1. Il ricorso è fondato e va accolto per quanto di ragione. La ricorrente impugna il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, intimatole dalla convenuta in seguito all'esperimento di una procedura di licenziamento collettivo, ex L. n. 223 del 1991. In particolare, ella contesta l'incompletezza formale della comunicazione, la violazione dei criteri di scelta e l'omissione di qualsivoglia tentativo di ricollocazione. In particolare, ella ha allegato e documentalmente dimostrato (doc. 9 ric.) che la convenuta, al 31.12.2021, occupava quarantacinque dipendenti, mentre la medesima società, nella comunicazione ex art. 3, L. n. 223 del 1991, ha dichiarato che nell'appalto presso la comunità "(...)" erano impegnati sette lavoratori. Nessun cenno viene, invece, svolto circa l'insussistenza di altri appalti o commesse a cui adibire i lavoratori licenziati, nello stesso o in altro luogo lavorativo. Va, quindi, rammentato che in sede di licenziamento collettivo, è legittima la"delimitazione della platea, qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva, ben potendo le esigenze tecnico-produttive ed organizzative costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, purchè il datore indichi nella comunicazione prevista dall'art. 4 L. n. 223 del 1991, comma 3 citato sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell'unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l'effettiva necessità dei programmati licenziamenti" (Cass. 9 marzo 2015, n. 4678; Cass. 12 settembre 2018, n. 22178; Cass. 11 dicembre 2019, n. 32387; da ultimo Cass. 6 maggio 2021 n. 12040). Nel caso di specie, non è stata indicata alcuna di tali ragioni, né vi sono spiegazioni sulle ragioni per cui non si è ipotizzato il trasferimento ad altra unità produttiva. Va, poi, osservato che la procedura di esame congiunto in sede sindacale ha avuto carattere del tutto formale, ai limiti dell'apparenza, atteso che il 19.5.2022 è stata inviata la comunicazione dell'azienda (doc. 3 ric.) e appena sette giorni dopo è stato concluso un "accordo sindacale" (doc. 4 ric.) a cui ha partecipato un solo sindacato, il quale, di fatto si è limitato a prendere atto della volontà e delle ragioni addotte dall'impresa e il giorno successivo (doc. 5 ric.) è stato intimato il licenziamento. In tutta la procedura non vi è traccia dell'esame della possibilità di utilizzazione diversa del personale, né di misure sociali di accompagnamento (art. 4, L. n. 223 del 1991). Né si fa alcun cenno ai criteri di scelta di cui all'art. 5, L. n. 223 del 1991, in relazione all'intero personale della cooperativa. È, poi, appena il caso di osservare che, non costituendosi, la convenuta non ha offerto, in questa sede, alcun ulteriore elemento a sostegno della legittimità del recesso, che secondo i principi generali, era suo onere dimostrare. 2. Risulta, dunque, appurata l'illegittimità del licenziamento. Venendo, quindi, alla tutela applicabile, si deve osservare che la ricorrente risulta essere stata assunta dalla convenuta il 1.5.2021 (docc. 1-2 ric.) e che, nonostante ella abbia fatto cenno alla circostanza per cui operava nello stesso luogo da lungo tempo, non ha offerto alcuna allegazione e prova atta a dimostrare la sussistenza del diritto a una maggiore anzianità, in virtù dell'art. 2112 c.c., ovvero di norme contrattuali collettive in tema di cambio appalto. Ne consegue che deve ritenersi applicabile al rapporto di lavoro de quo il D.Lgs. n. 23 del 2015, il cui art. 10, secondo periodo, prevede che "In caso di violazione delle procedure richiamate all'articolo 4, comma 12 nonché di violazione delle procedure di cui all'articolo 189, comma 6, del codice della crisi e dell'insolvenza, o dei criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma 1, della L. n. 223 del 1991, si applica il regime di cui all'articolo 3, comma 1". La convenuta va, quindi, condannata al pagamento di un'indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità. La quantificazione dell'indennità risarcitoria va effettuata alla luce dei principi stabiliti da Corte cost., sent. n. 194/2018 e in particolare "nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell'intervallo in cui va quantificata l'indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell'anzianità di servizio - criterio che è prescritto dall'art. 1, comma 7, lett. c) della L. n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del D.Lgs. n. 23 del 2015 - nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti)". Deve, quindi, tenersi conto innanzitutto della breve durata del rapporto di lavoro (poco più di un anno), ma anche della condotta della società, che ha intimato repentinamente il licenziamento collettivo, senza concedere il preavviso, senza operare alcun tentativo di ricollocazione e a seguito di una procedura sindacale a carattere meramente formale. Tanto induce a una quantificazione che si discosti dal minimo, pur restando lontana dall'importo massimo. Stimasi, pertanto, equo commisurare l'indennità risarcitoria a 10 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. La quantificazione di quest'ultima va effettuata partendo dalla retribuzione ricavabile dalla busta paga, con applicazione del coefficiente del part-time e aggiunta dell'incidenza della tredicesima mensilità e pertanto in Euro 1.562,52. L'indennità risarcitoria spettante ammonta, quindi, a Euro 15.625,20. Spetta altresì l'indennità sostitutiva del preavviso, detratti cinque giorni, atteso che il recesso è stato comunicato il 26.5.2022, con effetto dal 31.5.2022. Di tale indennità non è stata domandata la quantificazione, né sono stati offerti gli elementi contrattuali per operarla. Il Tribunale, pertanto, non può che limitarsi alla condanna generica. A norma dell'art. 429 c.p.c., a tali somme devono essere aggiunti gli interessi legali e la rivalutazione monetaria dalla data del licenziamento al saldo effettivo. 3. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano, a norma del D.M. n. 55 del 2014, come modificato dal D.M. n. 147 del 2022, tenuto conto del valore della causa, rientrante nello scaglione da 5.201 a 26.000 Euro, della sua natura documentale e della limitata attività processuale svolta, in complessivi Euro 4.000, oltre rimborso spese forfettario 15% e accessori fiscali e previdenziali come per legge. P.Q.M. Il Tribunale Ordinario di Novara, in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, ogni contraria e ulteriore istanza, domanda ed eccezione disattesa, così provvede: 1) in parziale accoglimento del ricorso, dichiara l'illegittimità del licenziamento intimato da (...) SOCIETÀ COOPERATIVA a (...), dichiara risolto il rapporto alla data del licenziamento (31.5.2022) e condanna (...) SOCIETÀ COOPERATIVA al pagamento a (...) di un'indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a Euro 15.625,20 e dell'indennità sostitutiva del preavviso, da quantificarsi in separata sede, previa detrazione dell'importo pari a cinque giorni preavviso lavorato, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data del licenziamento al saldo effettivo; 2) condanna (...) SOCIETÀ COOPERATIVA alla rifusione delle spese processuali a vantaggio di (...), liquidate in complessivi Euro 4.000, oltre a rimborso spese forfettario 15% e agli accessori fiscali e previdenziali previsti ai sensi di legge. Così deciso in Novara il 28 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 28 febbraio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI NOVARA SEZIONE CIVILE Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Annalisa Boido, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. r.g. 3114/2018 promossa da: (...) (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. MA.ZA., elettivamente domiciliata presso il difensore in Novara, Via (...) ATTORE contro (...) (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. GI.BA., elettivamente domiciliato presso il difensore in Novara, Via (...) CONVENUTO Oggetto: contratto di compravendita immobiliare - inadempimento - risoluzione CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con atto di citazione ritualmente notificato e depositato in via telematica presso la Cancelleria di questo Tribunale in data 22.11.2018, parte attrice ha convenuto in giudizio (...), esponendo di aver acquistato dal convenuto, con atto a rogito del Notaio (...) del (...), l'immobile sito in N., via (...) dal (...) n. 6 per il prezzo di Euro 96.000, pagato per l'importo di Euro 80.000 mediante sottoscrizione di mutuo fondiario; di avere riscontrato, nel giro di pochi mesi, che l'immobile era affetto da una serie di difetti di manutenzione (infiltrazioni, muffe, stillicidio, sgretolamento dei trucioli di legno del soffitto); di essersi, pertanto, rivolta a professionista, che accertava la presenza di difetti tecnici quali infiltrazioni, probabile presenza di amianto, mancata impermeabilizzazione del tetto, irregolarità dell'impianto elettrico e del gas, la cui obsolescenza e pericolosità era attestata anche da altri successivi professionisti incaricati; che in particolar modo l'Ing. (...), in seguito agli approfondimenti del caso, assegnava all'immobile la classe energetica F, diversamente da quanto certificato dal convenuto, e inoltre riscontrava, nelle proprie ricerche presso il competente Comune, che non erano reperibili le certificazioni di conformità degli impianti dell'elettricità e del metano e che era inesistente il certificato di abitabilità dell'immobile, in effetti non allegato all'atto di compravendita. In diritto, l'attrice ha contestato la validità dell'atto di compravendita, dal momento che ella non lo avrebbe stipulato se fosse stata a conoscenza dello stato dell'immobile, solo successivamente emerso e ha protestato la responsabilità del venditore, per aver consegnato un bene affetto da vizi; ha richiamato la giurisprudenza che iscrive la mancata consegna del certificato di abitabilità nel grave inadempimento del venditore, data la funzione che detto certificato assolve rispetto alla garanzia del pieno godimento dell'immobile da parte dell'acquirente, e ha evidenziato come detta azione esuli dall'ambito di applicabilità dell'art. 1495 c.c., dando facoltà all'acquirente di agire ai sensi dell'art. 1453 c.c. e per il risarcimento del danno. Rispetto, in particolare, all'azione risarcitoria, l'attrice ha evidenziato di avere subito esborsi per Euro 3507,78 per parziale messa in sicurezza dell'immobile e per l'accertamento dei vizi relativi, come da documentazione che ha allegato, e di avere sostenuto, per la stipula della compravendita, spese per il pagamento del notaio, pari a Euro 4000, e per il pagamento del perito della banca in vista della concessione del mutuo, pari a Euro 275. Parte attrice ha concluso, pertanto, chiedendo al Tribunale di voler, "accertata l'inesistenza del certificato di abitabilità dell'immobile sito in N. alla via (...) dal (...) n. 6 di proprietà dell'attrice, accertato l'inadempimento da parte del convenuto, per l'effetto condannare il sig. (...) a voler ripetere alla sig. (...) la somma di Euro.103.702,78 così come rubricati in narrativa, oltre oneri occorrendi di estinzione del mutuo". Il convenuto si è tempestivamente costituito in giudizio, opponendo, in fatto, che l'attrice prese possesso dell'immobile sin dalla sottoscrizione di contratto preliminare del 29.09.2014, accompagnato da accordo per la locazione provvisoria del bene; che, unitamente alla sottoscrizione del contratto di locazione, il futuro venditore consegnava l'attestato di Certificazione Energetica redatto da un professionista abilitato, nonché, al fine di consentire alla sig.ra (...) le volturazioni delle utenze, tutta la certificazione di conformità relativa all'impianto termico e del gas nonché all'impianto elettrico; che con la suddetta documentazione la sig.ra (...), come concordato con la proprietà, avrebbe dovuto richiedere la certificazione di agibilità a seguito dell'ultimazione della pratica edilizia; che il convenuto, pertanto, aveva confidato, all'atto della stipula del rogito, che tanto fosse stato fatto; che solo dopo notevole tempo dalla presa di possesso del bene l'attrice ha proposto le proprie doglianze per gli asseriti difetti degli impianti e per la mancanza del certificato di abitabilità; che l'attrice neppure ha riferito che le questioni sollevate dalla perizia del Geom. B. sono già state affrontate in sede di ATP e che il CTU, nominato dal Tribunale di Novara nel procedimento per accertamento tecnico preventivo RG n. 1963/2016 ha rigettato le doglianze della sig.ra (...) e ha quantificato, quale importo per una definizione conciliativa, la somma Euro 2.500,00, proposta accettata dal solo (...). Ciò esposto, il convenuto ha eccepito, in via preliminare, l'improcedibilità della domanda per il mancato esperimento del tentativo di mediazione; ritenuti insussistenti i requisiti di integrazione della fattispecie di cui all'art. 1453 c.c. - reputando il certificato di agibilità agevolmente conseguibile, essendo al più questione di mancanza delle qualità promesse nell'immobile compravenduto - ha altresì eccepito le intervenute prescrizione e decadenza dell'azione ex art. 1495 c.c.; nel merito, ha chiesto il rigetto della domanda attorea; in via subordinata, nell'ipotesi di accoglimento della domanda formulata dalla parte attrice, ha chiesto disporsi in suo favore la restituzione dell'immobile e condannarsi la (...) alla corresponsione dell'equivalente pecuniario per l'uso e il godimento del bene compravenduto sino all'effettivo rilascio. Il convenuto ha altresì allegato di aver effettuato un prestito all'attrice di Euro 10.000, per consentire la stipula del rogito, essendo risultato dinanzi al notaio che l'acquirente non disponeva dell'intera cifra per corrispondere il prezzo richiesto, somma per cui l'attrice sottoscriveva riconoscimento di debito in data 22.12.2014, e ha domandato, pertanto, in via riconvenzionale la condanna di parte attrice al pagamento della somma suddetta. All'esito del deposito delle memorie di cui all'art. 183, co. 6 c.p.c.., precisate da parte dell'attore le conclusioni come riportato in epigrafe, con ordinanza del 12.5.2020 è stata ammessa CTU, volta ad accertare l'esistenza del certificato di agibilità e di eventuali vizi ostativi all'ottenimento del certificato di abitabilità all'atto dell'acquisto dell'immobile, e, successivamente, è stata ammessa la prova orale (per testi e per interpello del convenuto) come da ordinanza del 23.6.2021. Escussi i testi ammessi e sentito il convenuto in sede di interrogatorio formale, all'udienza del 14.06.2022 le parti hanno precisato le conclusioni e la causa è stata trattenuta in decisione, con concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c.. Va preliminarmente ribadito che deve essere disattesa l'eccezione preliminare formulata dalla parte convenuta in ordine alla improcedibilità dell'azione per mancato esperimento della mediazione obbligatoria, dovendosi qui richiamare le ragioni già espresse nell'ordinanza del 26.3.2019. Ai sensi dell'art. 5 comma 1 bis D.Lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, modificato dal D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla L. 10 novembre 2014, n. 162 e dal D.Lgs. 6 agosto 2015, n. 130, devono essere precedute dal tentativo di mediazione, a pena di improcedibilità della domanda "le controversie in materia di condominio, locazioni, comodato, affitto di aziende, diritti reali, divisioni, successioni ereditarie, patti di famiglia, risarcimento danni da responsabilità medica e da diffamazione a mezzo stampa o con alto mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari". E' pacificamente ammesso che la mediazione obbligatoria costituisca una limitazione alla regola generale dell'accesso diretto ed incondizionato alla giustizia e pertanto rappresenti una norma eccezionale non suscettibile di interpretazione estensiva o analogica, con la conseguenza che l'elenco delle materie per le quali la procedura di mediazione costituisce condizione di procedibilità deve essere interpretato restrittivamente. L'indice delle materie di cui all'art. 5, comma 1 bis D.Lgs. n. 28 del 2010, avente ad oggetto le ipotesi di mediazione obbligatoria, è tassativo, non esistendo margine alcuno per qualsiasi interpretazione analogica o estensiva (tra tante Tribunale Milano sez. II, 16/11/2021, n. 9350, Tribunale Catania sez. III, 29/07/2020, n.2665, Tribunale Bologna, 01/12/2011). La fattispecie in esame, vertendo in materia della risoluzione del contratto, è pertanto esclusa dall'ambito di applicazione dell'obbligatorio esperimento del procedimento di mediazione, non essendo ricompresa nelle materie indicate nel D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 1-bis (da ultimo Cass. sez. VI, 11/08/2021 n. 22736, nell'ambito della quale gli acquirenti avevano chiesto con rito sommario di cognizione la declaratoria di risoluzione per inadempimento della venditrice perché costei aveva falsamente dichiarato la sussistenza dell'agibilità/abitabilità dell'immobile). 2. Nel merito la domanda attorea non merita accoglimento per le ragioni che seguono. Parte attrice ha agito in giudizio - come definitivamente chiarito nella memoria depositata ai sensi dell'art. 183, co. 1 c.p.c. - al fine di ottenere, ai sensi dell'art. 1453 c.c., la risoluzione del contratto di compravendita stipulato in data 22.12.2014, avente a oggetto l'immobile oggetto di causa, risultato privo del certificato di abitabilità, circostanza appresa, in prospettazione attorea, a seguito di una serie di accertamenti posti in essere da professionista incaricato per la verifica di alcuni vizi emersi anch'essi solo dopo l'acquisto dell'immobile. Ha domandato, quindi, per l'effetto, la condanna del convenuto a restituire la somma di Euro 96.000,00 (pari al prezzo di acquisto dell'immobile), oltre al risarcimento del danno patrimoniale quantificato in Euro 7.702,78 (pari agli oneri accessori alla stipulazione della compravendita e alle spese sostenute per gli accertamenti posti in essere dal tecnico incaricato alle verifiche) o in somma eventualmente maggiore o minore, secondo valutazione equitativa. Parte convenuta, sin dall'atto di costituzione, ha ammesso la mancanza del certificato di abitabilità dell'immobile, deducendo, tuttavia, l'esistenza di un accordo tra venditore e acquirente, in virtù del quale quest'ultima si sarebbe fatta carico dell'ottenimento della predetta certificazione. Giova richiamare, in linea di principio, che per costante orientamento giurisprudenziale, "nella vendita di un immobile destinato ad abitazione, il certificato di abitabilità costituisce requisito giuridico essenziale del bene compravenduto, poiché vale ad incidere sull'attitudine del bene stesso ad assolvere la sua funzione economico sociale assicurandone il legittimo godimento e la commerciabilità sicché il mancato rilascio della licenza di abitabilità integra un inadempimento del venditore per consegna di aliud pro alio" (cfr. Cass., n. 9788/2022; n. 23265/2019). In particolare, la consegna del certificato di abitabilità dell'immobile da adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sé condizione di validità della compravendita, integra comunque un'obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell'art. 1477 c.c., rilevante nella fase attuativa del contratto e concernente la possibilità di adibire l'immobile all'uso contrattualmente previsto (Cass., n. 23157/2013), legittimando sia la domanda di risoluzione del contratto, sia quella di risarcimento del danno, sia l'eccezione di inadempimento (cfr. sent. Cass. 23.1.2009 n. 1701). Là dove ricorra un inadempimento del venditore, nei suddetti termini, non configurandosi in sé un vizio materiale dell'immobile, l'attivazione delle relative iniziative a tutela dell'acquirente non è rimesso ai termini di decadenza e prescrizione previsti dall'art. 1495 c.c. (Cass., n. 4307/2018). La giurisprudenza, al contempo, ha evidenziato che la mancata consegna di detto certificato costituisce un inadempimento del venditore che non incide necessariamente in modo dirimente sull'equilibrio delle reciproche prestazioni delle parti, comportando l'inidoneità del contratto a realizzare la funzione economico - sociale che gli è propria ed escludendo rilievo alla causa effettiva dell'omissione (cfr. Cass., n. 6548/2010; n. 17123/2020; n. 34211/2022), giacché la mancata consegna può anche dipendere da circostanze che non escludono in modo significativo la oggettiva attitudine del bene a soddisfare le aspettative dell'acquirente. Infatti, soltanto nel caso in cui non ricorrano le condizioni per l'ottenimento del certificato in ragione di insanabili violazioni di disposizioni urbanistiche può ipotizzarsi nella mancata consegna del documento un inadempimento ex se idoneo alla risoluzione della compravendita, mentre nelle altre ipotesi l'omissione del venditore non si sottrae a tale fine ad una verifica dell'importanza e gravità dell'inadempimento in relazione alle concrete esigenze del compratore di utilizzazione diretta od indiretta dell'immobile (Cass., n. 3851/2008; n. 17140/2006; n. 24786/ 2006). In altre parole, l'inadempimento, derivante dalla mancata consegna del certificato, può determinare la risoluzione solo qualora non ricorrano le condizioni per il suo conseguimento (Cass., n. 30950/2017) e l'ipotesi dell'aliud pro alio, che dà luogo all'azione contrattuale di risoluzione o di adempimento, ai sensi dell'art. 1453 c.c., svincolata dai termini di decadenza e prescrizione previsti dall'art. 1495 c.c., si realizza allorché il bene venduto sia completamente diverso da quello pattuito in quanto, appartenendo ad un genere diverso, si riveli funzionalmente del tutto inidoneo ad assolvere la destinazione economico-sociale della res venduta e, quindi, a fornire l'utilità richiesta (Cass. n. 10916/2011; n. 28419/2013). Ciò premesso, la CTU svolta - i cui esiti sono pienamente utilizzabili, risultando l'operato del professionista adeguatamente ed esaustivamente argomentato nel rispetto del quesito posto - ha permesso di accertare che, ancora alla data del 25.09.2020, presso il Comune di Novara non risultava essere mai stata depositata alcuna attestazione di abitabilità o agibilità afferente all'unità immobiliare di parte attrice. Rispondendo al quesito posto, il CTU ha espressamente chiarito che l'immobile "alla data dell'acquisto non si trovasse nelle condizioni di ottenere il certificato", sussistendo una carenza documentale di fine lavori in ordine all'attestato di rispondenza del progetto a seguito delle opere di sistemazione del fabbricato esistente con cambio di destinazione poste in essere in data 07.05.2007 e sussistendo alcune discordanze fra la realtà dei luoghi e le Tavole progettuali di cui al titolo edilizio (riguardanti tramezze interne, la posizione di una finestra e di una porta interne, la presenza di una pensilina esterna non assentita), oltre a difformità nell'impiantistica (in particolare nell'impianto di riscaldamento, mentre quello elettrico è risultato a norma) e alla presenza di efflorescenze e macchie di umidità, che il CTU ha ritenuto di poter condurre al fatto che alcune lastre della copertura risultassero spostate e che le canaline di scolo fossero ostruite. L'ottenimento del certificato di abitabilità, dunque, risulta condizionato alla chiusura della pratica edilizia, alla certificazione degli impianti (sul punto il CTU ha rilevato che la documentazione prodotta dal convenuto, e che quest'ultimo ha dichiarato di aver consegnato all'attrice all'atto della compravendita, consiste nella mera attestazione della ditta installatrice, rilasciata ai fini dell'attivazione della fornitura del gas, ma non è la certificazione della rispondenza dell'impianto a sicurezza necessaria ai fini dell'agibilità, che presupporrebbe la realizzazione delle modifiche evidenziate in perizia), alla effettuazione di collaudo statico e di regolare accatastamento, il che comporterebbe porre rimedio alle suddette difformità e ai suddetti difetti dell'immobile. Pur tuttavia, il CTU ha altresì espressamente precisato che "l'abitabilità si sarebbe potuta ottenere, e risulterebbe tuttora ottenibile, con poche e semplici lavorazioni", a seguito di avvio della pratica presso il Comune di Novara. Infatti non sono emersi difetti di alcun genere, sotto il profilo strutturale; le difformità dello stato dei luoghi rispetto al progetto sono minimali e regolarizzabili, così come le problematiche all'impianto, con interventi modesti. Quanto alle infiltrazioni, non sarebbe possibile stabilire ad oggi se le fessurazioni nelle lastre di copertura fossero già esistenti o se si siano prodotte nel tempo, mentre è certo che le carenze manutentive abbiano influito sul prodursi delle infiltrazioni. Proprio sulla scorta delle considerazioni suddette, il CTU nominato, nel corso dell'incarico ricevuto, ritenendo le lavorazioni di semplice esecuzione, ha dato luogo ad ampio tentativo di conciliazione tra le parti, quantificando i costi per l'esecuzione delle opere e per la richiesta ed il conseguente ottenimento del certificato di abitabilità in Euro 11.000,00: proposta conciliativa non accolta dalla parte attrice, mentre la parte convenuta sarebbe stata disposta ad assumere tutti gli oneri necessari al rilascio del suddetto certificato. Tenuto conto delle risultanze cui è pervenuto il CTU nominato, si ritiene che, non sussistendo al momento dell'atto di acquisto le condizioni per ottenere la dichiarazione di abitabilità, si configuri l'inadempimento del convenuto rispetto al proprio obbligo di alienare un bene fornito del certificato in questione, in difetto del quale risultano quantomeno diminuite le possibilità di normale commerciabilità del bene, essendo facoltà dell'acquirente pretenderne la presenza. Risulta, dunque, ininfluente l'allegazione della parte convenuta secondo cui le parti si sarebbero accordate perché fosse l'acquirente a portare a termine la pratica edilizia e, con la documentazione ottenuta dal venditore in ordine alla certificazione degli impianti, a richiedere il certificato di abitabilità. E' emerso, infatti, che nello stato in cui l'immobile è stato venduto, il certificato non sarebbe stato rilasciato, dal momento che la certificazione consegnata, quantomeno rispetto all'impianto del gas, non era l'attestazione necessaria a detto fine e dal momento che, in effetti, detto impianto presentava delle carenze. D'altro canto, tuttavia, l'agevole realizzazione degli interventi necessari per l'ottenimento della predetta certificazione impedisce di ritenere che l'inadempimento del venditore abbia caratteristiche di gravità tale da giustificare la risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c.. L'art. 1455 c.c. impone la verifica della non scarsa importanza dell'inadempimento, dovendo il giudice tenere conto dell'effettiva incidenza dell'inadempimento sul sinallagma contrattuale e verificare se, in considerazione della mancata o difettosa esecuzione della prestazione, sia da escludere per la controparte l'utilità del contratto alla stregua dell'economia complessiva del medesimo. Ora, i difetti individuati dal CTU sono di natura tale da non incidere sulla esistente e perdurante attitudine dell'immobile ad assolvere alla destinazione abitativa sua propria e che è stata oggetto di interesse dalla parte attrice al momento dell'acquisto. Non può non rilevarsi, d'altra parte, che l'attrice, pur essendo stata immessa nel possesso dell'immobile quantomeno dal dicembre 2014, ha proposto la presente azione - in relazione a fatti che il CTU, di ciò incaricato, ha potuto accertare nel giro dei sei mesi intercorsi fra l'assegnazione dell'incarico e la redazione della relazione peritale - solo nel novembre 2018, a distanza di anni dall'acquisto, godendo nel frattempo dell'immobile, a scopo abitativo, in modo perdurante e non compresso in modo sostanziale. Dunque, pur accertata l'inesistenza della certificazione di abitabilità, deve ritenersi che i vizi ostativi, tutti superabili in modo agevole, non consentano di ritenere il bene addirittura "diverso da quello pattuito". Anche l'impegno economico necessario per la regolarizzazione dell'immobile, che dovrà essere sostenuto per garantire la normale circolazione dello stesso sul mercato, se certo non può essere definito minimo, tuttavia non può ritenersi tale da alterare in modo irrimediabile il nesso di sinallagmaticità che lega le reciproche prestazioni, compromettendo quantitativamente l'equilibrio fra le stesse. Da ciò discende il rigetto della domanda attorea di risoluzione del contratto, non sorretta da inadempimento del convenuto qualificabile come grave, e conseguentemente il rigetto della domanda di condanna del convenuto alla restituzione delle somme versategli quale prezzo dell'immobile e della refusione delle spese sostenute per la stipula del contratto di compravendita, domande il cui accoglimento avrebbe avuto come necessario presupposto l'intervenuta risoluzione della compravendita. L'acquirente, odierna attrice, potrà, se del caso, ottenere tutela agendo per l'adempimento ovvero chiedendo di essere ristorata degli importi necessari alla realizzazione degli interventi necessari all'ottenimento del certificato di abitabilità e all'avvio della relativa pratica, domanda che in questa sede la parte, che ha agito unicamente per la risoluzione (e per essere reintegrata degli esborsi divenuti inutili in caso di pronuncia della risoluzione), non ha formulato. Va richiamato, al riguardo, che la domanda risarcitoria è da considerarsi domanda autonoma rispetto a quella di risoluzione, potendo le stesse essere proposte congiuntamente o separatamente, come si evince dall'art. 1453 c.c., atteso che l'inadempimento sussiste o meno - con tutte le conseguenze sul piano del diritto al risarcimento del creditore della prestazione inadempiuta - indipendentemente dall'eventuale pronuncia di risoluzione (Cassazione civile sez. I, 27/10/2006, n. 23273). Le domande del convenuto di restituzione dell'immobile e di pagamento di indennità per l'occupazione dello stesso da parte dell'attrice sono assorbite. 3. Neppure può trovare accoglimento la domanda riconvenzionale di parte convenuta, avente ad oggetto la restituzione della somma di Euro 10.000,00 da questa prestata alla (...), in data 22.12.2014, per consentirle il pagamento del prezzo dell'immobile e la conclusione del contratto di compravendita. Per consolidato principio, le dichiarazioni recanti ricognizioni di debito assumono l'efficacia processuale probatoria per cui, in deroga al normale canone di cui all'art. 2697 c.c., sollevano il creditore dall'onere di dimostrare la sussistenza e l'entità del proprio credito e fanno gravare sul debitore l'onere di dimostrare che il debito riconosciuto in realtà non esiste o è invalido o si è successivamente estinto (per tutte, da ultimo, Cass., n. 6353/2022). Parte attrice ha dedotto, in ordine alla domanda riconvenzionale formulata dal convenuto, l'avvenuto pagamento del debito contratto con il (...) per il tramite dell'assegno n. (...) del 03.02.2015, tratto su veneto Banca, emesso per la somma di Euro 10.000,00, dalla di lei madre, (...), in favore del sig. (...), padre del convenuto. Giova precisare che la deduzione - sebbene proposta solo in sede di prima memoria istruttoria, ma non anticipata all'udienza fissata ex art. 183 c.p.c. per la prima comparizione delle parti e la trattazione, nella quale, secondo il quinto comma di tale norma, "l'attore può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto" - è tuttavia tempestiva. Il pagamento, infatti, costituisce pacificamente una eccezione in senso lato (tra molte, Cass. n. 17196 del 2018; Cass. n. 9610 del 2012; Cass. n. 13014 del 2004) che, come tale, può essere rilevata dal giudice - e sollevata dalla parte - addirittura per la prima volta in appello, in quanto il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe sviato ove anche le questioni rilevabili d'ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto (Cass., n. 10531/2013). Ciò posto, si osserva che l'avvenuto pagamento è documentato e, sostanzialmente, non contestato. Nella prima difesa utile (ossia la seconda memoria istruttoria) il convenuto, infatti, si è limitato a osservare che "a nulla rileva l'assegno bancario indicato e prodotto da controparte e relativo a due soggetti totalmente diversi ed estranei alla vicenda dedotta in atti": in tal modo confermando il trasferimento di denaro, pur ritenendolo non pertinente perché intervenuto fra due soggetti estranei alla compravendita. Non è stato dal convenuto spiegato quale, in alternativa, sarebbe stata la causa del bonifico, intercorso fra due soggetti per quanto consta del tutto estranei fra loro, ma legati da stretto vincolo di parentela rispetto alle parti della compravendita, né tantomeno è stata offerta prova su tale (non menzionato) titolo alternativo. Il sig. (...), escusso all'udienza del 26.10.2021, ha confermato di aver ricevuto, nell'anno 2015, un assegno del predetto importo, non ricordandosi se dalla (...) o dalla madre, che ha riferito di aver in effetti conosciuto, tanto da averla riconosciuta fra le persone in attesa di essere chiamate a testimoniare fuori dall'aula di udienza, ma ha dichiarato che si sarebbe trattato del corrispettivo per i mobili e gli arredi presenti nell'immobile compravenduto alla (...), aggiungendo che "L'appartamento era arredato, c'erano i mobili della cucina, fatti su misura; quelli del soggiorno, delle camere da letto e anche la cantina era semiarredata. L'immobile è stato venduto come arredato, anche se non è stato scritto nella compravendita". Alla stessa udienza, la madre della parte attrice, (...), anch'essa sentita come teste (testimonianza ritenuta ammissibile in quanto volta a dimostrare non il pagamento, ma il titolo dello stesso), ha riferito: "ho emesso un assegno di 10.000 Euro sul mio conto, all'epoca tratto sulla (...), era gennaio o febbraio 2015. E' l'unico assegno che io ho emesso in relazione a questo acquisto immobiliare. Io l'ho consegnato a mia figlia, che l'ha dato al sig. (...). So che lo ha dato a (...), e non ad (...) perché non abbiamo mai avuto a che fare con il figlio, che abbiamo conosciuto solo quando siamo andati davanti al Notaio per il rogito; abbiamo sempre avuto a che fare con il padre sig. (...). Mancava la somma di Euro 10.000 per l'acquisto della casa. La casa è stata venduta in parte ammobiliata; c'era un mobile in sala, la cucina, qualche lampadario, ma mia figlia so che aveva già pagato i mobili in precedenza; ero presente anche io, mia figlia aveva dato degli assegni per il pagamento dei mobili. Ribadisco che l'assegno da 10.000 Euro era l'ultima parte del prezzo dell'immobile". E' noto il principio, ancora recentemente ribadito dalla Suprema Corte, secondo cui soltanto a fronte della comprovata esistenza di un pagamento avente efficacia estintiva, ossia puntualmente eseguito con riferimento ad un determinato credito, l'onere della prova viene nuovamente a gravare sul creditore, il quale controdeduca che il pagamento deve imputarsi ad un credito diverso, con la conseguenza che tale principio non può trovare applicazione quando il pagamento venga eccepito mediante la produzione di assegni o cambiali, che per la loro natura presuppongono l'esistenza di un'obbligazione cartolare (e l'astrattezza della causa), così da ribaltare nuovamente l'onere probatorio in capo al debitore, che deve dimostrare il collegamento dei titoli di credito prodotti con i crediti azionati, ove ciò sia contestato dal creditore (Cass., n. 26897/2022; n. 15708/2021). Ora, sull'imputazione del pagamento a rimborso del prestito ottenuto per l'acquisto dell'immobile sono state raccolte, come detto, contrastanti dichiarazioni testimoniali. Si ritiene, tuttavia, maggiormente credibile quella fornita dalla sig.ra (...), sebbene proveniente da soggetto vicino alla parte attrice quanto lo è il sig. (...) rispetto alla parte convenuta, alla luce della condotta processuale assunta dal convenuto. Si deve rilevare che l'imputazione del pagamento a prezzo degli arredi neppure è stata allegata dal convenuto (che, come detto, si è limitato a protestare l'asserita irrilevanza di un pagamento fatto a soggetto estraneo alla compravendita, sebbene sia emerso - cfr. dich. teste (...) - che la trattativa intercorse proprio con il padre del convenuto e che quest'ultimo si presentò alle controparti unicamente in occasione del rogito) : anche perché, se allegata, tale imputazione alternativa sarebbe risultata in contrasto con quanto dedotto nella comparsa di costituzione, nella quale il convenuto aveva affermato che l'avvenuta pattuizione di un prezzo, allegato come inferiore a quello di mercato, quale corrispettivo del trasferimento di un immobile oltretutto semiarredato, confermasse appunto l'accordo che, a detta del convenuto, sarebbe intervenuto perché fosse l'acquirente a occuparsi, successivamente all'acquisto, del conseguimento del certificato di abitabilità. Tale deduzione, infatti, presuppone implicitamente l'ulteriore deduzione che gli arredi fossero compresi nel prezzo; né parte attrice è stata posta nella possibilità di controdedurre e controprovare, rispetto a quanto affermato dal teste, perché mai prima affermato dal convenuto. D'altra parte nella narrativa dei fatti contenuta negli atti del convenuto non è stato in alcun modo esplicitato che, all'atto della compravendita, residuasse un ulteriore debito, relativo al pagamento degli arredi: di cui, peraltro, appare scarsamente verosimile che le parti abbiano posticipato il pagamento rispetto al perfezionamento della compravendita senza che il venditore si tutelasse in alcun modo dall'eventuale inadempimento (come accaduto rispetto al prestito, in relazione al quale l'acquirente sottoscrisse un riconoscimento dell'esistenza del debito). Solo nella comparsa conclusionale, poi, il convenuto ha affermato che il pagamento dei mobili presenti all'interno dell'immobile compravenduto sarebbe avvenuto al sig. (...), perché di proprietà degli stessi e perché, inizialmente, era previsto dovessero essere dallo stesso ritirati. In definitiva, non solo manca del tutto la prova che la proprietà dei mobili presenti nell'immobile sia stata trasferita a parte, rispetto all'immobile stesso (tanto più con contratto stipulato fra soggetti diversi rispetto a quelli della compravendita immobiliare), ma sono in atti allegazioni dello stesso convenuto che contrastano con tale deduzione. Alla luce dei suddetti elementi, il pagamento, di importo esattamente coincidente con il debito riconosciuto e intervenuto a breve distanza di tempo dal rogito, si ritiene estintivo del debito contratto dalla (...) con il convenuto in data 22.12.2014. 4. La soccombenza reciproca giustifica ai sensi dell'art. 92 c.p.c., alla luce del peso delle rispettive domande in ordine al numero e alla complessità delle questioni, in fatto e in diritto, afferenti a ciascuna di esse, la compensazione delle spese di lite per il 50 %. Parte attrice dovrà rifondere al convenuto la residua frazione del 50% delle spese, che si liquida sulla base dei parametri introdotti dal D.M. n. 55 del 2014, aggiornati al D.M. n. 147 del 13 agosto 2022, in relazione allo scaglione da Euro 52.001,00 ad Euro 260.000,00 (già operata la riduzione del 50%) in Euro 1000,00 per la fase di studio, Euro 1000,00 per la fase introduttiva, in Euro 1.500,00 per la fase istruttoria e in Euro 1.500,00, oltre spese forfettarie nella misura del 15% sui compensi, CPA e IVA se dovute per legge e oltre esborsi documentati. Le spese di CTU, tenuto conto che trattasi di mezzo di accertamento della verità materiale, compiuto nell'interesse generale della giustizia (Cass., n. 14300/2014), vanno poste a carico delle parti in pari misura. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando nel proc. n. 3114/2018, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: 1) rigetta integralmente la domanda di parte attrice (...); 2) rigetta la domanda riconvenzionale di parte convenuta (...); 3) compensa le spese di lite per il 50% e condanna parte attrice a rimborsare alla parte convenuta la residua frazione del 50%, che si liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre i.v.a., c.p.a. e rimborso forfettario spese generali nella misura del 15%, spese documentate. 4) pone definitivamente le spese di c.t.u. a carico di entrambe le parti in pari misura. Così deciso in Novara il 30 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 31 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI NOVARA SEZIONE LAVORO Il Giudice del Lavoro, Lorena Casiraghi, all'esito della camera di consiglio, ha pronunciato la seguente sentenza nella causa di primo grado iscritta al n. 11 del ruolo contenzioso lavoro dell'anno 2022 tra (...) (C.F. (...) ) elettivamente domiciliata in Biella, via (...), presso lo studio dell'avv. Gi.Ri. che la rappresenta e difende in virtù di delega allegata al ricorso Ricorrente e Ministero dell'Istruzione in persona del Ministro pro-tempore (C.F. (...)) rappresentato e difeso ex art. 417 bis 1 co. c.p.c. dalla dr.ssa (...) ed elettivamente domiciliato presso l'Ufficio Scolastico Provinciale di Novara, via (...) Resistente OGGETTO: Abusiva reiterazione contratti a termine docenti di religione - risarcimento danno. FATTO E DIRITTO Con ricorso depositato il 13.1.2022, (...) ha convenuto in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Novara - Sezione Lavoro, il Ministero dell'Istruzione chiedendo l'accertamento dell'abusiva reiterazione di contratti a termine oltre il termine di 36 mesi su posti vacanti e disponibili e la conseguente condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno secondo i parametri dettati dall'art. 32 co. 5 L. n. 183 del 2010 o nella diversa misura ritenuta di giustizia. A fondamento della domanda, la ricorrente - premesso di essere docente abilitata all'insegnamento della religione cattolica ed inserita nelle graduatorie di merito ex L. n. 186 del 2003 - ha allegato di avere prestato servizio alle dipendenze del Ministero dell'Istruzione, come docente di religione cattolica, per oltre 36 mesi - ininterrottamente dall'a.s. 2002/2003 alla data di deposito del ricorso - sulla base di ripetuti contratti a tempo determinato per la copertura di posti vacanti su organico di diritto, ovvero per supplenze annuali conferite con scadenza al 31 agosto. Lamenta la ricorrente l'illegittimità della reiterazione dei contratti a termine con conseguente diritto al risarcimento del danno evidenziando che le previsioni contenute nella L. n. 186 del 2003, la quale prevede che per tutti i posti non coperti da insegnanti con contratto di lavoro a tempo indeterminato si provvede mediante contratti di lavoro a tempo determinato, non giustificano tout court la reiterazione dei contratti a termine. Si è costituito in giudizio il Ministero dell'Istruzione contestando la fondatezza della domanda di conversione dei contratti a termine, domanda peraltro nemmeno svolta dalla ricorrente, e della conseguente domanda di indennizzo ex art. 32 L. n. 183 del 2010 trattandosi di tutela aggiuntiva rispetto a quella della stabilizzazione del rapporto per superamento del termine massimo apponibile al contratto di lavoro ragione per la quale, non potendosi richiedere tale ultima tutela, nell'ambito del pubblico impiego, neppure la tutela indennitaria/risarcitoria potrebbe essere invocata. All'udienza odierna, a seguito di discussione orale, la causa è stata decisa mediante lettura della presente sentenza. Oggetto del presente giudizio è l'accertamento dell'illegittimità del ricorso a contratti a tempo determinato, da parte del Ministero convenuto, per il conferimento degli incarichi annuali relativi all'insegnamento della religione cattolica. Preliminarmente pare opportuno ricostruire la disciplina normativa dettata per il reclutamento dei docenti di religione. Per quanto interessa ai fini del presente giudizio, il sistema immediatamente successivo alla revisione del Concordato ed intese collegate prevedeva, per l'insegnamento della religione cattolica, incarichi necessariamente annuali e non poneva limiti alla reiterazione degli stessi, impedita solo nel caso di perdita dell'idoneità all'insegnamento religioso. Il D.Lgs. n. 297 del 1994, applicabile a tutte le scuole pubbliche non universitarie, oltre a ribadire che l'insegnamento della religione cattolica resta disciplinato dalle intese previste dal protocollo addizionale, al comma 2 precisa che detto insegnamento è assicurato mediante conferimento di incarichi annuali, previa intesa con l'ordinario diocesano, ed al comma 3 ribadisce l'appartenenza degli insegnanti al corpo docente con parità di diritti e di doveri. Peraltro, va rimarcato come la contrattazione collettiva già prevedesse all'epoca una regola di rinnovo automatico dell'incarico annuale (art. 47, comma 6 e 7 CCNL comparto scuola 1994-1997), nel senso che esso era da aversi per "confermato qualora permangano le condizioni ed i requisiti prescritti dalle vigenti disposizioni di legge", con previsione espressamente valorizzata da Corte Cost. 22 ottobre 1999, n. 390 per escludere qualsiasi profilo di illegittimità della normativa nel suo insieme, sul rilievo che in tal modo la precarietà del rapporto non sarebbe stata assoluta, come evidenziato anche da Cass. 21 gennaio 2016, n. 1066. Ad oggi la disciplina dei rapporti di impiego a tempo determinato degli insegnanti di religione cattolica è contenuta nella L. n. 186 del 2003 che ha istituito i ruoli degli insegnanti di religione, con la previsione, però, che le dotazioni organiche siano stabilite nella misura del 70% dei posti di insegnamento complessivamente funzionanti. La L. n. 186 del 2003 ha infatti introdotto, all'interno della categoria omogenea dei docenti di religione con incarico annuale, la distinzione fra docenti di ruolo, assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato e docenti non di ruolo assunti con contratto a tempo determinato. I ruoli sono regionali ma articolati per ambiti territoriali corrispondenti alle diocesi e l'art. 2 stabilisce che la consistenza degli stessi, che costituisce la dotazione organica, deve essere pari al 70% dei "posti funzionanti" per ciascuna diocesi. L'art. 3 dispone poi che l'accesso ai ruoli avviene previo superamento di concorsi per titoli ed esami, da indire su base regionale con frequenza triennale, ai quali possono partecipare i candidati in possesso dei titoli culturali e del riconoscimento di idoneità da parte delle autorità ecclesiastiche previsti dai protocolli di intesa. Il comma 10 dell'art. 3 precisa, inoltre, che "Per tutti i posti non coperti da insegnanti con contratto di lavoro a tempo indeterminato, si provvede mediante contratti di lavoro a tempo determinato stipulati dai dirigenti scolastici, su indicazione del dirigente regionale, d'intesa con l'ordinario diocesano competente per territorio" e tale personale integra il 30% proprio degli addetti assunti a termine. L'art. 1, comma 2, prevede che "agli insegnanti di religione cattolica inseriti nei ruoli di cui al comma 1 si applicano, salvo quanto stabilito dalla presente legge, le norme di stato giuridico ed il trattamento economico previsti dal testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado, di cui al D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297 e successive modificazioni, di seguito denominato "testo unico" e dalla contrattazione collettiva". Anche in tale novellato assetto la contrattazione collettiva (art. 40, comma 5, CCNL 2006/2009 di comparto) ha confermato il richiamo al D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 309, comma 2 (norma in ordine alla durata annuale degli incarichi, in sé pienamente compatibile anche con il nuovo sistema, con riferimento ai rapporti a tempo determinato) e la regola di rinnovo automatico, salvo venire meno dei requisiti, anch'essa dunque tuttora vigente. Il legislatore ha in sostanza inteso conferire al docente di religione uno stato giuridico pari a quello degli insegnanti delle materie curriculari, ribadendo il principio della parità di diritti e di doveri già fissato dalle intese e dal citato D.Lgs. n. 297 del 1994 art. 309, ma ha mantenuto la specialità della categoria quanto ai titoli ed alle modalità per il reclutamento in ruolo o a termine. L'elemento connotativo di specialità riguardo all'accesso al rapporto di impiego a tempo determinato e indeterminato alle dipendenze del Ministero per gli insegnanti di religione cattolica è costituito dal fatto che il titolo di idoneità all'insegnamento è riconosciuto dall'ordinario diocesano e si tratta di un titolo che ha effetto permanente salvo revoca. Tale elemento di specialità incide, in origine, sulla costituzione del rapporto non essendo ammissibile la stipulazione, da parte del Ministero, di un contratto di lavoro a tempo determinato per l'insegnamento della religione cattolica con un soggetto che sia privo del titolo di idoneità riconosciuto dall'ordinario diocesano e, successivamente, sulla permanenza del rapporto contrattuale, con effetti distinti a seconda che il rapporto sia a termine o a tempo indeterminato, laddove il titolo di idoneità sia revocato. Tanto premesso, la questione della legittimità della reiterazione di contratti a termine annuali per il reclutamento degli insegnanti di religione cattolica è stata recentemente affrontata dalla Corte di Cassazione con sentenza 9.6.2022 n. 18698 la cui motivazione si richiama anche ai sensi dell'art. 118 disp. att. c.p.c.. La Suprema Corte, dopo aver richiamato i principi espressi dalla pronuncia della Corte di Giustizia del 13 gennaio 2022, ha evidenziato "come rilevato anche dalla Corte di Giustizia, in ragione del combinarsi del D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 309, comma 2 e della contrattazione collettiva di settore, i rapporti a termine sono di regola destinati a rinnovarsi di anno in anno, senza limiti di tempo, se non vengano meno le condizioni ed i requisiti prescritti dalle vigenti disposizioni di legge, il che denota una stabilità superiore a quella di ordinari contratti a termine ed un assetto sensibilmente diverso rispetto al sistema generale del reclutamento scolastico. In quest'ultimo, il reclutamento dei precari avviene in ragione delle carenze di personale di ruolo rispetto alle dotazioni previsionali (supplenza su organico di diritto) o in ragione delle necessità che si manifestino (organico di fatto) successivamente alla fissazione di tali dotazioni previsionali. Non è pertanto possibile un rinnovo automatico di diritto del tipo di quello sopra descritto. Tale rinnovo è qui in realtà conseguenza logica della considerevole quota di fabbisogno (30%) che è lasciata alle assunzioni non di ruolo, essendo evidente che dilatazioni e contrazioni annue ben difficilmente possono raggiungere quelle misure percentuali, sicché è normale che vi sia spazio per una regola di quel tipo ed anzi è presumibile che l'ipotesi di rapporti annuali rinnovati, anche per lunga durata, sia assolutamente ricorrente. E' pertanto fuori di luogo anche solo il paragone con la diversa articolazione del sistema generale scolastico, che non è utile per i fini ricostruttivi di questo più limitato e specialissimo settore. 7.2 Da ciò deriva una prima importante conclusione. Infatti, ritenere ora che sia in sé abusivo il rinnovo automatico, in quanto chiaramente destinato a far protrarre ulteriormente i rapporti "annuali" comunque esistenti, sarebbe solo di danno ai lavoratori ed opererebbe in senso diametralmente contrario a quanto preteso dalla Corte di Giustizia, allorquando essa ha imposto al giudice interno di "vegliare" su un adattamento del diritto interno che non fosse ragione di regresso rispetto alle condizioni concrete in essere e quindi operasse in senso dissuasivo rispetto all'esercizio in sede giurisdizionale delle istanze di tutela. Tale salvaguardia delle utilità esistenti - nell'impossibilità di conversione, su cui si tornerà e nell'insussistenza di misure di stabilizzazione straordinarie - è impossibile, se non escludendo che la prosecuzione dei rapporti ed il loro rinnovo automatico, in qualunque forma essa avvenga, sia in sé ragione di illegittimità. Il rilievo esclude altresì di poter ritenere illegittime, per contrasto con l'ordinamento (...), le previsioni della contrattazione collettiva da cui discende tale possibilità di un rinnovo automatico costante e sine die, trattandosi peraltro, come già ebbe e rilevare Corte Costituzionale 390/1999 cit., di misure più di favore che penalizzanti. Il rinnovo automatico, per gli anni a venire, dei rapporti annuali esistenti non può dunque essere impedito dalla rilettura del sistema conseguente alla pronuncia della Corte di Giustizia, finendosi altrimenti per assumere conclusioni contraddittorie rispetto a quanto preteso proprio da quest'ultima, oltre che palesemente dirompenti ed irrazionali. 8. Ciò posto, si deve ritenere che la regola in ordine al ricorrere, per quella quota del 30 % non di ruolo, di contratti a rinnovo automatico, potenzialmente costante, non escluda che tuttavia persistano connotati di precarietà. Essi non emergono tanto per la possibilità, cui si è già accennato, che il rinnovo venga meno per perdita dell'idoneità a quell'insegnamento, perché anche i rapporti di ruolo di questa particolare docenza sono destinati in tali casi a cessare. I tratti di precarietà risalgono invece al fatto che, a fronte dell'eccedenza dell'incarico rispetto al fabbisogno, solo ai docenti di ruolo sono attribuite le guarentigie della mobilità, quali richiamateanche dalla L. n. 186 del 2003, art. 4, comma 3. Esse sono infatti certamente estranee al lavoro a termine e, assicurando una tutela ulteriore rispetto alla continuità ed al mantenimento del posto presso la Pubblica Amministrazione, assurgono a sicuro tratto differenziale. Analogamente, la conservazione del posto di lavoro in caso di malattia gode di una tutela meno intensa (9 mesi in un triennio: c.c.n.l. 29/11/2007, art. 19, comma 5, contro 18 mesi del personale di ruolo: medesimo c.c.n.l., art. 17, comma 1). Pur a fronte di regole di almeno tendenziale equiparazione tra i trattamenti del personale di ruolo e quelli del personale a tempo determinato con contratto a rinnovo automatico (v. ad es. art. 40, comma 6, del c.c.n.l. 2007, sull'adeguamento degli orari) persistono elementi differenziali qualificanti, proprio sotto il profilo della stabilità, che mantengono sicuramente il personale non di ruolo nell'ambito del precariato. 8.1 Vi è dunque intanto da verificare se ed a quali condizioni - tali connotati di persistente precarietà possano sfociare, in caso di rapporti annuali continuativi o comunque susseguitisi senza soluzione di continuità, in un illegittimo abuso verso tali docenti. L'ordinamento interno in effetti già prevede una misura idonea a sopperire alla predetta condizione di precarietà, che è data dall'obbligo di procedere con cadenza triennale allo svolgimento dei concorsi per l'assunzione in ruolo, di cui alla L. n. 186 del 2003, art. 3, comma 2, i quali, pur non essendo riservati ai precari (se non, ora, per il 50%) sono comunque chiaramente funzionali anche all'evolversi di quelle docenze verso il ruolo. Né è pensabile - dati i numeri coinvolti - che allo scadere del triennio non ricorrano vacanze nella dotazione organica del 70%, in ipotesi anche solo nella direzione prospettica del triennio a venire, cui il concorso è fisiologicamente destinato ad estendersi. Tale previsione riconosce quindi la possibilità agli interessati di colmare, almeno con una non irragionevole cadenza triennale, proprio quel deficit di stabilità che definisce il loro status di precari. D'altra parte, essendo stato indetto, dopo la L. n. 186 del 2003, un solo concorso, nell'ormai lontano 2004, il Ministero, attraverso l'inosservanza di quell'obbligo, ha impedito il funzionamento complessivo del sistema, radicalizzando quei particolari tratti di precarizzazione di esso che si sono sopra individuati. In ciò sta l'abuso lesivo dell'Accordo Quadro, che si realizza, nei riguardi del singolo insegnante, allorquando egli sia mantenuto in servizio per più di un triennio, attraverso il rinnovo automatico di default o comunque senza soluzione di continuità, senza che siano indetti concorsi di accesso ai ruoli con la cadenza appunto triennale prevista dalla legge e senza che, per il radicarsi dell'illecito, vi sia necessità di altra dimostrazione che quella dell'inosservanza dell'obbligo di concorso sancito dalla normativa speciale, a definizione del sistema quale congegnato dal legislatore. ... 9.1 Al di là del caso dei contratti continuativamente rinnovati o senza soluzione di continuità, si può infatti determinare abuso anche a fronte di plurime assunzioni a termine che avvengano discontinuamente per effetto della dismissione del rapporto, in certi periodi, a causa dell'eccedenza rispetto ai fabbisogni. In tali casi la precarietà si manifesta proprio attraverso un'utilizzazione dei docenti interessati che ha luogo con discontinuità e solo quando vi sia bisogno di essi. Con tutta probabilità si tratta di ipotesi numericamente marginali, ma sicuramente destinate a ricorrere, data l'organizzazione del sistema, soggetto agli effetti delle dilatazioni e restrizioni annue del fabbisogno e che la stessa norma collettiva evidentemente contempla, quando prevede la conferma a condizione che "permangano le condizioni (v. disponibilità del posto, n.d.r.) ed i requisiti (v. idoneità all'insegnamento, n.d.r.) prescritti dalle vigenti disposizioni di legge". L'abuso qui riveste particolare gravità perché si fa leva proprio sulla precarietà dell'interessato, che resta per una o più annualità senza lavoro, per assicurare la flessibilità del reclutamento annuale. Anche per definire quando, in simili condizioni, esso si realizzi va fatto riferimento all'obbligo concorsuale triennale, perché comunque il triennio esprime il lasso di tempo che l'ordinamento individua come tollerabile rispetto al mantenimento della condizione di precarietà. Pertanto, è quella stessa triennalità, da valutare qui attraverso la sommatoria dei periodi di effettiva utilizzazione del singolo docente non di ruolo e da tradurre in tre annualità di anno scolastico secondo il regime proprio del settore, a segnare il limite oltre il quale l'utilizzazione di un docente in forme precarie e con modalità discontinue sia da considerare abusiva. ... 10. Restano al di fuori dei casi di abuso sopra delineati, i contratti a termine che siano stipulati, per una durata infrannuale, in concomitanza con effettive necessità temporanee. La stessa Corte di Giustizia sottolinea come il ricorrere di "esigenze provvisorie" (punto 106) sia da ritenere in linea con il rispetto della clausola 5, punto 1 dell'Accordo Quadro; per l'effetto, va da sé che quanto corrisponda ad esigenze di tal fatta non possa dirsi abusivo, proprio perché riguardante contratti ab origine instaurati nella consapevolezza di ambo le parti di una loro durata limitata nel tempo e della rispondenza ad esigenze transitorie. E' il caso dei contratti motivati dalla necessità sostitutiva di un docente di ruolo o comunque precedentemente incaricati, oppure dei contratti stipulati nello stretto tempo necessario all'immissione in ruolo o a concludere procedure concorsuali sempre per l'assunzione in ruolo. In tali ipotesi, l'onere probatorio della effettività della ragione giustificativa è a carico del Ministero, come da principi consolidati in ambito di termine di durata di contratti a tempo determinato legittimati da specifiche "causali" e la stipula del contratto non è né in sé illegittima, né rileva al fine del computo delle tre annualità di cui si è detto, restando a tali fini del tutto neutra. 14. Tutto ciò consente, dunque, di definire i seguenti principi: "Stante l'impossibilità di conversione a tempo indeterminato dei contratti annuali dei docenti non di ruolo di religione cattolica in corso, per i quali la contrattazione collettiva stabilisce la conferma al permanere delle condizioni e dei requisiti prescritti dalle vigenti disposizioni di legge, i medesimi rapporti proseguono, nonostante il reiterarsi di essi nel tempo e ciò in ragione dell'indirizzo della pronuncia della Corte di Giustizia in materia, secondo cui l'interpretazione del diritto interno in coerenza con i principi (...) non può tradursi in ragione di pregiudizio per i lavoratori, salvo il diritto al risarcimento del danno per la mancata indizione dei concorsi triennali quali previsti dalla legge per l'accesso ai ruoli". "Nel regime speciale di assunzione a tempo determinato dei docenti di religione cattolica nella scuola pubblica, di cui alla L. n. 186 del 2003, costituisce abuso nell'utilizzazione della contrattazione a termine sia il protrarsi di rapporti annuali a rinnovo automatico o comunque senza soluzione di continuità per un periodo superiore a tre annualità scolastiche, in mancanza di indizione del concorso triennale, sia l'utilizzazione discontinua del docente, in talune annualità, per ragioni di eccedenza rispetto al fabbisogno, a condizione, in quest'ultimo caso, che si determini una durata complessiva di rapporti a termine superiore alle tre annualità. In tutte le menzionate ipotesi di abuso sorge il diritto dei docenti al risarcimento del danno c.d. (...), con applicazione, anche in ragione della gravità del pregiudizio, dei parametri di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, (poi, D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 28, comma 2) oltre al ristoro, se provato, del maggior danno sofferto, non essendo invece riconoscibile la trasformazione di diritto in rapporti a tempo indeterminato". "I contratti di assunzione dei docenti di religione non di ruolo nella scuola pubblica hanno durata annuale e sono soggetti a conferma automatica, secondo le previsioni della contrattazione collettiva, al permanere delle condizioni e dei requisiti prescritti dalle vigenti disposizioni di legge, ma è consentita altresì l'assunzione di durata infrannuale, sulla base di contratti motivati dalla necessità sostitutiva di docenti precedentemente incaricati, oppure nello stretto tempo necessario all'attuazione delle immissioni in ruolo in esito a procedure concorsuali già svolte o per concludere procedure concorsuali in essere, spettando in tali casi al Ministero, qualora sorga contestazione a fini risarcitoci per abuso nella reiterazione del ricorso a contratti a termine, l'onere della prova della legittimità della causale, la quale, se accertata, esclude tali contratti dal computo per l'integrazione della fattispecie del predetto abuso" (conformi le successive pronunce della Corte di cassazione tra le quali Cass. 6.12.2022 n. 35729 e Cass. 5.1.2023 n. 212). Rapportando tali principi al caso di specie si osserva che la ricorrente ha lavorato in forza di contratti a tempo determinato di durata annuale ininterrottamente dall'a.s. 2002/2003 ad oggi (cfr. stato matricolare) e, se la stipula di tali contratti nel primo triennio può dirsi legittima, dall'anno scolastico 2005/2006 la reiterazione dei contratti a tempo determinato, per i motivi sopra indicati, di sicuro ha costituito un abusivo utilizzo dello strumento negoziale e quindi una fattispecie generatrice di danno. Una volta affermata l'illegittimità della reiterazione di contratti a termine nel settore scolastico oltre il termine dei trentasei mesi ed escluso il diritto alla conversione del rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato, stante l'espresso divieto di cui all'art. 36 della L. n. 165 del 2001, residua il diritto al risarcimento del danno previsto dal già citato art. 36 e che è stato ritenuto dalla Corte Europea uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare l'utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato. Ne consegue che la misura risarcitoria potrà essere ritenuta una sanzione adeguata in ambito comunitario a condizione che ne venga reso possibile nell'ordinamento interno un utilizzo effettivo, efficace e dissuasivo. Sul punto, la sentenza Cass. sez. un. 15.3.2016, n. 5072 ha stabilito che in materia di pubblico impiego privatizzato, nell'ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall'art. 36, comma 5, del D.Lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso - siccome incongruo - il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all'art. 32, comma 5 della L. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come "danno comunitario", determinato tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l'indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l'onere probatorio del danno subito. Nel caso di specie ricorre, in sostanza, l'indebita precarizzazione in cui consiste il c.d. danno comunitario da reiterazione dei contratti a termine e da ciò deriva, secondo i principi delineati dalle Sezioni Unite, l'esonero dalla prova del concreto pregiudizio. In applicazione di detto criterio, considerato il numero non esiguo di contratti a termine stipulati dalla ricorrente (dall'a.s. 2002/2003 ad oggi) e la circostanza per la quale sono stati reiterati contratti che hanno consentito la copertura dell'intero anno scolastico, appare equa la condanna del Ministero al risarcimento dei danni in favore della ricorrente nella misura massima, pari a 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi legali dalla data di pubblicazione della sentenza fino al saldo. La soccombenza regola le spese di lite che vengono poste a carico del Ministero e sono liquidate come in dispositivo sulla base dei parametri minimi di cui al D.M. n. 55 del 2014 tenuto conto del valore della causa come dichiarato dalla ricorrente, della natura seriale del contenzioso in oggetto e dell'attività processuale effettivamente svolta e dunque non computandosi la fase istruttoria. P.Q.M. Il Tribunale di Novara, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda eccezione, conclusione e difesa disattesa: - In accoglimento del ricorso, accerta e dichiara l'illegittimità della reiterazione dei contratti a termine con durata annuale stipulati tra le parti per più di 36 mesi; - Condanna il Ministero dell'Istruzione, in persona del Ministro pro-tempore, al risarcimento del danno in favore della ricorrente che viene quantificato in 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita, oltre interessi legali dalla presente pronuncia e fino al saldo; - Condanna il Ministero dell'Istruzione, in persona del Ministro pro-tempore, alla refusione delle spese di lite in favore della ricorrente che vengono distratte in favore del difensore antistatario e si liquidano in complessivi Euro 3.759,00 (di cui Euro 3.500,00 per compensi di avvocato ed Euro 259,00 per esborsi) oltre il 15% del compenso a titolo di spese forfettarie oltre IVA e CPA come per legge. Così deciso in Novara il 19 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 19 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI NOVARA Il Tribunale di Novara, sezione civile, in persona del magistrato dott.ssa Simona Delle Site, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di primo grado iscritta al n. 233/2021 R.G. avente ad oggetto "opposizione ex art. 615, co. 1, c.p.c." promossa da: (...) (c.f. (...)), elettivamente domiciliato in Novara, baluardo (...), presso lo studio dell'avv. St.Ni., dalla quale è rappresentato e difeso, giusta procura in atti; - ATTORE - contro (...), nata a B. (G.) il (...); - CONVENUTO CONTUMACE- MOTIVI DELLA DECISIONE (...) ha proposto opposizione all'atto di precetto con il quale (...) ha intimato all'odierno opponente di pagare, in forza del provvedimento emesso in data 28.06.2019 dal Giudice tedesco e notificato in data 04.07.2019, con formula esecutiva apposta in data 24.07.2019 e notificata in data 27.07.2019 e certificato di titolo esecutivo europeo del 27.02.2022, la somma di Euro 5.632,94, oltre interessi sino alla data di soddisfo e spese. L'attore ha dedotto: - che la notifica del provvedimento tedesco e della formula esecutiva è stata effettuata in Germania, sebbene egli avesse trasferito la propria residenza in I. sin dal 2016; - che ex art. 10 e 19 del Reg. (CE) n. 805/2004 egli ha proposto al Tribunale di Coburg istanza di revoca del certificato esecutivo europeo e proposto opposizione al titolo esecutivo secondo la legislazione tedesca. Tanto premesso, in via preliminare l'attore ha chiesto, in principalità, di disporre, ai sensi dell'art. 23 del Reg. (CE) n. 805/2004, la sospensione del procedimento di esecuzione in attesa della decisione del Giudice tedesco e, in subordine, di sospendere, ai sensi dell'art. 615, co. 1, c.p.c., l'efficacia esecutiva del titolo esecutivo europeo, inibendo a parte convenuta di dare inizio all'esecuzione; nel merito l'opponente ha chiesto la sospensione del procedimento in attesa della decisione del Tribunale tedesco. La convenuta non si è costituita in giudizio, nonostante la regolare instaurazione del contraddittorio. All'udienza del 16.06.2021 è comparso dinanzi al precedente Giudice istruttore solo l'attore, deducendo la rinuncia all'azione da parte della convenuta e insistendo per l'accoglimento dell'istanza di sospensione formulata nell'atto di citazione. Con ordinanza resa in pari data il precedente Giudice istruttore ha dichiarato il non luogo a provvedere in ordine all'istanza di sospensione ex art. 23 Reg 805/2004 e in ordine all'istanza di sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo di cui all'art. 615, co. 1, c.p.c., stante la caducazione del titolo esecutivo nell'ambito dello Stato membro d'origine. Con il medesimo provvedimento il precedente Giudice istruttore ha dichiarato la contumacia della convenuta e concesso i termini ex art. 183, co. 6, c.p.c., rinviando la causa all'udienza del giorno 9.11.2021 per la discussione sull'ammissione dei mezzi di prova. La causa è stata istruita in via documentale, non essendo state formulate dall'attore richieste di prove costituende. All'udienza del 13.09.2022 (data di assegnazione del fascicolo alla scrivente) il difensore dell'attore ha rassegnato le conclusioni riportate in epigrafe e la causa è stata trattenuta per la decisione, previa assegnazione all'unica parte costituita del termine per il deposito di comparsa conclusionale. Ritiene il Tribunale che sia cessata la materia del contendere. Come chiarito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (v. sentenza n. 25478/2021), "la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo per effetto di una pronuncia del giudice della cognizione determina che il giudizio di opposizione all'esecuzione si debba concludere non con l'accoglimento dell'opposizione, bensì con una pronuncia di cessazione della materia del contendere; per cui il giudice di tale opposizione è tenuto a regolare le spese seguendo il criterio della soccombenza virtuale, da valutare in relazione ai soli motivi originari di opposizione". Nel caso di specie, la sentenza resa in data 6.4.2021 dal Tribunale tedesco (v. doc. 11 fascicolo parte attrice) ha dato atto del ritiro del ricorso da parte dell'odierna convenuta, la quale è stata altresì condannata al pagamento delle spese di lite. Secondo quanto riferito dall'attore, gli originali del titolo esecutivo tedesco e del certificato di titolo esecutivo europeo sono stati restituiti - annullati - dall'opposta. Occorre quindi fare applicazione del principio della soccombenza virtuale ai fini della regolamentazione delle spese del presente giudizio. Ritiene il Tribunale che l'opposizione al precetto promossa da (...) non avrebbe potuto trovare accoglimento per le ragioni di seguito esplicitate. L'opposizione ex art. 615 c.p.c. è strumento atto a contestare il diritto del creditore a procedere ad esecuzione forzata. Nelle ipotesi di titolo esecutivo di formazione giudiziale, con l'opposizione de qua il debitore può fare valere fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto azionato successivi alla formazione del titolo esecutivo giudiziale o alla conclusione del processo in cui esso si è formato e avrebbe potuto essere modificato (ex pluribus Cass. n. 4505/2011; Cass. n. 27159/2006; Cass. n. 12664/2000). Nel caso di specie il titolo esecutivo è costituito da una decisione resa da un Giudice straniero e certificata come titolo esecutivo europeo ai sensi del Regolamento n. 805/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004. Il predetto regolamento ha, infatti, istituito un titolo esecutivo europeo per i crediti non contestati, con la finalità di consentire, grazie alla definizione di norme minime, la libera circolazione di tali titoli tra tutti gli Stati membri, senza la necessità di dare seguito, nello Stato membro dell'esecuzione, a procedimenti intermedi per il riconoscimento e l'esecuzione (v. art. 1). La decisione giudiziaria che sia stata certificata come titolo esecutivo europeo nello Stato membro d'origine è riconosciuta ed eseguita negli altri Stati membri senza che sia necessaria una dichiarazione di esecutività e senza che sia possibile opporsi al suo riconoscimento (v. art. 5). Competente al rilascio della certificazione è l'autorità che ha emesso la decisione (v. art. 6). Su istanza presentata al Giudice d'origine, il certificato di titolo esecutivo europeo può essere rettificato, se affetto da errore materiale, o revocato, se risulta manifestamente emesso per errore (v. art. 10). Ai sensi dell'art. 21, co. 2, del Regolamento in nessun caso la decisione o la sua certificazione come titolo esecutivo europeo possono formare oggetto di un riesame del merito nello Stato membro dell'esecuzione. Nei casi in cui il debitore abbia impugnato una decisione giudiziaria certificata come titolo esecutivo europeo, anche con domanda di riesame (art. 19 del Reg.) o abbia richiesto la rettifica o la revoca (art. 10), l'autorità dello stato membro in cui deve procedersi all'esecuzione può: a) limitare il procedimento di esecuzione ai provvedimenti conservativi, o b) subordinare l'esecuzione alla costituzione di una cauzione di cui determina l'importo, o c) in circostanze eccezionali sospendere il procedimento di esecuzione (v. art. 23). Il sistema delineato dalle norme sopra riportate delimita, quindi, i poteri del Giudice dello Stato membro in cui è promossa l'esecuzione, al fine di evitare che l'efficacia esecutiva, garantita ad una decisione certificata come titolo esecutivo europeo, possa essere messa in dubbio per il tramite di un'istanza formulata all'Autorità Giudiziaria di quello Stato. Come osservato dalla dottrina, mentre la sorte della decisione certificata e le vicende riguardanti la contestazione dell'efficacia della stessa quale titolo esecutivo europeo devono essere vagliate dal Giudice dello stato membro che ha emesso il titolo, il Giudice dello stato di esecuzione può incidere esclusivamente sull'ulteriore corso del "procedimento di esecuzione" (così testualmente l'art. 23 del Reg.). In altri termini, la decisione sull'efficacia esecutiva della decisione certificata è riservata al Giudice dello Stato membro che l'ha emessa, potendo, invece, il Giudice dello Stato membro di esecuzione incidere esclusivamente sul processo esecutivo avviato in forza di quel titolo secondo le modalità declinate dall'art. 23. Coniugando quanto appena illustrato con gli approdi consolidati della giurisprudenza di legittimità in tema di opposizione all'esecuzione, può dunque dirsi precluso al Giudice dell'opposizione a precetto il sindacato sul titolo esecutivo europeo, potendo egli essere chiamato a conoscere solo di fatti o atti successivi al rilascio della certificazione idonei ad incidere sulla titolarità del diritto a procedere ad esecuzione forzata. Nel caso di specie, nel proprio atto introduttivo l'opponente non ha allegato alcun fatto impeditivo, modificativo o estintivo del diritto azionato dalla creditrice opposta successivo alla formazione del titolo esecutivo europeo, ma si è limitato a dedurre l'invalidità della notifica del decreto ingiuntivo e della formula esecutiva e a chiedere (ad un Giudice non competente) esclusivamente la sospensione dell'esecuzione (mai iniziata) "al fine di accertare, una volta acquista la decisione del Tribunale di Coburg, l'insussistenza dei presupposti per il rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo, e dunque inefficacia/illegittimità dello stesso nonché del titolo esecutivo e annessa notifica dell'atto di precetto della notifica del decreto ingiuntivo e della formula esecutiva". L'opposizione in esame avrebbe dovuto, quindi, essere dichiarata inammissibile. A conclusioni non dissimili si sarebbe pervenuti laddove l'opposizione promossa dall'attore fosse stata qualificabile ai sensi dell'art. 617, co. 1, c.p.c., considerato, da un lato, che è precluso, come innanzi detto, ad un Giudice diverso da quello dello Stato membro d'origine il sindacato sulla regolarità formale del titolo esecutivo e, dall'altro, che nessuna specifica censura di irregolarità formale dell'atto di precetto è stata avanzata dal sig. (...). Tenuto conto della mancata costituzione in giudizio, non vi è luogo provvedere sulle spese di lite. P.Q.M. Il Tribunale di Novara, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, ogni contraria e diversa istanza ed eccezione respinta, dichiara inammissibile l'opposizione. Nulla sulle spese. Così deciso in Novara l'11 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 12 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI NOVARA in funzione di giudice del lavoro, nella persona del dott. Gabriele Molinaro, all'udienza del 10.1.2023, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa di primo grado iscritta al n. r.g. 628/2021 promossa da: ISTITUTO NAZIONALE PER L'ASSICURAZIONE CON GLI INFORTUNI SUL LAVORO (c.f. (...)), in persona del suo legale rappresentante pro tempore, con domicilio telematico eletto presso lo studio dell'Avv. VA.AN., che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso introduttivo; - ricorrente contro (...) (c.f. (...) ), elettivamente domiciliato in Novara, B.do (...), presso lo studio dell'Avv. RA.CI., rappresentato e difeso dagli Avv.ti MA.AR., BO.MA. e D'O.EN., giusta procura in calce alla memoria difensiva; - convenuto OGGETTO: ripetizione di indebito FATTO E DIRITTO Con ricorso depositato in data 1.12.2021, l'ISTITUTO NAZIONALE PER L'ASSICURAZIONE CON GLI INFORTUNI SUL LAVORO ricorreva al Tribunale di Novara, in funzione di giudice del lavoro, per sentire accogliere le sopra indicate conclusioni. Riferiva il ricorrente che il convenuto era un avvocato, che era stato alle proprie dipendenze fino al 30.12.2011 e dopo la cessazione del rapporto, aveva ricevuto il trattamento di fine servizio ex art. 13, L. n. 70 del 1975, in tre rate, per un importo complessivo di Euro 653.059,62 lordi, calcolato comprendendo anche le voci "onorari legali" e "compensi professionali", la cui ripetizione l'Istituto si era riservato (docc. 1-2-3 INAIL). L'INAIL aveva, quindi, inviato una comunicazione il 9.6.2015 a fini interruttivi della prescrizione (doc. 4 INAIL) e con lettera del 27.8.2019, aveva chiesto la restituzione dell'importo di Euro 463.405,34 lordi, pari alle voci suindicate (doc. 5 INAIL). Con successiva PEC dell'8.7.2021 (doc. 6 INAIL), l'Istituto aveva domandato al ricorrente la restituzione di quanto percepito, al netto delle imposte, per un importo di Euro 285.462,58. Agiva, in questa sede, per il recupero di detta somma, sulla base di quanto statuito da Cass., sez. un., 25.3.2010, n. 7158, che aveva escluso dal calcolo del TFS qualsiasi voce diversa dallo stipendio tabellare. Si costituiva (...), con memoria difensiva depositata il 5.5.2022. In punto di fatto, riferiva di aver intrattenuto un rapporto di lavoro con INAIL, come avvocato, dal 1.7.1974 al 30.12.2011, alla cessazione del quale aveva percepito la somma complessiva di Euro 635.074,03 lordi a titolo di TFS, in tre rate corrisposte rispettivamente a marzo 2012, gennaio 2013 e gennaio 2014. Tale importo era stato calcolato in forza della deliberazione del CdA dell'INAIL n. 407/1982, che aveva incluso nella base di calcolo anche gli onorari legali e i compensi professionali, i quali, nel caso concreto, avevano inciso per il 70,5% sulla retribuzione annua di riferimento. Evidenziava che il provvedimento di cui al doc. 1 INAIL non era stato inviato al ricorrente, la riserva di ripetizione era stata formulata ai sensi della circolare n. 66/2004 e non in attesa del consolidamento dell'orientamento giurisprudenziale ex adverso citato e che la missiva del 2015 (doc. 4 INAIL) non costituiva rivendicazione dei diritti fatti valere, in quanto espressa in termini eventuali. L'intimazione di restituire la somma di Euro 463.405,34 era, quindi, giunta ad agosto 2019, epoca in cui l'INAIL continuava a riconoscere la computabilità dei suddetti elementi retributivi ai fini del TFS (docc. 3-4 conv.). Contestava, infine, che, nonostante gli onorari legali e i compensi professionali costituissero il 70,5% della retribuzione di riferimento, era stata chiesta la restituzione di un importo pari al 73,99% del TFS. Argomentava, quindi, in ordine alla natura retributiva dell'indennità di fine rapporto, sì da imporre l'applicazione dei principi desumibili dall'art. 36 Cost. Richiamava vari precedenti della giurisprudenza amministrativa, che, prima della cd. privatizzazione del rapporto di lavoro, avevano ritenuto che gli onorari legali, avendo funzione integrativa dello stipendio, dovessero essere computati ai fini del TFS degli avvocati degli Enti previdenziali. Riteneva, inoltre, che nemmeno la sentenza delle S.U. n. 7158/2010 precludesse la loro inclusione nella base di calcolo, dal momento che, a suo avviso, tali erogazioni avevano carattere integrativo dello stipendio, trattandosi della remunerazione necessaria di una specifica attività lavorativa. In caso di accoglimento dell'interpretazione ex adverso sostenuta, prospettava l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, L. n. 70 del 1975, per violazione dell'art. 36 Cost., in quanto dalla retribuzione differita sarebbero stati esclusi 2/3 delle somme percepite in costanza di rapporto e dell'art. 3 Cost., per disparità di trattamento rispetto ai dirigenti, le cui indennità di posizione fissa, di posizione variabile e di risultato erano computate ai fini del TFS, nonostante la comparabilità delle funzioni rispetto a quelle degli avvocati. Per altro verso, riteneva che gli onorari percepiti costituissero un elemento retributivo fisso, parametrato agli importi incassati dall'Ente per le cause vinte e all'anzianità del dipendente, a norma dell'art. 26, quarto comma, L. n. 70 del 1975 e dell'art. 30, D.P.R. n. 411 del 1976. Rilevava, poi, che l'art. 5, comma 1, L. n. 88 del 1989 avesse conferito all'INAIL la potestà di deliberare il regolamento di fine servizio, anche in deroga alle disposizioni della L. n. 70 del 1975, sicché il criterio di calcolo adoperato avrebbe dovuto ritenersi valido. La validità della deliberazione n. 407/1982 avrebbe, inoltre, dovuto ricavarsi anche dal suo implicito richiamo nell'art. 42, CCNL 2006-2009. Sosteneva, in proposito, che la materia de qua avrebbe dovuto considerarsi rimessa alla contrattazione collettiva. Richiamava, inoltre, l'ordinanza n. 40004/2021, con cui la Corte di cassazione aveva rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2033 c.c., nel caso di indebito retributivo erogato da un ente pubblico e di legittimo affidamento del dipendente pubblico percipiente nella definitività dell'attribuzione, in seguito alla pronuncia resa dalla Corte E.D.U. in data 11.2.2921 (ricorso n. 4893/2013). Riteneva, in particolare, che sussistessero tutte le condizioni poste dalla giurisprudenza di Strasburgo per l'irripetibilità, per le ragioni già esposte e perché, a suo avviso, la riserva apposta al pagamento non poteva interpretarsi come riferibile alla giurisprudenza del 2010, stante il riferimento alla circolare n. 66/2004, precedente a essa. Conseguentemente, la riserva di ripetizione era da considerarsi priva di senso logico e pertanto inefficace. Considerato altresì il lungo periodo di tempo trascorso tra la cessazione del rapporto, il pagamento del TFS e la richiesta di restituzione, eccepiva altresì la prescrizione e la lesione dell'affidamento incolpevole dell'accipiens. Richiamava, poi, i principi affermati dalla giurisprudenza in tema di indebito previdenziale e assistenziale, irripetibile in caso di errore di diritto imputabile all'Istituto. Contestava, in subordine, la quantificazione della somma rivendicata, in assenza di un conteggio analitico nell'atto introduttivo. Fallito il tentativo di conciliazione, la causa veniva rinviata all'udienza odierna, con autorizzazione al deposito di note difensive e giurisprudenza, facoltà di cui entrambe le parti si avvalevano. L'INAIL, in risposta all'avversaria contestazione, produceva altresì il conteggio dell'indebito reclamato. All'udienza odierna, udite le conclusioni delle parti, la causa veniva posta in decisione. 1. Il ricorso è fondato e va accolto. Come si è sopra evidenziato, riassumendo le argomentazioni delle parti, la presente causa verte sulla pretesa dell'INAIL, di ripetere una parte del TFS erogato al convenuto e in particolare quella derivante dall'incidenza degli elementi retributivi denominati "onorari legali" e "compensi professionali" sulla base di calcolo dell'emolumento. P., oltre che documentalmente dimostrato, è che il rapporto di lavoro è cessato nel 2011 e che successivamente, il TFS è stato corrisposto in tre ratei, rispettivamente erogati il 21.3.2012, il 15.1.2013 e il 27.1.2014 (doc. 2 INAIL). Va, dunque, innanzitutto disattesa l'eccezione di prescrizione, accennata nella memoria difensiva. Secondo la giurisprudenza ormai consolidata (v. Cons. St., 4.1.2021, n. 97, cui si rinvia anche per i riferimenti alla giurisprudenza ordinaria di legittimità), il termine di prescrizione dell'azione di ripetizione dell'indebito retributivo del pubblico dipendente è di dieci anni, decorrenti dalla materiale erogazione delle somme indebite. In proposito, come è stato più volte chiarito dalla S.C., "in tema di termine di prescrizione dell'azione di ripetizione dell'indebito, occorre distinguere il caso di nullità del contratto e, dunque, di mancanza originaria della "causa solvendi", in cui il "dies a quo" comincia a decorrere dal giorno dell'intervenuta esecuzione della prestazione, da quelli in cui il difetto della "causa solvendi" sopravvenga al pagamento, nei quali il suddetto termine decorre dal giorno in cui l'accertamento dell'indebito è divenuto definitivo" (Cass., sez. I, 2.12.2016, n. 24653; nello stesso senso Cass., sez. III, 3.12.2015, n. 24628 e sez. lav., 12.9.2017, n. 21124). Il caso di specie riguarda senz'altro di un'ipotesi di mancanza originaria della causa solvendi e non da un successivo fatto impeditivo del diritto di credito. Per altro verso, il provvedimento di recupero costituisce un mero atto ricognitivo dell'indebito e non già un provvedimento, di per sé idoneo a determinare l'insorgenza dell'obbligazione restitutoria, togliendo titolo al pagamento. Dall'altro, trattandosi di indebito originario, l'esigibilità sussiste al momento stesso del pagamento non dovuto, a prescindere da un provvedimento di formale richiesta, valido, quest'ultimo, ai soli fini dell'interruzione della prescrizione, di durata decennale e decorrente dal pagamento dei singoli ratei di TFS, ciascuno dei quali ha costituito, in parte, un pagamento indebito. Ne consegue che, anche a prescindere dall'efficacia interruttiva della lettera datata 3.6.2015 (doc. 4 INAIL), che, effettivamente, ha carattere eventuale e non contiene una chiara messa in mora, non può mettersi in dubbio l'efficacia interruttiva della successiva comunicazione di riliquidazione datata 4.7.2019 e ricevuta il 22.7.2019 (doc. 5 INAIL), che contiene un'espressa richiesta di restituzione. Né vi è dubbio che essa sia stata consegnata al convenuto entro il decennio dal pagamento del primo rateo. 2. Nel merito, la pretesa dell'INAIL è fondata, come già riconosciuto dalla giurisprudenza di merito assolutamente maggioritaria. Essa si fonda sulla sentenza di Cass., sez. un., 25 marzo 2010, n. 7158, nella quale il Supremo collegio ha affermato che, "in tema di base di calcolo del trattamento di quiescenza o di fine rapporto spettante ai dipendenti degli enti pubblici del c.d. parastato, l'art. 13 della L. 20 marzo 1975, n. 70, di riordinamento di tali enti e del rapporto di lavoro del relativo personale, detta una disciplina del trattamento di quiescenza o di fine rapporto (rimasta in vigore, pur dopo la contrattualizzazione dei rapporti di pubblico impiego, per i dipendenti in servizio alla data del 31 dicembre 1995 che non abbiano optato per il trattamento di fine rapporto di cui all'art. 2120 cod. civ.), non derogabile neanche in senso più favorevole ai dipendenti, costituita dalla previsione di un'indennità di anzianità pari a tanti dodicesimi dello stipendio annuo in godimento quanti sono gli anni di servizio prestato, lasciando all'autonomia regolamentare dei singoli enti solo l'eventuale disciplina della facoltà per il dipendente di riscattare, a totale suo carico, periodi diversi da quelli di effettivo servizio. Il riferimento quale base di calcolo allo stipendio complessivo annuo ha valenza tecnico-giuridica, sicché deve ritenersi esclusa la computabilità di voci retributive diverse dallo stipendio tabellare e dalla sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari (quali l'indennità di funzione ex art. 15, comma secondo, della L. n. 88 del 1989 e il compenso incentivante erogati ai dipendenti dell'INAIL) e devono ritenersi abrogate o illegittime, e comunque non applicabili, le disposizioni di regolamenti, come quello dell'INAIL, prevedenti, ai fini del trattamento di fine rapporto o di quiescenza comunque denominato, il computo in genere delle competenze a carattere fisso e continuativo". Si è, quindi, anche di recente osservato che "...A partire da Cass. sez. un. 25.3.2010, n. 7158 si è consolidato in seno alla giurisprudenza di legittimità l'orientamento per il quale in tema di base di calcolo del trattamento di quiescenza o di fine rapporto spettante ai dipendenti degli enti pubblici del cd. parastato, l'art. 13 della L. n. 70 del 1975 detta una disciplina del trattamento di quiescenza o di fine rapporto (non derogabile neanche in senso più favorevole ai dipendenti) costituita dalla previsione di un'indennità di anzianità pari a tanti dodicesimi dello stipendio annuo in godimento quanti sono gli anni di servizio prestato, lasciando all'autonomia regolamentare dei singoli Enti solo l'eventuale disciplina della facoltà per il dipendente di riscattare, a totale suo carico, periodi diversi da quelli di effettivo servizio. Ilriferimento quale base di calcolo allo stipendio complessivo annuo ha valenza tecnico-giuridica, sicché deve ritenersi esclusa la computabilità di voci retributive diverse dallo stipendio tabellare e dalla sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari e devono ritenersi abrogate o illegittime, e comunque non applicabili, le disposizioni di regolamenti come quello dell'Inail che prevedevano, ai fini del trattamento di fine rapporto o di quiescenza comunque denominato, il computo in genere delle competenze a carattere fisso e continuativo. Né, in senso contrario, possono addursi dubbi di legittimità costituzionale, atteso che, in caso di trattamento globale costituito da più componenti, qual è l'indennità di buonuscita rispetto al trattamento dei lavoratori pubblici privatizzati, il rispetto dell'art. 36 Cost. deve essere valutato in relazione alla totalità dell'emolumento (per le successive alla citata Cass. sez. un. 7158/2010, tra le tante, Cass. 25.2.2011, n. 4749; Cass. 18.1.2012, n. 709; Cass. 14.2.2018, n. 3619 e da ultimo Cass. 3.3.2020, n. 5892 con riguardo all'analoga fattispecie del dirigente Inps, coordinatore dell'ufficio legale dell'Istituto, che reclamava l'inserimento, nella base di computo del trattamento di fine servizio, proprio dell'indennità di coordinamento). Anche quest'ultima decisione ha ribadito che il riferimento contenuto nel predetto art. 13 L. n. 70 del 1975, quale base di calcolo, allo "stipendio complessivo annuo" ha valenza tecnico-giuridica, sicché deve ritenersi esclusa la computabilità nella indennità di anzianità di voci retributive diverse dallo stipendio tabellare e dalla sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari e che né l'autonomia regolamentare degli enti pubblici, né la contrattazione collettiva possono interferire in ordine all'inclusione di ulteriori elementi retributivi nella base di computo della indennità di buonuscita. Pertanto, in applicazione di detti principi oramai consolidati, non facendo parte né l'indennità di coordinatore generale, né l'indennità di specificità medica, né infine l'indennità di incarico quinquennale dello "stipendio tabellare" e degli scatti di anzianità (o degli istituti analoghi a questi ultimi), esse sono voci escluse dal computo del trattamento di fine servizio. Dette voci, infatti, seppur corrisposte in maniera fissa e continuativa e seppur aventi natura retributiva, proprio quali "indennità" esulano dal perimetro dello "stipendio tabellare" e non concorrono alla base di computo del trattamento di fine servizio ... La materia in esame è regolata da norme imperative e pertanto l'eventuale tutela del destinatario dell'esborso, sotto il profilo dell'affidamento, va coniugata con l'inderogabilità delle norme che qui vengono in rilievo, di talché ritenere che l'opinione interpretativa e il conseguente spostamento patrimoniale (ancorché contra legem) siano vincolanti equivale a riconoscere all'amministrazione stessa un potere normativo che è in palese conflitto con il principio costituzionale della riserva relativa di legge codificato dall'art. 23 Cost e con i principi del buon andamento e di imparzialità fissati dall'art. 97 della Costituzione ..." (Trib. Roma, Sez. Lav., 31 marzo 2022, n. 2965). A tali condivisibili rilievi deve aggiungersi che le questioni di legittimità prospettate nella memoria difensiva appaiono manifestamente infondate, atteso che: - è inconferente l'invocazione dell'art. 36 Cost. per lamentare la sproporzione tra la retribuzione diretta e la retribuzione differita, atteso che, com'è noto, la norma costituzionale riguarda il rapporto tra la quantità e qualità del lavoro e la retribuzione e non tra i vari elementi di quest'ultima; - l'art. 3 Cost. non preclude al legislatore, né alla contrattazione collettiva, di attribuire trattamenti retributivi differenziati a diverse categorie di lavoratori. Inammissibile, anche solo sul piano teorico, sarebbe, poi, l'invocata deroga della legge da parte della contrattazione collettiva. Sul punto, vanno richiamate le condivisibili osservazioni della S.C., per cui "7. Per una puntale ricostruzione della disciplina del trattamento di quiescenza nel rapporto di impiego pubblico, giova ricordare che in origine la disciplina legale del trattamento di fine servizio dei pubblici dipendenti era costituita esclusivamente: dal D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (Testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), che prevedeva una "indennità di buonuscita" - o "trattamento di fine servizio" - per i dipendenti del comparto statale e dalla L. 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli Enti locali), che riconosceva una "indennità premio di servizio" ai dipendenti del comparto enti locali. Per il personale del cd. parastato la L. 20 marzo 1975, n. 70, ha successivamente previsto l'"indennità di anzianità", pari a tanti dodicesimi dello stipendio annuo in godimento quanti sono gli anni di servizio del dipendente. 8. Le Sezioni Unite di questa Corte nell'arresto del 25 marzo 2010 n. 7154 - i cui principi sono stati ribaditi con la pronuncia in pari data n. 7158 (e successivamente applicati, con la sentenza 14/05/2014, n. 10413 in relazione alla indennità di buonuscita dei dipendenti dello Stato) - hanno affermato che la L. 20 marzo 1975, n. 70, art. 13, detta una disciplina del trattamento di quiescenza o di fine rapporto rimasta in vigore, dopo la contrattualizzazione dei rapporti di pubblico impiego (per i dipendenti in servizio alla data del 31 dicembre 1995 che non abbiano optato per il trattamento di fine rapporto di cui all'art. 2120 c.c.), non derogabile neanche in senso più favorevole ai dipendenti. 9. Il riferimento contenuto nel suddetto art. 13, quale base di calcolo, allo "stipendio complessivo annuo" ha valenza tecnico-giuridica, sicchè deve ritenersi esclusa la computabilità nella indennità di anzianità di voci retributive diverse dallo stipendio tabellare e dalla sua integrazione mediante scatti di anzianità o componenti retributive similari e devono ritenersi abrogate, illegittime e comunque non applicabili, le disposizioni dei regolamenti - come quello dell'Inps - che prevedevano il computo in genere delle competenze a carattere fisso e continuativo ai fini del trattamento di fine rapporto o di quiescenza, comunque denominato. 10. Nella pronuncia delle Sezioni Unite la questione esaminata verteva sul rapporto tra la disciplina della L. n. 70 del 1975, art. 13, ed i regolamenti dei singoli enti del parastato. 11. La parte qui ricorrente sostiene che la contrattazione collettiva sarebbe invece abilitata a derogarvi, sulla base delle previsioni del TU165/2001 e delle specifiche disposizioni per il passaggio dei dipendenti pubblici al regime del TFR. 12. Questa Corte ha già affermato, in riferimento alla indennità di buonuscita dei dipendenti statali, che attesa la inderogabilità della normativa previdenziale, nel cui ambito rientra l'indennità di buonuscita, deve escludersi che l'autonomia individuale o collettiva, in difetto di specifiche disposizioni in tal senso e dato il non equivoco tenore letterale del D.P.R. n. 1032 del 1973, art. 38, possa introdurre specifiche modificazioni alla relativa disciplina legale; quindi, in particolare, la contrattazione collettiva non può interferire in ordine all'inclusione di ulteriori elementi retributivi nella base di computo della indennità di buonuscita (in termini, Cass. sez. lav. 17 ottobre 2017 n. 24454 e giurisprudenza ivi citata). 13. Il principio di inderogabilità della normativa legale da parte della contrattazione collettiva si estende, altresì, al regime della indennità di anzianità dei dipendenti del parastato. 14. Ed invero le fonti richiamate in ricorso non abilitano la autonomia collettiva ad intervenire sulla disciplina della indennità di anzianità, non diversamente da quanto già affermato dalla Sezioni Unite con specifico riguardo alla autonomia regolamentare degli enti pubblici. 15. La L. n. 335 del 1995, art. 2, nei commi da 5 a 7, demandava alla contrattazione collettiva le modalità per il passaggio del rapporto di lavoro pubblico privatizzato al regime del TFR di cui all'art. 2120 c.c., anche nei confronti dei lavoratori già occupati alla data del 31 dicembre 1995 (termine poi differito al 31.12.2000 dal D.P.C.M. 20 dicembre 1999 e s.m.i.); non abilitava, invece, le parti collettive a derogare alle disposizioni legislative sul trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici (comunque denominato) rimaste in vigore. 16. La legittimazione della autonomia collettiva a derogare alle disposizioni della L. n. 70 del 1975, art. 13, neppure può trovare sostegno nel D.Lgs. n. 165 del 2001. 17. Per il trattamento di fine rapporto non deve aversi riguardo alla generale disciplina di cui agli artt. 2 e 45 del suddetto Testo Unico (a tenore dei quali la definizione del trattamento economico è rimessa alla contrattazione collettiva) ma alla specifica disposizione dell'art. 69, comma 2 (che riproduce quanto già disposto dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 72, comma 3), a tenore del quale: "In attesa di una nuova regolamentazione contrattuale della materia, resta ferma per i dipendenti di cui all'art. 2, comma 2, la disciplina vigente in materia di trattamento di fine rapporto". 18. Alla contrattazione collettiva era dunque rimesso un intervento di sistema per la disciplina del trattamento di fine rapporto, nei fatti avvenuto soltanto con l'accordo quadro 29 luglio 1999 (i cui contenuti sono stati poi recepiti dal D.P.C.M. 20 dicembre 1999). 19.In sostanza, la norma del T.U. n. 165 del 2001, art. 69, ha escluso la possibilità di interventi di settore e per singole voci in favore di un intervento contrattuale organico, in attesa del quale la disciplina in vigore restava "ferma" ovvero inderogabile. 20. Alla luce della ricostruzione sin qui compiuta deve affermarsi la correttezza della interpretazione del giudice dell'appello, secondo la quale la base di computo della indennità di anzianità fissata dalla L. 20 marzo 1975, n. 70, art. 13, per i dipendenti degli enti pubblici del cd. parastato - rimasta in vigore pur dopo la contrattualizzazione dei rapporti di pubblico impiego per i dipendenti in servizio alla data del 31.12.1995 che non abbiano optato per il TFR - non è derogabile dai contratti collettivi di comparto, neppure in senso più favorevole ai dipendenti. 21. Non giova, da ultimo, alla tesi di parte ricorrente il principio, pure enunciato nell'arresto di SU n. 7154/2010, secondo cui ai fini della indennità di anzianità sono assimilabili alla voce stipendiale di base le integrazioni retributive correlate alla anzianità del dipendente, principio che fa riferimento agli scatti di anzianità ed ai passaggi di classe stipendiale (Cass. SU n. 7154/2010 12)". (Cass., sez. lav., ord. 3.3.2020, n. 5892). Quanto alla dedotta deroga della disposizione in parola, a opera dell'art. 5, L. n. 887 del 1989, del tutto condivisibili sono le osservazioni del Tribunale di Vicenza, nella sentenza del 24.6.2022 (r.g. n. 14/2022, prodotta da parte convenuta), per cui "Parimenti non avallabili - in punto derogabilità del criterio descritto dall'art. 13, L. n. 70 del 1975 - sono le valutazioni di parte convenuta con riferimento alla valenza dell'art. 5, co. 1, L. n. 88 del 1989, a mente del quale "Spetta al consiglio di amministrazione: ... g) deliberare ... gli altri regolamenti dell'Istituto compresi il regolamento organico e di fine servizio del personale ..., anche in deroga alle disposizioni della L. 20 marzo 1975, n. 70". Rileva infatti parte convenuta come, avendo INAIL continuato ad applicare anche dopo l'entrata in vigore della norma suddetta la (propria) deliberazione del CdA n. 407 del 1982 - che secondo parte ricorrente giustificherebbe la computabilità nella base di calcolo del trattamento di quiescenza delle indennità di specificità e di incarico quinquennale -, abbia di fatto mostrato di volersi avvalere del potere regolamentare riconosciutogli dalla Legge l'art. 5, co. 1, lett. g) della L. n. 88 del 1989 e, quindi, abbia dettato regole in deroga all'art. 13, L. n. 70 del 1975. Ora, a prescindere dal fatto che la deliberazione del CdA di INAIL n. 407 del 1982 non pare fare riferimento alle indennità di cui qui si discute, deve essere rilevato come l'art. 5, co. 1, lett. g) della L. n. 88 del 1989, attribuisca ad INAIL poteri derogatori rispetto alla disciplina contenuta nell'art. 13, L. n. 70 del 1975 a "condizione" dell'emanazione di un regolamento generale in materia di organico e di fine servizio del personale. Regolamento che certamente INAIL, tanto che il convenuto non lo segnala, non risulta avere emanato. Quindi, non è possibile affermare che INAIL abbia disposto in via regolamentare, in deroga alla disciplina di cui all'art. 13, L. n. 70 del 1975, con ciò determinando la computabilità delle indennità di cui si discute nella base di calcolo del trattamento di quiescenza". 3. Ciò detto circa la sussistenza dell'indebito, vanno, quindi, esaminate le eccezioni del convenuto, circa la recuperabilità dello stesso, alla luce dell'affidamento maturato. Nella propria memoria, parte convenuta ha richiamato la recente sentenza della Corte EDU, dell'11.2.2021, C. c. Italia (ricorso n. 4893/13) e la successiva decisione n. 5014/2021 del Consiglio di Stato, ritenendo che esse abbiano espresso principi applicabili anche al caso di specie. La parte ha, quindi, rammentato che la S.C. ha recentemente sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2033 c.c., basandosi sui principi elaborati dalla giurisprudenza di Strasburgo (Cass., ord. 40004/2021) e ha chiesto la sospensione del processo in attesa della decisione della Corte costituzionale. Ritiene il Tribunale che la questione sia irrilevante in questa sede, poiché il caso di specie non presenta le condizioni poste dalla Corte E.D.U. per l'accertamento della violazione. Si riporta di seguito il principio di diritto espresso dalla Corte di Strasburgo, nella traduzione italiana a cura del Ministero della giustizia, in ossequio al disposto dell'art. 122 c.p.c.:"74. Alla luce delle considerazioni sopra esposte (paragrafi 59-73 supra), la Corte rammenta in particolare che: a) il versamento di un assegno deve essere effettuato a seguito di una domanda presentata dal beneficiario che agisce in buona fede ((...), sopra citata, 82; (...), sopra citata, 68) o, in assenza di tale domanda, dalle autorità che procedono in maniera spontanea; b) il versamento in questione deve essere effettuato da un ente pubblico, amministrazione centrale dello Stato o altro ente pubblico, sulla base di una decisione adottata all'esito di un processo amministrativo e che si presume esatta ((...), sopra citata, 68; (...), sopra citata, 80); c) deve essere fondato su una disposizione di legge, regolamentare o contrattuale, la cui applicazione deve essere percepita dal beneficiario come la "fonte" del versamento (ibidem, 83), e individuabile anche nel suo importo; d) il versamento manifestamente privo di titolo o basato su semplici errori di calcolo è escluso; tali errori possono essere rilevati dal beneficiario, eventualmente ricorrendo ad un esperto; e) deve essere effettuato per un periodo sufficientemente lungo per far nascere la convinzione ragionevole del suo carattere definitivo e stabile (ibidem, 85, (...), sopra citata, 69); l'assegno versato non deve essere in rapporto ad un'attività professionale occasionale e "isolata", ma deve essere legato all'attività ordinaria; f) infine, il versamento in questione non deve essere stato effettuato con l'indicazione di una riserva di ripetizione. Pertanto, la Corte ritiene che, alla luce delle circostanze particolari del caso di specie, l'ingerenza subita dalla ricorrente sia stata sproporzionata in quanto quest'ultima, da sola, ha dovuto sostenere l'onere dell'errore commesso dall'amministrazione". Carattere assorbente va, in particolare, attribuito alla circostanza per cui, in occasione del pagamento di ciascuno dei tre ratei di TFS, l'INAIL ha inviato al convenuto una comunicazione nella quale "si pone in evidenza che la quota del trattamento di fine servizio (TFS) corrispondente alle voci retributive "onorari legali e compensi professionali", viene corrisposta con riserva di ripetizione ai sensi della circolare n. 66 del 22/09/2004 (punto 3)" (doc. 3 INAIL). La circolare n. 66/2004 (doc. 6 conv.), al punto 3 reca: "Gli importi erogati a titolo di compensi professionali di cui ai paragrafi 1 e 2, in attesa della definizione - in sede di contrattazione collettiva nazionale 2002-2005 - della peculiare natura di tali emolumenti, sono computabili, salvo riserva di ripetizione, ai fini del trattamento diprevidenza e di quiescenza e, pertanto, sono soggetti alle contribuzioni previdenziali ed assistenziali di legge, nonché alle ritenute erariali previste dalle vigenti disposizioni di legge". Ora, è vero che, accogliendo l'interpretazione proposta dal convenuto, per cui la riserva faceva esclusivo riferimento a un contratto collettivo già stipulato, essa dovrebbe considerarsi espressione priva di senso. E purtuttavia, il principio di conservazione di cui all'art. 1367 c.c. impone di scegliere un'interpretazione per cui la dichiarazione negoziale possa avere effetto, considerando l'epoca in cui è stata resa (2012-2013-2014), sicché non può che intendersi riferita ai persistenti dubbi circa la qualificazione dei compensi professionali e la loro inclusione nella base di calcolo del TFS, accentuati dalla già citata giurisprudenza del 2010. Non sussiste, pertanto, alcuna violazione del principio di proporzionalità di cui all'art. 1 del Protocollo (...) alla CEDU, come interpretato dalla citata pronuncia del Giudice convenzionale. Debbono, quindi, trovare applicazione gli ordinari principi in tema di ripetizione di indebito retributivo dei pubblici dipendenti. In proposito, costituisce approdo consolidato della giurisprudenza di legittimità, cui questo Tribunale aderisce, quello per cui "in materia di impiego pubblico privatizzato, nel caso di domanda di ripetizione dell'indebito proposta da un'amministrazione nei confronti di un proprio dipendente, in relazione alle somme corrisposte a titolo di retribuzione, qualora risulti accertato che l'erogazione è avvenuta "sine titulo", la ripetibilità delle somme non può essere esclusa ex art. 2033 c.c. per la buona fede dell'"accipiens", in quanto questa norma riguarda, sotto il profilo soggettivo, soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi" (Cass., sez. lav., 20.2.2017, n. 4323). 4. Venendo, infine, al computo di quanto dovuto, si deve osservare che, in risposta alle contestazioni contenute nella memoria di costituzione del convenuto, l'INAIL, in allegato alle note del 21.12.2022, ha prodotto una tabella di calcolo dell'importo lordo e della relativa nettizzazione, a norma dell'art. 150, D.L. n. 34 del 2020. Non sono condivisibili le osservazioni di parte convenuta circa la tardività del conteggio, che non costituisce mezzo di prova ed è, comunque, stato prodotto in risposta alle contestazioni di cui alla memoria, né quelle sull'irrilevanza dello stesso. Si deve ricordare, infatti che il calcolo della richiesta restitutoria al lordo delle imposte (e cioè la differenza tra il lordo percepito e il ricalcolo sulla base della sola retribuzione tabellare) era già stato trasmesso al ricorrente, in forma ben più dettagliata, nella lettera del 2019 (doc. 5 INAIL). Esso, peraltro, non è espressione di discrezionalità, ma si fonda su un criterio legale, applicato alle retribuzioni percepite nel tempo dal ricorrente, necessariamente note allo stesso. La contestazione si presenta, quindi, del tutto generica, oltre che poco perspicua, dal momento che il convenuto non ha allegato che la quota di TFS dipendente da onorari e compensi professionali fosse diversa e minore rispetto a quella conteggiata dall'INAIL, ma che la riduzione avrebbe avuto un'incidenza maggiore rispetto all'(indimostrata) proporzione tra retribuzione tabellare e compensi e onorari professionali. Il calcolo del netto è stato, poi, contestato in maniera altrettanto generica, essendosi sostanzialmente limitato il convenuto a lamentare l'erroneità della detrazione delle ritenute dal lordo percepito, senza nemmeno allegare di aver subito ritenute fiscali e previdenziali diverse da quelle conteggiate. Al contrario, parte ricorrente ha dimostrato di avere eseguito il computo in conformità alla circolare n. 8/E del 14.7.2021, specificamente dedicata all'argomento della restituzione delle somme assoggettate a tassazione negli anni precedenti, il cui testo ha prodotto in allegato alle note del 21.12.2022. Al punto 3, in particolare, si fa espresso riferimento alla necessità di un calcolo proporzionale, contestato, invece, dal convenuto. Il calcolo offerto dall'INAIL va, pertanto, recepito, con conseguente accoglimento integrale della domanda. Alla somma dovuta vanno aggiunti, stante l'incontroversa buona fede del convenuto all'atto della percezione della stessa, gli interessi (come per legge) decorrenti dalla data della domanda stragiudiziale (Cass., 15898/2019) e, quindi, dal 22.8.2019 (data di ricezione della richiesta di pagamento trasmessa da INAIL con nota datata 4.7.2019) fino all'effettivo saldo. 5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano, a norma del D.M. n. 55 del 2014, come modificato dal D.M. n. 147 del 2022, tenuto conto del valore della causa (euro 285.462,58), della prossimità dello stesso alla soglia inferiore dello scaglione di riferimento, della natura documentale della causa e della serialità delle questioni di fatto e di diritto che ne hanno costituito oggetto, in complessivi Euro 7.700, oltre rimborso spese forfettario 15% e accessori fiscali e previdenziali come per legge e oltre a Euro 607 per contributo unificato. P.Q.M. Il Tribunale di Novara, in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, ogni contraria e ulteriore istanza, domanda ed eccezione disattesa, così provvede: 1) accoglie il ricorso e condanna (...) a restituire all'INAIL, a titolo di indebito pagamento del TFS, la somma netta di Euro 285.462,58, oltre interessi legali dal 22.8.2019 al saldo effettivo; 2) condanna (...) alla rifusione delle spese processuali a vantaggio dell'INAIL, liquidate in complessivi Euro 7.700, oltre a rimborso spese forfettario 15% e agli accessori fiscali e previdenziali previsti ai sensi di legge e oltre a Euro 607 per c.u. Così deciso in Novara il 10 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 10 gennaio 2023.

  • TRIBUNALE ORDINARIO di NOVARA SEZIONE CIVILE Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati: Dott.ssa Simona Delle Site - Presidente Dott.ssa Francesca Iaquinta - Giudice Dott.ssa Veronica Zanin - Giudice Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. .../2019 promossa da: H.B. (C.F.: (...)) Rappresentato e difeso dall'Avv... .e dall'Avv. ...ed elettivamente domiciliato pesso lo studio dei predetti difensori in Trecate (NO) giusta procura in atti; Ricorrente contro S.K. (C.F. (...)) Rappresentata e difesa dall'Avv. ...ed elettivamente domiciliato presso lo studio del predetto difensore in Novara, giusta procura in atti; Resistente Svolgimento del processo - Motivi della decisione Le parti hanno contratto matrimonio in data 12/2/2014 a Novara, trascritto negli atti dello Stato Civile del Comune di Novara al n. 11, parte I, anno 2014. Dal matrimonio è nato a Novara il 10/9/2015 il minore I.B.. Con ricorso depositato in data 17/10/2019, H.B. ha convenuto in giudizio S.K., chiedendo che venga pronunciata la separazione personale dalla stessa. Con riferimento alla prole, lo stesso ha chiesto l'affido condiviso del minore, con collocamento presso la madre ed assegnazione della casa coniugale. Sotto il profilo economico, il ricorrente ha chiesto che venga previsto un contributo a favore della prole pari ad Euro 150,00 mensili, oltre al 50% delle spese straordinarie. Parte ricorrente ha dedotto che: a) il rapporto coniugale si è presto rivelato infelice, a causa della condotta della resistente, che si è sempre disinteressata della famiglia, sia sotto un profilo morale che materiale, rendendosi responsabili di aggressioni fisiche e verbali a danno del ricorrente; b) per evitare che la situazione familiare degenerasse, lo stesso si è, dunque, allontanato dalla casa familiare nel settembre del 2018; c) dalla separazione, la madre non consente al padre di pernottare con il figlio; d) il ricorrente lavora con contratto a tempo indeterminato e percepisce 1200 Euro mensili a titolo di stipendio; e) la ricorrente svolge, invece, lavori saltuari; f) per evitare conseguenze pregiudizievoli per il minore, affetto da grave patologia, si rende necessario disporre l'intervento dei Servizi Sociali, anche al fine di consentire le visite tra padre e figlio. Con memoria depositata il 19/1/2020, si è costituita in giudizio S.K., aderendo alla domanda di separazione, ma chiedendo l'addebito della stessa al marito. Con riferimento alla prole minore, parte resistente ne ha chiesto l'affido esclusivo, con collocamento presso di sé. Sotto il profilo economico, la resistente ha, infine, chiesto il riconoscimento di un contributo di Euro 150,00 a proprio favore e di Euro 350,00 a favore del minore, oltre al 50% delle spese straordinarie. Parte resistente ha dedotto che: a) il ricorrente percepisce in realtà un retribuzione di Euro 1.600,00 mensili; b) la resistente, durante il matrimonio, non ha mai lavorato, dovendo provvedere alle cure del figlio minore, portatore di handicap; c) allo stato, la stessa lavora con contratto a tempo indeterminato per 24 ore settimanali, percependo una retribuzione di Euro 700,00 mensili circa; d) il ricorrente non ha mai consentito che la resistente lavorasse, le ha sempre impedito l'autonoma uscita i casa, la gestione dei bisogni della famiglia, isolandola a livello culturale e relazionale; e) alla fine del settembre del 2018, il ricorrente ha abbandonato la casa familiare, facendo mancare ogni forma di sostegno materiale o morale alla famiglia; f) il ricorrente occupa attualmente un appartamento di edilizia popolare, ottenuto grazie all'invalidità del figlio; g) il ricorrente non ha comunicato il proprio indirizzo, non ha mai versato gli assegni familiari alla moglie, non ha più nulla comunicato per il conseguimento della pratica di invalidità del figlio; h) la resistente, nel febbraio del 2019, si è presentata a casa del ricorrente per farvi rientro con il figlio disabile, ma lo stesso ne ha negato l'accesso, anche alla presenza della Polizia. All'udienza del 28.1.2020, le parti sono comparse avanti al Presidente. Parte ricorrente ha dedotto la perdita della propria occupazione, a partire dal febbraio del 2019. Parte resistente ha dichiarato di essere divenuta assegnataria di casa popolare. Il Presidente, in via provvisoria ed urgente ha disposto l'affido condiviso del minore, con collocamento dello stesso presso la madre ed assegnazione della casa familiare alla stessa. Ha, poi, demandato ai servizi sociali per la regolamentazione delle visite tra padre e figlio, secondo un Calendario dagli stessi individuato. Sotto il profilo economico, ha stabilito un contributo al mantenimento a carico del ricorrente e favore della prole di Euro 300,00 mensili, oltre al 50% delle spese straordinarie. All'udienza del 20/10/2020, le parti sono comparse avanti al GI che ha assegnato i termini ex art. 183, comma 6, c.p.c. All' udienza del 16/1/2021, le parti hanno dato atto di non aver avanzato istanze istruttorie e chiesto l'acquisizione della relazione già richiesta ai Servizi Sociali competenti. All'udienza del 15/6/2021, le parti hanno chiesto la fissazione dell'udienza di precisazione delle conclusioni. All'udienza del 12.7.2022, le parti hanno precisato le conclusioni come in epigrafe, con concessione dei termini massimi ex art. 190 c.p.c. In data 20.7.2022, il PM ha formulato le proprie conclusioni. Le istanze istruttorie Le parti non hanno depositato le memorie ex art. 183, comma 6, c.p.c.. Parte resistente ha, invero, formulato istanza di ammissione di prova testimoniale. All'udienza del 16/2/2021, tuttavia, entrambi i procuratori hanno dichiarato di non avere avanzato istanze istruttorie, insistendo unicamente nell'acquisizione della relazione dei Servizi Sociali. All'udienza del 15/6/2021, le stesse hanno, poi, chiesto la fissazione dell'udienza di precisazione delle conclusioni. Il Collegio ritiene di poter interpretare il contegno processuale di parte resistente quale rinuncia implicita alle istanze formulate nel proprio atto introduttivo. La Suprema Corte ha, infatti, avuto modo di affermare che: "in tema di istruzione probatoria nel rito ordinario, spetta alla parte attivarsi per l'espletamento del richiesto mezzo istruttorio che il giudice abbia ammesso; sicché, ove la parte rimanga inattiva, chiedendo la fissazione dell'udienza di precisazione delle conclusioni senza più instare per l'espletamento del mezzo di prova, è presumibile che abbia rinunciato alla prova stessa". Nella specie la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato l'implicita rinuncia all'ammessa prova testimoniale nel fatto che la parte istante aveva chiesto non già la fissazione dell'udienza per l'assunzione della prova, bensì la fissazione dell'udienza di precisazione delle conclusioni (Sez. 3, Sentenza n. 18688 del 06/09/2007). Si tratta, dunque, del medesimo contegno processuale tenuto nel caso di specie, vieppiù rafforzato da quanto dedotto all'udienza del 16/2/2021. In ogni caso, anche volendo diversamente ragionare, le istanze istruttorie formulate nella memoria depositata in data 8/10/2020 non risultano ammissibili, atteso che: - i capitoli 1, 2 e 3 sono formulati in modo generico e valutativo; - i capitoli 4,5,6 e 7 sono superflui ai fini della decisione. La domanda di separazione. La domanda è fondata e va accolta. La separazione di fatto tra i coniugi e la natura delle doglianze esposte da ciascuna delle parti sono elementi idonei a rivelare la presenza di una situazione d'intollerabilità della prosecuzione della convivenza tra le parti. La domanda di separazione deve pertanto trovare accoglimento. La domanda di addebito Parte resistente ha chiesto l'addebito della separazione al ricorrente, deducendo che lo stesso, nel settembre del 2018, ha abbandonato la casa familiare, facendo totalmente mancare il proprio supporto, morale e materiale, alla moglie e al figlio. Parte ricorrente, nel proprio atto introduttivo, ha confermato di essersi spontaneamente allontanato dalla casa familiare, deducendo, tuttavia, che detto allontanamento si è reso necessario a fronte delle condotte violente della moglie. Si osserva che, sulla base di un principio più volte affermato dalla Suprema Corte "il volontario abbandono del domicilio familiare da parte di uno dei coniugi, costituendo violazione del dovere di convivenza, è di per sé sufficiente a giustificare l'addebito della separazione personale, a meno che non risulti provato che esso è stato determinato dal comportamento dell'altro coniuge o sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile ed in conseguenza di tale fatto" (Cass. Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 648 del 15/01/2020). Grava, dunque, sulla parte che abbia abbandonato la casa coniugale provare che l'intollerabilità della convivenza si è verificata in un momento antecedente. Parte ricorrente, al contrario, non ha provato, né chiesto di provare, la predetta circostanza, cosicché la domanda di addebito deve ritenersi fondata. La domanda di riconoscimento del contributo al mantenimento del coniuge. Parte resistente ha chiesto il riconoscimento di un contributo a proprio favore da parte del coniuge. Ai fini della decisione, pare preliminarmente necessario chiarire i presupposti per il riconoscimento del contributo al mantenimento a favore del coniuge. Ai sensi dell'art. 156 c.c., il Tribunale, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui la stessa non sia addebitabile il diritto di ricevere dall'altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. Secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte, "la separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i "redditi adeguati" cui va rapportato, ai sensi dell'art. 156 c.c., l'assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell'addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione" (vedi, in particolare, Cass. civ. Sez. I Sent., 16/05/2017, n. 12196). L'entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell'obbligato. Al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del contributo, si rende, dunque, necessario verificare, in primo luogo, la condizione patrimoniale e reddituale di parte ricorrente, nonché le rispettive capacità economiche delle parti. Parte resistente ha prodotto comunicazione da parte del datore di lavoro, da cui risulta la trasformazione del proprio contratto di lavoro a tempo determinato in contratto di lavoro a tempo indeterminato in data 11/9/2019. Al fine di provare la propria retribuzione, la stessa ha prodotto 6 buste paga, che attestano una retribuzione mensile media pari ad Euro 700,00 mensili. La stessa ha, poi, dedotto ma non provato le spese abitative sostenute, certamente presumibili ma di cui non è noto l'ammontare. Parte ricorrente ha dedotto, ma non provato, di aver svolto attività lavorativa sino al febbraio del 2019, percependo una retribuzione di Euro 1.200,00 mensili. Ha, invece, provato la cessazione del proprio rapporto di lavoro a febbraio del 2019. In assenza di istanze istruttorie da parte, tuttavia, non può ritenersi provato uno squilibrio reddituale tra le parti, idoneo a giustificare il riconoscimento di un assegno di mantenimento a favore della resistente. La domanda non può, dunque, trovare accoglimento. L'affido ed il collocamento del minore; il diritto di visita del genitore non collocatario. In ordine all'affidamento della prole, il Tribunale deve applicare il precetto di cui all'art. 337ter, co. 2, c.c., disponendo, di regola, l'affidamento condiviso del minore, in ossequio al principio della bigenitorialità. Resta, al contrario, pienamente vigente l'art. 337quater, co. 1, c.c., e con esso anche la previsione di uno spazio di intervento del giudice che, nel precipuo ed esclusivo interesse del minore, voglia disporre diversamente rispetto al criterio dell'affidamento condiviso, derogabile solo laddove tale affidamento sia contrario agli interessi dei minori. Si tratta di una valutazione demandata alla discrezionalità dell'organo giudicante che deve attuare l'interesse prevalente del soggetto meritevole di tutela in quanto incapace. L'affidamento ad un solo genitore è previsto dall'art.337-quater c.c. alla stregua di una situazione eccezionale e postula non solo un giudizio in positivo nei riguardi del genitore affidatario, ma anche un corrispondente giudizio negativo nei confronti del genitore non affidatario; valutazioni, queste, da compiersi in relazione alle capacità educative ed al possesso di qualità tali da rendere i genitori idonee figure di riferimento, nell'interesse superiore del minore ad un sereno ed equilibrato sviluppo psico-fisico (v. sul punto Cass.n.16593/2008). A parere della Suprema Corte, tale giudizio va formulato, "in base a elementi concreti, tenendo conto del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità a un assiduo rapporto, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell'ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione e istruzione"(Cass. sez. I, 10/12/2018, n.31902). Per quanto qui di interesse, va, peraltro, ricordato che la Suprema Corte ha ammesso la sussistenza dei presupposti per un affido esclusivo anche a fronte di comportamenti gravemente omissivi da parte del genitore; sul punto, Cassazione ha, infatti, ritenuto che "integrano comportamenti altamente sintomatici dell'inidoneità di uno dei genitori ad affrontare le maggiori responsabilità conseguenti ad un affidamento condiviso sia la violazione dell'obbligo di mantenimento dei figli che la discontinuità nell'esercizio del diritto di visita degli stessi. Ne discende che, in questi casi, si configura una situazione di contrarietà all'interesse del figlio minore, ostativa, per legge, ad un provvedimento di affidamento condiviso" (Cass. Civ. 17 dicembre 2009 n. 26587). Nel caso di specie, parte resistente ha dedotto di essersi sempre occupata in via esclusiva del figlio minore, affetto da disabilità grave. Ha, poi, dedotto l'avvenuto abbandono morale e materiale da parte del padre seguito all'abbandono dalla casa coniugale. Da ultimo, ha affermato il mancato esercizio del diritto di visita nel corso del procedimento. Tutte le circostanze dedotte non sono mai state contestate, né con il deposito di comparsa di costituzione, né con successivi atti, né in sede d'udienza. Dalla relazione dei Servizi Sociali depositata nel 2021, peraltro, non emerge che il ricorrente abbia preso contatti con gli stessi al fine di attivare gli incontri previsti in sede di ordinanza presidenziale. Orbene, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., "il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita". In virtù del principio di non contestazione, dunque, il Collegio ritiene che le condotte di grave disinteresse successive all'abbandono della casa coniugale possano ritenersi ammesse, oltreché confermate dal contegno processuale e dall'assenza di contatti con i Servizi Sociali competenti. Detto disinteresse, considerata la condizione di disabilità del minore e le precarie condizioni economiche del nucleo familiare (anche e soprattutto sotto il profilo abitativo) non consentono evidentemente di formulare un giudizio positivo in ordine alla capacità genitoriale del ricorrente. Al contrario, dalla Relazione prodotta dai Servizi Sociali competenti, emerge l'idoneità della resistente nella cura del minore, di cui la stessa si è sempre occupata personalmente, senza alcun rilievo da parte degli enti coinvolti a sostegno del nucleo, del Servizio Sanitario e della scuola. Può, dunque, trovare accoglimento la domanda di affido esclusivo del minore alla madre. Per le medesime ragioni, si ritiene di confermare il collocamento del minore presso la resistente, con conseguente assegnazione alla stessa della casa familiare. Il Collegio non ritiene, invece, opportuno regolamentare allo stato i l diritto di visita del padre, stante il disinteresse dello stesso manifestato nel corso del giudizio. Lo stesso, in caso di richiesta dallo stesso formulata, potrà essere regolamentato secondo un Calendario predisposto dai Servizi Sociali, avendo riguardo al preminente interesse del minore. Il contributo al mantenimento della prole minore. Ai sensi dell'art. 337 ter c.c., ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando le attuali esigenze del figlio, il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori, i tempi di permanenza presso ciascun genitore, le risorse economiche di entrambi i genitori, la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore. Come sopra evidenziato, parte resistente ha prodotto comunicazione da parte del datore di lavoro, da cui risulta la trasformazione del proprio contratto di lavoro a tempo determinato in contratto di lavoro a tempo indeterminato in data 11/9/2019. Al fine di provare la propria retribuzione, la stessa ha prodotto 6 buste paga, che attestano una retribuzione mensile media pari ad Euro 700,00 mensili. La stessa ha, poi, dedotto ma non provato le spese abitative sostenute, certamente presumibili ma di cui non è noto l'ammontare. Occupandosi in via primaria della cura della prole con disabilità, deve presumersi l'impossibilità di incrementare l'orario di lavoro. Parte ricorrente ha dedotto, ma non provato, di aver svolto attività lavorativa sino al febbraio del 2019, percependo una retribuzione di Euro 1.200,00 mensili. Ha, invece, provato la cessazione del proprio rapporto di lavoro a febbraio del 2019. Lo stesso, negli atti successivi, non ha mai dedotto, né provato la ricerca di una nuova occupazione. Risulta dalla relazione dei Servizi Sociali che il ricorrente lavorasse nel 2017 presso altro datore di lavoro. Considerata detta circostanza e l'età dello stesso (40 anni) deve presumersi una capacità lavorativa, peraltro mai contestata. Considerata l'assenza di svolgimento in via diretta di compiti di cura ed il mancato esercizio del diritto di visita, le condizioni e le esigenze del minore e la condizione reddituale materna, il Collegio ritiene equo confermare il contributo previsto in sede presidenziale. Le spese di lite Considerata la natura necessaria della pronuncia sullo status, l'accoglimento della domanda di addebito e di affido esclusivo ma, d'altro canto, la soccombenza di parte attrice relativamente alla domanda di riconoscimento di un contributo al mantenimento a proprio favore, le spese di lite devono compensarsi nella misura di 1/3. I restanti 2/3 devono essere regolati sulla base della soccombenza e posti a carico di parte ricorrente nella misura liquidata in dispositivo in applicazione dei parametri previsti dal D.M. n. 55 del 2014 nella versione ratione temporis applicabile, avendo riguardo alle cause di valore indeterminabile a complessità media, valori minimi per la fase istruttoria e mede per le restanti fasi. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: 1. dichiara la separazione tra H.B. e S.K., che hanno contratto matrimonio in data 12/2/2014 a Novara, trascritto negli atti dello Stato Civile del Comune di Novara al n. 11, parte I, anno 2014; 2. dichiara l'addebito della separazione a H.B.; 3. dispone l'affido esclusivo del minore I. alla madre, con collocamento presso la stessa; 4. assegna la casa familiare a S.K.; 5. dispone la perdurante presa in carico del nucleo familiare da parte dei Servizi Sociali del Comune di Novara; 6. dispone che il diritto di visita del padre venga esercitato solo in caso di richiesta ai Servizi Sociali competenti, secondo un Calendario dagli stessi approntato nell'interesse del minore; 7. dispone che H.B. contribuisca indirettamente al mantenimento del figlio versando a S.K., in via anticipata, entro il giorno 5 di ogni mese, a mezzo bonifico bancario, l'importo di Euro 300,00 mensili, che sarà soggetto a rivalutazione monetaria annuale secondo gli indici ISTAT costo-vita FOI; e pagando o rimborsando il 60% delle spese straordinarie (mediche, scolastiche, sportive e ricreative) relative al figlio, come di seguito specificate : I) spese mediche (da documentare, anche successivamente all'esborso) che non richiedono il preventivo accordo: a) visite specialistiche prescritte dal medico curante; b) cure dentistiche presso strutture pubbliche; c) trattamenti sanitari erogati dal Servizio Sanitario Nazionale; d) tickets sanitari; II) spese mediche (da documentare, anche successivamente all'esborso) che richiedono il preventivo accordo: a) cure dentistiche, ortodontiche con relativi apparecchi e oculistiche con relativi occhiali non presso il S.S.N.; b) cure termali e fisioterapiche; c) trattamenti sanitari non erogati dal Servizio Sanitario Nazionale; d) farmaci particolari; III) spese scolastiche (da documentare, anche successivamente all'esborso) che non richiedono il preventivo accordo: a) tasse scolastiche e universitarie imposte da istituti pubblici; b) libri di testo e materiale di corredo scolastico di acquisto corrente; c) gite scolastiche senza pernottamento; d) trasporto pubblico; e) mensa - buoni pasto; IV) spese scolastiche (da documentare, anche successivamente all'esborso) che richiedono il preventivo accordo: a) asse scolastiche universitarie di istituti privati; b) corsi di specializzazione; c) gite scolastiche con pernottamento; d) corsi di recupero e lezioni private; e) alloggio presso sia la sede universitaria che in affitto; f) materiale scolastico non di acquisto corrente (ad es. acquisti di inizio anno scolastico); V) spese extrascolastiche (da documentare, anche successivamente all'esborso) che richiedono il preventivo accordo: a) corsi di istruzione, attività sportive, ricreative e ludiche e pertinenti attrezzature; b) viaggi e vacanze; c) tempo prolungato, pre-scuola e doposcuola, centro ricreativo e gruppo estivo; una volta effettuate le spese nel rispetto dei predetti criteri, il rimborso dovrà effettuarsi entro e non oltre 30 giorni dalla ricezione della richiesta corredata dalla documentazione giustificativa, ove richiesta; 8. compensa le spese di lite nella misura di 1/3; 9. pone i restanti 2/3 a carico di H.B., che liquida in Euro 6.185,00, oltre al rimborso delle spese forfettarie al 15%, IVA e CPA; 10. manda il Cancelliere a trasmettere copia autentica del dispositivo della presente sentenza, limitatamente al capo 1, ove passato in giudicato, all'Ufficiale di Stato Civile del Comune di Novara, perché provveda alle annotazioni ed ulteriori incombenze di legge. Conclusione Novara, così deciso nella camera di consiglio del 21 dicembre 2022. Depositata in Cancelleria il 9 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI NOVARA SEZIONE CIVILE Il Tribunale di Novara, nelle persone di Dott.ssa Simona Delle Site - Presidente Dott.ssa Francesca Iaquinta - Giudice Dott.ssa Veronica Zanin - Giudice rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al numero di ruolo generale sopra indicato, tra (...) (c. f. (...) ) rappresentata e difesa dall'Avv. AD.EN. presso il cui studio in Milano è elettivamente domiciliata, come da procura in atti; PARTE RICORRENTE e P.G. (c. f. (...) ); PARTE RESISTENTE CONTUMACE OGGETTO: Divorzio contenzioso MOTIVI IN FATTO E DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso depositato in data 19/3/2022, (...) ha convenuto in giudizio (...), al fine di sentir pronunciare lo scioglimento del matrimonio con lo stesso contratto e la conferma dell'affido esclusivo della minore (...) alla madre. All'udienza del 26/5/2022, la sola ricorrente è comparsa avanti al Presidente, il quale ha confermato l'affido esclusivo della minore alla madre, con collocamento presso la stessa. All'udienza del 20/9/2022, la ricorrente è comparsa avanti al G.I. ed ha chiesto fissarsi udienza di precisazione delle conclusioni. All'udienza del 8/11/2022, parte ricorrente ha precisato le conclusioni come in epigrafe. La domanda scioglimento del matrimonio è fondata e deve essere accolta. Le parti, che hanno contratto matrimonio in data 10/12/2008, risultano separate in forza della sentenza n. 484/16 del Tribunale di Novara, depositata in data 1/6/2016 e passata in giudicato i data 2/1/2017. L'udienza presidenziale per la comparizione personale dei coniugi è stata tenuta in data 15/10/2015 e pertanto si è protratto lo stato di separazione legale tra gli stessi per il periodo previsto dalla legge (ora di 12 mesi in caso di procedimento contenzioso), essendo stato depositato il presente ricorso in data 19/3/2022 né è stata eccepita un'intervenuta riconciliazione. Ricorrono pertanto gli estremi previsti dall'art.3 n.2 lett. b) L. n. 898 del 1970 e successive modifiche per la pronuncia dello scioglimento del matrimonio, dovendo ritenersi accertato che la comunione materiale e spirituale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita. Quanto alle statuizioni accessorie stima il Collegio di provvedere in conformità alle previsioni contenute nella sentenza di separazione intervenuta fra le parti, apparendo le stesse rispondenti all'interesse del figlio minorenne, in punto di affidamento esclusivo e collocamento presso la madre. Parte ricorrente ha, infatti, confermato che il resistente, allontanatosi da casa nel 2010, non vi ha più fatto ritorno, né ha mai intrattenuto ulteriori rapporti con la minore. La mancata costituzione in giudizio, nonostante la ritualità della notifica, è contegno processuale da valorizzarsi al fine di confermare il disinteresse nei confronti della prole. Risulta, peraltro, dal certificato di matrimonio prodotto e dalla relata di notifica ritirata personalmente dal resistente che lo stesso risiede a Gela. E' stato, infine, prodotto provvedimento del Giudice Tutelare da cui risulta autorizzazione al rilascio di documento valido per l'espatrio; anche in detto procedimento il resistente è rimasto contumace, non deducendo alcuna ragione che giustificasse il rifiuto di prestare il proprio assenso. Il Collegio ritiene, tuttavia, di dover assumere anche statuizioni di natura economica, al fine di garantire il mantenimento del minore, potendo sul punto provvedere d'ufficio, anche in assenza di domanda di parte. Ai sensi dell'art. 337 ter ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando le attuali esigenze del figlio, il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori, i tempi di permanenza presso ciascun genitore, le risorse economiche di entrambi i genitori, la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore. Parte ricorrente svolge attività lavorativa come barista, percependo mensilmente un importo variabile tra i 600,00 ed i 700,00 Euro mensili. La stessa risulta residente in (...), unitamente al minore e alla madre convivente, evidentemente tenuta alla compartecipazione alle spese di gestione dell'immobile. Parte ricorrente nulla ha dedotto in ordine all'attuale svolgimento di attività lavorativa da parte del resistente. Lo stesso, tuttavia, non ha ancora compiuto 40 anni e deve, dunque, presumersi la sussistenza di adeguata capacità lavorativa. Tenuto conto dell'assenza di accudimento diretto da parte del padre, il Collegio ritiene equo prevedere un contributo al mantenimento di Euro 200,00 mensili, oltre al 50% delle spese straordinarie indicate, per brevità, direttamente in dispositivo. Nulla sulle spese considerata la natura necessaria del presente giudizio, la contumacia e l'assenza di richieste in merito. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, disattesa o rigettata ogni diversa ed ulteriore domanda eccezione, deduzione, istanza anche istruttoria, così statuisce: 1. dichiara lo scioglimento del matrimonio contratto il 10/12/2008 in Novara tra (...) e P.G. iscritto nei registri dello Stato Civile del Comune di Novara nell'anno 2008 registro Atti di matrimonio, Numero 201, Parte I. 2. conferma le condizioni della separazione e, conseguentemente, conferma l'affido esclusivo della minore alla madre, con collocamento presso la stessa; 3. pone a carico di (...) l'obbligo di contribuire al mantenimento del minore (...) versando a (...) in via anticipata, entro il giorno 5 di ogni mese, a mezzo bonifico bancario, l'importo di Euro 200,00 mensili, che sarà soggetto a rivalutazione monetaria annuale secondo gli indici ISTAT costo-vita FOI, a partire dall'avvenuto intero decorso del dodicesimo mese da oggi; e pagando o rimborsando il 50% delle spese straordinarie (mediche, scolastiche, sportive e ricreative) relative alle figlie, come di seguito specificate : I) spese mediche (da documentare, anche successivamente all'esborso) che non richiedono il preventivo accordo: a) visite specialistiche prescritte dal medico curante; b) cure dentistiche presso strutture pubbliche; c) trattamenti sanitari erogati dal Servizio Sanitario Nazionale; d) tickets sanitari; II) spese mediche (da documentare, anche successivamente all'esborso) che richiedono il preventivo accordo: a) cure dentistiche, ortodontiche con relativi apparecchi e oculistiche con relativi occhiali non presso il (...); b) cure termali e fisioterapiche; c) trattamenti sanitari non erogati dal Servizio Sanitario Nazionale; d) farmaci particolari; III) spese scolastiche (da documentare, anche successivamente all'esborso) che non richiedono il preventivo accordo: a) tasse scolastiche e universitarie imposte da istituti pubblici; b) libri di testo e materiale di corredo scolastico di acquisto corrente; c) gite scolastiche senza pernottamento; d) trasporto pubblico; e) mensa - buoni pasto; IV) spese scolastiche (da documentare, anche successivamente all'esborso) che richiedono il preventivo accordo: a) tasse scolastiche universitarie di istituti privati; b) corsi di specializzazione; c) gite scolastiche con pernottamento; d) corsi di recupero e lezioni private; e) alloggio presso sia la sede universitaria che in affitto; f) materiale scolastico non di acquisto corrente (ad es. acquisti di inizio anno scolastico); V) spese extrascolastiche (da documentare, anche successivamente all'esborso) che richiedono il preventivo accordo: a) corsi di istruzione, attività sportive, ricreative e ludiche e pertinenti attrezzature; b) viaggi e vacanze; c) tempo prolungato, pre-scuola e doposcuola, centro ricreativo e gruppo estivo; una volta effettuate le spese nel rispetto dei predetti criteri, il rimborso dovrà effettuarsi entro e non oltre 30 g; 4. manda il Cancelliere a trasmettere copia autentica del dispositivo della presente sentenza, limitatamente al capo 1, ove passato in giudicato, all'Ufficiale di Stato Civile del Comune di Novara, perché provveda alle annotazioni ed ulteriori incombenze di legge. 5. nulla sulle spese. Così deciso in Novara il 21 dicembre 2022. Depositata in Cancelleria il 9 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI NOVARA SEZIONE CIVILE Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati: Dott.ssa Simona Delle Site - Presidente Dott.ssa Francesca Iaquinta - Giudice Dott.ssa Veronica Zanin - Giudice Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 1816 /2021 promossa da: (...) (C.F. (...)) Rappresentata e difesa dall'Avv. Gi.Ru. ed elettivamente domiciliata presso lo studio del predetto difensore in Novara, giusta procura in atti; RICORRENTE contro (...) (C.F. (...)) RESISTENTE CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Le parti hanno contratto matrimonio in Monreale in data 8/2/1993, trascritto negli atti dello Stato Civile del predetto Comune al n. 5, parte II, serie A, anno 1993. Dal matrimonio sono nate tre figlie: (...) ha formato un nucleo familiare autonomo, mentre (...) ed (...), maggiorenni, vivono con il padre. Con ricorso depositato il 15/7/2021, (...) ha convenuto in giudizio (...), al fine di sentir pronunciare la separazione personale delle parti. Parte ricorrente ha dedotto che: a) l'unione coniugale ha iniziato ad incrinarsi circa otto anni prima del deposito del ricorso, a causa del comportamento del resistente, sempre più ossessivamente geloso, nervoso e verbalmente violento nei confronti del coniuge; b) nel corso del 2019, la gelosia del resistente è divenuta maniacale e lo stesso era solito rivolgersi alla moglie con violenti epiteti verbali, tanto che la ricorrente viveva con ansia e paura i momenti trascorsi nella casa familiare; c) per queste ragioni, ad agosto del 2019, la ricorrente, scossa e spaventata dall'ennesima lite, si è allontanata da casa e ha trovato rifugio presso un Centro antiviolenza; d) il resistente è unico proprietario della casa familiare, lavora come mulettista ed ha in uso l'automobile della moglie (che rifiuta di restituire); e) nel corso dell'unione coniugale, lo stesso ha contratto finanziamenti a nome della moglie che, conseguentemente, deve, allo stato, farvi fronte personalmente; f) la ricorrente svolge attività lavorative occasionali con contratto di agenzia, senza beneficiare di entrate fisse. Sulla base delle predette deduzioni, parte ricorrente ha formulato domanda di addebito della separazione al resistente e chiesto il riconoscimento di un contributo al mantenimento a proprio favore. All'udienza del 30/11/2021, la sola ricorrente è comparsa avanti al Presidente che, in via provvisoria ed urgente, ha disposto a favore della ricorrente un contributo al mantenimento di Euro 250,00 mensili. Con comparsa depositata in data 2/2/2022, la ricorrente si è costituita avanti al Giudice Istruttore, riproducendo le deduzioni di cui al ricorso e formulando le conclusioni riportate in epigrafe. All'udienza del 19.4.2022, tenutasi nella modalità della trattazione scritta, il G.I., rilevata la ritualità della notifica dell'ordinanza presidenziale e la mancata costituzione del convenuto, ha dichiarato la contumacia di (...) ed assegnato alla ricorrente i termini ex art. 183, comma 6, c.p.c.. All'udienza del 25/10/2022, parte ricorrente ha chiesto di poter precisare le proprie conclusioni, stante l'assenza di domande di ammissione di prove costituende. La ricorrente ha, dunque, precisato le conclusioni come in epigrafe, rinunciando ai termini ex art. 190 c.p.c. In data 7/11/2022, il Pubblico Ministero ha precisato le proprie conclusioni. Le istanze istruttorie Parte ricorrente non ha chiesto l'ammissione di prove costituende. La documentazione prodotta risulta tempestivamente depositata e deve ritenersi ammissibile. La domanda di separazione. La domanda è fondata e va accolta. La separazione di fatto tra i coniugi e la natura delle doglianze esposte dalla ricorrente sono elementi idonei a rivelare la presenza di una situazione d'intollerabilità della prosecuzione della convivenza tra le parti. La domanda di separazione deve pertanto trovare accoglimento. La domanda di addebito Parte ricorrente ha chiesto che la separazione venga addebitata al resistente, deducendo che la fine dell'unione coniugale deve ritenersi imputabile alla condotta ossessivamente gelosa e verbalmente violenta di (...). Al fine di verificare la fondatezza della domanda formulata dal ricorrente, pare opportuno ricordare che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, grava sulla parte che richieda l'addebito della separazione all'altro coniuge l'onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza. (Ordinanza n. 3923 del 19/02/2018 e, più di recente, Ordinanza n. 11130 del 2022). Nel caso di specie, le condotte contestate dalla ricorrente sono state unicamente dedotte ma non provate, non avendo la stessa formulato alcuna istanza di prova a tal fine. La domanda non può, dunque, trovare accoglimento. La domanda di riconoscimento del contributo al mantenimento del coniuge. Ai fini della decisione, pare preliminarmente necessario chiarire i presupposti per il riconoscimento del contributo al mantenimento a favore del coniuge. Ai sensi dell'art. 156 c.c., il Tribunale, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui la stessa non sia addebitabile il diritto di ricevere dall'altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. Secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte, "la separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i "redditi adeguati" cui va rapportato, ai sensi dell'art. 156 c.c., l'assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell'addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione" (vedi, in particolare, Cass. civ. Sez. I Sent., 16/05/2017, n. 12196). L'entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell'obbligato. Al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del contributo, si rende, dunque, necessario verificare, in primo luogo, la condizione patrimoniale e reddituale di parte ricorrente, nonché le rispettive capacità economiche delle parti. Per provare la propria condizione reddituale, parte ricorrente ha prodotto: i) certificazioni uniche del 2020, relativa all'anno 2019 e buste paga relative a gennaio, febbraio e marzo del 2019; ii) certificazioni uniche del 2021, relativa all'anno 2020; iii) certificazioni uniche del 2022 relativa all'anno 2021. Nell'anno 2019, la ricorrente risulta, sulla base delle certificazioni uniche prodotte, aver prestato la propria attività lavorativa con rapporti di lavoro a tempo determinato, percependo un compenso complessivo di Euro 994,98. Risultano, poi, buste paga per un totale di Euro 1598,00. In totale, dunque, risulta un reddito complessivo di Euro 2.600,00 circa. Nell'anno 2020, risultano redditi da rapporto di lavoro con contratto a tempo determinato per complessivi Euro 7.893,19 mensili. Nell'anno 2021, risultano importi erogati da INPS per Euro 3.224,63 a titolo di prestazioni a sostegno del reddito ed Euro 2.503,68 per attività lavorativa svolta tramite Agenzia. La documentazione prodotta, dunque, attesta, da un lato, l'evidente insufficienza di redditi propri adeguati a consentire il proprio mantenimento e, dall'altro, la prestazione, in ogni caso, di attività lavorativa, che implica l'attivazione della parte al fine di reperire reddito. (...), invece, risulta, dall'estratto catastale prodotto, titolare di bene immobile in Novara. Per il 2019, dalla certificazione unica risulta un reddito annuo, al netto di addizionale dovuta, di Euro 14.897,75. Per l'anno 2020, dalla certificazione unica prodotta risulta, al netto di addizionali dovute, un reddito annuo di Euro 16.315.50. Per l'anno 2021, risulta un reddito annuo, al netto di addizionale dovuta di Euro 12.523,78. Può presumersi che lo stesso, vista la titolarità di beni immobili, non sostenga spese abitative. Considerate le rispettive capacità economiche delle parti e lo squilibrio significativo tra le stesse, il presumibile tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio, il Collegio ritiene di confermare il contributo al mantenimento previsto in fase presidenziale, pari ad Euro 200,00 mensili. Le spese di lite. Considerata la natura necessaria della pronuncia sullo status, la soccombenza della ricorrente sulla domanda di addebito e l'accoglimento della domanda di riconoscimento di un contributo al mantenimento, il Tribunale dispone la compensazione delle spese di lite. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: 1. dichiara la separazione tra (...) e (...) che hanno contratto matrimonio Monreale in data 8/2/1993, matrimonio trascritto negli atti dello Stato Civile del Comune di Monreale al n. 5, parte II, serie A, anno 1993; 2. rigetta la domanda di addebito della separazione. 3. pone a carico di (...) l'obbligo di contribuire al mantenimento di (...) con il pagamento in via anticipata entro il giorno 5 di ogni mese, a mezzo bonifico bancario, dell'importo mensile di Euro 200,00 (che sarà soggetta a rivalutazione monetaria annuale secondo gli indici ISTAT costo-vita FOI); 4. dispone la compensazione delle spese di lite; 5. manda il Cancelliere a trasmettere copia autentica del dispositivo della presente sentenza, limitatamente al capo 1, ove passato in giudicato, all'Ufficiale di Stato Civile del Comune di Monreale, perché provveda alle annotazioni ed ulteriori incombenze di legge. Novara, così deciso nella camera di consiglio del 21 dicembre 2022. Così deciso in Novara il 21 dicembre 2022. Depositata in Cancelleria il 9 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI NOVARA SEZIONE CIVILE Il Tribunale di Novara, sezione civile, in composizione collegiale, in persona dei magistrati dott. Simona Delle Site - Presidente dott. Francesca Iaquinta - Giudice est. dott. Veronica Zanin - Giudice ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di primo grado iscritta al n.1826/2022 R.G. avente ad oggetto "mutamento di sesso" promossa da (...), nata a N. il (...) (C.F.: (...)) e residente a N. in Via R. n. 24, rappresentata e difesa dall'Avv. Ca.La. del Foro di Bologna ed elettivamente domiciliata presso lo studio legale Wi. sito a Bologna in Piazza (...), come da procura in atti PARTE ATTRICE contro P.M. in sede PARTE CONVENUTA MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto di citazione ritualmente notificato all'Ufficio del Pubblico Ministero in sede la difesa di (...) ha chiesto di "autorizzare parte attrice sig. I. agli interventi chirurgici di riassegnazione del sesso da femminile in maschile; ? disporre la contestuale rettificazione degli atti di stato civile ORDINANDO all'Ufficiale dello Stato Civile del Comune di iscrizione dell'atto di nascita la rettifica del sesso anagrafico da femminile a maschile e del nome da (...) ad (...)". A fondamento della domanda svolta, la difesa della parte attrice ha esposto che: - la persona (...), anagraficamente di sesso femminile e di stato libero (doc. 02 e 03), ha sempre evidenziato, sin dall'infanzia, una psicosessualità nettamente maschile, risultante da una naturale inclinazione ad assumere comportamenti maschili e manifestato di volersi riconoscere nel nome di (...); - è sempre emersa in maniera chiara l'insofferenza e la difficoltà a riconoscersi nel proprio sesso biologico ed il desiderio di cambiare la propria identità, ravvisandosi i tratti di una Disforia di Identità di Genere; - al fine di intraprendere la procedura medico-chirurgica di riassegnazione del sesso e la contestuale rettifica dei dati anagrafici, nel marzo 2020 parte attrice si è rivolta al prof. (...), psicologo iscritto all'Ordine degli Psicologi della Regione Lombardia e noto CTU per il Tribunale di Milano; - dalla relazione psicologica rilasciata dal suddetto specialista emerge chiaramente la diagnosi di Disforia di Genere, ovvero la condizione di transessualismo (transgenderismo o gender non conforming) (doc. 05); - nel mese di settembre 2020, poi, il sig. (...) ha ottenuto dallo psicologo il nulla osta alla terapia ormonale mascolinizzante e, conseguentemente, si è rivolto all'Istituto Auxologico Italiano di Milano per avviare il trattamento ormonale, sottoponendosi, dal dicembre 2020, regolarmente, a terapia ormonale sostitutiva a base di testosterone, sotto la costante supervisione della dott.ssa (...), medico specializzato in Endocrinologia e Malattie del Ricambio e della dott.ssa (...), medico specializzando in Endocrinologia e Malattie del Ricambio (doc. 06); - nel periodo di assunzione della terapia ormonale parte attrice ha presentato un'armonica e consistente modificazione dei tratti fenotipici (da femminili a prettamente mascolinizzati) e ha proseguito la "prova di vita reale" (real life experience), vestendo gli abiti della voluta sessualità maschile. Tale periodo non ha prodotto ripensamenti e paure ma, anzi, ha confermato il desiderio di vivere conformemente alla propria identità di genere maschile in ogni ambito della sua vita; - la discrepanza tra l'aspetto fisico mascolinizzato di parte attrice e la sua identità anagrafica femminile, oltre ad essere fonte di continuo malessere per la stessa, è anche causa di notevoli problematiche di tipo pratico, che rendono complesso per il sig. I. eseguire agilmente innumerevoli adempimenti di vita quotidiana; - in considerazione dell'irreversibilità della transizione, del fatto che i riferimenti femminili sono ormai diventati fonte di malessere e disagio e ribadendo la diagnosi certa di Disforia di Genere, la relazione del dott. (...) e quella delle dott.sse (...) e (...) si concludono con parere favorevole a che la parte attrice possa rettificare gli atti anagrafici e di stato civile oltre che accedere all'intervento chirurgico di rettificazione di attribuzione di sesso. All'udienza del 6.12.2022, presente il P.M., è stata personalmente sentita la parte attrice. All'esito dell'interrogatorio libero, la causa è stata trattenuta in decisione sulle conclusioni in epigrafe riportate, con rinuncia ai termini ex art. 190 c.p.c.. Ritiene il Tribunale che la domanda proposta da (...) sia meritevole di accoglimento. Si impone in proposito una breve premessa in diritto. Ai sensi dell'art. 1, co. 1, della L. n. 164 del 1982, la rettificazione di attribuzione di sesso si dispone in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato, che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell'atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali. Costituisce ormai un approdo consolidato della giurisprudenza sia di legittimità (v. Cass. n.15138/2015) sia della Corte Costituzionale quello per cui la rettificazione dell'attribuzione di sesso non postula la necessaria preventiva modificazione dei caratteri sessuali primari, ossia il preventivo intervento chirurgico demolitivo- ricostruttivo degli organi sessuali. In particolare, con la sentenza n.221/2015 la Consulta, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale del predetto articolo in riferimento agli artt. 2, 3, 32, 117, co.1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art.8 della CEDU, con una pronuncia interpretativa di rigetto, ha chiarito che "la disposizione in esame costituisce l'approdo di un'evoluzione culturale ed ordinamentale volta al riconoscimento del diritto all'identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all'identità personale, rientrante a pieno titolo nell'ambito dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU)". Collocandosi nel solco già tracciato dalla sentenza n.161/1985, la Corte ha spiegato che "la L. n. 164 del 1982 accoglie un concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato, nel senso che ai fini di una tale identificazione viene conferito rilievo non più esclusivamente agli organi genitali esterni, quali accertati al momento della nascita ovvero "naturalmente" evolutisi, sia pure con l'ausilio di appropriate terapie medico-chirurgiche, ma anche ad elementi di carattere psicologico e sociale. Presupposto della normativa impugnata è, dunque, la concezione del sesso come dato complesso della personalità determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato o ricercato l'equilibrio, privilegiando - poiché la differenza tra i due sessi non è qualitativa, ma quantitativa - il o i fattori dominanti .... La L. n. 164 del 1982 si colloca, dunque, nell'alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale" ? Interpretata alla luce dei diritti della persona - ai quali il legislatore italiano, con l'intervento legislativo in esame, ha voluto fornire riconoscimento e garanzia - la mancanza di un riferimento testuale alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti ad una situazione congenita), attraverso le quali si realizzi la modificazione, porta ad escludere la necessità, ai fini dell'accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l'adeguamento dei caratteri sessuali". La Corte ha ulteriormente chiarito che "l'esclusione del carattere necessario dell'intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica appare il corollario di un'impostazione che - in coerenza con supremi valori costituzionali - rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l'assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l'identità di genere. L'ampiezza del dato letterale dell'art. 1, comma 1, della L. n. 164 del 1982 e la mancanza di rigide griglie normative sulla tipologia dei trattamenti rispondono all'irriducibile varietà delle singole situazioni soggettive". Ha proseguito, rilevando che "in questa prospettiva va letto anche il riferimento, contenuto nell'art. 31 del D.Lgs. n. 150 del 2011, alla eventualità ("Quando risulta necessario") del trattamento medico-chirurgico per l'adeguamento dei caratteri sessuali. In tale disposizione, infatti, lo stesso legislatore ribadisce, a distanza di quasi trenta anni dall'introduzione della L. n. 164 del 1982, di volere lasciare all'apprezzamento del giudice, nell'ambito del procedimento di autorizzazione all'intervento chirurgico, l'effettiva necessità dello stesso, in relazione alle specificità del caso concreto. Il ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali risulta, quindi, autorizzabile in funzione di garanzia del diritto allasalute, ossia laddove lo stesso sia volto a consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico, in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità sia tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica. La prevalenza della tutela della salute dell'individuo sulla corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico, porta a ritenere il trattamento chirurgico non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione ?, ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico". Per la giurisprudenza citata rimane, tuttavia, ineludibile, ai fini dell'accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso "un rigoroso accertamento giudiziale delle modalità attraverso le quali il cambiamento è avvenuto e del suo carattere definitivo. Rispetto ad esso il trattamento chirurgico costituisce uno strumento eventuale, di ausilio al fine di garantire, attraverso una tendenziale corrispondenza dei tratti somatici con quelli del sesso di appartenenza, il conseguimento di un pieno benessere psichico e fisico della persona". Anche la Corte di Cassazione, nella sentenza n.15138/2015, ha affermato che la scelta di sottoporsi alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali non può che essere il risultato di un processo di autodeterminazione verso l'obiettivo del mutamento di sesso, costituendo il ricorso alla chirurgia solo uno dei possibili percorsi volti all'adeguamento dell'immagine esteriore alla propria identità personale, come percepita dal soggetto (testualmente "la complessità del percorso, in quanto sostenuto da una pluralità di presidi medici (terapie ormonali trattamenti estetici) e psicologici mette ulteriormente in luce l'appartenenza del diritto in questione al nucleo costitutivo dello sviluppo della personalità individuale e sociale, in modo da consentire un adeguato bilanciamento con l'interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche che costituisce il limite coerentemente indicato dal nostro ordinamento al suo riconoscimento". In altri termini, "l'interesse pubblico alla definizione certa dei generi, anche considerando le implicazioni che ne possono conseguire in ordine alle relazioni familiari e filiali, non richiede il sacrificio del diritto alla conservazione della propria integrità psicofisica sotto lo specifico profilo dell'obbligo dell'intervento chirurgico inteso come segmento non eludibile dell'avvicinamento del soma alla psiche. L'acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale sia accertata, ove necessario, mediante rigorosi accertamenti tecnici in sede giudiziale"). P. queste premesse di ordine generale, ritiene il Tribunale che nel caso di specie possa dirsi raggiunta la prova dell'acquisizione dell'identità di genere maschile da parte di (...) - (...) e l'irreversibilità del processo individuale di transizione, anche in assenza di preventivo trattamento chirurgico demolitivo-ricostruttivo. A tal proposito, infatti, il dott. (...), all'esito dell'esame della parte attrice e della somministrazione di test, nella propria relazione (cfr. doc. 5): - ha formulato una diagnosi di "Disforia di Genere"; - escluso, al momento della valutazione, concomitanti disturbi della sfera psichica e intellettiva che possano rappresentare una controindicazione agli interventi chirurgici richiesti, o inficiare la capacità del periziando di esprimere un consenso informato rispetto agli stessi, o costituire un possibile predittore di esito negativo a lungo termine degli interventi chirurgici affermativi di genere, sulla base di quanto stabilito dalla letteratura scientifica internazionale. Ha, inoltre, evidenziato come I. abbia compreso la natura, la finalità e le conseguenze dei trattamenti chirurgici cui vuole sottoporsi per completare la transizione di genere, incluso il loro carattere radicale e irreversibile; nutra aspettative del tutto realistiche relativamente ai possibili effetti di tali interventi sul suo benessere psicologico. Ha rappresentato come alcuni elementi clinici rilevati nel corso dei colloqui depongono ulteriormente a supporto dell'irreversibilità dell'identificazione del periziando con il genere maschile, cioè: - l'assenza di alcun tipo di pentimento o di interruzione volontaria della terapia ormonale mascolinizzante; - il significativo miglioramento della qualità di vita del periziando a seguito dell'inizio della transizione sociale e medica. Ha, dunque, concluso attestando l'assenza di elementi ostativi agli interventi di mastectomia e istero-annessiectomia, nonché alla richiesta di correzione anagrafica del genere. Nella propria relazione le dott.sse (...) e (...), medici presso l'Istituto Auxologico Italiano di Milano, che hanno seguito il sig. I. per la durata di 18 mesi, hanno evidenziato: - che l'attore "ha condotto in maniera attenta e responsabile l'intero percorso medico"; - la terapia ormonale ha prodotto effetti positivi sull'attore, sia sul piano somatico che psicologico. Sul piano somatico, infatti, le dott.sse (...) e (...) hanno attestato che "A. mostra virilizzazione soddisfacente, irsutismo, incremento della massa muscolare, ipertrofia clitoridea, abbassamento del tono della voce. Assenza di cicli mestruali" (doc. 06). Hanno, a propria volta, certificato conclusivamente in capo alla parte attrice la piena consapevolezza in merito al trattamento ormonale ed alla irreversibilità del percorso intrapreso. Infine, l'interrogatorio libero di parte attrice, condotto dal Giudice istruttore all'udienza del giorno 6.12.2022, ha dato piena evidenza del percorso psico-fisico di transizione, del passaggio, cioè, dal profondo malessere legato alla non corrispondenza del sé all'immagine esteriore al raggiungimento dell'equilibrio interiore grazie alla terapia ormonale. Alla domanda "Da quando ha avvertito l'esigenza di rendere le sue sembianze coerenti con il suo sentire?" ha risposto: "Io sono stato così da quando sono nato. Dai racconti di mia madre, già da bambino vivevo la vita come un bambino. Crescendo con l'età cercavo di accettarmi, ma non era possibile. Il mio essere (...) è sempre stato così. Con l'evoluzione della tecnologia mi informavo e cercavo di capire a quale professionista potermi rivolgere. Ho conosciuto tramite i social A.M., attivista transgender su Milano, con il suo aiuto mi sono interfacciato con il dott. (...), psicologo di Milano. Ho iniziato con lui il percorso prima del lockdown. Subito dopo il nullaosta ho iniziato la terapia ormonale con la dott.ssa (...)". Alla domanda "Che lavoro fa?" ha risposto: "Sono consulente immobiliare per Tecnocasa, tutti i miei clienti mi conoscono come (...), faccio questo lavoro da quattro anni. Mi sono candidato per le elezioni ad ottobre come (...)". Ancora alla richiesta di esporre quale sia il rapporto con i familiari, ha dichiarato: "Meraviglioso, tranne che con mio padre biologico, con cui non ho rapporti. La mia famiglia mi ha sempre accettato". Ha, inoltre affermato di avere una compagna e di intendere concludere il percorso di transizione a livello chirurgico, di assumere attualmente una terapia ormonale che si sostanzia in una iniezione ogni sette settimane e di avere tratto da tale terapia soltanto vantaggi ("Che tipo di reazioni ha avuto? Solo positive, ho aumentato la mia autostima. Il mio corpo è cambiato, anche a livello emozionale è meraviglioso"). Ha confermato di non avere mai avuto ripensamenti. A fronte del quadro istruttorio innanzi descritto, ritiene il Tribunale che la documentazione in atti sia sufficiente (e lo svolgimento di una CTU ultroneo) per formulare quel giudizio di completezza della transizione dal genere femminile a quello maschile e di definitività della stessa e, quindi, di certezza della sovrapposizione tra il genere psicologico maschile ed il genere fisico, anche in assenza di previo trattamento chirurgico, ma con il sostegno di trattamenti medici e psicologici. Non vi è quindi, nel caso di specie, alcuna compromissione dell'interesse pubblico alla certezza delle relazioni sociali e giuridiche, avendo parte attrice conseguito il cambiamento dei caratteri sessuali secondari per via dei trattamenti ormonali ed un aspetto naturalmente maschile, come ha avuto modo di constatare anche il Giudice istruttore all'udienza fissata per l'interrogatorio libero della stessa, ed essendo riconosciuto come uomo nel contesto sociale e lavorativo. Ritiene, pertanto, il Collegio che, alla luce delle univoche risultanze mediche, il sesso attribuito nell'atto di nascita non corrisponda più all'identità attuale di parte attrice e possa, pertanto, procedersi immediatamente alla rettificazione di attribuzione di sesso da femminile a maschile, con conseguente ordine all'Ufficiale di Stato Civile di provvedere alle necessarie rettifiche sul relativo registro. All'attribuzione a parte attrice del sesso maschile deve necessariamente conseguire anche l'attribuzione di un nuovo nome, corrispondente al sesso. L'attribuzione del nuovo nome - pur non essendo espressamente disciplinata dalla L. n. 164 del 1982 - consegue necessariamente all'attribuzione di sesso differente, al fine di evitare una discrepanza inammissibile tra sesso e nome, come, peraltro si evince sia dall'art. 5 L. n. 164 del 1982 ("Le attestazioni ... sono rilasciate con la sola indicazione del nuovo sesso e nome") sia dalla normativa in materia di stato civile (art. 35 D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396) che prevede che il nome di una persona deve corrispondere al sesso. Come da ultimo chiarito dalla Suprema Corte, non sussiste, cionondimeno, alcun obbligo di trasposizione meccanica del nome originario nell'altro genere, né emergono obiezioni al fatto che sia la stessa parte interessata, soggetto chiaramente adulto, se lo voglia, ad indicare il nuovo nome prescelto, quando non ostino disposizioni normative o diritti di terzi, attesa l'intima relazione esistente tra identità sessuale e segni distintivi della persona, quale il nome. La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 120/2001, ha del resto chiaramente affermato che il nome, inteso come il primo ed immediato segno distintivo, costituisce uno dei diritti inviolabili della persona protetti dalla Carta ex art. 2 Cost., cui si riconosce il carattere di clausola aperta, con conseguente possibilità di evincere, dalla lettura combinata dell'art. 6 c.c., comma 3, e degli artt. 2 e 22 Cost., la natura di diritto soggettivo insopprimibile della persona. Il prenome dell'attore deve, pertanto, essere rettificato, conformemente a quanto richiesto dall'interessato, da (...) ad (...), risultando quest'ultimo il nome con il quale l'attore è conosciuto nel mondo esterno. Deve inoltre essere accolta in questa sede anche la domanda di autorizzazione al trattamento medico-chirurgico per l'adeguamento dei propri caratteri sessuali al sesso maschile, in adesione all'ormai prevalente orientamento della giurisprudenza di merito (cfr., ex multis, Trib. Roma, 04.04.2017; Trib. Milano, 10.04.2017; Trib. Bologna, 07.06.2017; Trib. Padova, 16.11.2016). Se, del resto, il previo intervento chirurgico non è più necessario per la rettificazione dell'attribuzione di sesso, nondimeno e a fortiori esso potrà ugualmente essere autorizzato contestualmente all'immediata rettifica. Premessa, infatti, la sussistenza di interesse a domandare autorizzazione all'intervento anche in caso di domanda di immediata rettificazione dell'attribuzione di sesso, in quanto l'esecuzione dell'intervento resta subordinata alla previa autorizzazione dell'Autorità Giudiziaria ex art. 31 D.Lgs. n. 150 del 2011, tale intervento, ancorché non più necessario per la rettificazione dell'attribuzione di sesso, ben può giustificarsi come "eventuale ausilio per il benessere della persona ? ponendofine all'angoscia dettata dal contrasto tra condizione anatomica e condizione psichica" (Cass. 15138/2015 cit.) e"come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico" (Corte Cost. 221/2015 cit.) dovendo, pertanto, il Giudice di merito, richiesto dell'autorizzazione, accertare che non vi siano controindicazioni mediche o psicologiche all'esecuzione del radicale intervento e che tale trattamento sia funzionale al miglioramento delle condizioni psicofisiche dell'interessato. Nel caso di specie, le già menzionate relazioni mediche in atti escludono controindicazioni all'intervento e, anzi, ne valutano la positività in termini di completamento del percorso di transizione, di piena realizzazione dell'identità di parte attrice e di miglioramento della qualità della sua vita, sicché la domanda deve essere accolta. Le spese devono essere dichiarate irripetibili, in considerazione della natura in concreto non contenziosa della procedura, l'unico contraddittore essendo stato il Pubblico Ministero. P.Q.M. il Tribunale di Novara, in composizione collegiale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da (...) così provvede: 1. rettifica l'attribuzione di sesso relativa ad (...), nata a N. il (...) (C.F.: (...)) e residente a N. in Via R. n. 24, attribuendo il sesso maschile ed il prenome di "(...)"; 2. ordina all'Ufficiale dello Stato Civile del Comune di NOVARA di procedere alla rettificazione dell'atto di nascita relativo ad (...) (atto n. 91, parte II, serie Ba del registro degli atti di nascita dell'anno 1999 del Comune di Novara) facendo constare per mezzo di annotazioni marginali che il sesso ed il prenome della persona cui l'atto si riferisce devono leggersi ed intendersi rispettivamente come "maschile" e come "(...)" e non altrimenti; 3. autorizza (...) a sottoporsi a trattamento medico-chirurgico per l'adeguamento dei propri caratteri sessuali al sesso maschile; 4. spese irripetibili. Così deciso in Novara il 21 dicembre 2022. Depositata in Cancelleria il 9 gennaio 2023.

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