Sentenze recenti Tribunale Parma

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna sezione staccata di Parma Sezione Prima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 353 del 2023, proposto da El. Za., rappresentata e difesa dall'avvocato Al. Ar. Gi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Al. Me., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Regione Emilia-Romagna, Provincia di Reggio Emilia, non costituiti in giudizio; per l'annullamento - dell''atto, a firma della Responsabile del Servizio Uso e Assetto del Territorio del Comune di (omissis), 11.10.2023 prot. n. 13122 con oggetto "S.c.i.a. 2023/041/S - Prot. n. 8753 dell'8.7.2023 - Comunicazione di inefficacia ai sensi dell''art. 14 comma 6 LR 15/2013"; - della ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi 27.10.2023 n. 80. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 maggio 2024 la dott.ssa Paola Pozzani, nessuno presente per le parti come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con il ricorso introduttivo la ricorrente ha chiesto l'annullamento dell'atto, a firma della Responsabile del Servizio Uso e Assetto del Territorio del Comune di (omissis), 11.10.2023 prot. n. 13122 recante in oggetto "S.c.i.a. 2023/041/S - Prot. n. 8753 dell'8.7.2023 - Comunicazione di inefficacia ai sensi dell'art. 14 comma 6 LR 15/2013", e dell'ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi n. 80 del 27.10.2023. Il Comune di (omissis), costituitosi in giudizio il 28 dicembre 2023, ha speso le proprie difese con memoria del 18 gennaio 2024 ed ha depositato memoria ex art. 73 C.p.a. il 4 aprile 2024. La ricorrente ha precisato la propria posizione con memoria depositata in giudizio il 19 aprile 2024. Entrambe le parti hanno depositato copiosa documentazione. Alla pubblica udienza del 22 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO La ricorrente, proprietaria, in (omissis) (RE), via (omissis), di un edificio residenziale in zona agricola, rappresenta che presentava al Comune di (omissis), in data 8.7.2023, prot. n. 8753, una s.c.i.a. in sanatoria avente ad oggetto la realizzazione, in assenza di titolo edilizio, di una piscina, del relativo locale tecnico, della pavimentazione perimetrale, di un piccolo fabbricato in legno ad uso spogliatoio e di una tettoia; ricevuti i documenti ed i chiarimenti richiesti, il Comune di (omissis), con atto 11.10.2023 prot. n. 13122 della Responsabile del Servizio Uso e Assetto del Territorio, comunicava alla ricorrente l'inefficacia della s.c.i.a., "verificata l'assenza di titolo ad intervenire in zona agricola ai sensi dell'art. 4.1.1. e seguenti del R.U.E. in quanto trattasi di intervento in zona agricola effettuato da non IAP; verificata la non applicabilità dell'art. 4.1.3. comma 6 del R.U.E. vigente in quanto trattasi di edificio non di recente costruzione e di ampliamento superiore ai 30 mq. di SU". Faceva seguito l'ordinanza 27.10.2023 n. 80, con la quale l'Amministrazione comunale ha disposto la demolizione delle opere oggetto della s.c.i.a. in sanatoria ed anche di una recinzione, accertando, altresì, la sussistenza di una lottizzazione abusiva: "...Confermando quanto relazionato dalla comunicazione di inefficacia trasmessa dal Comune di (omissis) con Prot. n. 13122 del 11.10.2023 si precisa che dagli atti trasmessi risulta quanto segue: 1. Accertata difformità urbanistica ed edilizia sul mappale (omissis) (ex (omissis)) ad uso piscina e manufatti diversi (spogliatoio e wc, locale tecnico, tettoia); le dimensioni della difformità riguardano la piscina di mq. 132,92 di superficie, uno spogliatoio e wc di mq. 8,00, un locale tecnico di mq. 12,00 e una tettoia di mq. 35,02; 2. Accertata difformità urbanistica ed edilizia di muri perimetrali a recinzione del mappale (omissis) sui lati ovest, sud ed est a divisione del mappale (omissis); 3. Accertata difformità urbanistica ed edilizia della pavimentazione realizzata sul mappale (omissis); 4. I succitati lavori di esecuzione dei manufatti e della recinzione risultano terminati da tempo, a maggio 2019, come da dichiarazione allegata alla scia 2023/041/S; 5. Accertata difformità urbanistica per lottizzazione abusiva del mappale (omissis) e (omissis) in seguito al frazionamento del mappale ex (omissis) Pratica n. RE0065467 in atti dal 11.5.2023 Protocollo NSD n. ENTRATE.AGEV-STI.REGISTRO UFFICIALE.20433-58.11/05/2023 presentato il 11.5.2023 (n. 65467.1/2023)". Con il primo motivo di ricorso "Illegittimità dell'atto 11.10.2023 prot. n. 13122 per violazione dell'art. 37 del d.P.R. 6.6.2001 n. 380, dell'art. 19 della L. 7.8.1990 n. 241, dell'art. 14 della L. Reg. 30.7.2013 n. 15 e dell'art. 17 della L. Reg. 21.10.2004 n. 23. Illegittimità della ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi 27.10.2023 n. 80 per vizio derivato e per violazione e falsa applicazione dell'art. 31 del d.P.R. 6.6.2001 n. 380" la ricorrente evidenzia, con riguardo alle opere di cui alla s.c.i.a. in sanatoria presentata in data 8.7.2023, che l'art. 37, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001, nel prevedere l'accertamento di conformità, mediante s.c.i.a. in sanatoria, degli interventi edilizi di cui all'articolo 22, commi 1 e 2, in assenza della o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività, non detta alcuna disposizione volta a disciplinare il relativo procedimento e prospetta che in materia sussistano due orientamenti giurisprudenziali, l'uno rivolto a riconoscere l'applicabilità dell'istituto del silenzio assenso, l'altro a negarla. In particolare la difesa attorea si riferisce, quanto al primo, alle pronunce che affermano che "la s.c.i.a. in sanatoria, presentata ex art. 37 D.P.R. n. 380 del 2001, si presta a rendere operanti le correlate prescrizioni di cui all'art. 19 e ss., legge n. 241 del 1990, in materia di silenzio assenso, dovendo essere ragionevolmente riconosciuto a tale segnalazione carattere e natura confessoria, diretta a provare la verità dei fatti attestati e a produrre, con l'inutile decorso del tempo per l'emanazione di provvedimenti inibitori, effetti direttamente stabiliti dalla legge, indipendentemente da una diversa volontà delle parti, ossia l'avvenuta formazione del titolo abilitativo in sanatoria... Di talché, non essendo intervenuto alcun motivato provvedimento inibitorio allo spirare del trentesimo giorno dalla segnalazione, il titolo in sanatoria deve essere considerato esistente...". (facendo riferimento a T.A.R. Campania, Salerno, 24.3.2022 n. 809; T.A.R. Campania, Napoli, 9.12.2019 n. 5789; T.A.R. Lazio, Roma, 9.1.2018 n. 156; T.A.R. Calabria 29.5.2019 n. 1085; Cons. Stato, Sez. V, 31.3.2014 n. 1534). Nel caso di specie, tale silenzio significativo si sarebbe formato in quanto il Comune di (omissis), a seguito della presentazione della s.c.i.a. in sanatoria in data 8.7.2023, ha chiesto tempestivamente alla ricorrente, in data 7.8.2023, prima della scadenza del termine di 30 giorni, chiarimenti e determinata documentazione e, ottenute, in data 6.9.2023, le precisazioni richieste, l'Amministrazione comunale si è pronunciata con l'atto 11.10.2023 prot. n. 13122, successivamente alla scadenza del termine di 30 giorni dal ricevimento delle integrazioni e, pertanto, quando il titolo edilizio in sanatoria sarebbe ormai venuto ad esistenza. Parte attrice da atto che un diverso orientamento qualifica la fattispecie come silenzio rigetto (facendo riferimento a T.A.R. Lombardia, Milano, 21.3.2017 n. 676) o come silenzio inadempimento (in riferimento a Cons. Stato, Sez. II, 20.2.2023 n. 1708), ma ne contesta il fondamento poiché la prima declinazione ermeneutica replicherebbe la disciplina dell'art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, precisando che nelle relative sentenze si farebbe riferimento anche al termine di 60 giorni previsto dall'art. 36, comma 3, quando, invece, il legislatore avrebbe tenuto ben distinte le fattispecie, prevedendo: - la disciplina dell'art. 36 per i casi di "interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di segnalazione certificata di inizio di attività nelle sole ipotesi di cui all'art. 23, comma 01, o in difformità da essa"; - la disciplina di cui all'art. 37 per la diversa fattispecie riguardante "la realizzazione di interventi di cui all'art. 22, commi 1 e 2, in assenza della o in difformità dalla s.c.i.a.", senza operare alcun riferimento, neppure indirettamente, all'art. 36 né prevedere che il mancato, tempestivo, pronunciamento della Amministrazione sia da qualificarsi come silenzio rigetto. Quanto alla seconda declinazione interpretativa dell'orientamento in disamina, la difesa attorea sottolinea che sarebbe stato affermato (in riferimento a Cons. Stato, n. 1708/2023 cit.) che "il procedimento può ritenersi favorevolmente concluso per il privato solo allorquando vi sia un provvedimento espresso dell'amministrazione procedente, pena la sussistenza di un'ipotesi di silenzio inadempimento" in considerazione del fatto che "dalla lettura della norma emerge che la definizione della procedura di sanatoria non può prescindere dall'intervento del responsabile del procedimento competente a determinare, in caso di esito favorevole, il quantum della somma dovuta sulla base della valutazione dell'aumento di valore dell'immobile compiuta dall'Agenzia del Territorio": sul punto la ricorrente sottolinea che nella impossibilità, sulla base di detta impostazione, di far riferimento, per il pronunciamento dell'Amministrazione comunale, ad alcun termine determinato - non al termine dell'art. 19 della L. n. 241/1990, la cui inosservanza comporterebbe il silenzio assenso, non al termine di cui all'art. 36, la cui inosservanza è qualificata come silenzio rigetto, e neppure al termine previsto in via generale dall'art. 2, comma 2, della L. n. 241/1990, atteso che, sulla base della giurisprudenza citata, 30 giorni non sarebbero sufficienti per accertare la duplice conformità urbanistica di un'opera abusiva - verrebbe a determinarsi una situazione di assoluta incertezza, non essendo dato comprendere quando possa configurarsi l'inadempimento, così da consentire all'interessato di attivarsi giudizialmente per contrastare l'inerzia della Amministrazione. Né tale tesi sarebbe percorribile, ad avviso del patrocinio attoreo, sulla scorta del fatto che, in caso di esito favorevole, il quantum della somma da corrispondersi a titolo di oblazione debba essere determinato dal responsabile del procedimento medesimo, poiché non sussisterebbe alcuna preclusione a che la somma dovuta venga determinata in un momento successivo alla formazione, per decorso del termine di 30 giorni, del titolo edilizio in sanatoria: tale tesi sarebbe ancora meno spendibile con riferimento al caso di specie, avuto riguardo alla normativa regionale di riferimento. La ricorrente fa riferimento all'art. 17, comma 3, della L. Reg. 21.10.2004 n. 23 laddove prevede per le nuove costruzioni il pagamento di un importo a titolo di oblazione predeterminato dalla stessa norma, commisurato "al contributo di costruzione in misura doppia ovvero, in caso di esonero, in misura pari a quella prevista dalla normativa regionale e comunale, e comunque per un ammontare non inferiore a 2.000 euro": pertanto, assume la difesa attorea, l'intervento del responsabile del procedimento, nel caso considerato, non sarebbe a rigore necessario e il modulo relativo alla s.c.i.a. in sanatoria prevede che l'importo della oblazione sia indicato dal privato e preventivamente versato. L'esponente contesta l'impostazione della decisione del Consiglio di Stato n. 1708/2023 laddove si legge, altresì, che il silenzio inadempimento è soluzione che "appare più conforme alla ratio della sanatoria di opere abusive già realizzate, che necessita di una valutazione espressa dell'amministrazione sulla sussistenza della doppia conformità, rispetto al regime di opere ancora da realizzare alle quali si attaglia la disciplina ordinaria della S.C.I.A., come metodo di semplificazione del regime abilitativo edilizio", poiché la disciplina di cui all'art. 19 della L. n. 241/1990 non esclude una valutazione espressa della Amministrazione, prevedendo anzi, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti prescritti, l'adozione di "motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa". Inoltre, aggiunge parte attrice, la s.c.i.a. in sanatoria ha per oggetto opere di minore impatto e rilevanza, per le quali l'accertamento della doppia conformità rispetto alla disciplina urbanistico - edilizia può essere adeguatamente effettuato nel termine di 30 giorni previsto dalla legge, tenuto conto anche del fatto che il termine in questione è suscettibile di essere interrotto per chiarimenti e integrazioni, per poi, una volta ottenuto quanto richiesto, riprendere nuovamente il suo corso. In conclusione, la difesa attorea prospetta che la comunicazione di cui all'atto 11.10.2023 prot. n. 13122, in quanto pervenuta oltre il termine di 30 giorni dall'inoltro delle integrazioni richieste dall'Amministrazione comunale, sarebbe da ritenersi, sulla scorta dell'orientamento giurisprudenziale che ritiene preferibile, priva di efficacia, come previsto anche dall'art. 14 della L. Reg. 30.7.2013 n. 15 (in riferimento al comma 8-ter) che il Comune di (omissis), a dimostrazione della ritenuta applicabilità della norma in questione anche nel caso di specie, avrebbe richiamato espressamente in detta comunicazione: il titolo edilizio in sanatoria sarebbe, pertanto, venuto ad esistenza e l'inefficacia dell'atto 11.10.2023 prot. n. 13122 si riverberebbe sulla ordinanza 27.10.2023 n. 80, determinandone l'illegittimità per vizio derivato ed anche per violazione e falsa applicazione dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, difettando il presupposto per ordinare il ripristino dello stato dei luoghi, costituito dalla abusività delle opere considerate. Nella memoria finale la difesa attorea aggiunge che la tesi volta ad escludere la possibile formazione del silenzio assenso sulla s.c.i.a. in sanatoria confliggerebbe anche con quanto previsto dal D.Lgs. 25.11.2016 n. 222 ("Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell'articolo 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124") sottolineando che l'art. 2 del D.Lgs. citato sancisce, al comma 1, che "a ciascuna delle attività elencate nell'allegata tabella A, che forma parte integrante del presente decreto, si applica il regime amministrativo ivi indicato" e, al comma 3, che "per lo svolgimento delle attività per le quali la tabella A indica la Scia, si applica il regime di cui all'articolo 19 della legge n. 241 del 1990": la tabella A, "Sezione II - Edilizia", al n. 41 della "Ricognizione degli interventi edilizi e dei relativi regimi amministrativi" indica la "S.c.i.a. in sanatoria" prospettando, quindi, l'esponente che la s.c.i.a. in sanatoria è da considerarsi soggetta al regime del silenzio assenso, secondo il paradigma dell'art. 19 della L. n. 241/1990. Con il secondo motivo di ricorso "Illegittimità dell'atto 11.10.2023 prot. n. 13122 per violazione dell'art. 37 del d.P.R. 6.6.2001 n. 380. Violazione dell'art. 14 della L. Reg. 30.7.2013 n. 15 e dell'art. 17 della L. Reg. 21.10.2004 n. 23. Violazione degli artt. 4.1.1. e seguenti del R.U.E. del Comune di (omissis). Eccesso di potere per travisamento. Illegittimità della ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi 27.10.2023 n. 80 per vizio derivato e per violazione e falsa applicazione dell'art. 31 del d.P.R. 6.6.2001 n. 380" parte ricorrente ritiene che nel caso di specie sussista il presupposto della doppia conformità posto che, a differenza di quanto ritenuto dal Comune di (omissis), le opere oggetto della s.c.i.a. in sanatoria presentata in data 8.7.2023 sarebbero conformi alla disciplina urbanistico - edilizia vigente sia al momento della loro realizzazione, sia alla data di presentazione di detta segnalazione: precisa, infatti, che si tratterebbe della medesima disciplina, atteso che le opere di cui trattasi sono state realizzate nel maggio del 2019 e il vigente R.U.E. del Comune di (omissis) è stato approvato con delibera di C.C. 21.12.2011 n. 72. La determinazione del Comune sarebbe erronea nel ritenere non sanabili le opere ridette, adducendo "l'assenza di titolo ad intervenire in zona agricola ai sensi dell'art. 4.1.1. e seguenti del R.U.E. in quanto trattasi di intervento in zona agricola effettuato da non IAP" ed anche la "non applicabilità dell'art. 4.1.3., comma 6, del R.U.E. vigente in quanto trattasi di edificio non di recente costruzione e di ampliamento superiore ai 30 mq di SU" poiché la s.c.i.a. in sanatoria di cui si discute riguarda la realizzazione, in assenza di titolo edilizio, di una piscina e delle relative strutture accessorie costituite dal locale tecnico ove sono alloggiati gli impianti della piscina, da uno spogliatoio in legno, da una tettoia a bordo piscina per la sosta e il riparo delle persone e dalla pavimentazione perimetrale alla piscina: le opere descritte - prospetta l'esponente - sarebbero state realizzate in stretta contiguità spaziale rispetto all'attiguo edificio abitativo (la piscina è posta di fronte a detto edificio, alla distanza di una ventina di metri), per il quale, con autorizzazione edilizia 7.1.2000 n. 47/99/A, è stato assentito il mutamento di destinazione d'uso da fabbricato rurale a edificio residenziale. A sostegno della pertinenzialità la ricorrente adduce che la Regione Emilia-Romagna, con nota 24.6.2020 n. PG/2020/463171 del Servizio giuridico del territorio, disciplina dell'edilizia, sicurezza e legalità (in actis al documento n. 8), ha precisato che costituisce pertinenza dell'edificio residenziale la piscina posta a servizio dell'edificio medesimo, "con dimensioni non superiori al 20% del volume dell'edificio principale, che non ha una potenziale autonoma utilizzazione economica" e, come si evincerebbe dalla relazione tecnica del Geom. Al. Be. del 5.12.2003 (in actis al documento n. 9), la piscina di cui trattasi ha un volume di 152 mc. inferiore al 20% del volume del fabbricato principale, pari a 1462,27 mc. (1462,27mc x 20% = 292,45 mc.). Inoltre, aggiunge la ricorrente, la piscina non sarebbe suscettibile, neppure in via potenziale, di autonoma utilizzazione economica, considerato che la stessa, come risulterebbe dalla relazione succitata, ha le dimensioni di una piscina ad uso privato destinata a soddisfare le esigenze delle persone residenti nell'edificio abitativo, risultando, altresì, strettamente connessa all'edificio medesimo non solo per la sua ubicazione, ma anche per il fatto che la piscina è dotata di impianti derivanti dalla abitazione ridetta, sia per l'adduzione idrica, sia per l'energia elettrica: la pertinenzialità sarebbe implicitamente - ad avviso della difesa attorea - riconosciuta dallo stesso Comune di (omissis) che nulla avrebbe eccepito in ordine al fatto che, per la sua sanatoria, sia stata presentata una s.c.i.a. Inoltre, sottolinea la esponente, il riferimento operato dal Comune di (omissis), con l'atto impugnato, alla assenza di titolo per intervenire in zona agricola ai sensi dell'art. 4.1.1. e seguenti del R.U.E., non sarebbe corretto trattandosi di pertinenza di un edificio residenziale, e avrebbe, perciò, titolo per intervenire il proprietario dell'edificio medesimo, ancorché privo della qualifica di imprenditore agricolo. A sostegno della tesi, la ricorrente evidenzia che l'art. 4.1.3. del R.U.E. del Comune di (omissis) prevede la possibilità di ottenere il mutamento di destinazione d'uso degli edifici rurali in edifici residenziali, così che, una volta assentito detto mutamento, deve ritenersi consentita, per il proprietario, la realizzazione di opere pertinenziali dell'edificio principale: questa prospettazione sarebbe confermata dalla giurisprudenza, essendosi ritenuta legittima la realizzazione, in ragione del riconosciuto carattere pertinenziale, di una piscina di dimensioni contenute a corredo di un edificio a destinazione residenziale sito in zona agricola (facendo riferimento a Cons. Stato, Sez. V, 16.4.2014 n. 1951; idem, Sez. I, 21.7.2014 n. 1142; T.A.R. Puglia, Lecce, 1.6.2018 n. 931; idem, 14.1.2019 n. 40; T.A.R. Liguria 21.7.2014 n. 1142; T.A.R. Sicilia, Palermo, 13.2.2015 n. 441). Sarebbero, così, suscettibili di sanatoria anche il locale tecnico, lo spogliatoio in legno, la tettoia e la pavimentazione perimetrale, trattandosi di elementi accessori strettamente funzionali e strumentali rispetto alla piscina (citando con riferimento al locale tecnico, Cons. Stato, n. 1951/2014), insuscettibili, per le loro dimensioni contenute, di alterare in modo significativo l'assetto del territorio. Quanto al fatto che il Comune di (omissis), con l'atto 11.10.2023 prot. n. 13122, ha addotto altresì, che, nel caso di specie, non sarebbe applicabile l'art. 4.1.3., comma 6, del R.U.E. "in quanto trattasi di edificio non di recente costruzione e di ampliamento superiore ai 30 mq di SU" la difesa attorea ne contesta l'assunto in quanto la disposizione medesima disciplinerebbe l'ampliamento delle unità edilizie abitative e delle superfici accessorie esistenti, senza escludere la possibilità di realizzare nuove opere pertinenziali nel rispetto del limite del 20% del volume dell'edificio principale: nel caso in esame, detto limite, come sarebbe evidenziato nella relazione sopra del Geom. Be., sarebbe stato rispettato anche considerando i locali accessori (spogliatoio e locale tecnico), mentre la tettoia non sarebbe computabile a fini volumetrici, essendo aperta su tutti i lati. Aggiunge l'esponente che il locale spogliatoio e il locale tecnico hanno, rispettivamente, una volumetria di 17,78 mc. e di 27 mc. che sommata al volume della piscina (152 mc.) porta ad una volumetria complessiva di 196,78 mc., inferiore al 20% del volume del fabbricato principale (292,45 mc.) concludendo che le opere oggetto di sanatoria sarebbero da considerarsi conformi alla disciplina urbanistico-edilizia di riferimento e, così, suscettibili di sanatoria. Con il terzo motivo di ricorso "Illegittimità della ordinanza di rimessione in pristino dello stato dei luoghi 27.10.2023 n. 80 per violazione degli artt. 31 e 37 del d.P.R. 6.6.2001 n. 380, dell'art. 19 della L. 7.8.1990 n. 241, dell'art. 14 della L. Reg. 30.7.2013 n. 15 e dell'art. 17 della L. Reg. 21.10.2004 n. 23, nonchè per eccesso di potere per travisamento sotto altro profilo" la ricorrente lamenta che il Comune di (omissis), con la ordinanza 27.10.2023 n. 80, ha disposto la demolizione dei "muri perimetrali a recinzione del mappale (omissis) sui lati ovest, sud ed est a divisione del mappale (omissis)", ma la recinzione in questione figurerebbe fra le opere oggetto di altra s.c.i.a. in sanatoria presentata dalla ricorrente in data 11.5.2023, prot n. 5985, per alcune difformità riguardanti l'edificio principale e anche la recinzione anzidetta: su tale s.c.i.a. l'Amministrazione comunale non si sarebbe ancora pronunciata, avendo chiesto integrazioni, da ultimo, con nota 26.9.2023 prot. n. 12395, alla quale ha fatto seguito, in data 26.10.2023, la trasmissione delle integrazioni richieste; anche in tale caso si sarebbe formato il silenzio assenso, dovendosi, così, escludere la possibilità di ordinare la demolizione dell'opera medesima. Inoltre, l'ordinanza 27.10.2023 n. 80 oggetto di gravame sarebbe da considerarsi illegittima anche nell'ipotesi in cui il procedimento di sanatoria dovesse considerarsi ancora pendente poiché per giurisprudenza consolidata - prospetta la difesa attorea - è "illegittima l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive emessa in pendenza della già avvenuta presentazione di una domanda in sanatoria; questo in quanto nelle more della definizione di tali domande i procedimenti sanzionatori in materia edilizia sono sospesi" (citando Cons. Stato, Sez. VI, 9.11.2021 n. 7448). I Con il quarto motivo di ricorso "Illegittimità della ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi 27.10.2023 n. 80 per violazione e falsa applicazione dell'art. 30 del d.P.R. 6.6.2001 n. 380 e dell'art. 12 della L. Reg. 21.10.2004 n. 23. Violazione dell'art. 31 del d.P.R. 6.6.2001 n. 380. Eccesso di potere sotto i profili della illogicità e del travisamento sotto ulteriore profilo" evidenzia l'esponente che il Comune di (omissis), con la ordinanza 27.10.2023 n. 80, ha contestato anche una "difformità urbanistica per lottizzazione abusiva del mappale (omissis) e (omissis) in seguito al frazionamento del mappale ex (omissis)", la quale nel caso di specie non sussisterebbe. La difesa attorea sottolinea che la lottizzazione c.d. "cartolare", come espressamente sancito dall'art. 30 del d.P.R. n. 380/2001 e dall'art. 12 della L. Reg. n. 23/2004, è ravvisabile allorquando la trasformazione del suolo sia predisposta "mediante il frazionamento e la vendita, ovvero mediante atti negoziali equivalenti, del terreno frazionato in lotti", i quali, per le loro oggettive caratteristiche - con riguardo soprattutto alla dimensione correlata alla natura dei terreni ed alla destinazione degli appezzamenti considerata sulla base degli strumenti urbanistici, al numero, all'ubicazione o all'eventuale previsione di opere di urbanizzazione - rivelino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio degli atti adottati dalle parti (facendo riferimento a Cons. Stato, Sez. II, 20 maggio 2019, n. 3215, Sez. V, 3 agosto 2012, n. 4429, Sez. IV, 13 maggio 2011, n. 2937). Nel caso di specie, precisa il patrocinio della ricorrente, mancherebbe il presupposto fondamentale per la sussistenza di una lottizzazione "cartolare", atteso che al frazionamento dell'originario mappale n. (omissis) non ha fatto seguito alcuna vendita del terreno frazionato, vendita che non sarebbe configurabile, considerato che la piscina non sarebbe suscettibile, neppure in via potenziale, di autonomo sfruttamento economico: il frazionamento di cui trattasi è stato effettuato in data 16.5.2023, dandone comunicazione anche al Comune di (omissis) (con riferimento al documento n. 13 in actis), in funzione della presentazione della s.c.i.a. in sanatoria riguardante la piscina, al fine di distinguere catastalmente la piscina medesima dalla restante area di proprietà, in cui era presente un magazzino, anch'esso realizzato in assenza di titolo edilizio, per il quale è stata presentata dalla ricorrente, in data 7.7.2023, prot. n. 8752, una c.i.l.a. ai fini della sua demolizione. Pertanto, conclude sul punto l'esponente, ancorché l'Amministrazione comunale, con l'atto impugnato, pare essersi riferita esclusivamente alla lottizzazione c.d. "cartolare", sarebbe da escludersi che possano configurarsi anche la lottizzazione "materiale" e la lottizzazione c.d. mista, caratterizzata, quest'ultima, dalla compresenza delle attività negoziali e delle attività materiali volte alla edificazione del terreno dovendosi, in base alla giurisprudenza, considerare che la fattispecie lottizzatoria nella veste "materiale" implica la realizzazione di "opere finalizzate alla trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della disciplina a quest'ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti pianificatori; siffatti interventi devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all'amministrazione" (citando Cons. stato, Sez. VI, 4.11.2019 n. 7530): deve, pertanto, trattarsi di una radicale trasformazione del suolo a fini edificatori che non può riscontrarsi, a prescindere dalla dimostrata legittimità dell'intervento, nella realizzazione di una piscina a servizio di un edificio residenziale in zona agricola, non comportando tale opera, tra l'altro, alcun aggravio del carico urbanistico (rinviando a Cons. Stato, Sez. I, 21.7.2014 n. 1142). Il Comune resistente precisa in fatto che la ricorrente è proprietaria di un complesso immobiliare sito in via (omissis) a (omissis) (RE), che consta di un'abitazione principale (già fabbricato rurale, oggi edificio residenziale) e di un'ampia porzione di terreno agricolo, compendio su cui - nel corso degli anni - sono stati fatti diversi interventi di trasformazione edilizia in assenza di valido titolo. In particolare, in data 28.04.2023 la ricorrente depositava presso il Comune di (omissis) la comunicazione di avvenuto frazionamento dell'ex mappale (omissis) nei nuovi mappali (omissis) e (omissis), frazionamento che era stato presentato all'Agenzia delle Entrate - Ufficio Provinciale di Reggio Emilia - in data 18.04.2023; sul mappale (omissis), secondo la difesa dell'Ente, sono stati commessi svariati abusi edilizi, che - di fatto - lo caratterizzano in modo del tutto differente rispetto al mappale (omissis), sul quale pure sono stati commessi abusi edilizi che la ricorrente ha dichiarato di voler demolire con CILA presentata al Comune in data 08.07.2023, prot. n. 8752, ripristinando in tal modo l'originaria connotazione agricola del terreno (con riferimento ai documenti nn 3, 4, 5, 6, 7 e 8 in actis). Inoltre, prosegue l'Amministrazione, al fine di sanare le opere abusive non rimosse con la CILA di cui sopra, la ricorrente presentava al Comune due distinte pratiche di Segnalazione Certificata di Inizio Attività : la n. 2023/029/S, acquisita con prot. n. 5985 del 12.05.2023, relativa alla sanatoria di opere eseguite su edificio residenziale e sulla recinzione esterna dell'area cortiliva (immobile identificato catastalmente al foglio 20, mappale 205) e la n. 2023/041/S, acquisita con prot. n. 8753 del 08.07.2023, relativa alla sanatoria di una piscina - di oltre 112 mq. di superficie - e di manufatti annessi (su terreno agricolo, identificato catastalmente al foglio 20, mappale (omissis)). Quindi, sottolinea l'Amministrazione, emerge che le opere realizzate sul mappale (omissis) (piscina, tettoia, pavimentazione, locali tecnici, spogliatoio, recinzioni perimetrali alla piscina) sono dalla ricorrente medesima qualificate come "pertinenze" dell'edificio residenziale di cui al mappale 205, ma non sono state inserite nella stessa comunicazione di SCIA in sanatoria. Il Comune resistente aggiunge che dalla relazione fotografica e dagli elaborati grafici allegati alla SCIA prot. 8753, peraltro, si evince che gli interventi abusivamente realizzati sul mappale (omissis) hanno determinato la creazione di un autonomo lotto, con piscina e locali accessori, oltre ad una tettoia con funzioni di zona cucina-pranzo (di oltre 35 mq. di superficie coperta), lotto del tutto indipendente rispetto all'abitazione principale, al punto che da questa è separata da due cancelli e da uno stradello carrabile (rinviando ai documenti nn. 20 e 21 in actis): ciò comporterebbe che gli abusi edilizi e i frazionamenti dei mappali catastali hanno determinato la creazione di tre distinti lotti all'interno della proprietà della ricorrente, tutti serviti da uno stradello privato interno: uno con abitazione a area cortiliva di pertinenza, interamente recintato e chiuso da cancelli (mappale 205), uno con piscina, zona relax, tettoia con zona pranzo-cucina e locali accessori, interamente recintato e chiuso da cancelli (mappale (omissis)) ed uno che - a seguito della demolizione dei fabbricati abusivi che vi insistono - riacquisterà la sua originaria natura di terreno agricolo (mappale (omissis)). Inoltre, le due SCIA menzionate hanno avuto una sorte tra loro differente: - la n. 2023/029/S, prot. n. 5985, relativa alla sanatoria degli abusi eseguiti sul mappale 205, dopo alcune proroghe di termini e richiesta di documentazione integrativa, è stata accettata dal Comune con atto prot. n. 602/2024; - la n. 2023/041/S, prot. n. 8753, relativa alla sanatoria degli abusi eseguiti sul mappale (omissis), dopo alcune proroghe di termini e richiesta di documentazione integrativa, è stata dichiarata inefficace dal Comune con atto prot. n. 13122 del 11.10.2023. Quest'ultima, oggetto di impugnazione, è stata dal Comune motivata con l'accertata difformità dell'intervento rispetto agli strumenti urbanistici vigenti (rinviando all'estratto del PSC di cui al documento n. 25 ed all'estratto del RUE di cui al documento n. 26 in actis) per i seguenti motivi: - assenza di titolo ad intervenire in zona agricola, ai sensi dell'art. 4.1.1 e seguenti del RUE (in quanto intervento in zona agricola effettuato da non imprenditore agricolo - IAP); - per l'inapplicabilità dell'art. 4.1.3 comma 6 del RUE, in quanto l'intervento è stato eseguito su edificio non di recente costruzione e con ampliamento superiore ai 30 mq. di superficie (la sola tettoia sarebbe di 35,02 mq. con riferimento al documento n. 20 in actis). Con l'ordinanza impugnata il Comune ingiungeva di demolire le opere abusive, non sanabili perché in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti (PSC e RUE) realizzate in assenza di valido titolo edilizio sul mappale (omissis), e di ripristinare lo stato dei luoghi, con precisa identificazione delle opere da demolire: piscina, spogliatoio-wc, locale tecnico, tettoia, muri perimetrali, pavimentazione esterna e recinzioni sul lato ovest, sud ed est. Sul primo motivo l'Amministrazione precisa che le tesi della ricorrente non sono condivise dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha invece affermato essere necessario un espresso pronunciamento del Comune sulla SCIA in sanatoria: "... il procedimento (relativo alla sanatoria di abusi edilizi tramite SCIA, n. d.r.) può ritenersi favorevolmente concluso per il privato solo allorquando vi sia un provvedimento espresso dell'amministrazione procedente, pena la sussistenza di un'ipotesi di silenzio inadempimento. Innanzitutto, infatti, l'art. 37 non prevede esplicitamente un'ipotesi di silenzio significativo, a differenza dell'art. 36 del medesimo D.P.R. n. 380 del 2001, ma al contrario stabilisce che il procedimento si chiuda con un provvedimento espresso, con applicazione e relativa quantificazione della sanzione pecuniaria a cura del responsabile del procedimento... Al tempo stesso la soluzione appare più conforme alla ratio della sanatoria di opere abusive già realizzate, che necessita di una valutazione espressa dell'amministrazione sulla sussistenza della doppia conformità, rispetto al regime di opere ancora da realizzare alle quali si attaglia la disciplina ordinaria della S.C.I.A., come metodo di semplificazione del regime abilitativo edilizio" (citando Cons. Stato, sez. II, 20.02.2023, n. 1708 e per una puntuale ricostruzione dell'istituto della SCIA in sanatoria riferendosi a T.A.R. Lazio Roma, sez. II-quater, 07.12.2023, n. 18386): di conseguenza, sottolinea la resistente, il procedimento avviato dalla ricorrente con la SCIA prot. n. 8753/2023 è stato correttamente concluso dal Comune con la comunicazione di inefficacia della SCIA stessa (prot. n. 13122, del 11.10.2023), atto motivato con l'accertata difformità dell'intervento rispetto agli strumenti urbanistici vigenti. Sul secondo motivo, il Comune precisa che la nota della Regione citata dalla ricorrente si riferisce al quantum del contributo e non al concetto di pertinenzialità e che la declaratoria di inefficacia della SCIA impugnata è corretta in quanto non sussiste nel caso di specie la consistenza della misura inferiore ai 30 mq sostanziandosi l'intervento in un'opera che non sarebbe sanabile nemmeno da un imprenditore agricolo; la pertinenzialità sarebbe esclusa in quanto si tratta di un opera non contenuta ma di una piscina di 112 mq, e ai fini IMU (l'art. 1, comma 741, lett. b) della L. n. 160/2019 individua le pertinenze dell'abitazione principale nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7), e le piscine, che sono da ricomprendere ai sensi delle descrizioni contenute nella Circolare del Ministero delle Finanze n. 5 del 14.03.1992 "Revisione generale della qualificazione della classificazione e del classamento del N.C.E.U." nella categoria C/4 (Fabbricati e locali per esercizi sportivi), sono escluse dal concetto di pertinenza. Inoltre, sottolinea l'Amministrazione, la giurisprudenza citata dalla ricorrente, al fine di affermare la pertinenzialità della piscina rispetto all'edificio principale, ha comunque quale presupposto per l'applicazione del regime di SCIA la circostanza che la piscina stessa sia costituita da un elemento prefabbricato e non determini modifiche al territorio, circostanze che non ricorrono nel caso de quo. Di conseguenza, controdeduce sul punto l'Amministrazione, risulterebbe irrilevante la tesi sull'applicazione dell'art. 4.1.3., comma 6, del RUE, che a parere della ricorrente consentirebbe di realizzare nuove opere pertinenziali nel rispetto del limite del 20% del volume dell'edificio principale: non si tratterebbe di una questione di limite percentuale, ma è la natura stessa delle opere abusive che non ne consentirebbe la sanatoria tramite SCIA. Infine, conclude il Comune, l'argomento relativo all'implicito riconoscimento della piscina quale pertinenza dell'abitazione da parte del Comune stesso, che nulla avrebbe eccepito in ordine alla sanatoria dell'abuso tramite SCIA, non terrebbe conto del tenore della "comunicazione di inefficacia" della SCIA stessa, che - attraverso il richiamo all'impossibilità per la ricorrente di intervenire in zona agricola ai sensi dell'art. 4.1.1. e ss. del RUE - implicitamente affermerebbe che le opere eseguite in assenza di titolo, non essendo pertinenze dell'abitazione principale, avrebbero potuto essere realizzate solamente da un imprenditore agricolo e comunque senza possibilità di ricorrere a procedimenti semplificati (come la SCIA). Sul terzo motivo di ricorso il Comune di (omissis) precisa che i muri perimetrali di recinzione del mappale (omissis), oggetto dell'impugnata ordinanza di demolizione n. 80/2023 non sono i medesimi muri di recinzione oggetto della SCIA n. 2023/029/S, Prot. n. 5985 e ciò sarebbe agevolmente rilevabile dalla tavola di raffronto tra la porzione di recinzione sanata con la SCIA n. 2023/029/S, prot. n. 5985, segnata in viola, e la porzione di recinzione - non sanata - oggetto dell'ordinanza di demolizione n. 80/2023, segnata in giallo (con riferimento al documento n. 28 in actis): sarebbero secondo la resistente, pertanto, irrilevanti le argomentazioni del ricorso relative alla "pendenza" del procedimento SCIA n. 2023/029/S poiché la eventuale pendenza del medesimo non rileverebbe, avendo per oggetto manufatti non colpiti dall'ordinanza di demolizione. Sul quarto motivo di ricorso l'Amministrazione sottolinea che il frazionamento di più opere abusive censurate in via sostanziale integrerebbe una fattispecie di lottizzazione abusiva mista rinviando alla pronuncia del T.A.R. Sardegna, Sez. II, 20.03.2023, n. 194, che la descrive come categoria dogmatica "... caratterizzata dalla compresenza delle attività materiali e negoziali individuate dall'art. art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001, consistente nell'attività negoziale di frazionamento di un terreno in lotti e nella successiva edificazione dello stesso...": nel caso in esame, conclude sul punto l'Amministrazione, è stato accertato un disegno unitario, con un rilevante impatto negativo sul territorio rurale, con aggravio del relativo carico urbanistico e con pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita al Comune a garanzia del corretto uso del territorio deponendo per la correttezza della qualificazione della fattispecie come "lottizzazione abusiva". Illustrate brevemente le posizioni delle parti, il Collegio ritiene che le questioni poste dalla ricorrente sugli effetti del decorso del termine di 30 giorni dalla presentazione della s.c.i.a. in sanatoria non siano rilevanti nel caso de quo in quanto la fattispecie concreta non rientra in tale istituto di semplificazione in base ad un consolidato principio espresso dalla giurisprudenza in materia. Va premesso che l'art. 2 del D.Lgs. n. 222 del 2016, richiamato dal ricorrente, sancisce, al comma 1, che "a ciascuna delle attività elencate nell'allegata tabella A, che forma parte integrante del presente decreto, si applica il regime amministrativo ivi indicato" e, al comma 3, che "per lo svolgimento delle attività per le quali la tabella A indica la Scia, si applica il regime di cui all'articolo 19 della legge n. 241 del 1990", prevedendo la tabella A, "Sezione II - Edilizia", al n. 41 della "Ricognizione degli interventi edilizi e dei relativi regimi amministrativi" il richiamo alla "S.c.i.a. in sanatoria"; in ragione di ciò prospetta, quindi, l'esponente che la s.c.i.a. in sanatoria sarebbe da considerarsi soggetta al regime del "silenzio assenso", secondo il paradigma dell'art. 19 della L. n. 241/1990. Sul punto il Collegio rileva che il citato n. 41 della tabella A, Sez. II, si riferisce alla s.c.i.a. in sanatoria per interventi realizzati in assenza di s.c.i.a. o in difformità da essa, mentre nel caso concreto, si tratta, come sarà approfondito nel prosieguo della presente decisione, di attività esclusa dai procedimenti semplificati: la costruzione delle opere di cui è causa avrebbe necessitato il permesso di costruire e non la s.c.i.a e, perciò, nel caso di specie, è assente il presupposto stesso - previsto dalla norma - per l'applicazione della disposizione invocata con la conseguenza che alla declaratoria di inefficacia della s.c.i.a. impugnata non è applicabile il regime amministrativo previsto dall'art. 19 della Legge n. 241 del 1990. Il Collegio, sul punto richiama la sentenza del T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, n. 1055 del 10 aprile 2024 laddove precisa in via generale che dalla necessaria applicazione dell'istituto del permesso di costruire alla fattispecie concreta "deriva l'inapplicabilità dell'art. 19 della legge 241/1990: "L'errore sui requisiti soggettivi o oggettivi della d.i.a. (oggi SCIA) poiché frutto di una dichiarazione unilaterale, non può comportare in favore di chi la rende un affidamento vincolante per la parte pubblica che si limita a riceverla, per il solo fatto che quest'ultima non avrebbe esercitato i conseguenti poteri correttivi o inibitori, potendo tale omissione comportare un'eventuale responsabilità amministrativa, non già la sanatoria della d.i.a. mancante di un requisito essenziale; di conseguenza, il provvedimento con cui l'Amministrazione accerta che le opere edili non potevano essere realizzate mediante d.i.a., occorrendo il permesso di costruire, non è espressione di autotutela, ma ha valore meramente accertativo di un abuso doverosamente rilevabile e reprimibile senza, peraltro, il limite di dover agire entro un termine ragionevole, chiaramente inapplicabile all'attività di vigilanza edilizia, tanto più che il dichiarante non può, per le ragioni anzidette, vantare nessun affidamento" (cfr.: T.a.r. Puglia Bari, sez. II, 20.02.2017 n. 147)". In particolare, sulla s.c.i.a. in sanatoria, la sentenza del T.A.R. Campania, Salerno, Sez. II, n. 809 del 24 marzo 2022, ritiene che non è ricollegabile portata infirmante all'inosservanza del termine di 30 giorni ex art. 19, comma 3, della l. n. 241/1990 quando le opere abusive esulano dal perimetro del regime abilitativo della SCIA, essendo subordinate al previo rilascio del permesso di costruire: la pronuncia precisa che a tale premessa consegue "l'assenza di effetti legittimanti ricollegabili alla SCIA in sanatoria prot. n. 67995 del 21 novembre 2019, la quale, dacché formata al di fuori del corrispondente modello legale tipico (stante l'assoggettamento dell'opera eseguita ad un più rigoroso regime abilitativo), era da considerarsi 'tamquam non esset', così da giustificare l'impugnata determinazione reiettiva senza l'operatività della preclusione temporale ex art. 19, comma 3, della l. n. 241/1990". Quanto alla sussistenza nel caso concreto della necessità del permesso di costruire anziché dell'applicabilità degli istituti di semplificazione, vanno considerati sia gli aspetti definitori del concetto di pertinenzialità rilevante in materia sia l'orientamento ermeneutico sulla qualificazione della specifica opera abusiva, nonché la concreta consistenza dell'intervento edilizio di cui è causa. Sul concetto generale di pertinenzialità il Collegio rinvia a quanto precisato dal T.A.R. Lazio, Sez II Stralcio, n. 7463 del 16 aprile 2024, in adesione al pacifico orientamento giurisprudenziale che "assegna al concetto di "pertinenza", in campo urbanistico-edilizio, un significato più ristretto e meno ampio rispetto alla definizione civilistica di cui all'art. 817 c.c., essendo configurabili come tali "solo le opere prive di autonoma destinazione e che esauriscono la loro destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico, e dovendosi altresì tener conto, oltre che della necessità e oggettività del rapporto pertinenziale, anche della consistenza dell'opera, che non deve essere tale da alterare in modo significativo l'assetto del territorio, essendo il vincolo pertinenziale caratterizzato oltre che dal nesso funzionale, anche dalle dimensioni ridotte e modeste del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce, per cui soggiace a permesso di costruire la realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni, che modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis, indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa" (cfr. ex multis T.A.R. Lazio, Sez. II S, 17 novembre 2023, n. 17168; T.A.R Lazio, II quater, 21 novembre 2022, n. 15371; id., 12 luglio 2022, n. 9594; 26 aprile 2021, n. 4824)". In particolare, sulle piscine l'esegesi cui intende aderire il Collegio ritiene che l'opera interrata costituisca una nuova costruzione assoggettata al permesso di costruire e non sia qualificabile in termini di pertinenza dell'edificio principale in ragione della significativa trasformazione del territorio che comporta e della non necessaria complementarità all'uso delle abitazioni poiché non riveste un'obiettiva funzione di migliore utilizzazione della res principalis, tale che in sua assenza risulterebbero impedite o sacrificate talune delle materiali possibilità di sfruttamento o godimento di quest'ultima (cfr. T.A.R. Lombardia Brescia, sez. II, n. 993 del 24.10.2022; T.A.R. Campania Napoli, sez. III, 9.9.2020, n. 3730; T.A.R. Emilia-Romagna Bologna, sez. II, n. 800 del 30.09.2021). In coerenza con tale indirizzo interpretativo, si è di recente rilevato (cfr. Consiglio di Stato, sez. VII, 02/01/2024, n. 44) che la piscina è una struttura di tipo edilizio che incide con opere invasive sul sito in cui viene realizzata e perciò configura una nuova costruzione, non potendo essere attratta alla categoria urbanistica delle mere pertinenze, atteso che, sul piano funzionale, non è esclusivamente complementare all'uso delle abitazioni e non costituisce una mera attrezzatura per lo svago alla stessa stregua di un dondolo o di uno scivolo installati nei giardini o nei luoghi di divertimento; in effetti, la realizzazione della piscina comporta una "durevole trasformazione del territorio" e, sotto il profilo urbanistico, presenta una funzione autonoma rispetto a quella propria dell'edificio cui accede, sì che non può coincidere con la relativa nozione civilistica di pertinenza, nel presupposto che la nozione di pertinenza urbanistica è invocabile per opere di modesta entità ed accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, viceversa tali non sono i manufatti che per dimensioni e funzione possiedono una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale sì da avere una potenziale attitudine ad una diversa e specifica utilizzazione. Nel caso di specie, una piscina di oltre 112 mq. di superficie, assistita da opere ulteriori (locali accessori e tettoia con funzioni di zona cucina-pranzo di oltre 35 mq. di superficie coperta), non può essere definita come "di dimensioni contenute" incidendo, pertanto, significativamente sulla trasformazione del territorio e non riveste il carattere di intrinseca funzionalità rispetto alla res principalis sopra delineato; nel provvedimento impugnato di declaratoria di inefficacia della s.c.i.a., infatti, emerge, attraverso il riferimento all'istruttoria svolta in contraddittorio endoprocedimentale ed al richiamo all'impossibilità per la ricorrente di intervenire in zona agricola ai sensi dell'art. 4.1.1. e ss. del RUE, sia che le opere costituiscono un ampliamento superiore ai 30 mq di SU in edificio di non recente costruzione sia che le opere eseguite in assenza di titolo, non essendo pertinenze dell'abitazione principale, si sarebbero potute realizzare solamente da un imprenditore agricolo e comunque senza possibilità di ricorrere a procedimenti semplificati (come la SCIA). Di conseguenza, risulta inconferente la tesi attorea sull'applicazione dell'art. 4.1.3., comma 6, del RUE, che a parere della ricorrente consentirebbe di realizzare nuove opere pertinenziali nel rispetto del limite del 20% del volume dell'edificio principale, in quanto difetta nel caso concreto la natura stessa di opera pertinenziale. Infine, la nota della Regione Emilia-Romagna invocata a sostegno della pertinenzialità della piscina è chiaramente rivolta alla definizione della medesima esclusivamente ai fini del pagamento e alla qualificazione del contributo di costruzione e, pertanto, la relativa portata interpretativa è confinata in tale ambito: nella nota medesima, infatti, si chiarisce che la natura pertinenziale di una piscina di volume inferiore al 20% dell'abitazione principale rileva al fine di considerarla quale Superficie accessoria che non richiede il versamento della quota degli oneri di urbanizzazione (U1 e U2) ma è soggetta al solo versamento della quota relativa al costo di costruzione (QCC) da calcolarsi non sulla classificazione catastale, bensì, in relazione alla tipologia OMI, formulando un chiarimento di connotazione sostanzialmente tecnico-economica ai fini dell'imposizione della prestazione patrimoniale imposta, che risponde a presupposti diversi da quelli rilevanti nella presente sede. Quanto, poi, al locale tecnico, allo spogliatoio in legno, alla tettoia e alla pavimentazione perimetrale, che la stessa ricorrente qualifica come elementi accessori strettamente funzionali e strumentali rispetto alla piscina, vale il consolidato orientamento per cui la valutazione dell'abuso edilizio presuppone una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate, giacché il pregiudizio recato al regolare assetto del territorio deriva non dal singolo intervento, ma dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 11/03/2024, n. 2321). Pertanto, al regime edilizio della piscina, necessitante di un permesso di costruire, si associano evidentemente le altre opere alla stessa collegate. Sul terzo motivo di ricorso, relativo all'ordine di demolizione dei "muri perimetrali a recinzione del mappale (omissis) sui lati ovest, sud ed est a divisione del mappale (omissis)", proposto in base all'assunto attoreo secondo il quale la recinzione in questione figurerebbe fra le opere oggetto di altra s.c.i.a. in sanatoria presentata dalla ricorrente in data 11.5.2023, prot n. 5985, il Collegio ritiene che l'Amministrazione abbia ampiamente chiarito, con precisazioni sulle quali la difesa attorea non ha ulteriormente coltivato il motivo in disamina, che i muri perimetrali di recinzione del mappale (omissis), oggetto dell'impugnata ordinanza di demolizione n. 80/2023 non sono i medesimi muri di recinzione oggetto della SCIA n. 2023/029/S, prot. n. 5985: pertanto, la eventuale "pendenza" di quest'ultima è irrilevante nel presente giudizio avendo per oggetto manufatti non colpiti dall'ordinanza di demolizione. Il Collegio, infine, ritiene che l'esame dell'ultima doglianza possa dichiararsi assorbito in considerazione della dirimente questione esaminata, relativa all'inconfigurabilità della consistenza pertinenziale delle opere de quibus quale elemento fondante della declaratoria di inefficacia della s.c.i.a. presentata dalla ricorrente e di per sé idoneo a sorreggere il conseguente ordine di ripristino dello stato dei luoghi. Il Collegio ritiene che, in considerazione della peculiarità della materia, le spese di lite possano essere compensate. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna sezione staccata di Parma Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese di lite compensate. Così deciso in Parma nella camera di consiglio del giorno 22 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Italo Caso - Presidente Caterina Luperto - Referendario Paola Pozzani - Referendario, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna sezione staccata di Parma Sezione Prima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9 del 2023, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avv. An. Ru., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Interno e U.T.G. - Prefettura di Reggio Emilia, in persona dei legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Bologna, domiciliataria ex lege; per l'annullamento dei provvedimenti prot. n. -OMISSIS- del 7 settembre 2022 e prot. n. -OMISSIS- del 7 settembre 2022, con i quali la Prefettura di Reggio Emilia ha revocato le "misure di accoglienza" e ha ingiunto al ricorrente il versamento della somma di Euro 17.901,04. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno e dell'U.T.G. - Prefettura di Reggio Emilia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore il dott. Italo Caso nell'udienza pubblica del 11 ottobre 2023 e udito, per il ricorrente, il difensore come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: FATTO e DIRITTO Con atto del 19 agosto 2022 la Prefettura di Reggio Emilia dava comunicazione al ricorrente, cittadino -OMISSIS-, dell'avvio del procedimento preordinato alla revoca delle "misure di accoglienza" a suo tempo concessegli presso una struttura sita in Reggio Emilia (-OMISSIS-), nonché alla ingiunzione di pagamento di una somma di denaro corrispondente al rimborso dei costi derivanti dall'ammissione ad un beneficio non spettante. In particolare, l'Amministrazione richiamava il combinato disposto dell'art. 14 e dell'art. 23, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 142 del 2015, evidenziando che l'interessato risultava titolare di un contratto di lavoro con trattamento retributivo tale da superare l'importo dell'assegno sociale annuo, il che implicava la disponibilità di mezzi economici sufficienti al proprio sostentamento; al contempo, poi, veniva richiamato il disposto dell'art. 23, comma 6, del d.lgs. n. 142 del 2015, a proposito della necessità di rimborso dei costi sostenuti dall'Amministrazione per le 'misurè di cui l'interessato aveva illegittimamente goduto, con conseguente ingiunzione di pagamento di una somma di denaro a tale titolo dovuta. Indi, acquisite le osservazioni del ricorrente, la Prefettura di Reggio Emilia disponeva a suo carico la revoca delle "misure di accoglienza" con provvedimento prot. n. -OMISSIS- del 7 settembre 2022 e, richiamando la necessità del "... rimborso dei costi sostenuti per le misure di cui ha indebitamente usufruito (sulla base del costo lordo pro-capite della convenzione in essere tra l'ente gestore e questa Prefettura pari ad euro 34,80 e successive rinegoziazioni) a partire dal momento di superamento della soglia dell'assegno sociale (redditi 2021 pari ad euro -OMISSIS- a cui sommare l'ulteriore importo pari ad euro -OMISSIS-, sempre relativo all'anno 2021, per un totale di euro -OMISSIS-, quali redditi 2021) e fino alla data in cui è stato adottato il provvedimento di revoca...", gli ingiungeva il versamento della somma di Euro 17.901,04 con provvedimento prot. n. -OMISSIS- del 7 settembre 2022. Avverso tali atti ha proposto impugnativa il ricorrente. Adducendo contrastante con la disciplina speciale di fonte euro-unitaria la normativa italiana di attuazione della direttiva 2013/33/UE in tema di accoglienza dei "richiedenti protezione internazionale", l'interessato rileva come il d.lgs. n. 142 del 2015, a proposito dei casi di occultamento di risorse finanziarie e di conseguente indebito beneficio delle condizioni materiali di accoglienza, non preveda alcuna ipotesi di graduazione della sanzione né di adeguamento alla gravità del fatto contestato, posto che viene contemplata la sola revoca delle misure di accoglienza e non anche la possibilità di riduzione delle stesse o di adozione di alternative forme di punizione . In ogni caso, a suo dire, se ne deve dare - ove possibile - una interpretazione coerente con la disciplina europea, e quindi fare luogo alla revoca delle misure di accoglienza allorché l'interessato abbia deliberatamente tenuto nascoste le risorse finanziarie a sua disposizione, situazione però non verificatasi nel caso di specie per avere il ricorrente sempre tempestivamente comunicato la propria situazione reddituale e lavorativa alla Cooperativa presso la quale era accolto, sì da non essere rinvenibile a suo carico alcun comportamento scorretto o fraudolento e da non potersi perciò esigere alcuna somma a titolo di rimborso dei costi sostenuti dall'Amministrazione. Il ricorrente contesta altresì la liquidità della somma di denaro oggetto di ingiunzione di pagamento, per trattarsi - a suo dire - di importo calcolato in maniera del tutto ipotetica e assolutamente sommaria, e ciò in quanto la Prefettura si sarebbe limitata a raccogliere informazioni relative al reddito nelle annualità contestate senza specificare da quale momento il beneficiario avesse perduto il diritto all'accoglienza. Inoltre, emergerebbe ancora una volta la violazione della normativa dell'Unione Europea, posto che, laddove la misura debba essere adottata non per fatti illeciti compiuti dal beneficiario bensì per il semplice venir meno delle condizioni, la direttiva 2013/33/UE valorizzerebbe la possibilità di una "riduzione" delle condizioni materiali di accoglienza senza necessariamente giungere alla revoca definitiva del beneficio, con la conseguenza che, in presenza di richiedente in possesso di un reddito appena superiore all'importo dell'assegno sociale annuo, l'Amministrazione potrebbe ridurre l'entità e l'erogazione delle misure di accoglienza graduandole in relazione alle disponibilità economiche del beneficiario, senza revocare in toto il beneficio; il che, viene rilevato, è ancor più vero se si considera che l'interessato si trova a dover corrispondere una somma tale da rendergli poi davvero difficile il sostentamento. Di qui l'addotta adozione di determinazioni in contrasto con l'art. 20 della direttiva 2013/33/UE, secondo cui la riduzione o la revoca delle misure materiali di accoglienza devono essere motivate, proporzionate e adottate al termine di un apprezzamento individuale, condotto caso per caso "in modo obiettivo e imparziale", in considerazione della "particolare situazione della persona interessata" e garantendo in ogni circostanza "un tenore di vita dignitoso per tutti i richiedenti". Circa, infine, la meccanica commisurazione del rimborso a quanto corrisposto dall'Amministrazione al soggetto gestore della struttura di accoglienza, il ricorrente richiama l'orientamento giurisprudenziale imperniato sul ritenuto contrasto con le sovraordinate norme di fonte euro-unitaria dei rimborsi che in tal modo verrebbero determinati senza tenere conto della particolare situazione dell'interessato e del reale beneficio conseguito dal medesimo. Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell'Interno e l'U.T.G. - Prefettura di Reggio Emilia, resistendo al gravame. Con ordinanza n. 41 del 26 gennaio 2023 la Sezione accoglieva l'istanza cautelare del ricorrente limitatamente all'atto avente ad oggetto l'ingiunzione di versamento della somma richiesta. All'udienza pubblica del 11 ottobre 2023 la causa è passata in decisione. Va innanzi tutto disposto lo stralcio della memoria difensiva depositata dall'Avvocatura distrettuale dello Stato in data 15 settembre 2023, a meno di trenta giorni dalla celebrazione dell'udienza pubblica, e quindi oltre il termine di cui all'art. 73, comma 1, cod.proc.amm., che ha natura perentoria e di conseguenza rende inammissibile l'attività difensiva di che trattasi (v., da ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 27 luglio 2023 n. 7359). Per costante giurisprudenza, invero, ai termini ivi previsti non può derogarsi neppure su accordo delle parti, atteso che gli stessi sono espressione di un precetto di ordine pubblico sostanziale a tutela del principio del contraddittorio e dell'ordinato lavoro del giudice, sicché il deposito tardivo di memorie e di documenti ne comporta l'inutilizzabilità processuale, salvo i soli casi in cui sia dimostrata la difficoltà o l'impossibilità di produrli tempestivamente (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 20 febbraio 2023 n. 1717). Venendo al thema decidendum del giudizio, il Collegio ritiene che la risoluzione della controversia implichi la preliminare individuazione dei principi regolatori dell'istituto della revoca delle misure di accoglienza concesse ai richiedenti la "protezione internazionale nel territorio nazionale", quando la revoca viene disposta in ragione della carenza, originaria o sopravvenuta, del requisito reddituale a tal fine previsto dall'art. 14 del d.lgs. n. 142 del 2015. La giurisprudenza (v. Cons. Stato, Sez. III, 7 marzo 2023 n. 2386 e 15 settembre 2023 n. 8350; TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I, 16 marzo 2023 n. 136 e 28 febbraio 2022 n. 223; TAR Toscana, Sez. II, 19 novembre 2021 n. 1506 e 15 giugno 2021 n. 924) ha così delineato il quadro normativo di riferimento, le tematiche che ne emergono e le regole concrete da osservare: - la materia dell'accoglienza degli stranieri richiedenti protezione internazionale è disciplinata nel nostro ordinamento dal d.lgs. n. 142 del 2015, quale trasposizione della direttiva n. 2013/33/UE (recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale) e della direttiva n. 2013/32/UE (recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale); - l'art. 17 della direttiva n. 2013/33/UE esige che le condizioni materiali di accoglienza cui gli interessati hanno titolo "... assicurino un'adeguata qualità di vita che garantisca il sostentamento dei richiedenti e ne tuteli la salute fisica e mentale ..." (par. 2); - l'art. 20 della direttiva n. 2013/33/UE, in ragione del possibile venir meno dei presupposti fondanti la concessione delle misure di accoglienza, consente agli Stati membri la progressiva e graduale riduzione delle stesse fino a giungere, quale extrema ratio, alla loro revoca - consentita "in casi eccezionali debitamente motivati" (par. 1) -, e ciò, tra le varie ipotesi previste, anche "... qualora un richiedente abbia occultato risorse finanziarie, beneficiando in tal modo indebitamente delle condizioni materiali di accoglienza..." (par. 3), il tutto, però, con decisioni "... adottate in modo individuale, obiettivo e imparziale e sono motivate..." oltre ad essere "... basate sulla particolare situazione della persona interessata (...) tenendo conto del principio di proporzionalità ..." e comunque garantendo un "... tenore di vita dignitoso per tutti i richiedenti..." (par. 5); - alla luce di tali principi, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea (sez. X, 1° agosto 2022, C-422/21, e Grande Sezione, 12 novembre 2019, C-233/18) ha statuito che la sanzione della revoca "deve, in qualsiasi circostanza, rispettare le condizioni di cui al paragrafo 5 di tale articolo, in particolare quelle relative al rispetto del principio di proporzionalità e della dignità umana"; - con specifico riferimento al caso della revoca delle misure di accoglienza per superamento dei requisiti reddituali, vengono in rilievo l'art. 17 della direttiva n. 2013/33/UE, secondo cui gli "... Stati membri possono subordinare la concessione di tutte le condizioni materiali d'accoglienza e dell'assistenza sanitaria, o di parte delle stesse, alla condizione che i richiedenti non dispongano di mezzi sufficienti a garantire loro una qualità della vita adeguata per la loro salute, nonché ad assicurare il loro sostentamento..." (par. 3) e gli "... Stati membri possono obbligare i richiedenti a sostenere o a contribuire a sostenere i costi delle condizioni materiali di accoglienza e dell'assistenza sanitaria previsti nella presente direttiva, ai sensi del paragrafo 3, qualora i richiedenti dispongano di sufficienti risorse, ad esempio qualora siano stati occupati per un ragionevole lasso di tempo. Qualora emerga che un richiedente disponeva di mezzi sufficienti ad assicurarsi le condizioni materiali di accoglienza e l'assistenza sanitaria all'epoca in cui tali esigenze essenziali sono state soddisfatte, gli Stati membri possono chiedere al richiedente un rimborso..." (par. 4), nonché il già richiamato art. 20, par. 3, della direttiva, con il risultato che l'art. 17 implica una revoca di carattere ordinario e che l'art. 20 implica una revoca di carattere sanzionatorio ; - in entrambi i casi di revoca le condizioni per ottenere il rimborso sono meglio specificate all'art. 26, par. 5, della medesima direttiva ("Gli Stati membri possono esigere un rimborso integrale o parziale delle spese sostenute, allorché vi sia stato un considerevole miglioramento delle condizioni finanziarie del richiedente o se la decisione di accordare tali prestazioni è stata adottata in base a informazioni false fornite dal richiedente"), con la conseguenza che, in virtù del fondamentale principio di proporzionalità, il rimborso - integrale o parziale - può essere parametrato ad un considerevole miglioramento delle condizioni finanziarie del richiedente, in coerenza con la previsione della revoca per perdita dei requisiti di cui all'art. 17, ovvero può essere parametrato al comportamento scorretto del richiedente che fornisce informazioni false così ottenendo indebitamente le misure di accoglienza e occultando la sua reale condizione finanziaria, in coerenza con la revoca 'sanzionatorià di cui all'art. 20; - la normativa interna si occupa della "revoca" delle condizioni di accoglienza all'art. 23 del d.lgs. n. 142 del 2015, prevedendo - tra i vari casi - quello indicato come "accertamento della disponibilità da parte del richiedente di mezzi economici sufficienti" (comma 1, lett. d)), disposizione però da leggere in combinato con il precedente art. 14, secondo cui il "... richiedente che ha formalizzato la domanda e che risulta privo di mezzi sufficienti a garantire una qualità di vita adeguata per il sostentamento proprio e dei propri familiari, ha accesso, con i familiari, alle misure di accoglienza del presente decreto..." (comma 1) e al "... fine di accedere alle misure di accoglienza di cui al presente decreto, il richiedente, al momento della presentazione della domanda, dichiara di essere privo di mezzi sufficienti di sussistenza. La valutazione dell'insufficienza dei mezzi di sussistenza di cui al comma 1 è effettuata dalla Prefettura - Ufficio territoriale del Governo con riferimento all'importo annuo dell'assegno sociale..." (comma 3); - dalle suddette disposizioni emerge che: a) presupposto per accedere alle misure di accoglienza è l'essere privo di mezzi sufficienti di sussistenza; b) la valutazione dell'insufficienza dei mezzi di sussistenza è effettuata con riferimento all'importo annuo dell'assegno sociale; c) in caso di accertamento della disponibilità di mezzi economici sufficienti è disposta la revoca delle misure di accoglienza; - posto che l'art. 17, par. 3, della direttiva consente che gli Stati membri subordinino la concessione delle misure di accoglienza alla condizione che i richiedenti non dispongano di mezzi sufficienti ad assicurarne il sostentamento, ne deriva che, se il requisito dell'indigenza è richiesto per accedere al sistema di accoglienza, logica vuole che lo stesso debba permanere per tutto il tempo di godimento dei relativi benefici e che l'Amministrazione sia quindi tenuta a decretare la revoca delle 'misurè per il solo fatto che lo straniero acquisisca stabilmente la disponibilità di risorse economiche adeguate al suo sostentamento, tanto più che uno degli obiettivi delle norme europee sull'accoglienza è rappresentato dall'agevolazione all'accesso al mercato del lavoro da parte dei richiedenti la protezione internazionale e che occorre per altro verso contrastare le possibilità di abuso del sistema per non sottrarre le relative, limitate, risorse ai richiedenti che versano in situazioni più radicali di povertà e di mancanza di strumenti di integrazione, e allora, nel difficile equilibrio fra tali esigenze, occorre assicurare ai richiedenti le condizioni materiali di accoglienza finché l'integrazione lavorativa e la situazione di autosufficienza economica non abbiano raggiunto un certo grado di stabilità ; - per giustificare la revoca, i "mezzi sufficienti di sussistenza" pari o superiori "all'importo annuo dell'assegno sociale" devono essere di carattere stabile e/o duraturo e, comunque, devono riferirsi ad un arco temporale minimo di 1 anno ed alle attuali condizioni dello straniero richiedente la protezione internazionale, in linea con quanto stabilito a livello europeo dall'art. 17, par. 4, della direttiva - ove si fa riferimento all'occupazione per un "ragionevole lasso di tempo" -, sì che non può dunque bastare, a tale fine, il percepimento solo di compensi mensili che nel loro insieme non raggiungono quell'ammontare ma che, proiettati su base annuale, porterebbero ipoteticamente a superare l'importo di legge; - l'art. 23 del d.lgs. n. 142 del 2015 sembra far intendere come esso, senza peraltro prevedere una graduazione delle risposte sanzionatorie, includa tra i casi di revoca delle misure di accoglienza entrambe le forme di revoca analizzate, visto che il comma 6 stabilisce che nella "... ipotesi di revoca, disposta ai sensi del comma 1, lettera d), il richiedente è tenuto a rimborsare i costi sostenuti per le misure di cui ha indebitamente usufruito...", nel senso che il legislatore italiano risulta disciplinare espressamente la sola revoca per perdita dei requisiti di legge, salvo poi affermare che è possibile ottenere il reintegro delle spese derivanti allo Stato dalle "misure di cui ha indebitamente usufruito" lo straniero, mostrando così di contemplare anche il caso della revoca c.d. "sanzionatoria"; - la necessità di coordinare la normativa interna con quella euro-unitaria fa sì che, se lo Stato può ottenere un rimborso integrale o parziale delle spese sostenute per l'erogazione delle misure di accoglienza, ciò non può che avvenire nel rispetto del principio di proporzionalità, onde verificare se vi sia stato un radicale miglioramento delle condizioni di vita dello straniero oppure se il comportamento dello stesso riveli l'occultamento di risorse o dichiarazioni false poste a base dell'istanza; - in ossequio al principio di primazia del diritto dell'Unione Europea e in ragione del potere del giudice nazionale di disapplicare le norme interne in contrasto con quelle europee, va disapplicata la norma di cui all'art. 23, comma 1, lett. d), e comma 6, del d.lgs. n. 142 del 2015 nella parte in cui non prevede che la possibilità di ottenere il rimborso integrale o parziale sia subordinata alle condizioni di cui all'art. 26 della direttiva n. 2013/33/UE e, in ogni caso, sia proporzionata al caso di specie; - la richiesta di rimborso dei costi sostenuti per l'accoglienza si presenta contrastante con il canone di proporzionalità e adeguatezza quando - da un lato - lo straniero richiedente protezione internazionale abbia correttamente reso nota la sua posizione lavorativa all'Amministrazione o al gestore della struttura di assegnazione e non abbia posto in essere un comportamento ostruzionistico, e - dall'altro lato - la sanzione ingiunta sia palesemente incongrua rispetto all'entità del discostamento dal parametro dell'assegno sociale e rispetto alla consistenza del miglioramento delle condizioni di vita dell'interessato. Tutto ciò considerato alla luce della normativa vigente al tempo dell'adozione degli atti impugnati, e venendo all'esame delle doglianze nella fattispecie formulate, rileva il Collegio come siano prive di fondamento quelle che muovono dall'asserita illegittimità della revoca delle misure di accoglienza a suo tempo concesse al ricorrente, mentre inducono all'accoglimento della domanda giudiziale - nei termini che si preciseranno - quelle che investono direttamente il disposto rimborso dei costi sostenuti dall'Amministrazione per il godimento di un beneficio asseritamente non spettante fin dal 2021. Quanto alla 'revocà, è sufficiente rilevare come l'interessato non contesti lo stabile superamento della soglia di reddito prevista dall'art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 142 del 2015 (importo annuo dell'assegno sociale); circostanza che, come si è visto, rivelando il venir meno del requisito reddituale, giustifica autonomamente la rimozione del titolo al beneficio, a meno che ciò - in presenza di dimostrate situazioni eccezionali - comprometta quella "adeguata qualità di vita" che l'art. 17, par. 2, della direttiva n. 2013/33/UE garantisce ai richiedenti protezione internazionale. Pertanto, nulla essendo stato in concreto addotto dal ricorrente sotto l'indicato profilo, legittimamente l'Amministrazione ha adottato il provvedimento di revoca. Circa, invece, l'ingiunzione di versamento della "... somma di euro 17.901,04 quale rimborso dei costi sostenuti per le misure di cui ha indebitamente usufruito (sulla base del costo lordo pro-capite della convenzione in essere tra l'ente gestore e questa Prefettura pari ad euro 34,80 e successive rinegoziazioni) a partire dal momento di superamento della soglia dell'assegno sociale (redditi 2021 pari ad euro -OMISSIS- a cui sommare l'ulteriore importo pari ad euro -OMISSIS-, sempre relativo all'anno 2021, per un totale di euro -OMISSIS-, quali redditi 2021) e fino alla data in cui è stato adottato il provvedimento di revoca...", alla luce dell'orientamento giurisprudenziale che porta alla parziale disapplicazione della norma interna in contrasto con quella europea (v. Cons. Stato, Sez. III, n. 2386/2023 cit.) va assegnato valore decisivo all'assunto del ricorrente di non avere nascosto la propria situazione reddituale e lavorativa al gestore della struttura di accoglienza, sì che, per derivare il protrarsi del beneficio dalla tolleranza della situazione da parte dell'Amministrazione - con la ragionevole convinzione del ricorrente di poterne continuare a godere senza costi a suo carico -, si presenta incongrua e non coerente con un canone di razionale proporzionalità la decisione di procedere al recupero integrale dei costi correlati al beneficio erogato anche dopo il venir meno della condizione di indigenza; del resto, come è stato rilevato (v. Cons. Stato, Sez. III, n. 2386/2023 cit.), non è in simili casi necessario che della posizione lavorativa dello straniero venga direttamente notiziata la Prefettura, difettando un obbligo normativo in tal senso, ed essendo anzi ragionevole che lo straniero si rivolga alla struttura che gli presta assistenza. Né, d'altra parte, induce ad una diversa conclusione l'assunto dell'Amministrazione per cui non risulta "... pervenuta agli atti di questo Ufficio alcuna segnalazione di variazione del reddito, né da parte del beneficiario, né da parte della cooperativa ospitante..." (così nelle premesse dell'atto di ingiunzione di versamento della somma richiesta), in quanto - una volta escluso l'obbligo di informativa diretta alla Prefettura - era evidentemente onere dell'Amministrazione, in sede istruttoria, acquisire d'ufficio tutti gli elementi necessari per la determinazione finale, anche interpellando il gestore della struttura di accoglienza, e in questo modo verificando quali elementi informativi fossero stati da quest'ultimo acquisiti nel tempo su iniziativa dell'ospite, così da ricostruirne la condotta complessiva; e, invece, ciò non è accaduto, e si vorrebbe riversare integralmente sul richiedente protezionale internazionale la prova di comunicazioni e produzioni di cui, a distanza di anni, è logico l'interessato può non disporre. Inoltre, l'entità del discostamento dal parametro dell'assegno sociale - per un reddito pari a Euro -OMISSIS- nel 2021 - rende chiaramente sproporzionata la somma richiesta (Euro 17.901,04), anche alla luce del contenuto miglioramento delle condizioni di vita dello straniero e della condotta di quest'ultimo non risultata scorretta. In conclusione, assorbite le restanti censure, il ricorso va accolto nella sola parte in cui è stato impugnato il provvedimento prefettizio prot. n. -OMISSIS- del 7 settembre 2022 (ingiunzione di versamento della somma di Euro 17.901,04), con conseguente suo annullamento. Le spese di giudizio possono essere compensate, in ragione dell'illustrato complesso quadro normativo della materia. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia-Romagna, Sezione staccata di Parma, pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione e, per l'effetto, annulla il provvedimento prefettizio prot. n. -OMISSIS- del 7 settembre 2022, mentre lo respinge per il resto. Compensa le spese di lite, ma con rifusione - a carico dell'Amministrazione - del contributo unificato dovuto dal ricorrente. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente. Così deciso in Parma nella camera di consiglio del giorno 11 ottobre 2023 con l'intervento dei magistrati: Italo Caso - Presidente, Estensore Caterina Luperto - Referendario Paola Pozzani - Referendario

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI PARMA Sezione Lavoro SENTENZA Il Tribunale di Parma, in funzione di giudice del lavoro, nella persona del giudice designato per la trattazione, dott.ssa Ilaria Zampieri, nella causa iscritta al n. 408/2019 RG., promossa da: (...), in qualità di titolare dell'omonima impresa individuale, rappresentato e difeso, giusta procura allegata in calce al ricorso, dall'Avv. Ma.To. del Foro di Bologna, ed elettivamente domiciliato presso lo studio professionale del medesimo, sito in Bologna (BO), Via (...), n. 6; OPPONENTE contro ISPETTORATO NAZIONALE DEL LAVORO, sede territoriale di Parma-Reggio Emilia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli Avv.ti An.Mi. e Pa.Gr. del Foro di Parma, ed elettivamente domiciliato presso la relativa sede sita in Parma (PR), P.zza (...); OPPOSTO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO - MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Svolgimento del processo. 1.1. Con ricorso del 19.04.2019 ritualmente notificato, parte ricorrente conveniva in giudizio la Direzione Territoriale del Lavoro di Parma impugnando l'ordinanza-ingiunzione n. 2/2019, notificata in data 2.04.2019, con la quale il Capo dell'Ispettorato le aveva ingiunto il pagamento, a titolo di sanzione amministrativa, della somma di Euro 14.416,90, in ragione della violazione dell'art. 3, comma 3, D.L. n. 12 del 2002, convertito con modificazioni in L. n. 73 del 2002, come sostituito dall'art. 22, comma 1, D.Lgs. n. 151 del 2015, per aver occupato i lavoratori (...), (...), (...) e (...), senza la preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro. A sostegno dell'opposizione proposta, la difesa della parte ricorrente deduceva: - che l'ordinanza-ingiunzione n. 2/2019 seguiva il verbale di accertamento e notificazione dell'illecito amministrativo del 30.08.2018 emesso dal Nucleo Carabinieri Ispettorato Lavoro di Parma a norma dell'art. 22, D.Lgs. n. 151 del 2015 e degli artt. 14 e 35, comma 7, L. n. 689 del 1981, per il pagamento della somma pari ad Euro 14.400,00 a titolo di sanzione pecuniaria amministrativa; - che le dichiarazioni sulle quali l'ordinanza-ingiunzione si fondavano erano inveritiere, in quanto i Sig.ri lavoratori (...), (...), (...) e (...) non avevano mai avuto alcun vincolo di subordinazione con l'impresa individuale del Sig. (...) e, dunque, il rapporto di lavoro contestato come subordinato non si era, in realtà, mai instaurato; - che tale circostanza risultava, invero, provata dalle dichiarazioni rese dai lavoratori (...), (...), (...) e (...) in data 19.09.2018 (Doc. 2 fasc. parte opponente). Tanto esposto in fatto, parte opponente chiedeva, dunque, l'annullamento dell'ordinanza-ingiunzione rassegnando le seguenti conclusioni: "Voglia il giudice adito, contrariis reiectis In via preliminare Sospendere l'efficacia esecutiva dell'ordinanza ingiunzione n. 2/19 stante la fondatezza dei motivi di opposizione ed il pregiudizio che verrebbe arrecato al ricorrente da un'eventuale esecuzione diretta ad ottenere le somme pretese. In via principale Annullare l'ordinanza ingiunzione in oggetto essendo la stessa nulla ed inefficace, e con essa ogni atto e provvedimento presupposto e/o conseguente. Con ogni pronuncia accessoria consequenziale e con vittoria di spese ed onorari. In via subordinata In caso di rigetto della domanda disporre all'Ispettorato territoriale del Lavoro, ai sensi dell'art. 26 della L. n. 689 del 1981, il pagamento rateale dell'importo portato nel provvedimento impugnato da parte del ricorrente." 1.2. La Direzione Provinciale del Lavoro si costituiva in giudizio e resisteva all'opposizione, della quale chiedeva il rigetto, riportandosi agli accertamenti effettuati in sede ispettiva dagli ufficiali verbalizzanti. 1.3 La causa veniva istruita alla stregua della documentazione versata in atti nonché con l'assunzione della prova testimoniale richiesta dalle parti. 1.4. All'udienza del 28.03.2023, il giudice invitava i procuratori delle parti alla discussione e - sulle conclusioni da questi rassegnate come in atti - decideva dando lettura del dispositivo, conforme a quello trascritto in calce al presente atto, con fissazione, ex art. 429, comma 1, secondo periodo, c.p.c., del termine di sessanta giorni per il deposito della sentenza. 2. Le ragioni della decisione. Tanto premesso in ordine allo svolgimento del processo, anticipando, sin da subito, gli esiti della presente disamina, occorre sottolineare come il presente ricorso sia da rigettarsi avendo l'Amministrazione convenuta adeguatamente provato gli elementi costitutivi della fattispecie in controversia. 2.1. La fattispecie in controversia. Giova premettere - in punto di diritto - che il presupposto per l'applicazione delle sanzioni irrogate dalla ITL - e, segnatamente, per l'applicazione della maxi-sanzione di cui all'art. 22, comma 1, D.Lgs. n. 151 del 2015 - è costituito unicamente dall'impiego di lavoratori senza la preventiva comunicazione di instaurazione di rapporto di lavoro, a nulla rilevando che i lavoratori "in nero" siano cittadini extracomunitari privi del permesso di soggiorno di cui all'art. 22, D.Lgs. n. 286 del 1998, come accade nell'ipotesi in controversia. Ai fini dell'integrazione della fattispecie contestata, si rende, dunque, necessaria la ricorrenza di un duplice presupposto; l'uno, di carattere negativo, rappresentato dall'omessa preventiva comunicazione di instaurazione di rapporto di lavoro, l'altro, di carattere positivo, rappresentato dalla sussistenza degli elementi costitutivi essenziali del rapporto di lavoro subordinato, che l'art. 2094 c.c. individua nella: 1) sottoposizione del lavoratore al potere di direzione del datore di lavoro; 2) continuità della prestazione; 3) collaborazione offerta all'impresa dietro versamento della retribuzione. In particolare, quanto alla sottoposizione al potere di eterodirezione del datore di lavoro, ossia all'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore - che si sostanzia in un obbligo continuativo di obbedienza da parte del lavoratore ed in un contestuale potere di interferenza del datore sulle modalità di svolgimento della prestazione - è noto che esso è giuridicamente sempre presente, anche se, in alcuni casi, in concreto manca, oppure si manifesta in forma attenuata. In tale ultimo caso, infatti, è la natura dell'attività lavorativa prestata a mitigare il potere di ingerenza e controllo del datore di lavoro. Ciò premesso, la giurisprudenza, in proposito, non ha pertanto escluso che possa configurarsi un rapporto di lavoro subordinato anche nel caso in cui ci sia una certa autonomia, iniziativa, discrezionalità del lavoratore con riguardo allo svolgimento della prestazione (Cass. Civ. 1885/76; 1064/75); in tale ipotesi, il potere di sovra-ordinazione gerarchica del datore di lavoro si esplica in indicazioni generali a carattere programmatico (Cass. Civ. 1094/93; 5301/86; 648/86; 5022/85) e assume importanza decisiva "...la continua dedizione funzionale dell'energia lavorativa al risultato produttivo perseguito dall'imprenditore, di per sé in grado di dimostrare l'esistenza di un potere discrezionale e gerarchico" (Cass. Civ., n. 5024/85; n. 57/84). A ciò fanno poi da corollario altri indici presuntivi, quali la collaborazione, l'assenza di rischio, la natura dell'oggetto della prestazione, la continuità di essa, la forma della retribuzione e l'osservanza di un orario predeterminato, che hanno una portata sussidiaria ai fini della prova della subordinazione e possono essere decisivi solo se valutati globalmente e non singolarmente (cfr., per tutte, Cass. Civ., n. 9900/2003; Cass. Civ., n. 6570/2000). È, quindi, proprio il requisito dell'assoggettamento del lavoratore al potere gerarchico e disciplinare altrui, che vale, in primo luogo, a caratterizzare il tipo contrattuale, dovendosi utilizzare gli altri elementi discriminanti solo nel caso di oggettiva difficoltà a ricostruire quest'ultimo in maniera attendibile (cfr., da ultimo, Cass., Sez. Lav., n. 9545/2008; Cass., Sez. Lav., n. 5079/2009). L'ulteriore elemento costitutivo del rapporto di lavoro subordinato, dato dalla continuità della prestazione, ancorché non espressamente previsto dall'art. 2094 c.c., viene richiamato nel concetto di collaborazione, ed inteso pacificamente in dottrina come persistenza ideale nel tempo dell'obbligo di porre l'attività lavorativa a disposizione del datore. Esso non è, comunque, incompatibile con il carattere discontinuo o saltuario della prestazione, a condizione che, però, "...tra una prestazione e l'altra il lavoratore resti a disposizione del datore di lavoro" (Cass. Civ., n. 4152/86; n. 3299/82; n. 5807/81; n. 137/81). 2.2. La natura del giudizio di opposizione all'ordinanza ingiunzione dell'ITL. Sotto il profilo processuale, occorre evidenziare che il sindacato del giudice dell'opposizione sull'ordinanza-ingiunzione o verbale di contestazione si svolge sul rapporto, ovvero sull'accertamento della conformità della irrogata sanzione ai casi, alle forme e all'entità previsti dalla legge, atteso che si fa valere il diritto a non essere tenuti ad una prestazione patrimoniale se non nei casi espressamente stabiliti dalla legge (Cass. Civ., Sez. Un., n. 1786/2010). Dovendosi, dunque, accertare, non già la legittimità degli atti amministrativi, bensì l'effettiva sussistenza dell'illecito, va, altresì, rammentato che è consolidato il principio secondo il quale, con l'opposizione all'ordinanza-ingiunzione irrogativa di una sanzione amministrativa, viene introdotto un giudizio ordinario sul fondamento della pretesa dell'amministrazione, nel quale le vesti sostanziali di attore e convenuto vengono assunte, anche ai fini dell'onere della prova, rispettivamente dall'Amministrazione e dall'opponente. Ne deriva che "ove l'amministrazione non adempia all'onere di dimostrare compiutamente la esistenza di fatti costitutivi dell'illecito, secondo il disposto dell'art. 23, comma 12, della L. n. 689 del 1981, l'opposizione deve essere accolta" (così, Cass. Civ., Sez. I, n. 5095/199; nello stesso senso, Cass. Civ., Sez. III, n. 3741/1999, secondo la quale, in tema di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, il citato art. 23 - a norma del quale il pretore accoglie l'opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità della parte opponente - recepisce le regole civilistiche sull'onere della prova, spettando all'autorità che ha emesso l'ordinanza-ingiunzione dimostrare gli elementi costitutivi della pretesa avanzata nei confronti dell'intimato, e restando a carico di quest'ultimo la dimostrazione di eventuali fatti impeditivi o estintivi anche se, tuttavia, i fatti allegati da una parte e non contestati dall'altra possono considerarsi implicitamente ammessi da quest'ultima se gli altri argomenti addotti dalla medesima siano incompatibili con il disconoscimento dei fatti stessi; ancora, Cass. Civ., Sez. I, n. 5277/2007; cfr. anche Trib. di Modena, n. 347/2013 e n. 269/2013). Del resto, l'art. 7, comma 10, D.Lgs. n. 150 del 2011 prevede che il giudice accoglie l'opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell'opponente. Occorrerà, dunque, valutare se, alla stregua delle risultanze istruttorie acquisite nel corso del presente giudizio - nonché dello standard epistemologico proprio del processo civile -, l'odierno opposto abbia dimostrato la ricorrenza, nel caso di specie, degli elementi costitutivi della responsabilità dell'ingiunta. 2.3. Sulla mancata notificazione del verbale di primo accesso ispettivo. Sotto un profilo di legittimità formale, parte opponente ha eccepito la mancata notifica del verbale di primo accesso ispettivo presso la sede dell'impresa di cui risulta titolare l'odierno opponente. La doglianza è infondata. Sul punto, occorre evidenziare che il verbale di primo accesso è funzionalmente assimilabile alla comunicazione di avvio del procedimento, disciplinata dagli artt. 7 e 8 della L. n. 241 del 1990 e succ. mod. e integr.. Ebbene, a riguardo, preme rilevare che - nonostante, secondo la prevalente giurisprudenza, i procedimenti destinati a concludersi mediante l'adozione di provvedimenti vincolati non debbano essere preceduti da una comunicazione di avvio del procedimento medesimo - l'art. 33 comma 1 della L. n. 183 cit. - norma speciale rispetto a quella di cui all'art. 7 L. n. 241 del 1990 - ha, tuttavia, cristallizzato tale obbligo anche con riguardo al procedimento ispettivo, pur trattandosi, questo, di procedimento destinato a concludersi con atti vincolati. Mediante la previsione di tale obbligo il legislatore ha inteso rafforzare le garanzie di partecipazione al procedimento ispettivo, già previste dall'art. 18 commi I e II della L. n. 689 del 1981 cit. con la presentazione di scritti difensivi e richiesta di audizione. In quest'ottica, il verbale di primo accesso - che costituisce per l'appunto atto preparatorio ed endoprocedimentale - appare finalizzato a informare il destinatario del provvedimento finale sin dell'apertura di un procedimento potenzialmente idoneo a incidere sulla sua sfera giuridica; il verbale di primo accesso assolve, invero, ad una funzione di tutela, poiché viene garantito al soggetto ispezionato il diritto al contraddittorio, esercitabile mediante la presentazione di dichiarazioni, documenti e memorie pertinenti all'oggetto del procedimento. Tanto premesso, dunque, ritiene questo Giudice che - così come statuito per l'ipotesi di violazione dell'art. 7 della L. n. 241 del 1990 cit. - l'inosservanza dell'obbligo di consegna o notifica alla parte datoriale del verbale di primo accesso ispettivo non assuma valenza sostanziale, laddove il soggetto destinatario dell'atto finale sia venuto, comunque, a conoscenza dell'avvio del procedimento ispettivo e abbia avuto l'effettiva possibilità di esercitare, nel corso dell'istruttoria, i propri diritti partecipativi. Considerato, dunque, che la conoscenza del procedimento ispettivo è, comunque, garantita dalla notifica del verbale conclusivo - avverso il quale infatti il destinatario può esercitare le facoltà di cui all'art. 18 commi I e II della L. n. 689 del 1981 cit. - appare difficilmente ipotizzabile che l'omessa consegna o notifica del verbale di primo accesso comporti una menomazione del diritto al contraddittorio procedimentale. Occorre, inoltre, tenere presente che il soggetto ispezionato può venire a conoscenza del procedimento ispettivo in ogni modo - circostanza, questa, verificatasi nel caso di specie in cui l'odierno opponente è stato informato del procedimento ispettivo a suo carico sin dalla convocazione presso l'Ispettorato del Lavoro in data 12.07.2018 - e può pure interloquire con l'amministrazione in corso di verifica, chiedendo anche di inserire, in fase di redazione del verbale conclusivo, puntuali dichiarazioni e/o deduzioni. Secondo tale prospettiva, pertanto, la violazione dell'obbligo di cui all'art. 33 della L. n. 183 cit. si risolve in un'illegittimità di carattere formale o procedimentale inidonea a incidere efficacemente nel merito del rapporto dedotto in giudizio. Nella fattispecie in controversia, in particolare, atteso che l'opponente è stato informato del procedimento ispettivo a suo carico sin dalla sua convocazione presso l'Ispettorato territoriale di Parma in data 12.07.2018, è pacifico che questi abbia avuto l'effettiva possibilità di esercitare, nel corso dell'istruttoria, i propri diritti partecipativi e che, dunque, alcuna violazione del suo diritto di difesa si sia verificata. 2.4 Sulla fondatezza degli accertamenti ispettivi. In primis, merita di essere evidenziato come l'ordinanza ingiunzione opposta sia stata preceduta da un accertamento delle violazioni che ha preso avvio dall'informativa n. (...) del giorno 1.08.2018 dei Carabinieri della Stazione di Varsi (PR) per la notizia di reato p. e p. dall'art. 22, co. 12, D.Lgs. n. 286 del 1998 a carico del Sig. (...), per i fatti commessi dal 2.03.2018 al 12.03.2018 in B. (P.), loc. P.. In particolare, nel corso di regolare attività di vigilanza compiuta in data 12.03.2018 (doc. 2 fasc. parte opposta), i militari operanti in forza al Comando Stazione CC di Varsi (PR) hanno esposto "di aver fermato un'autovettura MITSUBISHI PAJERO targata (...)con a bordo quattro persone - i Sig.ri (...), (...), (...) e (...) - con indosso abiti visibilmente sporchi di segatura e materiale di scarto della legna e nel bagagliaio una motosega, tre roncole e una tanica di benzina". In tale informativa, i Carabinieri hanno, poi, evidenziato di aver acquisito a s.i.t. le dichiarazioni di (...) (doc. 3 fasc. parte opposta) - in quanto unico soggetto in grado di comprendere e parlare la lingua italiana - il quale ha dichiarato che i quattro, nati in Albania e ivi residenti, erano stati contattati dal Sig. M. per lavorare per lui come taglia boschi e che, in ragione di ciò, si erano recati in Italia nel mese di Gennaio 2018 e da n. 10 giorni svolgevano tale attività nei pressi del Comune di Morfasso (PC) per n. 8 ore giornaliere, con una retribuzione di Euro 3,50 per metro di legna tagliata, un anticipo di Euro 300,00, la fornitura di tutto il materiale necessario per il taglio, l'uso di un'autovettura per gli spostamenti nonché vitto e alloggio, senza aver però stipulato, con il Sig. (...), alcun regolare contratto di lavoro subordinato. Tale informativa veniva fatta pervenire al Nucleo Carabinieri Ispettorato del Lavoro di Parma il quale, con rapporto prot. n. (...) del 24.09.2018 successivo al verbale unico di accertamento e notificazione prot. n. (...) del 30.08.2018 (doc. 10 fasc. parte opposta), concludeva gli accertamenti ispettivi e contestava al Sig. M. l'illecito amministrativo di cui all'art. 16, L. n. 689 del 1981 per aver impiegato lavoratori senza preventiva comunicazione al Centro per l'Impiego competente (art. 3, co. 3, D.L. n. 12 del 2002 conv. in L. n. 73 del 2002, sost. dall'art. 22, co. 1, D.Lgs. n. 151 del 2015). Sul piano metodologico preme rilevare, quanto al problema del valore da attribuire alle dichiarazioni rese in fase amministrativa (doc. 3 fasc. parte opposta), che - se è vero che i verbali contenenti dichiarazioni redatte dall'ispettorato non fanno prova piena della veridicità intrinseca delle dichiarazioni - è però altrettanto vero che, ai sensi degli art. 2699-2700 c.c., gli stessi verbali fanno piena prova, sino a querela di falso, dei fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti alla sua presenza, nonché della provenienza del documento dal pubblico ufficiale e della provenienza delle dichiarazioni dalle parti. La Corte di Cassazione ha da ultimo esattamente ricostruito il valore probatorio dei verbali ispettivi, attribuendo loro: a) piena prova fino a querela di falso relativamente ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza, o che abbia potuto conoscere senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale, nonché quanto alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni a lui rese; b) quanto alla veridicità sostanziale delle dichiarazioni a lui rese dalle parti o da terzi, facendo fede fino a prova contraria, ammissibile qualora la specifica indicazione delle fonti di conoscenza consenta al giudice ed alle parti l'eventuale controllo e valutazione del contenuto delle dichiarazioni; c) in mancanza della indicazione specifica dei soggetti le cui dichiarazioni vengono riportate nel verbale, costituendo comunque argomento di prova, che il giudice deve in ogni caso valutare, in concorso con gli altri elementi, ai fini della decisione dell'opposizione proposta dal trasgressore, e può essere disatteso solo in caso di sua motivata intrinseca inattendibilità, o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio, attesa la certezza, fino a querela di falso, che quelle dichiarazioni siano comunque state ricevute dall'ufficiale giudiziario (in tal senso Cass. N. 166/2014). Di conseguenza il verbale ispettivo ha valenza privilegiata relativamente ai fatti che siano avvenuti in presenza del verbalizzante. Ebbene, nel caso di specie, tra i fatti direttamente percepiti dagli ispettori verbalizzanti, in quanto avvenuti in loro presenza e senza alcun margine di apprezzamento o percezione sensoriale, rientra, senza alcun dubbio, il rinvenimento ad opera dei verbalizzanti, da un lato, dei Sig.ri (...), (...), (...) e (...) a bordo di un'automobile intestata al Sig. M. con indosso abiti da lavoro sporchi di segatura e materia di scarto della legna e, dall'altro, sempre all'interno della medesima autovettura, di una motosega, tre roncole ed una tanica di benzina. Vi rientra poi la circostanza per cui il Sig. (...), a s.i., nell'immediatezza dei fatti, ha dichiarato ai verbalizzanti: "Sono entrato in Italia insieme a (...) nato in A. il (...), (...) nato in A. il (...), e (...) nato in A. il (...), nel mese di Gennaio 2018. Il Sig. (...) ci contattava telefonicamente in Albania per tagliare un bosco nel comune di Morfasso. Sono circa 10 giorni che lavoriamo nel predetto bosco per 8 ore al giorno e veniamo pagati per Euro 3,50 ogni metro di legna. Ad oggi ho guadagnato 300,00 Euro, ancora non abbiamo finito di tagliare e quindi non abbiamo fatto il conto del nostro lavoro visto che non abbiamo un contratto regolare. Il (...) ci fornisce il materiale per il taglio ed un'autovettura marca MITSUBISHI PAJERO targata (...)che ci serve per spostarci. Il (...) ci fa alloggiare in una casa presa dallo stesso in affitto sita a B. in loc. (...) ma non so chi sia il proprietario e quanto paga di affitto. Il numero di telefono di (...) è (?) che periodicamente circa ogni 4 giorni ci porta del cibo e bevande nella casa dove abitiamo." Pertanto, le circostanze appena riferite - tutte compatibili con la ricostruzione dei fatti posta alla base dell'ordinanza ingiunzione de qua - risultano pienamente provate, non essendo stata proposta, con riguardo alle stesse, alcun procedimento per querela di falso, unica via processuale idonea a sconfessarne la veridicità. Peraltro, anche le testimonianze rese in sede giudiziale hanno confermato le evidenze istruttorie di cui si è detto, poste a fondamento dell'ordinanza ingiunzione opposta. (...), comparso davanti al Giudice Dott. Pa. in data 21.01.2020, ha dichiarato: "(...) E. in servizio perlustrato con il collega App. (...). Abbiamo visto un autocarro con a bordo 4 persone che non conoscevamo. Abbiamo fermato il mezzo, abbiamo identificato le persone presenti a bordo e solo una parlava l'italiano, il Sig. (...). Ed abbiamo sentito a sommarie informazioni il Sig. (...) che ha rilasciato le dichiarazioni di cui al doc. 3 di parte resistente che mi viene rammostrato e che dichiaro di confermare. Il Sig. (...) parlava correttamente la lingua italiana e capiva bene le domande che gli venivano poste. Penso che le dichiarazioni siano state rilette al Sig. (...) prima di farle firmare. (?) Preciso che i 4 albanesi fermati erano sporchi di segatura ed avevano a bordo del mezzo l'attrezzatura per il taglio della legna, di cui ho fatto delle foto. (...)." (...), escusso dal Giudice delegato - Dott. (...) - in data 14.12.2021, ha dichiarato: a) di aver prestato servizio, all'epoca dei fatti, presso la Stazione Carabinieri di Varsi; b) che il Sig. (...) parlava la lingua italiana; c) che le dichiarazioni rese dal Sig. (...) sono state rilette al medesimo prima della sua sottoscrizione. Dunque, sia le sommarie informazioni acquisite in fase amministrativa, sia le testimonianze rese in sede giudiziale hanno confermato le evidenze istruttorie di cui si è detto, poste a fondamento dell'ordinanza ingiunzione opposta. Quanto alla veridicità delle dichiarazioni rese dai soggetti escussi nel corso della fase amministrativa dinnanzi agli Ispettori, si rammenta che le predette dichiarazioni, in quanto rese nell'immediatezza, sono da ritenersi spontanee e presumibilmente genuine, e, in quanto tali, suscettibili di prevalere sulle dichiarazioni eventualmente rese in sede di giudizio, laddove con queste contrastanti. Ben possono quindi essere valutate dal Giudice, secondo il suo libero e prudente apprezzamento; di talché, pur essendo vero che i verbali ispettivi fanno piena prova solo di quanto l'Ispettore attesta essere avvenuto in sua presenza, è, tuttavia, altrettanto vero che è l'intero materiale probatorio raccolto a costituire un elemento importante a livello indiziario, unitamente alle altre risultanze istruttorie (cfr. Cass. n. 9251 del 19.4.2010) Muovendo da tale dato è possibile, dunque, confermare la correttezza delle risultanze ispettive sulle quali si fonda l'ordinanza ingiunzione n. 2/19 opposta. Di talché, alla luce dei fatti direttamente percepiti dai funzionari dell'(...), in occasione dell'accesso ispettivo iniziato il 23.08.2018 e terminato in data 30.08.2018, nonché dell'attendibilità delle dichiarazioni rese dai soggetti escussi sia in sede amministrativa sia nella presente sede giudiziale, si deve aderire alla ricostruzione dei fatti proposta dall'(...) e, in particolare, che il Sig. (...), in qualità di titolare dell'omonima ditta, ha violato le disposizioni di cui all'art. 3, co. 3, D.L. n. 12 del 2002 conv. in L. n. 73 del 2002, sost. dall'art. 22, co. 1, D.Lgs. n. 151 del 2015 per aver occupato i lavoratori (...), (...), (...) e (...). Poiché, per questi rapporti di lavoro, con riguardo al periodo intercorrente tra il 2.03.2018 ed il 12.03.2018, non è stata trasmessa la prevista comunicazione preventiva (...) al centro provinciale per l'Impiego, né è stata attivata la procedura per il lavoro accessorio, si condividono gli esiti ispettivi cui è approdata l'Amministrazione convenuta, essendosi le prestazioni lavorative svolte in termini irregolari, in violazione delle norme poste a tutela del lavoro subordinato. Accertato l'an debeatur, non resta che verificare la correttezza del trattamento sanzionatorio applicato. 2.5. L'importo della sanzione amministrativa irrogata. Come noto, l'art. 22 del D.Lgs. n. 151 del 2015 ha riscritto integralmente la c.d. maxi sanzione per lavoro nero (art. 3, co. 3, D.L. n. 12 del 2002, conv. L. n. 73 del 2002) con la previsione di una nuova struttura articolata per fasce di durata della prestazione irregolare (e non più una parte fissa più la maggiorazione per ogni giornata di lavoro nero così come, invece, avveniva in precedenza). In caso di impiego di lavoratori subordinati senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro privato, con esclusione del datore di lavoro domestico, secondo il disposto di cui all'art.11 L. n. 689 del 1981 si applica per ciascun lavoratore la sanzione amministrativa pecuniaria: - fino a 30 gg. di lavoro nero da Euro 1.500 a Euro 9.000; - da 31 a 60 gg. di lavoro nero da Euro 3.000 a Euro 18.000; - oltre 60 gg. di lavoro nero da Euro 6.000 a Euro 36.000. Ebbene, nel caso di specie, l'entità della sanzione irrogata risulta corretta considerando che l'(...) di Parma ha applicato la sanzione amministrativa di Euro 3.600,00 per ogni lavoratore interessato ai sensi dell'art. 16, L. n. 689 del 1981. 3. Sulle spese di lite. Le spese del presente giudizio, liquidate nella misura di cui in dispositivo, seguono la soccombenza (art. 91 c.p.c.) e vanno poste a carico di parte opponente. Si precisa che sono determinate tenuto conto: 1) delle fasi nelle quali si è articolato il presente giudizio; 2) delle caratteristiche, dell'urgenza e del pregio dell'attività prestata; 3) dell'importanza, della natura, delle difficoltà e del valore dell'affare; 4) delle condizioni soggettive del cliente; 5) dei risultati conseguiti; 6) del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate, nonché delle previsioni delle tabelle allegate al decreto del Ministero della Giustizia n. 55 del 10.03.2014, nel loro valore medio (per controversie in materia di lavoro in relazione allo scaglione da Euro 5.201,00 a Euro 26.000,00): nel caso di specie, all'esito del bilanciamento operato da questo giudice tra i criteri suddetti, si ritiene che l'importo delle spese di lite vada quantificato in Euro 5.000,00. P.Q.M. Il Tribunale di Parma - Sezione Lavoro, in persona del Giudice, dott.ssa Ilaria Zampieri, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe indicata, disattesa o assorbita ogni contraria istanza, eccezione e difesa, così provvede: 1) Rigetta il ricorso in opposizione; 2) Condanna l'opponente alla rifusione delle spese di lite a favore dell'Amministrazione convenuta, spese che si liquidano in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge. Indica in giorni sessanta il termine per il deposito della motivazione della sentenza. Così deciso in Parma il 28 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 14 giugno 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Parma in persona del Giudice, dott. Antonella Ioffredi, in funzione di Giudice Unico, ha pronunciato la seguente SENTENZA Nella causa civile promossa da: (...) ((...)), (...) ((...)), con il patrocinio dell'avv. MO.AL., elettivamente domiciliato in V.LO (...) PARMA, presso lo studio dell'avv. MO.AL. - ATTORI - Contro (...) S.N.C. ((...)), con il patrocinio dell'avv. AL.MA., elettivamente domiciliato in VIA (...) PARMA, presso lo studio dell'avv. AL.MA. -CONVENUTO - E con la chiamata in causa di (...) (e già anche (...) ora deceduta), con il patrocinio dell'avv. TA.SI. e dell'avv. RA.MA., elettivamente domiciliata in PARMA Causa Civile iscritta al 3489/2017 del Ruolo Generale ed assegnata a sentenza sulle conclusioni di seguito rassegnate. CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. (...) e (...) hanno convenuto in giudizio (...) s.n.c. per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni causati ad alcuni mobili antichi della loro abitazione in occasione dell'asportazione e della custodia degli stessi durante il tempo necessario all'esecuzione dei lavori di ristrutturazione della loro casa coniugale, esponendo: che, nel maggio 2016, i ricorrenti affidavano alla società convenuta le operazioni di asporto, di deposito e di successiva riconsegna di mobilio e arredi del loro appartamento al tempo interessato da lavori di ristrutturazione; che, al momento della riconsegna avvenuta nel settembre dello stesso anno, i ricorrenti constatavano rilevanti danni ad alcuni mobili di pregio, in parte dovuti ad urti da movimentazione durante le operazioni di riconsegna e riallocazione del mobilio nell'abitazione e in parte evidentemente dovuti ad esposizione all'acqua e all'umidità; che i predetti danni venivano riconosciuti dalla Compagnia di assicurazione del traslocatore, ma mentre quelli da movimentazione venivano risarciti nella somma di Euro 10.940,00, i danni da bagnamento, pur periziati dalla stessa compagnia e stimati in una somma di circa 6.500,00 Euro, non venivano risarciti sia dall'assicuratore sia dalla società di traslochi. Conseguentemente, i ricorrenti hanno chiesto la condanna della parte resistente al risarcimento dei danni da bagnamento, quantificati nella somma di Euro 7.475,00, o nella somma ritenuta di giustizia. Costituendosi in giudizio, la società resistente ha riconosciuto di avere svolto le indicate attività di asporto e deposito del mobilio e che lo stesso, a causa di "un violento acquazzone abbattutosi sulla zona" in data 17 settembre 2017, è stato interessato da percolazioni d'acqua piovana provenienti dalla copertura del fabbricato nel quale era ricoverato. La società, pertanto, ha affermato di non avere alcuna responsabilità per i danni riportati dai mobili, in primo luogo per caso fortuito, stante l'eccezionalità dell'evento atmosferico. Per tale ragione, essa ha chiesto il rigetto della domanda. In via subordinata, la resistente ha eccepito che l'eventuale responsabilità per i danni sarebbe da ricondurre alle proprietarie dell'immobile, per difetto di manutenzione straordinaria. Pertanto, essa ha chiamato in causa (...) e (...), chiedendo di essere manlevata dalle stesse, in caso di accertata responsabilità. Le terze chiamate si sono costituite ed hanno eccepito, quanto a (...), il difetto di legittimazione passiva, avendo essa ceduto alla prima, la quota di proprietà dell'immobile con atto di donazione del 24 novembre 2015, registrato e trascritto il 14 dicembre 2015. Sempre in via preliminare, le chiamate in causa hanno eccepito l'inammissibilità della domanda di manleva, svolta dalla resistente, trattandosi di ipotesi in cui avrebbe dovuto essere proposta la diversa domanda di rivalsa. Nel merito, le chiamate in causa hanno eccepito che la locazione comporta il passaggio al conduttore della custodia dell'immobile locato, con la conseguenza che la responsabilità, a norma dell'art. 2051 c.c., è di regola ipotizzabile esclusivamente a carico di quest'ultimo, sul quale grava il rischio del fatto ignoto, mentre il locatore può diventare responsabile degli stessi danni, in concorso con il conduttore, solo qualora, avvertito da questi o, comunque, consapevole della necessità di riparazioni eccedenti la piccola manutenzione, abbia trascurato di provvedervi. Secondo le terze chiamate, o (...) s.n.c. deve andare esente da responsabilità, in quanto "l'eccezionalità dell'evento atmosferico" rientra nel caso fortuito ed allora la stessa esimente deve valere anche per il proprietario dell'immobile; oppure dovrà essere ritenuta la sola a rispondere dei danni, salvo che non dimostri di avere vigilato, adottando idonee misure precauzionali e di avere posto in essere un'adeguata attività di controllo, ipotesi non provata nel caso di specie. Secondo le stesse, inoltre, non vi sarebbe prova che l'asserito allagamento sia stato causato dalle infiltrazioni provenienti dal tetto piuttosto che a causa di una qualche finestra lasciata incautamente aperta. In terzo luogo, il dato pacifico che, nonostante il violento nubifragio si fosse verificato nella giornata di sabato 17 settembre 2016, La (...) s.n.c. si sia avveduta dell'allagamento il lunedì successivo, dimostrerebbe come la società custode, nonostante l'eccezionalità dell'evento atmosferico, si sia ben guardata dall'eseguire un sopralluogo il giorno stesso, per verificare la situazione, ma abbia addirittura atteso la pausa del fine settimana, prima di fare ingresso nel magazzino; essendo evidente che, se la convenuta fosse intervenuta nell'immediatezza, avrebbe potuto mettere al riparo i mobili, evitando così che rimanessero in ammollo per ben due giorni. Infine, la difesa delle terze chiamate ha contestato la valutazione dei danni sui mobili. Conseguentemente, le proprietarie hanno chiesto il rigetto della domanda proposta nei loro confronti. Convertito il rito sommario in rito ordinario, interrotta la causa per decesso di (...), tentata la riassunzione nei confronti degli eredi, essa non è andata a buon fine, in quanto non rinvenuti. La causa, quindi, è proseguita, quanto ai terzi chiamati, nei confronti della sola (...). A parere di questo giudicante, la domanda è fondata per le ragioni che seguono. I fatti dai quali scaturisce la responsabilità contrattuale della resistente sono stati riconosciuti da quest'ultima. E', dunque, pacifico che il (...) e la (...) hanno affidato i mobili antichi di loro proprietà in deposito a titolo oneroso alla resistente e che quest'ultima li ha restituiti danneggiati anche per bagnamento, danno non risarcito poiché considerato non addebitabile alla propria assicurata dalla Compagnia di assicurazione che ha risarcito i danni da movimentazione. Ai sensi dell'art. 1168, 1 comma, c.c., "Il depositario deve usare nella custodia la diligenza del buon padre di famiglia". Il depositario è liberato dalla responsabilità per danni alla cosa in custodia, che, come in ogni caso di responsabilità contrattuale, ex art. 1218 c.c., si presume sussistente, solo qualora provi il caso fortuito. E' documentalmente provato che nella serata di sabato 17 settembre 2016, la zona di Parma era stata interessata da violenti acquazzoni (v. doc. 8 della terza chiamata: "Rapporto dell'evento meteorologico del 16 e 17 settembre 2016" di "Arpae Emilia-Romagna). Secondo la giurisprudenza di legittimità, le precipitazioni atmosferiche straordinarie e imprevedibili non interrompono il nesso di causalità esistente tra la condotta, in prevalenza omissiva, di chi è tenuto alla sorveglianza sui beni e l'evento dannoso: "il carattere eccezionale di un fenomeno naturale, nel senso di una sua ricorrenza saltuaria anche se non frequente, non è sufficiente a configurare il caso fortuito, in quanto non ne esclude la prevedibilità in base alla comune esperienza". "La possibilità di invocare il fortuito (...) deve ? ritenersi ammessa nel solo caso in cui il fattore causale estraneo al soggetto danneggiante abbia un'efficacia di tale intensità da interrompere tout court il nesso eziologico tra la cosa e l'evento lesivo, di tal che esso possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento. E' evidente, perciò, che un temporale di particolare forza ed intensità, protrattesi nel tempo e con modalità tali da uscire fuori dai normali canoni della meteorologia, può, in astratto, integrare gli estremi del caso fortuito o della forza maggiore, salva l'ipotesi ? in cui sia stata accertata l'esistenza di condotte astrattamente idonee a configurare una (cor)responsabilità del soggetto che invoca l'esimente in questione" (Cass. n. 5877/2016). Nel caso di specie, è stato provato per testimoni che lunedì 19 settembre 2016, all'apertura del magazzino, dopo la pausa del fine settimana, il magazzino veniva trovato completamente allagato; che l'acqua in terra oltrepassava di poco l'altezza del bancale; "che l'acqua scendeva nel punto di congiungimento di due tetti dove era presente una grondaia" (teste (...)). Il teste G. ha confermato di avere visto l'infiltrazione "... dove si congiungevano i due locali" e che l'acqua presente nel magazzino lambiva i mobili di proprietà (...) (cap. 5 di memoria istruttoria di parte convenuta). Il teste (...), coniuge della intervenuta (...), ha confermato che "la Sig.ra (...) veniva informata dalla conduttrice che, a seguito del nubifragio occorso il precedente 17settembre, si erano verificate percolazioni all'interno del capannone" (cap. 12 memoria istruttoria terza chiamata). Il teste (...), legale rappresentante della ditta che, in epoca precedente al nubifragio, aveva eseguito opere di rifacimento e successivi lavori di manutenzione del tetto dell'immobile, ha confermato di avere eseguito dei sopralluoghi sul tetto e di avere constatato che l'acqua filtrava attraverso una piccola fessurazione nel giunto di dilatazione della gronda di scarico centrale del corpo tetto. Alla luce di quanto sopra, deve, dunque, escludersi che i danni subiti dai mobili di proprietà degli attori siano dovuti a caso fortuito. Ai fini della quantificazione dei danni, è stata disposta Ctu, della quale la terza chiamata ha eccepito la nullità, sostenendo che il consulente tecnico d'ufficio non avrebbe preso posizione sulle osservazioni svolte dalla propria Ctp, essendosi limitato a riportare pedissequamente le stesse, senza replicare o fornire chiarimenti in merito alle specifiche obiezioni dalla medesima sollevate alla bozza della perizia. Si ritiene, tuttavia, che il Ctu, nel confermare le proprie conclusioni all'esito delle osservazioni di parte, in realtà, abbia inteso riportarsi alle motivazioni già esaurientemente esposte nella propria relazione, non avendo altro da aggiungere. L'eccezione, pertanto, è infondata. Con riguardo alla quantificazione degli stessi, si ritiene corretta la valutazione in Euro 7.090,00, compiuta dal Ctu, alla cui relazione si fa integrale rinvio, in quanto priva di vizi logici ed argomentativi e sostanzialmente conforme a quella del perito assicurativo (doc. 3 di parte attrice). Su tale somma è dovuta la rivalutazione monetaria dalla data del deposito della Ctu alla data di pubblicazione della sentenza. Sulla somma, devalutata alla data dell'evento e rivalutata annualmente, sono altresì dovuti gli interessi legali dalla medesima data al saldo. Con riguardo alla domanda proposta nei confronti della terza chiamata, si osserva, preliminarmente, che la domanda di manleva è un atto con cui una parte chiede che un terzo sia condannato a sollevarla da quanto sarà eventualmente tenuta a corrispondere a fronte di una richiesta risarcitoria, nel caso in cui sia soccombente in giudizio, ipotesi ricorrente nel caso di specie. Nel merito si osserva che parte resistente ha fornito prova testimoniale in merito al fatto che, al momento dell'evento atmosferico, i mobili in deposito erano stoccati su bancali alti circa 13 cm (testi (...) e G., cap.1 di memoria istruttoria), contrariamente a quanto affermato dal solo teste (...) il quale, sul punto, in quanto coniuge della terza intervenuta, si ritiene non sia attendibile, a differenza rispettivamente del dipendente e dell'ex dipendente di parte resistente. La provata presenza della fessurazione in corrispondenza del giunto di dilatazione della gronda di scarico centrale, unitamente alla conferma dell'avvenuto stoccaggio del mobilio in posizione sopraelevata e del fatto che l'acqua lambiva, comunque, anche il bancale, rende integralmente accoglibile la domanda proposta dalla resistente nei confronti della terza chiamata, in quanto proprietaria dell'immobile in oggetto, tenuta alla manutenzione straordinaria. Infatti, "il proprietario di un immobile locato risponde, ex art. 2051 c.c., dei danni causati a terzi dall'immobile stesso nel solo caso in cui tali danni siano derivati dalle strutture murarie dell'immobile o dagli impianti in esse conglobati" (Cass. n. 14745/2007), ipotesi ricorrente nel caso di specie. Inoltre, si ritiene che le circostanze accertate debbano far escludere anche solo una corresponsabilità di parte resistente, per il fatto di avere scoperto l'allagamento solamente due giorni dopo l'evento e di non essersi preoccupata, nell'immediatezza, di controllare lo stato dei luoghi. Infatti, deve ritenersi che non fosse prevedibile l'allagamento di un capannone chiuso ed apparentemente in buone condizioni di manutenzione, in conseguenza di un acquazzone. La domanda svolta nei confronti della terza chiamata deve, pertanto, essere integralmente accolta. Le spese di Ctu vanno poste definitivamente a carico di parte resistente e della terza chiamata. Le spese di causa seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Giudice Unico, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così decide: in accoglimento della domanda attorea, dichiara tenuta e condanna (...) di (...) e (...) s.n.c., in persona del legale rappresentante pro tempore, a risarcire i danni subiti da (...) e (...), che liquida in complessivi Euro 7.090,00, oltre rivalutazione monetaria, dalla data del deposito della Ctu alla data di pubblicazione della sentenza, e, sulla somma devalutata alla data dell'evento e rivalutata annualmente, interessi legali dalla medesima data al saldo. In accoglimento della domanda di parte convenuta nei confronti della terza chiamata, dichiara tenuta e condanna (...) a manlevare (...) di (...) e (...) s.n.c. di quanto debba versare a (...) e (...). Pone le spese di Ctu, come liquidate in atti, definitivamente a carico di parte convenuta e della terza chiamata, in solido tra loro. Condanna parte convenuta al pagamento delle spese processuali di parte attrice, che liquida in complessivi Euro 5.077,00, per onorari, ed Euro 264,00, per spese esenti, oltre rimborso forfettario del 15 % sul compenso, per spese generali, Iva e Cpa come per legge. Condanna la terza chiamata al pagamento delle spese processuali di parte convenuta, che liquida in complessivi Euro 5.077,00, per onorari, ed Euro 237,00, per spese esenti, oltre rimborso forfettario del 15% sul compenso, per spese generali, Iva e Cpa come per legge. Così deciso in Parma il 27 aprile 2023. Depositata in Cancelleria il 27 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI PARMA SEZIONE LAVORO Il Tribunale di Parma, in funzione di giudice del lavoro, nella persona del giudice designato per la trattazione, dott.ssa Ilaria Zampieri, nella causa iscritta al n. 676/2021 RG., promossa da: (...) rappresentato e difeso, giusta procura rilasciata in calce al ricorso, dall'Avv.to Gi.Ve. del Foro di Bologna, ed elettivamente domiciliato presso il relativo studio professionale, sito in Bologna, Via (...) RICORRENTE contro MINISTERO DELL'ISTRUZIONE E DEL MERITO, in persona del Ministro pro tempore ed i suoi organi interni - Ufficio IX- Ambito territoriale di Parma e Piacenza - Sede di Parma, rappresentato e difeso in giudizio, ex art. 417-bis c.p.c., dal Dott. (...), in servizio presso il Ministero dell'Istruzione - Ufficio Scolastico Regionale per l'Emilia-Romagna - Ufficio IX Ambito territoriale di Parma, e domiciliato in Parma, viale (...); RESISTENTE nonché contro (...) "(...)", in persona del dirigente pro tempore, rappresentato e difeso dal funzionario del Ministero dell'Istruzione Dott. (...), ai sensi dell'art. 417 bis c.p.c., e domiciliato in P., Viale M. della L., n. 15; RESISTENTE ha pronunciato la seguente SENTENZA SVOLGIMENTO DEL PROCESSO - MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Svolgimento del processo. 1.1. Con ricorso depositato in data 3.11.2021, G.D. - inserito nella III fascia delle graduatorie d'istituto del personale ATA della provincia di Parma per il triennio 2017/2021, con il punteggio di 10,30 - conveniva in giudizio le Amministrazioni indicate in epigrafe, chiedendo l'annullamento del decreto di depennamento dalle suddette graduatorie, emesso il 6/04/2021 dal dirigente scolastico del (...)S. "(...)" di P., con il conseguente suo reinserimento nelle graduatorie nonché con il ripristino del punteggio originario, ovvero il riconoscimento del diverso punteggio che risultasse di giustizia. Lamentava, al riguardo, che il dirigente scolastico l'aveva escluso dalle graduatorie definitive perché il diploma di qualifica professionale "Operatore dei Servizi della Ristorazione - Settore Cucina", conseguito presso l'Istituto paritario "(...)" di San Marco di Castellabate (SA), era risultato falso in base a una nota della Procura della Repubblica di Vallo della Lucania; contestava, pertanto, l'illegittimità di tale decisione perché il diploma, rilasciato da un Istituto legalmente riconosciuto, costituiva un atto pubblico, valido fino a querela di falso, nonché per la mancata comunicazione di avvio del procedimento e la violazione delle norme e delle garanzie previste dall'art. 55 bis del D.Lgs. n. 165 del 2001 per i procedimenti disciplinari. Tanto premesso, chiedeva l'accoglimento delle seguenti conclusioni: "ACCERTARE, DICHIARARE E RITENERE NULLO E/O ILLEGITTIMO il Decreto di risoluzione anticipata del contratto ed il Decreto di depennamento emessi dal Dirigente Scolastico Prof.ssa (...), con il quale ha disposto il suo depennamento dalle graduatorie di terza fascia d'istituto, per il personale ATA, per il triennio 2017/2021,oltre la risoluzione anticipata del contrattato di lavoro a tempo determinato fino al 30.06.2021, e per l'effetto ORDINARE alla stessa DS l'INSERIMENTO del ricorrente nelle graduatorie di terza fascia d'istituto, per il personale ATA, per il triennio 2017/2020, con il RIPRISTINO del punteggio inizialmente indicato nella graduatoria di istituto prima del depennamento con tutti i profili, oltre l'incremento di quello che il ricorrente avrebbe conseguito con la conclusione del contratto al 30.06.2021, ovvero il diritto del ricorrente al riconoscimento del diverso punteggio che risulti di giustizia, anche al fine di versare detto punteggio nelle nuove graduatorie d'istituto, per il personale ATA, triennio 2021/2024, per tutti i fatti evidenziati in narrativa. CONSEGUENTEMENTE CONDANNARE AL PAGAMENTO ECONOMICO DELLE MANCATE RETRIBUZIONI, le Amministrazioni Scolastiche convenute, con decorrenza dalla data dell'effettivo licenziamento 01.04.2021 e/o comunque fino al 30.06.2021 data di scadenza del contratto del signor (...), anche in considerazione che per l'anno scolastico 2020/2021, non ha avuto più la possibilità di ricevere convocazioni utili, fino al 31.08, neanche per l'a.s. 2021/2022, oltre interessi e rivalutazione monetaria, o quella minore o maggiore che risulterà in corso di causa, per tutti i fatti evidenziati in narrativa, CONSEGUENTEMENTE ORDINARE alle amministrazioni scolastiche convenute, al PAGAMENTO ECONOMICO DELLE MANCATE RETRIBUZIONI, al signor (...), dal 4.01.04.2021 (giorno di revoca del contratto) fino al 30.06.2021 (giorno di scadenza del contratto). ACCERTARE, DICHIARARE E RITENERE NULLO E/O ILLEGITTIMO IL DECRETO CHE NON RICONOSCE IL SERVIZIO SVOLTO E RECUPERARE il punteggio ai fini giuridici del servizio prestato dal 11.09.2020 AL 30.06.2021, con il profilo di Collaboratore Scolastico presso il (...) "(...)" di (...), nonchè quello degli anni relativi al triennio 2017/2021, nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale". CONSEGUENTEMENTE CONDANNARE, in solido tra loro, (...) "(...)" di (...), in persona del Dirigente Scolastico pro tempore; nonché il Ministero dell'Istruzione, in persona del Ministro pro tempore, tutti domiciliati ex lege presso l'Avvocatura distrettuale dello Stato in 40123 B., Via A. T. n. 6, al RISARCIMENTO DEL DANNO patito dal ricorrente e quantificato in Euro 20.000,00, oltre interessi legati e rivalutazione monetaria, o quella minore o maggiore che risulterà in corso di causa, per la risoluzione anticipata del contratto e per il depennamento da tutte le graduatorie di terza fascia d'Istituto, per il personale Ata, triennio 2017/2021, per i fatti sopra esposti. ACCERTARE, DICHIARARE la validità del Diploma di Qualifica Professionale per Operatore dei Servizi di Ristorazione Settore Cucina, emesso dall'Istituto Paritario "(...)" di San Marco di Castellabate (SA), nell'a.s. 2012/2013. IN SUBORDINE Nella malaugurata ipotesi in cui, all'esito del presente giudizio, l'Ill.mo Giudice adito dovesse ritenere di non accogliere un provvedimento favorevole per l'odierno ricorrente, di NON CONDANNARE lo stesso alla refusione delle spese del presente giudizio, stante la novità della vertenza. ADOTTARE, comunque, i provvedimenti opportuni e più idonei a consentire la tutela della posizione soggettiva del ricorrente". 1.2. Le amministrazioni convenute si costituivano in giudizio, contestando la fondatezza delle pretese azionate e chiedendo la reiezione del ricorso. 1.3. La causa veniva istruita sulla scorta della sola documentazione versata in atti dalle parti. 1.4. In data 17.01.2023, dopo la discussione, il giudice decideva la causa sulle conclusioni rassegnate dal procuratore di parte ricorrente negli scritti difensivi e a verbale, dando lettura del dispositivo della sentenza ex art. 429 c.p.c. e riservando il deposito della motivazione entro il termine di 60 giorni. 2. Motivi della decisione. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato per le motivazioni di seguito esposte. All'esame delle doglianze di parte ricorrente giova premettere una sintetica ricostruzione della vicenda oggetto di causa, originata da accertamenti compiuti in sede giudiziaria e, successivamente, amministrativa, in ordine al rilascio di diplomi, risultati falsi, apparentemente riconducibili a tale Istituto "(...)" di San Marco di Castellabate (SA). Nell'ottobre 2017, il ricorrente ha presentato domanda per l'inserimento nelle graduatorie di circolo e d'istituto di III fascia per il personale ATA della provincia di Parma, per il triennio 2017/2019, la cui validità è stata prorogata sino all'anno scolastico 2020/2021. Nella domanda di inserimento ha dichiarato, ai fini dell'accesso al profilo di collaboratore scolastico, di essere in possesso di un diploma di qualifica professionale di operatore dei servizi di ristorazione, conseguito presso l'Istituto Professionale "(...)" di San Marco di Castellabate (SA) conseguito nell'a.s. 2012/2013 con votazione 100/100. Con riferimento all'anno scolastico 2020/2021, in funzione della sua posizione in graduatoria, ha, quindi, stipulato un contratto di lavoro a tempo determinato con il (...) "(...)" di (...), in qualità di collaboratore scolastico supplente, con decorrenza dall'11 settembre 2020 e sino al 30 giugno 2021. Con nota prot. n. (...) del 7 ottobre 2020, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Vallo della Lucania (SA), ha comunicato all'Ufficio Scolastico Regionale della Campania che, alla luce delle indagini espletate, numerosi diplomi di qualifica professionale rilasciati dall'Istituto Professionale "(...)" nell'anno scolastico 2012/2013, dovevano ritenersi falsi. Ha allegato alla comunicazione il relativo elenco in cui figurava anche il diploma professionale dell'odierno ricorrente. L'ufficio scolastico ha, poi, trasmesso la nota ai competenti uffici scolastici dell'Emilia Romagna e, all'esito dei relativi controlli, (...) è stato depennato da tutte le graduatorie di circolo e di istituto di III fascia per il personale ATA, triennio scolastico 2017/2019, validità triennio 2018/2021. L'Istituto "(...)" di (...), con decreto del 6 aprile 2021, ha, quindi, comunicato al (...) l'immediata risoluzione del contratto termine in corso. A fronte di questi fatti, è bene chiarire, sin d'ora, che la risoluzione del contratto di impiego a termine stipulato dal (...) e la sua esclusione delle graduatorie di circolo e di istituto di III Fascia, è avvenuta ai sensi degli art. 71 e 75 del D.P.R. n. 445 del 2000, nonché ai sensi dell'art. 8 del D.M. n. 640 del 2017. E' noto, invero, che - ai fini dell'inserimento nelle suddette graduatorie - l'aspirante compila una domanda con cui, tra l'altro, autocertifica, a norma dell'art. 46 del cit. D.P.R. n. 445 del 2000, il titolo di studio o la qualifica professionale posseduti. Quest'ultimo articolo prevede che, in generale, sono comprovati con dichiarazioni, anche contestuali all'istanza, sottoscritte dall'interessato e prodotte in sostituzione delle normali certificazioni, gli stati, le qualità personali e i fatti previsti dalla norma medesima, tra cui, per quel che qui interessa, il titolo di studio e gli esami sostenuti (lett. m)), nonché la qualifica professionale posseduta, il titolo di specializzazione, di abilitazione, di formazione, di aggiornamento e di qualificazione tecnica (lett. n.)). Il richiamato art. 71 del medesimo d.p.r. prevede, poi, che le amministrazioni effettuino idonei controlli sulla veridicità delle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47, anche a campione, in misura proporzionale al rischio e all'entità del beneficio, e nei casi di ragionevole dubbio, e che possano farlo anche successivamente all'erogazione dei benefici, comunque denominati, per i quali sono rese le dichiarazioni. Infine, l'art. 75 del d.p.r. dispone che, ferme restando le eventuali responsabilità penali, qualora dal controllo di cui all'art. 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera. La normativa ora ricordata ha, dunque, introdotto in via generale la facoltà delle dichiarazioni sostitutive di certificazioni, con finalità di semplificazione e snellimento dell'attività amministrativa, ma ha, altresì, previsto l'obbligo dell'amministrazione di effettuare controlli periodici sulla veridicità delle dichiarazioni medesime e di rilevare le situazioni accertate di non veridicità; e, ciò, anche, e soprattutto, a tutela dei controinteressati (tutela nella specie di una certa pregnanza, trattandosi di accesso ad un impiego pubblico mediante graduatoria pubblica, con molteplici aspiranti). Alle disposizioni di legge sopra riportate, si aggiunge l'art. 8 del D.M. n. 640 del 2017 - recante disposizioni relative alla procedura di aggiornamento delle graduatorie di III fascia per il personale ATA - che, in linea con le suddette disposizioni di legge, al punto 2, specifica che l'amministrazione scolastica dispone l'esclusione degli aspiranti che abbiano effettuato autodichiarazioni mendaci o abbiano prodotto certificazioni o autocertificazioni false; e, al punto 4, dispone che le autodichiarazioni mendaci o la produzione di certificazioni false, o, comunque, la produzione di documentazioni false comportano l'esclusione dalla graduatoria di riferimento, nonché la decadenza dalle medesime graduatorie e l'irrogazione delle sanzioni di cui alla vigente normativa, come prescritto dagli art.75 e 76 del D.P.R. n. 445 del 2000. Nel caso di specie, l'Amministrazione scolastica ha ritenuto che l'autocertificazione resa dal (...) sul fatto di essere in possesso del diploma di qualifica professionale rilasciato dall'Istituto privato "(...)", non fosse veritiera, essendo falso il relativo diploma. Ne sono conseguiti, proprio in virtù dell'art. 75 del D.P.R. n. 445 del 2000 e dell'art. 8 del D.M. n. 640 del 2017, il depennamento dalle graduatorie di circolo e d'istituto di III fascia, in cui il (...) era stato inserito anche in virtù del dichiarato possesso di detto diploma di qualifica professionale, e la risoluzione del contratto di lavoro a termine che era in corso e che il ricorrente aveva stipulato grazie all'inserimento in dette graduatorie. Tanto premesso, il ricorrente ha mosso una serie di censure rispetto all'operato dell'Amministrazione convenuta che possono essere così sintetizzate: a) violazione delle disposizioni normative di cui alla L. n. 241 del 1990 che regolamentano il procedimento amministrativo; b) violazione delle norme e delle garanzie previste dall'art. 55 bis del D.Lgs. n. 165 del 2001 per i procedimenti disciplinari; c) illegittimità della condotta tenuta dal Ministero convenuto, il quale, alla stregua della natura di atto pubblico del diploma posseduto, avrebbe avuto l'onere di smentire l'effettivo possesso del titolo di studio, formalmente attestato dal diploma, ai sensi dell'art. 2700 c.c., e, dunque, solo mediante querela di falso, tuttavia non proposta dal Ministero nel caso di specie. Tanto premesso, il ricorso è infondato e deve, dunque, essere rigettato. Con riguardo alla prima doglianza, come esaustivamente sostenuto dalla Corte di Appello di Brescia con la sentenza n. 295/2022 - i cui passaggi argomentativi qui si richiamano anche ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 118 disp. att. c.p.c. - occorre evidenziare che "nella specie non sussiste alcuna violazione dell'art. 55 del D.Lgs. n. 165 del 2001...derivando la risoluzione del rapporto di impiego, non dall'applicazione di una sanzione disciplinare...bensì da un vizio genetico del rapporto di lavoro (dovuto all'illegittima inclusione del XXX nelle graduatorie di cui occorre far parte per accedere al rapporto di lavoro). Come già esposto, il D.P.R. n. 445 del 2000 con riferimento alla formazione e all'uso di dichiarazioni mendaci e di atti falsi, contiene, oltre ad una specifica previsione di rilievo penale della condotta (art. 76), la previsione, a livello amministrativo, della decadenza dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato in base alla dichiarazione non veritiera (art.75). Le sue false dichiarazioni comportano, quindi, il venir meno di quel beneficio a cui l'appellato avrebbe avuto diritto se il dato falsamente dichiarato fosse stato vero, e cioè il diritto all'inserimento nelle graduatorie di 3a fascia e anche il successivo diritto all'assunzione, una volta occupata una posizione utile nella graduatoria medesima, e il diritto alla correlata stipulazione del contratto di impiego pubblico a tempo determinato. L'appellato, per espressa disposizione di legge, è, quindi, decaduto dal diritto all'assunzione e, per l'effetto, anche il successivo contratto di lavoro finisce per essere inesorabilmente viziato (da nullità, annullabilità, inefficacia, il dato non rileva, posto che la p.a. lo ha tempestivamente rimosso). Non si può quindi qualificare la risoluzione del rapporto come un atto di licenziamento da parte della p.a.. Nel caso di specie, si versa nell'ambito di una fattispecie del tutto peculiare, proprio perché il diritto all'assunzione nel pubblico impiego, anche dopo la sua privatizzazione, presuppone (per legge, e prima ancora per Costituzione - art. 97 -) l'inserimento nella graduatoria di un pubblico concorso e il raggiungimento di una posizione utile, e l'inserimento nella graduatoria, a sua volta, deve avvenire sulla base di titoli sussistenti e legittimi. Se viene meno il diritto all'inserimento nella graduatoria, per la mancanza dei relativi requisiti, viene meno il diritto all'assunzione. I contratti stipulati dalla p.a. sono soggetti ad un particolare procedimento amministrativo (procedura di evidenza pubblica), che si affianca e si sovrappone al regolamento contrattuale, e l'ultima fase di questo procedimento è appunto la conclusione del contratto: se viene meno il diritto di accesso al procedimento, viene meno il diritto alla conclusione del contratto". Anche la seconda doglianza sollevata dal ricorrente è destituita di fondamento. A riguardo, giova precisare che - contrariamente a quanto sostenuto dal (...) - gli accertamenti compiuti dall'Amministrazione non richiedevano alcuna comunicazione di avvio del procedimento di esclusione dalla graduatoria e di risoluzione del contratto, ai sensi dell'art. 7 L. n. 241 del 1990, trattandosi di norma non applicabile alla fattispecie oggetto di causa. Questa verte, infatti, su un rapporto di lavoro, espressamente regolato dalle norme di diritto privato ex art. 2, comma 3, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e, specificamente, sul procedimento di formazione delle graduatorie, disciplinato dalla normativa speciale dettata dal D.M. n. 640 del 30 agosto 2017. Tale procedimento viene avviato ad istanza della parte interessata ed è soggetto alle conseguenti verifiche dell'Istituzione scolastica competente al conferimento del primo incarico. Non ricorre, pertanto, l'esigenza che la L. n. 241 del 1990 intende assicurare, ravvisabile nella partecipazione dell'utente al processo formativo del provvedimento, laddove lo stesso sia - invece - intrapreso ad iniziativa dell'Amministrazione. Tanto premesso, occorre, dunque, esaminare nel merito la tesi posta a base del ricorso, secondo cui la falsità del citato diploma si sarebbe potuta accertare solo tramite querela di falso. La predetta tesi non è condivisibile. Sul punto, si richiamano, anche ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 118 disp. Att. c.p.c., le puntuali argomentazioni rese dalla Corte d'Appello di Milano con la sentenza n. 250/2022: "...tale prospettazione contrasta, infatti, con i principi enunciati dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui la querela di falso occorre solo per contestare gli elementi estrinseci dell'atto, come indicati dall'art. 2700, c.c., mentre la falsità ideologica può essere dimostrata liberamente dalla parte, secondo i normali principi in materia probatoria. In tal senso, il Supremo Collegio si è ripetutamente pronunciato, chiarendo che "l'efficacia probatoria dell'atto pubblico, nella parte in cui fa fede fino a querela di falso, è limitata agli elementi estrinseci dell'atto, indicati all'art. 2700 c.c., e non si estende al contenuto intrinseco del medesimo, che può anche non essere veritiero. E' pertanto ammessa qualsiasi prova contraria, nei limiti consentiti dalla legge, in ordine alla veridicità e all'esattezza delle dichiarazioni rese nel menzionato atto dalle parti" (Cass. 25.7.2019, n. 20214). Come ribadito dalla Cassazione nell'ordinanza 14.5.2020, n. 8968 - "l'atto pubblico fa fede, ai sensi dell'art. 2700 c.c., soltanto della provenienza delle dichiarazioni delle parti; l'efficacia di prova legale non vale invece a coprire il contenuto intrinseco del documento, ossia la veridicità delle dichiarazioni che il pubblico ufficiale attesta di aver ricevuto. Tale veridicità può quindi essere contestata con ogni mezzo di prova, la cui valutazione, come da regola generale è rimessa al prudente apprezzamento del giudice (art. 116 c.p.c.)". In quest'ultima pronuncia, è stato spiegato - in modo del tutto convincente - che "mentre la falsità materiale, scaturente dalla contraffazione (formazione ex novo di un documento che risulti formato da soggetto diverso dal suo autore apparente, ovvero in circostanze di tempo e luogo diverse da quelle in esso indicate, e quindi risulti falso nella sua totalità) o dalla alterazione (falsità materiale solo parziale che si verifica, cioè, quando sul documento originale siano state compiute interpolazioni, cancellazioni, sostituzioni, che ne abbiano modificato il testo) può essere fatta valere solo proponendo la querela di falso, la falsità ideologica, consistente invece in una enunciazione non vera del contenuto documentale in relazione alla parte narrativa (narrazione non veridica di fatti narrativi o dichiarazioni di scienza), può essere dimostrata con qualsiasi prova contraria utile a smentire la veridicità e l'esattezza delle dichiarazioni rese nel menzionato atto dalle parti" (Cass. ord. 8968/2020, cit.). L'applicazione al caso di specie di tali principi, cui il Collegio intende uniformarsi considerandoli condivisibili e aderenti al dettato normativo, induce a ritenere adeguatamente dimostrata la falsità del diploma, del quale (omissis) si è avvalsa per ottenere l'inserimento in graduatoria. Vanno, in proposito, anzitutto richiamate le risultanze desumibili dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, i quali possono essere posti dal Giudice civile a base del proprio convincimento quali prove c.d. atipiche, mancando nel vigente ordinamento una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova ed essendo venuta meno la pregiudiziale penale. In tal senso si è pronunciata la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo la quale "nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, sicché il giudice, potendo ù porre a base del proprio convincimento anche prove c.d. atipiche, è legittimato ad avvalersi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale" (così Cass. 20.1.2017, n. 1593). Come spiegato dalla Suprema Corte, "per il principio della pressoché completa autonomia e separazione tra giudizio penale e giudizio civile, quale principio generale del nuovo codice di procedura penale, questa Corte ha già statuito non solo che il giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità (civile) con pienezza di cognizione, non essendo vincolato alle soluzioni e alle qualificazioni del giudice penale (Cass. n. 1095 del 2007), ma soprattutto che il giudice civile può legittimamente utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale e fondare la decisione su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine al diretto esame del contenuto del materiale probatorio ovvero ricavandoli dalla sentenza, o se necessario, dagli atti del relativo processo in modo da accertare esattamente i fatti materiali sottoponendoli al proprio vaglio critico" (Cass. 18.4.2019, n. 10853, in motivazione; conf., tra le altre, Cass. 10.3.2015 n. 4758, Cass. 1.10.2013 n. 22463, Cass. 17.6.2013 n. 15112, Cass. 18.1.2007 n. 1095)". Ciò detto, per quanto attiene alla prova della falsità dell'autocertificazione resa dal (...) (in ordine al diploma professionale conseguito presso l'Istituto professionale (...)), ritiene il Tribunale che il quadro documentale offerto dalle emergenze di causa sia alquanto inequivocabile. Per quanto attiene alla distribuzione tra le parti degli oneri probatori, è certo che, a fronte di elementi di cui si darà conto - tutti a favore della non autenticità del diploma -, fosse onere del lavoratore fornirne di contrari, in grado di superare le suddette risultanze, non essendo a questi fini sufficiente produrre la sola pergamena del diploma. Il (...), invero, a fronte di una quadro fortemente indicativo della non autenticità del diploma, avrebbe dovuto corroborare la propria tesi sulla autenticità del diploma in questione, con tutti quegli elementi in grado di dimostrare, quanto meno apparentemente, che il diploma conseguito fosse in effetti l'atto finale e conclusivo di un regolare percorso di studi, documentando, ad esempio, la regolare frequenza delle lezioni del relativo corso (con la compilazione dei relativi registri di classe) ovvero la regolare tenuta degli esami ed il loro regolare superamento; elementi di cui non vi è alcuna traccia in atti, di talché la loro mancanza si aggiunge, quale ulteriore indizio, al quadro probatorio di segno opposto fornito dal MIUR. Passando all'esame di questo quadro, in primo luogo, può ritenersi sufficientemente riscontrato in giudizio che il numero di pergamena del diploma professionale rilasciato al (...) dall'Istituto professionale "(...)", ossia il n. (...) (del 2012), coincida con la pergamena fornita dal Ministero ad un istituto professionale diverso. Occorre precisare che le pergamene di tutti i diplomi rilasciati dalle scuole pubbliche e da quelle parificate sono uniche e non possono esistere duplicazioni: ogni pergamena di ogni diploma reca un numero progressivo e l'anno di stampa (ed ogni diploma rilasciato è inserito nell'apposito registro dei diplomi e di carico e scarico). Le pergamene dei diplomi sono stampate dall'Istituto Poligrafico dello Stato e sono consegnati alle scuole e ove la consegna sia fatta prima della conclusione degli esami, i diplomi sono forniti in base ad un fabbisogno presunto, facendo riferimento al numero dei candidati (interni ed esterni); se invece la consegna è fatta dopo la conclusione degli esami, i diplomi, allo scopo di non produrre in via tendenziale giacenze presso le scuole, sono forniti sulla base del fabbisogno reale; i diplomi richiesti dalla scuola ed eccedenti il fabbisogno, ossia in giacenza, sono poi prioritariamente utilizzati per i licenziati dell'anno ovvero degli anni scolastici successivi; le scuole devono comunque inviare all'Ufficio Scolastico Territoriale un unico elenco dei licenziati con indicazione per ciascuno, individuato con le generalità, del numero del diploma predisposto (che sia stato o meno già consegnato materialmente all'interessato) e del relativo anno di stampa. Nel caso di specie, è, invero, documentato che all'Istituto professionale statale "Giustino Fortunato" di Angri sono state consegnate le pergamene per la qualifica professionale dal n. (...)/anno 2012 al n.(...)/anno 2012). E', dunque, provato in atti che la pergamena n. (...) del diploma professionale del (...), in realtà, faccia parte di un lotto di pergamene ritirate da un altro istituto scolastico del tutto diverso. Risulta così provato che il diploma n. (...) rilasciato al (...) è falso, in quanto la pergamena originale di detto diploma è stata consegnata ad un istituto diverso dall'Istituto "(...)" che ha rilasciato il presunto diploma professionale all'odierno ricorrente, ed è stata utilizzata per il diploma di un frequentante, poi diplomato, dell'Istituto statale che ha ritirato la relativa pergamena. Il quadro probatorio sino ad ora riscostruito è, dunque, suscettibile di suffragare la tesi del MIUR circa la falsità del diploma di qualifica professionale rilasciato dall'Istituto "(...)" al (...) e da questi autocertificato. Tali essendo le emergenze di causa, gli elementi a favore della falsità del diploma di qualifica professionale autocertificato dal ricorrente sono assolutamente univoci e concordanti, non lasciando al riguardo alcun dubbio. D'altro canto, occorre ulteriormente evidenziare come - a sostegno dell'autenticità del diploma di qualifica professionale dallo stesso autocertificato - il ricorrente abbia prodotto unicamente il diploma e null'altro abbia documentato sulla effettiva frequenza dei corsi, sulla registrazione della sua partecipazione alle relative lezioni ed agli esami, sulle verifiche sostenute nonché sui voti riportati, così avvalorando la tesi della falsità del diploma. Ed allora, sulla scorta di tutte le suesposte considerazioni, può ritenersi dimostrato in giudizio che il (...) abbia autocertificato il falso, avendo dichiarato in sede di domanda di inserimento nelle graduatorie di circolo e d'istituto di III fascia, di essere in possesso del diploma di qualifica professionale di operatore dei servizi di ristorazione che egli ben sapeva di non avere mai conseguito, non essendo autentico quello formalmente in suo possesso. Per quanto attiene alle conseguenze derivanti dall'accertamento che precede, come già precisato, è indubbio che il (...), ai sensi dei citati art. 75 del D.P.R. n. 445 del 2000 e art. 8, punti 2 e 4, del D.M. n. 640 del 2017, vada depennato dalle graduatorie di circolo e istituto di III fascia in cui era stato inserito sulla base della sua autocertificazione non veritiera. Al contempo è pure legittima, ai sensi delle stesse norme ora richiamate, la risoluzione del contratto di assunzione a termine in corso al momento dell'accertamento da parte del MIUR della non autenticità della sua autocertificazione, essendo stato detto contratto concluso in virtù dello scorrimento delle graduatorie in cui il (...) era stato inserito grazie alla sua inveritiera autocertificazione. Per tutte le considerazioni svolte, il ricorso deve, dunque, essere rigettato. 3. Sulle spese di lite. Quanto alle spese di lite, giova ribadire che, con la recente sentenza n. 77/2018, la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 92, comma 2 c.p.c. nella parte in cui non consente di compensare parzialmente o per intero le suddette spese ove ricorrano gravi ed eccezionali ragioni, diverse da quelle tipizzate dal legislatore. Secondo la Corte, devono ritenersi riconducibili alla clausola generale delle "gravi ed eccezionali ragioni" tutte quelle ipotesi analoghe a quelle tipizzate espressamente nell'art. 92 comma 2 c.p.c., ovvero che siano di pari o maggiore gravità ed eccezionalità, con la conseguenza che "l'assoluta novità della questione trattata" e il "mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti" assumono la sola funzione di parametro di riferimento per la determinazione dell'area di operatività della norma e non un ruolo tipizzante esclusivo. Ebbene, nell'ipotesi de qua, la complessità delle questioni giuridiche sottese alla fattispecie in controversia, preclusiva della conoscibilità a priori delle ragioni delle parti - costituendo "analoga grave ed eccezionale ragione di compensazione delle spese di lite tra le parti" - giustifica ampiamente la compensazione integrale tra le parti delle spese del presente giudizio (art. 92, comma 2, c.p.c.). P.Q.M. Il Tribunale di Parma - Sezione Lavoro, in persona del Giudice dott.ssa Ilaria Zampieri, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe indicata, disattesa o assorbita ogni contraria istanza, eccezione e difesa, così provvede: 1) Rigetta il ricorso. 2) Compensa integralmente le spese di lite tra le parti. Indica in giorni sessanta il termine per il deposito della motivazione della sentenza. Così deciso in Parma il 17 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 21 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI PARMA SEZIONE LAVORO Il Tribunale di Parma, in funzione di giudice del lavoro, nella persona del giudice designato per la trattazione, dott.ssa Ilaria Zampieri, nella causa individuale di lavoro di impugnativa del licenziamento, iscritta al n. 658/2022 RG., promossa da: (...) S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avv. Va.Po. del Foro di Reggio Emilia, ed elettivamente domiciliata presso il relativo studio, in Reggio Emilia, Via (...), giusta procura alle liti apposta in calce alla memoria difensiva; OPPONENTE contro (...), rappresentato e difeso, giusta procura rilasciata in calce al ricorso, dall'Avv. Mario Scarica del Foro di Parma ed elettivamente domiciliato presso il relativo studio, sito in Parma, Strada (...); OPPOSTO ha pronunciato - ex art. 1, co. 51 e ss. L. n. 92 del 2012, c.d "Fornero"- la seguente SENTENZA SVOLGIMENTO DEL PROCESSO - MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Svolgimento del processo. 1.1 Con ricorso ex art. 1, commi 47 e ss., L. n. 92 del 2012 del 31.12.2020, il sig. (...) agiva in giudizio contro (...) S.r.l., rassegnando le seguenti conclusioni: "Voglia il Signor Giudice del Lavoro Ill.mo, contrariis reiectis, e previa ogni declaratoria, anche incidentale, del caso e di legge: A.- QUANTO AL LICENZIAMENTO IN VIA PRINCIPALE: 1.- accertare e dichiarare la nullità e/o l'inefficacia del licenziamento intimato da (...) srl in liquidazione nei confronti del sig. (...) con lettera datata 18 settembre 2020; accertare e dichiarare l'applicabilità, rispetto al licenziamento attuato (...) srl in liquidazione nei confronti del sig. (...) ed al rapporto di lavoro de quo, del disposto dell'art. 18 L. n. 300 del 1970, comma 1; accertare e dichiarare che la retribuzione globale di fatto percepita dal ricorrente al momento del licenziamento era pari ad Euro 2.521,23; 2.- per l'effetto, dichiarare tenuta e condannare (...) srl in liquidazione, in persona del suo legale rappresentante pro tempore: 2a.- a reintegrare il ricorrente nel suo posto di lavoro e relative mansioni occupate nel mese di settembre 2020, ai sensi e per gli effetti dell'art. 18 L. n. 300 del 1970, fatta salva la facoltà del ricorrente di chiedere, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto; 2b.- a risarcire il danno in favore del sig. (...), ai sensi e per gli effetti dell'art. 18, comma 2, L. n. 300 del 1970, danno da determinarsi in misura pari a tutte le retribuzioni maturate dal giorno 18 settembre 2020 alla data della effettiva reintegrazione, con un minimo di cinque mensilità di retribuzione globale di fatto, nonché al versamento dei relativi contributi previdenziali. IN VIA SUBORDINATA: 3.- accertare e dichiarare nullo, annullare e comunque dichiarare inefficace ed illegittimo, siccome privo di causa e di giustificazione e comunque sorretto da motivo illecito determinante ai sensi del combinato disposto degli artt. 1418 co. 2, 1345 e 1324 c.c. ovvero perché ritorsivo, il licenziamento intimato da(...) srl in liquidazione nei confronti del sig. (...) con lettera datata 18 settembre 2020; accertare e dichiarare l'applicabilità, rispetto al licenziamento attuato da (...) srl in liquidazione nei confronti del sig. (...) ed al rapporto di lavoro de quo, del disposto dell'art. 18 L. n. 300 del 1970; accertare e dichiarare che la retribuzione globale di fatto percepita dal ricorrente al momento del licenziamento era pari ad Euro 2.521,23; 4.- per l'effetto, dichiarare tenuta e condannare (...) srl in liquidazione, in persona del suo legale rappresentante pro tempore: 4a.- a reintegrare il ricorrente nel suo posto di lavoro e relative mansioni occupate nel mese di settembre 2020, ai sensi e per gli effetti dell'art. 18 L. n. 300 del 1970; 4b.- a risarcire il danno in favore del sig. (...), ai sensi e per gli effetti dell'art. 18, comma 2, L. n. 300 del 1970, danno da determinarsi in misura pari fino ad un massimo di 12 mensilità di retribuzione globale di fatto, nonché al versamento dei relativi contributi previdenziali. IN VIA ULTERIORMENTE SUBORDINATA: 5.- accertare e dichiarare nullo, annullare e comunque dichiarare invalido, inefficace ed illegittimo siccome privo di causa e di giustificazione il licenziamento intimato da (...) srl in liquidazione nei confronti del sig. (...) con lettera datata 18 settembre 2020, per tutti i motivi esposti in atti; per l'effetto, dichiarare tenuta e condannare (...) srl in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, ai sensi e per gli effetti dell'art. 18 della len. 300/1970, a erogare in favore del ricorrente una indennità risarcitoria compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita. IN VIA ULTERIORMENTE SUBORDINATA: 6.- accertare e dichiarare nullo, annullare e comunque dichiarare invalido, inefficace ed illegittimo siccome privo di causa e di giustificazione il licenziamento intimato da (...) srl in liquidazione nei confronti del sig. (...) con lettera datata 18 settembre 2020 per tutti i motivi esposti in atti; per l'effetto, dichiarare tenuta e condannare (...) srl in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, ai sensi e per gli effetti dell'art. 18 della L. n. 300 del 1970, a erogare in favore del ricorrente una indennità risarcitoria compresa tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita. IN VIA ULTERIORMENTE SUBORDINATA: 7.- accertare e dichiarare nullo, annullare e comunque dichiarare invalido, inefficace ed illegittimo, ai sensi dell'art. 8 L. n. 604 del 1966, il licenziamento intimato da (...) srl in liquidazione nei confronti del ricorrente con lettera datata 18 settembre 2020; per l'effetto, dichiarare tenuta e condannare (...) srl in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, ai sensi eper gli effetti dell'art. 8 della L. n. 604 del 1966, a erogare in favore del ricorrente una indennità risarcitoria compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 14 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita. B.-QUANTO AGLI ULTERIORI CREDITI DEL RICORRENTE IN OGNI CASO, SEMPRE IN VIA PRINCIPALE accertare e dichiarare che il sig. (...) è creditore, nei confronti di (...) srl in liquidazione e con riferimento al rapporto di lavoro intercorso tra le parti, della somma di Euro 19.536,15, di cui Euro 1.243,76 a titolo di emolumenti relativi al mese di luglio (Euro 22,00), agosto (22,00) e settembre 2020 (1.199,76), Euro 4.470,64 a titolo di ferie e permessi non goduti, ed Euro 7.518,68 a titolo di Tfr maturato, ed Euro 6.303,07 a titolo di indennità di mancato preavviso; per l'effetto, ritenuta la fondatezza della relativa istanza, emettere ordinanza di pagamento, ai sensi dell'art. 423, co. 1, c.p.c. e, in subordine, ai sensi dell'art. 423, co. 2, c.p.c., disponendo il pagamento in favore del ricorrente da parte della società convenuta, in persona del legale rappresentante pro tempore, dela somma Euro19.536,13 ovvero il pagamento di quella differente somma, maggiore o minore, eventualmente meglio vista e quantificata in corso di causa, se del caso determinata a seguito di espletanda CTU contabile ovvero determinati con valutazione equitativa da parte del Signor Giudice ex art. 432 c.p.c. IN VIA SUBORDINATA, accertare e dichiarare che il sig. (...) è creditore, nei confronti di (...) srl in liquidazione e con riferimento al rapporto di lavoro intercorso tra le parti, della complessiva somma di Euro 19.536,15, di cui Euro 1.243,76 a titolo di emolumenti relativi al mese di luglio (Euro 22,00), agosto (22,00) e settembre 2020 (1.199,76), Euro 4.470,64 a titolo di ferie epermessi non goduti, ed Euro 7.518,68 a titolo di Tfr maturato, ed Euro 6.303,07 a titolo di indennità di mancato preavviso; per l'effetto condannare (...) Srl in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento in favore del (...) della complessiva somma di Euro 19.536,15, ovvero al pagamento di quella differente somma, maggiore o minore, eventualmente meglio vista e quantificata in corso di causa, se del caso determinata a seguito di espletanda CTU contabile ovvero determinati con valutazione equitativa da parte del Signor Giudice ex art. 432 c.p.c. C. - In ogni caso, con rivalutazione monetaria ex art. 429 c.p.c., ed interessi legali sulle somme rivalutate dal giorno del dovuto al saldo effettivo; D.- Con vittoria di spese e compensi, oltre rimborso spese generali 15%, CPA e IVA, come per legge". 1.2. La società resistente contestava la fondatezza delle domande attoree, ribadendo la legittimità del licenziamento comminato al ricorrente (così come agli altri dipendenti), sostenendo, a tale riguardo, che la procedura prescritta dalla L. n. 223 del 1991 per la comminazione del licenziamento collettivo non si applicasse al caso di specie, difettando l'imprescindibile requisito dimensionale richiesto per la relativa applicazione. 1.3. Fallito il tentativo di bonario componimento della lite, la causa veniva istruita sulla base della sola documentazione versata in atti dalle parti nonché alla stregua delle risultanze della CTU tecnico-contabile disposta al fine di calcolare la consistenza occupazionale della società convenuta nell'ultimo semestre anteriore alla cessazione del rapporto di lavoro. 1.4. A scioglimento della riserva assunta, il Giudice, con ordinanza del 13.08.2022, accoglieva il ricorso e, in applicazione della tutela ex art. 18, quarto comma, L. n. 300 del 1970, annullava il licenziamento intimato dalla società a (...), condannando, per l'effetto, la (...) s.r.l. in liquidazione a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro ed a corrispondergli l'indennità risarcitoria contemplata dalla normativa applicata. 1.5. Con ricorso del 16.09.2022 e ritualmente notificato, la società (...) S.r.l. in liquidazione proponeva opposizione ex art. 1, co. 51, L. n. 92 del 2012 avverso la predetta ordinanza. La società, in particolare, chiedeva riformarsi l'ordinanza pronunciata dal Giudice a conclusione della fase sommaria del giudizio, eccependo: a) la nullità parziale della CTU disposta ai fini del computo della consistenza occupazionale della datrice di lavoro; b) l'erronea valutazione del Giudice circa il momento di cessazione dell'attività; c) nonché la sproporzione della tutela applicata. La (...) s.r.l. in liquidazione rassegnava, dunque, le seguenti conclusioni: "Voglia l'Ill.mo Tribunale di Parma, Giudice del Lavoro, previa ogni opportuna declaratoria del caso e di legge, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa e respinta, in riforma dell'ordinanza del Tribunale di Parma Dott.ssa E., n. cron. 2152/2022 del 13/08/2022, comunicata in data 18/08/2022, nel procedimento iscritto al n. 913/2020 R.G: In via preliminare: 1) sospendere l'esecutività dell'ordinanza del Tribunale di Parma n. cronol. 2152/2022 del 13/08/2022, comunicata in data 18/08/2022; in via principale nel merito: 2) respingere tutte le domande formulate dal ricorrente (...) nei confronti di (...) Sr in liquidazione nel presente giudizio in quanto inammissibili, improcedibili, illegittime, totalmente infondate in fatto e in diritto e comunque non provate per i motivi in atto esposti; In via subordinata nel merito: 3) nella denegata e non creduta ipotesi di mancato accoglimento di quanto richiesto in via principale, ridurre la tutela applicata al lavoratore nei minimi di legge con previsione di pagamento in nr. 17 rate mensili per i motivi in atto esposti; In ogni caso: 4) con vittoria di spese, competenze ed onorari della presente causa". 1.6 Con memoria depositata in data 28.01.2023, si costituiva in giudizio il sig. (...), contestando tutto quanto ex adverso sostenuto ed argomentato e chiedendo la reiezione dell'opposizione. 1.7 La causa veniva istruita sulla base della sola documentazione versata in atti dalle parti. 1.8 All'udienza del 7.03.2023, dopo la discussione, il Giudice riservava il deposito della sentenza completa di motivazione. 2. Motivi della decisione. Tanto premesso in relazione allo svolgimento del procedimento, ritiene questo Giudice che il licenziamento intimato dalla società datrice di lavoro sia illegittimo, avendo detta società proceduto - pur sussistendo i presupposti per l'applicazione della procedura di licenziamento collettivo per riduzione del personale - a intimare ai dipendenti licenziamenti plurimi in violazione dell'art. 24 L. n. 223 del 1991. L'opposizione, dunque, è in parte qua infondata. 2.1 Il contesto normativo di riferimento. E' utile, anzitutto, rammentare che, com'è noto, la L. 23 luglio 1991, n. 223, - Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione ecc.-, prevede che le imprese che occupano più di 15 dipendenti e che, in conseguenza di una riduzione, o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti nell'arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell'ambito del territorio di una stessa provincia, devono dare corso alle procedure di mobilità secondo le prescrizioni di cui agli artt. 4 e seguenti. In particolare, la procedura di mobilità deve essere preceduta da una comunicazione scritta, che deve essere inoltrata alle rappresentanze sindacali aziendali, nonché alle rispettive associazioni di categoria, che, a norma del comma 2 dell'art. 4 deve contenere l'indicazione: dei motivi che determinano la situazione di eccedenza; dei motivi tecnici, organizzativi e produttivi, per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare in tutto o in parte, la dichiarazione di mobilità; del numero, della collocazione aziendale e dei profili professionali del personale eccedente; dei tempi di attuazione del programma di mobilità; delle eventuali misure programmate per fronteggiare la conseguenza, sul piano sociale, della attuazione del programma medesimo. Alla prima comunicazione ne deve seguire una seconda ex art. 4, comma 9, c.d. successiva al licenziamento , la quale ha la funzione specifica di consentire a ogni singolo lavoratore, una volta nominativamente individuato come destinatario del licenziamento collettivo , la verifica della conformità della propria personale situazione ai criteri di scelta adottati dal datore di lavoro. Secondo la consolidata giurisprudenza della S.C., può darsi acquisita l'affermazione secondo cui, dopo l'entrata in vigore della L. n. 223 del 1991, il licenziamento collettivo costituisce un istituto autonomo, che si caratterizza, con riferimento alle imprese aventi una determinata base occupazionale, essenzialmente per la presenza di requisiti quantitativi e spaziali, oltre che per la finalizzazione della procedura, attraverso il controllo preventivo di soggetti pubblici e collettivi, a un equilibrato contemperamento fra la tutela dell'occupazione e il soddisfacimento dell'esigenza che le imprese possano dimensionare la struttura aziendale in termini compatibili con la necessità della sopravvivenza e della crescita (v. ad es. Cass. n. 14638/2006; Cass. n. 5794/2004; Cass. n. 9045/2000). Inoltre, sostengono i giudici di legittimità, la fattispecie del licenziamento collettivo unifica tutte le ipotesi di recesso determinate da esigenze aziendali e, per il particolare impatto occupazionale che riveste, determina la necessità di una procedimentalizzazione del recesso del datore di lavoro nell'ambito di una gestione collettiva delle situazioni di crisi e di riorganizzazione aziendale. Per come si è, infatti, correttamente avvertito, la volontà del legislatore di sottoporre alla disciplina del licenziamento collettivo tutti i licenziamenti che trovano la loro ragione nelle esigenze dell'impresa, non solo non risulta incompatibile con la lettera della legge, per la sostanziale fungibilità che il riferimento alla "riduzione o trasformazione di attività o di lavoro" assume rispetto alle "ragioni attinenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa", previste dalla L. n. 604 del 1966, art. 3, e per la rilevanza che nella stessa, invece, acquista il requisito numerico e spaziale, ma appare, altresì, conforme alle fonti comunitarie, di cui la legge stessa costituisce attuazione (direttiva 98/59/CE del 20 luglio 1998, che coordina e modifica le precedenti n. 92/56 del 24 giugno 1992 e n. 129 del 17 febbraio del 1975), che qualificano il licenziamento collettivo , oltre che per il numero dei lavoratori interessati, per la sua inerenza a "uno o più motivi non inerenti alla persona del lavoratore". Non a caso la legge considera come collettivo il licenziamento determinato dalla cessazione dell'attività aziendale, situazione che per il pregresso, per giurisprudenza pacifica, veniva configurata, invece, come licenziamento plurimo. A mente dell'art. 24, co. 2, L. n. 223 del 1991, invero, le disposizioni relative alle procedure di mobilità, i criteri di scelta, le sanzioni e gli oneri economici a carico dell'impresa, contenute nell'art. 4, commi 2-15 e 15-bis e nell'art. 5, commi 1-5, si applicano anche alle imprese o ai datori di lavoro privati non imprenditori che intendono cessare la propria attività. La giurisprudenza di legittimità ha più volte precisato che "la scelta dell'imprenditore di cessare l'attività costituisce esercizio incensurabile della libertà di impresa garantita dall'art. 41 Cost., con la conseguenza che la procedimentalizzazione dei licenziamenti collettivi che ne derivano, secondo le regole dettate per il collocamento dei lavoratori in mobilità dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, applicabili alla fattispecie in esame per effetto dell'art. 24, della stessa L. n. 223 del 1991, ed in particolare l'obbligo di comunicazione dei motivi della scelta, hanno la funzione di consentire il controllo sindacale sulla effettività della scelta medesima, allo scopo di evitare elusioni del dettato normativo concernente i diritti dei lavoratori alla prosecuzione del rapporto nel caso in cui la cessazione dell'attività dissimuli la cessione dell'azienda o la ripresa dell'attività stessa sotto diversa denominazione o in diverso luogo (cfr. Cass. n. 5516/03; Cass. n. 5700/04; Cass. 15643/05; Cass. 13297/07, la quale ultima ha precisato che l'estensione, ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 24, comma 2, della disciplina prevista in materia di mobilità ai licenziamenti collettivi conseguenti alla chiusura dell'insediamento produttivo deve essere intesa nei limiti della compatibilità di tale disciplina con i risultati in concreto perseguibili in relazione alla cessazione dell'attività aziendale, e cioè in modo da assicurare ai lavoratori la tutela previdenziale e sociale, in accordo con la ratio della estensione dei detti meccanismi della L. n. 223 del 1991, ai casi di cessazione di attività). In precedenza, la Corte Costituzionale (sent. n. 6 del 1999) aveva sottolineato che "anche la cessazione dell'attività si vuole inserita in quella complessa concertazione attraverso cui la normativa sulla mobilità tende a ridurre le conseguenze della crisi o della ristrutturazione dell'impresa sull'occupazione"; e, ciò, in quanto la "messa in mobilità viene a coniugarsi con gli ulteriori meccanismi predisposti per la ricollocazione dei lavoratori" di talchè "essa assurge ad espressione di un principi() generale, che non può non valere anche quando ci si trovi in presenza della mera soppressione dell'impresa", perfino quando tale soppressione sia "operata al di fuori d'ogni procedura". Ed ha aggiunto che l'assimilazione logica della cessazione di attività alle ipotesi di licenziamento collettivo per "riduzione o trasformazione di attività o di lavoro", era coerente con quanto emergeva dai lavori preparatori: infatti il testo approvato originariamente dal Senato conteneva l'espressa previsione della inapplicabilità della normativa in esame all'ipotesi di "cessazione dell'attività di impresa per provvedimento dell'autorità giudiziaria"; ma questa limitazione venne poi soppressa nel testo approvato dalla Camera dei Deputati. Alla stregua di tali condivise opzioni ermeneutiche, che trovano riscontro nel dato testuale insuperabile costituito dalla L. n. 223 del 1991, art. 24, comma 2, che estende alle imprese che intendono cessare l'attività le disposizioni relative alle comunicazioni in terna di procedura di mobilità, deve considerarsi irrilevante, ai fini di cui trattasi, la cessazione dell'attività dell'azienda. Ne discende dunque che, a differenza di quanto avveniva nel precedente contesto legale, ciò che assume rilievo, e caratterizza la riduzione del personale, non è più la specifica ragione addotta a sostegno della risoluzione del rapporto di lavoro (così, ad es, Cass. n. 11455/1999), ma l'espletamento dell'iter procedurale previsto dall'art. 4 della L. n. 223 del 1991 medesima (cfr. Cass. n. 9045/2000; Cass. n. 5662/1999). Con la sentenza n. n. 11404 del 10 maggio 2017, la Corte di Cassazione ha, in particolare, osservato che, anche in caso di licenziamento collettivo per cessazione dell'attività aziendale, non può essere derogato il termine di 7 giorni per l'invio della comunicazione finale sull'applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori di cui all'art. 4, comma 9, della L. n. 223 del 1991, rivestendo carattere essenziale. Secondo l'orientamento ormai consolidato della Corte di legittimità, invero, "in terna di licenziamenti collettivi, il requisito della contestualità della comunicazione del recesso al lavoratore e alle organizzazioni sindacali e ai competenti uffici del lavoro, richiesto a pena d'inefficacia del licenziamento medesimo, non può che essere valutato, in una procedura temporalmente cadenzata in modo rigido ed analitico, e con termini molto ristretti, nel senso di una necessaria ed ineliminabile contemporaneità delle due comunicazioni la cui mancanza può non determinarne l'inefficacia, solo se sostenuta da giustificati motivi di natura oggettiva, da comprovare dal datore di lavoro" (Cass. 23 gennaio 2009, n. 1722; Cass. 17 luglio 2009, n. 16776; Cass. 31 marzo 2011, n. 7490). Ed ancora, in tema di licenziamento collettivo, "la contestualità fra comunicazione del recesso al lavoratore e comunicazione alle organizzazioni sindacali e ai competenti uffici del lavoro dell'elenco dei dipendenti licenziati e dei criteri di scelta, richiesta, a pena di inefficacia del licenziamento, dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, si giustifica al fine di consentire alle organizzazioni sindacali (e, tramite queste, anche ai singoli lavoratori) il controllo sulla correttezza nell'applicazione dei menzionati criteri da parte del datore di lavoro, anche al fine di sollecitare, prima dell'impugnazione del recesso in sede giudiziaria, la revoca del licenziamento eseguito in loro violazione. Ne consegue che la funzione di tale ultima comunicazione implica che non possa accedersi ad una nozione "elastica" di contestualità, riferita anche alla data in cui il licenziamento abbia effetto, dovendosi ritenere irragionevole che, per non incorrere in una decadenza dal termine di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6, il lavoratore debba impugnare il licenziamento senza la previa conoscenza dei criteri di scelta" (Cass. 29 aprile 2015, n. 8680; Cass. 28 ottobre 2015, n. 22024). Ne risultano, così, esaltati i connotati di rigidità della procedura, con la conseguenza che "la riscontrata violazione determina di per sè, ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3, l'inefficacia del licenziamento" (così Cass. n. 8680/2015 cit.). Tanto premesso, occorre infine precisare che, ai sensi dell'art. 24, comma I, L. n. 223 del 1991, "le disposizioni di cui all'articolo 4, commi da 2 a 12, e all'articolo 5, commi da 1 a 5, si applicano alle imprese che occupano più di 15 dipendenti che intendono effettuare almeno 5 licenziamenti, nell'arco di 120 giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell'ambito del territorio di una stessa provincia". Tale disposizione di legge richiama la procedura e gli adempimenti previsti dalla procedura di mobilità di cui agli artt. 4 e 5 della L. n. 223 del 1991 e stabilisce espressamente che la disciplina dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale si applica, in forza del richiamo operato dal comma II, anche in caso di cessazione dell'attività: a) alle imprese che occupano più di 15 dipendenti; b) qualora i licenziamenti riguardino almeno cinque lavoratori operanti in ciascuna unità produttiva o in più unità produttive nella stessa provincia. Essendo la circostanza di cui al precedente punto a) oggetto di contestazione tra le parti, si è disposta una CTU tecnico-contabile al fine di calcolare la consistenza occupazionale della società convenuta nell'ultimo semestre anteriore alla cessazione del rapporto di lavoro. La formulazione del quesito posto al perito è coerente al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la quale ha reiteratamente espresso il principio secondo cui, in tema di licenziamenti collettivi per riduzione del personale, il requisito dimensionale non debba essere determinato in riferimento al momento della cessazione dell'attività e dei licenziamenti, ma con riguardo all'occupazione dell'ultimo semestre, stante la necessità di estendere in via interpretativa il criterio di cui all'art. 1 della L. n. 223 del 1991 alle ipotesi di cui all'art. 24 della medesima legge, al fine di garantirne una lettura coordinata e sistematica (Cass. civ., sez. lav., 26.02.2020, n. 5240; Cass. civ., sez. lav., 17.10.2018, n. 26028; Cass. civ., sez. lav., 21.01.2011, n. 1465). Poiché, tuttavia, nella fattispecie in controversia, ricorre un inusuale ampio intervallo temporale tra il momento di cessazione dell'attività della società datrice di lavoro (maggio 2020) e l'intimazione dei licenziamenti plurimi (settembre 2020), il perito dell'Ufficio ha effettuato due diversi computi dell'occupazione media della G.N Cromital nell'ultimo semestre di riferimento: il primo, impiegando quale data a partire dalla quale far decorrere a ritroso il termine semestrale quella del 24.09.2020, ovvero il giorno di ricezione della lettera di licenziamento da parte del ricorrente, il secondo, per contro, quella del 21.05.2020, ossia la data della comunicazione da parte della società convenuta della cessazione dell'attività e dell'avvio della procedura di licenziamento collettivo. Sulla base del primo computo, il numero medio dei dipendenti nel semestre sarebbe pari a 14,10 mentre, sulla base del secondo computo, il numero medio sarebbe pari a 15,02. A fronte di tali circostanze, l'eccezione di nullità parziale svolta dall'opponente si appalesa del tutto destituita di fondamento, avendo il perito dell'Ufficio, una volta constatato lo scarto temporale di cui si è detto, correttamente proceduto a due distinti computi, senza travalicare in alcun modo il perimetro delineato dal Giudice con la formulazione del quesito: il cui sviluppo ha, giocoforza, imposto - proprio in ragione delle peculiarità della fattispecie in controversia - la formulazione di due distinte ipotesi. Ciò posto, ritiene questo Giudice che il computo corretto sia il secondo. Nel caso in esame, invero, tale scarto temporale si giustifica in ragione dell'operatività della normativa emergenziale predisposta dal Governo al fine di contenere gli effetti economici dell'emergenza sanitaria, e, in particolare, le conseguenze delle chiusure imposte alle attività produttive per limitare i contagi; normativa che, da una parte, ha semplificato e ampliato le possibilità di accesso agli ammortizzatori sociali, come cassa integrazione e fondi di solidarietà, e, dall'altra, ha varato il divieto di licenziamenti. Il blocco alle procedure di licenziamento è stato previsto, per la prima volta, dal decreto denominato "Cura Italia" (D.L. n. 18 del 2020). Oltre alle misure di sostegno per l'economia, il testo prevedeva, invero, il divieto di licenziamento e la sospensione delle procedure pendenti di licenziamento già avviate a partire dal 23 febbraio. Successivamente, col cosiddetto "Decreto agosto" - D.L. n. 104 del 2020 entrato in vigore in data 15.08.2020 - il governo ha, non soltanto prorogato la norma, ma altresì previsto talune eccezioni, in relazione alle quali, al ricorrere di talune condizioni, è consentito agli imprenditori avviare licenziamenti nonostante il divieto generale; eccezioni tra le quali è contemplata, ai sensi dell'art. 14 del citato decreto, l'ipotesi in cui si verifichi la cessazione definitiva dell'attività, con la messa in liquidazione senza continuazione dell'attività dell'impresa, a condizione che non si configuri, tuttavia, "la cessione di un complesso di beni o di attività che possano configurare un trasferimento d'azienda o di un ramo di essa". La citata disposizione - rubricata "Proroga delle disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo" - prevede, invero, che: "1. Ai datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all'emergenza epidemiologica da COVID-19 di cui all'articolo 1 ovvero dell'esonero dal versamento dei contributi previdenziali di cui all'articolo 3 del presente decreto resta precluso l'avvio delle procedure di cuiagli articoli 4, 5 e 24 della L. 23 luglio 1991, n. 223 e restano altresì sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell'appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto di appalto. 2. Alle condizioni di cui al comma 1, resta, altresì, preclusa al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della L. 15 luglio 1966, n. 604, e restano altresì sospese le procedure in corso di cui all'articolo 7 della medesima legge. 3. Le preclusioni e le sospensioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano nelle ipotesi di licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell'attività dell'impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell'attività, nei caso in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni od attività che possano configurare un trasferimento d'azienda o di un ramo di essa ai sensi dell'articolo 2112 c.c., ovvero nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente piùrappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, a detti lavoratori è comunque riconosciuto il trattamento di cui all'articolo 1 del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22. Sono altresì esclusi dal divieto i licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l'esercizio provvisorio dell'impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione. Nel caso in cui l'esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell'azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso. 4. Il datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, nell'anno 2020, abbia proceduto al recesso del contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della L. 15 luglio 1966, n. 604, può, inderoga alle previsioni di cui all'articolo 18, comma 10, della L. 20 maggio 1970, n. 300, revocare in ogni tempo il recesso purché contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale, di cui agli articoli da 19 a 22-quinquies del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla L. 24 aprile 2020, n. 27, a partire dalla data in cui ha efficacia il licenziamento. In tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri ne' sanzioni per il datore di lavoro". Orbene - considerata la sequenza degli accadimenti provati per tabulas dal ricorrente (di cui si darà conto nel paragrafo che segue) nonché la disciplina normativa di cui si è detto - è sin troppo ovvio che la data dalla quale far decorrere il termine semestrale per il computo della consistenza occupazionale non può che coincidere con quella della cessazione dell'attività imprenditoriale, avvenuta a maggio 2020; momento, questo, nel quale la società non ha proceduto ai licenziamenti annunciati solo in ragione della preclusione dettata, sul punto, dal c.d. decreto Cura Italia, vigente, appunto, al momento della predetta cessazione. E, peraltro, anche a voler prescindere da tale contingenza - ovvero dall'introduzione della normativa emergenziale di cui si è dato conto - risulta d'immediata evidenza come l'interpretazione in questa sede patrocinata - che, nelle ipotesi di scarto temporale tra la data di cessazione dell'attività d'impresa e quella di comunicazione del licenziamento, identifica nella prima il termine dal quale far decorrere il semestre per il computo della consistenza occupazionale - sia l'unica che consente di evitare applicazioni artificiose ed elusive delle disposizioni in argomento, risultando del tutto prevedibile che, successivamente alla cessazione dell'attività d'impresa, si possa registrare una contrazione del livello occupazionale aziendale. Circostanza, questa, che si è verificata anche nel caso di specie; invero, come rilevato anche dal perito dell'Ufficio, nella suddetta scansione temporale, si sono registrate le dimissioni di due lavoratori alle dipendenze della società resistente ed è stato ridotto l'orario di lavoro di un altro lavoratore. Ciò posto, la collocazione temporale della circostanza relativa alla cessazione dell'attività d'impresa nel maggio 2020 emerge incontrovertibilmente dal documento 3 prodotto da parte ricorrente nella fase sommaria, ossia dalla comunicazione trasmessa dalla stessa convenuta ai propri dipendenti, comunicazione che recita testualmente: "la presente per comunicarLe che, a causa delle insanabili difficoltà derivanti sia dalla corrente situazione emergenziale sia soprattutto dall'impossibilità di utilizzare l'immobile, ove veniva svolta la nostra attività, per il mancato adeguamento delle norme di sicurezza da parte dei soggetti competenti, la società si trova costretta a non utilizzare l'immobile de quo e, dunque, a cessare, a malincuore, l'attività. Stante, dunque, l'imminente chiusura dello stabilimento, La informiamo che, nel mese di maggio, verrà intrapreso l'iter di licenziamento collettivo di tutti i lavoratori nel rispetto delle norme di legge in materia, non ultime quelle relative alla corrente situazione sanitaria ed emergenziale. Nelle more, Le confermiamo che permane attiva la Cassa Integrazione già in corso". Alla luce di tali considerazioni, dunque, posto che il numero medio di dipendenti nel semestre antecedente alla cessazione dell'attività era superiore, seppur di poco, a 15, risulta integrato, nel caso di specie, il requisito occupazionale previsto dall'art. 24 L. n. 223 del 1991 per l'applicabilità della procedura di licenziamento collettivo per riduzione di personale. 2.2. Le circostanze di fatto pacifiche in quanto incontestate. Ciò posto in termini generali, sulla scorta dell'istruttoria documentale condotta, possono ritenersi pacifiche, in quanto incontestate o risultanti per tabulas, le seguenti circostanze fattuali: - in seguito all'ammissione della società al trattamento di Cassa Integrazione Guadagni, con comunicazione consegnata ai lavoratori in data 21 maggio 2020, la società stessa ha informato i propri dipendenti della propria intenzione di cessare l'attività e di intraprendere "l'iter di licenziamento collettivo di tutti ilavoratori nel rispetto delle norme di legge in materia" (doc. 3 fasc. ricorrente); - dopo tale data la società non ha avviato alcuna procedura di licenziamento collettivo, omettendo, in particolare, di trasmettere alle rappresentanze sindacali aziendali e alle rispettive associazioni di categoria nonché all'Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione la comunicazione preventiva di cui ai commi 2 e 3 dell'art. 4 della L. n. 223 del 1991; - in data 24 settembre 2020, la società convenuta ha comunicato al ricorrente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo per cessata attività con efficacia immediata (doc. 4 fasc. ricorrente); - non è stato dato seguito alla procedura prescritta ai sensi dell'art. 4, commi 6, 7 e 8, della L. n. 223 del 1991; - non è stata trasmessa all'Ufficio regionale del lavoro nonché alla Commissione regionale per l'impiego e alle associazioni di categoria di cui al comma 2 della disposizione citata, entro il termine perentorio prescritto dalla legge (sette giorni dalla comunicazione dei recessi), la comunicazione di cui al comma 9 contenente, a pena d'inefficacia del licenziamento, l'elenco dei lavoratori licenziati con l'indicazione per ciascun soggetto del nominati del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento dell'età, del carico di famiglia, nonche' con puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma 1. Trattasi, dunque, alla luce delle circostanze fattuali esposte, di licenziamento individuale plurimo eseguito in palese violazione del disposto di cui all'art. 24 della L. n. 223 del 1991 che - si ribadisce - per le ragioni esposte al paragrafo che precede, è applicabile al caso di specie. 2.3. Sulla tutela applicabile. Sul punto, per le ragioni di seguito esposte, non si condividono le conclusioni cui è approdato il Giudice della prima fase; di talché. l'ordinanza impugnata dovrà essere, in parte qua, riformata. Il legislatore del 1991 sanzionava espressamente alcune condotte datoriali, stabilendo l'inefficacia del licenziamento qualora questo fosse intimato senza forma scritta o in violazione dela procedura. Oltre a ciò, stabiliva l'annullabilità del licenziamento adottato in violazione dei criteri di scelta. In entrambi i casi, tuttavia, ai sensi dell'art. 5, comma 3, L. n. 223 del 1991, trovava applicazione la tutela reale di cui al vecchio testo dell'art. 18 st. lav. Il legislatore del 2012 è intervenuto in relazione a diversi rimedi, al fine di coordinare quanto prescritto dalla L. n. 223 del 1991 con il nuovo testo dell'art. 18. Più precisamente, il coordinamento del profilo sanzionatorio con la disciplina propria dei licenziamenti collettivi ha una prima applicazione nell'ipotesi in cui il licenziamento sia intimato senza l'osservanza della forma scritta. In tale caso, infatti, si applica il regime sanzionatorio di cui al comma 1 dell'art. 18 e, di conseguenza, una tutela reale piena, che comporta la reintegrazione del lavoratore, oltre che il risarcimento di almeno 5 mensilità detratto l'aliunde perceptum. Il regime sanzionatorio in esame è, per applicazione analogica, applicabile per gli altri casi in cui il licenziamento invalido è punito con la reintegrazione, ossia anche per il caso in cui emerga un vizio di nullità del licenziamento, per carattere discriminatorio o per violazione di norme imperative. In caso di violazione della procedura, ai sensi dell'art. 4, comma 12, L. n. 223 del 1991, si applica, invece, il regime di cui al terzo periodo del comma 7 dell'art. 18, ossia la tutela indennitaria piena, compresa tra 12 e 24 mensilità, tenuto conto dei criteri indicati dal comma 5 e dall'ultima parte del comma 7 del nuovo art. 18. In caso di violazione dei criteri di scelta previsti, infine, in via residuale, per i lavoratori assunti prima del 7 marzo del 2015, si applica ancora il regime di cui al comma 4 dell'art. 18, ossia una tutela reale depotenziata sotto il profilo risarcitorio. Tanto premesso in ordine al regime composito introdotto dalla riforma Fornero, occorre, dunque, interrogarsi - non essendo la totale omissione della procedura di cui alla L. n. 223 del 1991 espressamente prevista quale ipotesi specifica con indicazione del regime applicabile - su quale sia la tutela applicabile al caso di specie. Ritiene questo giudice che non possa essere applicato all'ipotesi de qua la tutela reale piena di cui all'art. 18, comma 1, Stat. Lav. Anzitutto, l'ipotesi in oggetto non può rientrare nella fattispecie della mancata osservanza della forma scritta, essendo tale forma riferibile alla manifestazione recessiva in senso stretto e proprio e non già ad atti o provvedimenti endoprocedurali. Né il regime sanzionatorio in esame può ritenersi applicabile per via analogica sulla base della classificazione quale ipotesi di nullità non testuale. Ciò sulla base del rilievo per cui, essendo le norme che disciplinano i licenziamenti collettivi di natura imperativa, tale interpretazione si tradurrebbe in una interpretatio abrogans della disposizione di cui al comma 46 dell'art. 1 L. n. 92 del 2012, che ha introdotto diversi rimedi per le diverse fattispecie ivi contemplate. Sul punto, va invero precisato che la procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5, è finalizzata alla tutela, non solo degli interessi delle organizzazioni sindacali, ma anche dell'interesse pubblico, correlato alla occupazione in generale ed ai costi della mobilità, e dell'interesse dei lavoratori alla conservazione del posto di lavoro e, in particolare, alla verifica dei criteri di scelta sotto il profilo del loro carattere di generalità, obiettività e coerenza con il fine dell'istituto della mobilità, sicchè è da escludere che l'accordo tra il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali faccia perdere rilevanza al mancato espletamento o al radicale stravolgimento della procedura medesima (Cass. 7 giugno 2003, n. 9173; Cass. 16 maggio 2006, n. 11101); Tanto premesso, dunque, posto che, pur trattandosi di norme inderogabili, sussistono fondati motivi per ritenere che la relativa violazione dia luogo ad una ipotesi di invalidità e non di nullità/inefficacia del licenziamento, non potrà trovare applicazione, nel caso di specie, la tutela reale piena di cui al comma 1 dell'art. 18 Stat. Lav. Occorre, dunque, comprendere se - in difetto di una disciplina ad hoc - l'ipotesi della totale omissione della procedura di cui alla L. n. 223 del 1991 sia riconducibile, sotto il profilo del regime sanzionatorio applicabile, alla fattispecie relativa alla violazione delle procedure richiamate all'art. 4, comma 12, oppure a quella della violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1. La differenza è resa apprezzabile dal rilievo che - mentre nel caso di violazione dell'obbligo procedurale, il lavoratore può essere comunque destinatario di un licenziamento che lo selezioni sulla base di criteri di scelta in concreto correttamente applicati - nel caso di violazione di criteri di scelta, il lavoratore non può essere in alcun modo incluso nel novero dei lavoratori licenziati (vedi in motivazione Cass. 2/2/2018 n. 2587, cui adde Cass. 17/7/2018 n. 19010). Ebbene, benché l'ipotesi della totale omissione della procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, paia - prima facie - più grave rispetto a quella della violazione delle singole regole procedurali, isolatamente considerate, e, quindi, meritevole di una sanzione più grave, ritiene questo Giudice che, nel caso di specie - in cui la cessazione dell'attività d'impresa rappresenta circostanza pacifica ed incontestata dallo stesso ricorrente e tutti i lavoratori precedentemente impiegati nell'unità produttiva risultano essere stati licenziati - non possa trovare applicazione la tutela reintegratoria attenuata di cui all'art. 18, comma 4, prevista per l'ipotesi della violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare. Invero, la previsione di cui al comma II dell'art. 24 della L. n. 223 del 1991 che prevede l'applicabilità delle disposizioni richiamate dal precedente comma I, non può che essere condizionata dalla peculiarità della fattispecie relativa alla cessazione dell'ativtà d'impresa rispetto a quella di mero ridimensionamento aziendale; elemento, questo, segna evidentemente il limite di compatibilità cui tale estensione soggiace. Sarebbe logicamente impossibile estendere le regole in materia di criteri di scelta del personale da licenziare (pur richiamate dall'art. 24 citato, comma 2) nel caso in cui il licenziamento i collettivo per cessazione di attività sia previsto ed avvenga contestualmente per tutti i dipendenti. Tale fattispecie, nonostante l'indiscriminato richiamo operato dalla disposizione richiamata all'art. 5, commi da 1 a 5, potrebbe trovare applicazione, nell'ipotesi del licenziamento per cessazione dell'attività, in soli due casi. Il primo caso attiene all'ipotesi in cui la parte datoriale abbia inteso cessare l'attività e licenziare tutti i dipendenti salvo un gruppo individuato in base al possesso delle competenze professionali necessarie per il compimento delle operazioni di liquidazione, dovendo in tal caso egualmente effettuare, secondo i dicta espressi dalla Suprema Corte di Cassazione, la comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, con la precisazione delle modalità di attuazione del criterio di scelta e la comparazione tra tutte le professionalità del personale in servizio rispetto allo scopo perseguito, senza che assuma rilievo l'unicità del criterio adottato ancorchè concordato con le organizzazioni sindacali (Cass. del 28/10/2010 n. 22033). Il secondo caso, invece, concerne l'ipotesi in cui venga accertata in giudizio la natura fittizia della prospettata cessazione dell'attività d'impresa; ipotesi in cui la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto che alla fattispecie della violazione dei criteri di selezione del personale fosse appunto equiparabile quello della mancata enunciazione dei suddetti criteri per totale pretermissione della procedura di licenziamento. In tali ipotesi, troverà applicazione la tutela reintegratoria attenuata di cui all'art. 18, comma 4, Stat. Lav., ossia il regime sanzionatorio previsto per il caso della violazione dei criteri di scelta di cui all'art. 4, comma 1, della L. n. 223 del 1991; caso cui è certamente equiparabile quello della mancata enunciazione dei criteri di selezione del personale per totale pretermissione della procedura di licenziamento. Al di fuori di tale specifiche ipotesi, tuttavia, quella della totale pretermissione della procedura di licenziamento collettivo è fattispecie equiparabile, quoad effectu, non alla mancata osservanza dei criteri di scelta di cui all'art. 5 della L. n. 223 del 1991, ma, piuttosto, a quella della violazione dell'art. 4 comma 12, essendo l'applicazione dell'intera procedura funzionale al rispetto delle regole di ordine formale e procedurale contemplati da tale norma. Ne consegue, pertanto, che, facendo applicazione dell'art. 5, comma 3, della L. n. 223 del 1991 - come novellato dalla L. n. 92 del 2012 - in relazione all'anzianità di servizio del ricorrente, la società convenuta sarà tenuta al pagamento, in favore dello stesso, di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva pari a 13 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, sulla base del tallone mensile indicato in ricorso, oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo effettivo. 2.4. Sulle domande diverse dall'impugnazione del licenziamento. Nella prima fase, il ricorrente - oltre ad impugnare il licenziamento - aveva rivendicato il pagamento, nei confronti della società convenuta, di una serie di emolumenti, e, in particolare, della retribuzione relativa alle mensilità di luglio, agosto, settembre 2020, dell'indennità sostitutiva delle ferie e dei permessi non goduti, del trattamento di fine rapporto nonché dell'indennità da mancato preavviso. Tali domande, all'esito della fase sommaria, sono state dichiarate inammissibili ai sensi dell'art. 1, commi 47 e 48 L. n. 92 del 2012, in quanto basate su fatti costitutivi diversi da quelli posti alla base dell'impugnativa di licenziamento. La suddetta preclusione, com'è noto, opera esclusivamente nella fase sommaria, con la conseguenza che tali domande, nel giudizio di opposizione, sono da considerarsi pienamente ammissibili. E, tuttavia, tali domande - ad accezione di un generico riferimento contenuto nel corpo della memoria - non sono state riproposte in sede di conclusioni. Di talché, le domande ulteriori e diverse dall'impugnazione del licenziamento, contenute nel ricorso introduttivo della fase sommaria, devono considerarsi come implicitamente rinunciate. 3. Sulle spese di lite L'esito complessivo del giudizio giustifica la compensazione delle spese di lite in ragione di 1/3. Le residue spese di lite devono essere poste a carico di parte opponente in ragione della soccombenza ex art. 91 c.p.c., e sono da liquidarsi - nella misura indicata in dispositivo - secondo i parametri del D.M. n. 55 del 2014 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 77 del 02.04.2014). P.Q.M. 1) A parziale accoglimento dell'opposizione ed in riforma dell'ordinanza impugnata, accertata e dichiarata l'illegittimità del licenziamento per cui è causa, accoglie la domanda subordinata, proposta dal ricorrente, al punto 5 delle conclusioni e, per l'effetto, dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna la società convenuta al pagamento, in favore dello stesso ricorrente, di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva pari a 13 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, sulla base del tallone mensile indicato in ricorso, oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo effettivo; 3) compensate in ragione di 1/3 le spese di lite tra le parti, condanna la società opponente alla rifusione, in favore del lavoratore, delle spese residue, spese che si liquidano in complessivi Euro 10.000 per compenso professionale, oltre I.V.A, C.P.A. e rimborso forfettario per le spese generali. Così deciso in Parma il 7 marzo 2023. Depositata in Cancelleria l'8 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Parma in persona del Giudice, dott. Antonella Ioffredi, in funzione di Giudice Unico, ha pronunciato la seguente SENTENZA Nella causa civile promossa da: (...) SRL ((...)), con il patrocinio dell'avv. (...) e dell'avv. (...), del Foro di MESSINA, domiciliata in CANCELLERIA - APPELLANTE - Contro (...) ((...)), con il patrocinio dell'avv. (...), elettivamente domiciliato in (...) PARMA, presso lo studio dell'avv. (...) -APPELLATO - Causa Civile iscritta al 3489/2021 del Ruolo Generale ed assegnata a sentenza sulle conclusioni di seguito rassegnate. CONCLUSIONI Come da note di trattazione scritta dell'udienza di precisazione delle conclusioni Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione La società (...) s.r.l. ha proposto appello avverso la sentenza del Giudice di Pace di Parma, che, accogliendo l'opposizione proposta da (...), ha revocato il decreto ingiuntivo, emesso per l'importo capitale di euro 1.420,22 e riguardante fatture aventi ad oggetto la fornitura, asseritamente non pagata, di energia elettrica e gas. In primo luogo, (...) ha censurato la sentenza impugnata, per avere erroneamente rigettato l'eccezione di improcedibilità dell'opposizione, nonostante la mancata proposizione, da parte dell'opponente, del tentativo di conciliazione reso obbligatorio dall'art. 3 del Tico (Testo Integrato Conciliazione), quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, ai sensi dell'art. 2, comma 24 lett. b) L. 481/1995. Quale secondo motivo d'appello, (...) ha contestato la correttezza dei conteggi operati dal giudice di prime cure, sostenendo che l'errore ha condotto alla illegittima revoca del decreto ingiuntivo opposto. Quale terzo motivo d'appello, (...) ha contestato la sentenza impugnata nella parte in cui afferma l'inesistenza del credito in ragione dell'accertato inferiore importo risultante dalla sommatoria delle fatture monitoriamente azionate, laddove il Giudice avrebbe dovuto condannare l'opponente al pagamento della minor somma richiesta. (...) si è costituito, chiedendo il rigetto dell'appello e la conferma della sentenza impugnata. A parere di questo giudicante, l'appello è fondato per le ragioni che seguono. Il giudice di primo grado ha respinto l'eccezione pregiudiziale, sollevata da (...), di improcedibilità della domanda per mancata introduzione del tentativo di conciliazione da parte dell'opponente, affermando che tale obbligo non sussista perché il procedimento non è stato instaurato per iniziativa del consumatore, bensì del fornitore, con decreto ingiuntivo. Tuttavia, ai sensi dell'art. 2.1 del Tico, il tentativo obbligatorio di conciliazione è generalmente prescritto "per le controversie tra Clienti finali di energia elettrica alimentati in bassa e/o media tensione, Clienti finali di gas alimentati in bassa pressione, Prosumer o Utenti finali e Operatori o Gestori". Anche il richiamato art. 2, comma 24, lett. b) della L. 481/1995 (Codice del Consumo), fa, a sua volta, generale riferimento alle "procedure di conciliazione o di arbitrato in contraddittorio presso le Autorità nei casi di controversie insorte tra utenti e soggetti esercenti il servizio". Infine, ai sensi dell'art. 2.3. del Tico, "Sono escluse dall'ambito di applicazione del presente provvedimento le controversie: a) attinenti esclusivamente a profili tributari o fiscali; b) per le quali sia intervenuta la prescrizione ai sensi di legge; c) promosse ai sensi degli articoli 37, 139, 140 e 140 bis del Codice del consumo". Tale norma, dunque, non esclude l'obbligo del tentativo di conciliazione nell'ipotesi di opposizioni a decreto ingiuntivo. Né si ritiene applicabile al caso di specie l'orientamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 19596/2020), secondo il quale onerata di introdurre la mediazione obbligatoria è la parte opposta, con conseguente revoca del decreto ingiuntivo in caso di dichiarata improcedibilità del giudizio di opposizione. Infatti, tale sentenza fa espresso e specifico riferimento alle controversie soggette alla diversa procedura della mediazione obbligatoria disciplinata dall'art. 5, comma 1 -bis, del D.L.vo n. 28/2010, mentre, al contrario, "l'articolo 6.1 del Testo integrato Conciliazione onera espressamente il solo cliente finale dell'attivazione della procedura in parola, escludendo così al contempo che essa possa essere attivata dall'operatore o gestore, qualifica che spetta alla convenuta opposta' (v. Tribunale Verona sentenza n. 218/2022). Pertanto, poiché, nel caso di specie, l'opponente non ha attivato il tentativo di conciliazione obbligatorio, l'appello deve essere accolto e, di conseguenza, l'opposizione deve essere dichiarata improcedibile ed il decreto ingiuntivo opposto deve essere confermato. La complessità della questione trattata giustifica l'integrale compensazione delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio. P.Q.M. Il Giudice Unico, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così decide: accoglie l'appello proposto da (...) s.r.l.; per l'effetto, dichiara l'opposizione di (...) improcedibile e conferma il decreto ingiuntivo n.678/2019, emesso dal Giudice di Pace di Parma in data 22.03.2019, dichiarandolo esecutivo. Dichiara le spese processuali di entrambi i gradi di giudizio integralmente compensate tra le parti. Parma, 27 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 28 febbraio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI PARMA SEZIONE PRIMA CIVILE Sottosezione Lavoro Il Tribunale, in composizione monocratica nella persona del giudice Matteo Giovanni Moresco, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa proposta da (...) ((...)), rappresentata e difesa dagli avv. DE.AN. e CA.RE., elettivamente domiciliata presso lo studio dell'avv. De. in Parma, via (...); RICORRENTE contro COOPERATIVA SOCIALE (...) ((...)) in persona del l.r. p.t. (...), rappresentata e difesa dall'avv. MA.AL., elettivamente domiciliata presso il relativo studio in B.GO (...) 43121 PARMA; CONVENUTA OGGETTO: Licenziamento individuale per giust. motivo soggettivo RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Con ricorso depositato in data 7.5.2019, (...) ha chiesto al Tribunale di Parma di: - dichiarare la nullità del licenziamento intimatole in data 16.10.2018 da Cooperativa Sociale (...) in quanto ritorsivo e, conseguentemente, condannare la convenuta a reintegrarla in servizio e a pagarle l'indennità risarcitoria di cui all'art. 2 D.Lgs. n. 23 del 2015; in subordine, annullare il licenziamento in quanto illegittimo e, conseguentemente, condannare la convenuta a reintegrarla in servizio e a pagarle l'indennità risarcitoria di cui all'art. 3 co. 2 D.Lgs. n. 23 del 2015; in ulteriore subordine, accertare il difetto di motivazione del licenziamento e, conseguentemente, dichiarare estinto il rapporto di lavoro e condannare la convenuta a pagarle l'indennità risarcitoria di cui all'art. 4 co. 1 D.Lgs. n. 23 del 2015; - condannare la convenuta a pagarle le differenze retributive dovute per superiore inquadramento, lavoro straordinario anche notturno e festivo, indennità di mancato preavviso e incidenza delle differenze retributive su mensilità aggiuntive e competenze di fine rapporto, - condannare la convenuta a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per le condizioni di lavoro usuranti e per le vessazioni subite durante il rapporto di lavoro. 2. Cooperativa Sociale (...) si è costituita in giudizio, chiedendo il rigetto del ricorso in quanto infondato in fatto e in diritto. 3. La causa è stata istruita mediante escussione di deposizioni testimoniali e CTU contabile per il calcolo delle differenze retributive eventualmente dovute alla ricorrente. 4. A seguito di discussione, la causa è stata decisa con lettura in udienza della sentenza. 5. Il ricorso è parzialmente fondato e deve essere accolto nei termini che seguono. 6. Preliminarmente, deve essere rigettata l'eccezione di incapacità a testimoniare della testimone A.(...), presentata dalla difesa della ricorrente all'udienza dell'11.11.2021. Per giurisprudenza consolidata, infatti, l'amministratore di società è incapace a testimoniare ai sensi dell'art. 246 c.p.c. nei soli processi in cui assume la rappresentanza processuale dell'ente parte in causa o nei quali abbia un interesse attuale e concreto (Cass. 11 novembre 1996, n. 9826; Cass. 7 settembre 2012, n. 14987). 7. Nel caso di specie, la rappresentanza processuale della cooperativa convenuta è stata assunta dalla legale rappresentante (...) e non è emerso alcun interesse attuale e concreto di A.(...) a un determinato esito del giudizio. 8. Né l'incapacità a testimoniare può essere desunta dalla circostanza che la teste sia la figlia della legale rappresentante della cooperativa, dato che il divieto di testimoniare previsto dall'art. 247 c.p.c. è da lungo tempo stato dichiarato incostituzionale (Corte cost. 23 luglio 1974, n. 248). 9. Venendo al merito della causa, si deve innanzitutto esaminare la domanda di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, intimato alla dipendente in data 16.10.2018. 10. La lettera di licenziamento (doc. 1 ricorrente) è del seguente tenore: "Con la presente, facendo seguito alle contestazioni a lei notificate tramite lettera siamo a comunicarle che a causa dei comportamenti non idonei alla assistenza anziani è venuto meno il rapporto di fiducia necessario in un ambiente lavorativo familiare come il nostro. Procediamo pertanto al suo licenziamento per giustificato motivo soggettivo in data odierna 16.10.2018 ?". 11. La ricorrente ha allegato di non aver ricevuto alcuna contestazione disciplinare antecedente alla lettera di licenziamento; la convenuta ha invece prodotto una contestazione disciplinare datata 8.10.2018 (doc. 6 convenuta), che la ricorrente avrebbe stracciato al momento della consegna. 12. La circostanza della consegna della contestazione e del fatto che la lettera è stata strappata dalla ricorrente ha trovato riscontro nelle deposizioni dei testimoni (...) e (...), che hanno anche riferito che la contestazione è stata appesa alla bacheca aziendale. 13. Il contenuto della contestazione è il seguente: "Ai sensi e per gli effetti dell'art.7 della L. n. 300 del 1970 siamo a contestarle quanto segue: facendo seguito a quanto a lei esplicitato nella riunione dello scorso mese di agosto(22.08,2018) siamo costretti a contestarle i gravi episodi avvenuti nel corso del mese, e precisamente i maltrattamenti nei confronti dei nostri ospiti ((...); (...); (...) e (...)) e i gesti di insubordinazione e calunnia a noi soci fondatori della Cooperativa. Tali gravi episodi non possono essere ammessi in u n piccolo ambiente di lavoro con realtà familiare come quello della nostra casa di riposo e le gravi difficoltà nel relazionarsi sia con i nostri ospiti anziani sia con le colleghe ( (...); (...) (...) (...)) e noi fondatori della Cooperativa siamo costretti, nostro malgrado ad allontanarla dalla nostra struttura. Le rammentiamo che lei ha cinque giorni di tempo decorrenti dalla ricezione della presente per presentare sue eventuali giustificazioni". 14. Tanto la lettera di licenziamento quanto la contestazione disciplinare sono insanabilmente viziati dalla assoluta genericità nella descrizione del fatto o fatti che, nella prospettiva datoriale, integrerebbero il giustificato motivo soggettivo di licenziamento ex art. 3 L. n. 604 del 1966. 15. La lettera di licenziamento si limita addirittura a indicare come causa del recesso asseriti "comportamenti non idonei alla assistenza anziani", senza la benché minima specificazione del contenuto di questi comportamenti o del contesto spaziotemporale in cui sarebbero stati tenuti. 16. La contestazione disciplinare, pur essendo leggermente meno vaga, non enuclea nessun chiaro episodio posto a fondamento del licenziamento, limitandosi a fare riferimento a non meglio precisati "maltrattamenti nei confronti dei nostri ospiti" e a "gesti di insubordinazione e calunnia a noi soci fondatori della Cooperativa". 17. La completa assenza di qualsiasi specificazione in merito a quali sarebbero stati i maltrattamenti e i gesti di insubordinazione, lungi dal configurare una semplice irregolarità procedurale, assurge a un difetto talmente radicale da impedire in radice l'identificazione della condotta che, nella prospettiva datoriale, avrebbe giustificato il licenziamento. 18. Ciò comporta che nel caso di specie non si ha una mera compromissione del corretto esercizio del diritto di difesa nell'ambito del procedimento disciplinare, ma una vera e propria insussistenza del fatto contestato. Non essendo possibile determinare quale sia la specifica condotta addebitata al lavoratore, non può in alcun modo verificarsi se essa sia o meno effettivamente accaduta; pertanto, dato che l'onere della prova dell'avvenuta condotta incombe sul datore, essa deve ritenersi non sussistente ai fini del presente giudizio. 19. Questa conclusione è sostenuta anche dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha rilevato che "la previsione normativa, che parla di "fatto contestato" (fatto materiale contestato nel regime del D.Lgs. n. 23 del 2015), sia indicativa della necessità che il fatto, la cui sussistenza o insussistenza deve essere accertata in giudizio, sia delineato nei suoi esatti termini e contorni in sede di contestazione" (Cass. 24 febbraio 2020, n. 4879). Se infatti si ritenesse che anche l'omissione o la genericità della contestazione debbano ritenersi semplici violazioni procedurali, il datore di lavoro potrebbe paradossalmente allegare per la prima volta in giudizio il motivo del licenziamento e beneficiare di un regime sanzionatorio contenuto, se quei motivi fossero ritenuti idonei a giustificare il licenziamento. 20. Anche un'altra decisione di legittimità, dimostrando di aderire allo stesso principio ermeneutico, ha affermato che, in caso di plurime contestazioni, alcune generiche e alcune specifiche, è corretto l'operato del giudice di merito che tenga conto solo delle contestazioni specifiche (Cass. 24 luglio 2018, n. 19632). 21. Il licenziamento deve pertanto essere dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto contestato. 22. Non può invece essere accolta la domanda di accertamento della nullità del licenziamento a motivo del suo asserito carattere ritorsivo. 23. La ricorrente ha allegato che la cooperativa datrice di lavoro si sarebbe determinata a estrometterla dal rapporto di lavoro dopo che ella, avendo assistito a un'aggressione di (...) (marito della legale rappresentante della cooperativa (...)) ai danni della collega (...), si rifiutò di fornire dichiarazioni false a favore di (...). 24. Questa circostanza non ha però trovato riscontro nell'istruttoria esperita in corso di causa: in particolare, la stessa sig. (...) ha dichiarato di non essere stata aggredita da (...), ma di avere solo avuto un diverbio con lui. 25. Si deve anche aggiungere che la condanna in primo grado di (...) per il reato di lesioni, emessa dal giudice di pace di Parma, è stata riformata in appello dal Tribunale di Parma, come da dispositivo depositato da parte convenuta in data 17.2.2023. 26. Sebbene emerga un indizio a supporto della tesi dell'ostilità della convenuta nei confronti della ricorrente dalle dichiarazioni rese dalla sig. (...), depositate su supporto cd sub doc. 11 ricorrente, esse da sole non sono sufficienti a provare un intento ritorsivo che abbia costituito il motivo unico e determinante del licenziamento, stante l'assenza di circostanze a riscontro di cui si è detto. 27. Dato che l'onere della prova dell'intento ritorsivo a fondamento del licenziamento grava sul lavoratore (Cass. 7 novembre 2018, n. 28453), la domanda deve essere rigettata. 28. Quanto alla tutela applicabile, si deve innanzitutto rilevare che risulta dalla visura prodotta da parte ricorrente che la cooperativa convenuta abbia impiegato nel 2018 una media di 10 dipendenti (v. doc. 2 ricorrente, pag. 7), risultando perciò al di sotto della soglia occupazionale di cui all'art. 18 co. 8 st. lav. 29. Ai sensi dell'art. 9 D.Lgs. n. 23 del 2015 (su cui si veda la recente Corte cost. 22 luglio 2022, n. 183, che ha dichiarato inammissibili le censure di incostituzionalità sollevate dal Tribunale di Roma, pur rivolgendo un monito al legislatore per la predisposizione di maggiori tutele per i lavoratori impiegati da piccole imprese), trova perciò applicazione l'art. 3 co. 1 D.Lgs. n. 23 del 2015, ma l'indennità prevista da quest'ultima norma (che, per effetto della sentenza Corte cost. 8 novembre 2018, n. 194, è pari a un importo non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità) è dimezzata e non può comunque superare il limite di sei mensilità. 30. In considerazione della non elevata anzianità di servizio della ricorrente, appare congruo stabilire l'importo dell'indennità risarcitoria dovuta in otto mensilità; per effetto della dimidiazione di cui all'art. 9 D.Lgs. n. 23 del 2015, il datore deve perciò essere condannato a pagare alla lavoratrice quattro mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. 31. L'importo di tale mensilità è stato calcolato dal CTU in Euro 1.185,01, tenendo conto di un inquadramento al livello C2 e su un orario settimanale part time di 30 ore (si veda oltre per le ragioni per cui sono questi i parametri corretti da utilizzare nel caso di specie). 32. In considerazione della corretta metodologia adottata dal CTU e dell'assenza di contestazioni da parte dei consulenti di parte, lo scrivente ritiene di aderire alle conclusioni raggiunte dal consulente, tanto su questo aspetto quanto sugli altri che si esamineranno nel prosieguo. 33. Alla ricorrente spetta anche la differenza tra l'indennità sostitutiva del preavviso erogata e quella ricalcolata in base alla retribuzione effettivamente dovuta, pari a Euro 205,17 (v. ancora relazione CTU). 34. Devono ora essere esaminate le domande di condanna della cooperativa datrice al pagamento delle differenze retributive asseritamente dovute, tra le altre cose, per superiore inquadramento e per lavoro straordinario. 35. In tema di assegnazione a mansioni superiori rispetto a quelle previste in contratto, l'art. 2103 co. 7 c.c. così prevede: "Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e l'assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi". 36. Com'è noto, è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che il giudice, nella determinazione del corretto inquadramento di un lavoratore subordinato, debba seguire un procedimento articolato nelle seguenti tre fasi: accertamento delle mansioni in concreto svolte dal lavoratore; individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria; confronto tra i risultati delle due indagini (v. ex multis Cass. 12 maggio 2006, n. 11037; Cass. 28 aprile 2015, n. 8589; Cass. 22 novembre 2019, n. 30580). 37. Dall'istruttoria testimoniale è emerso che le mansioni effettivamente svolte dalla ricorrente sono consistite nell'assistenza all'igiene e alla vestizione degli anziani, nell'attività di lavanderia, nell'assistenza nella preparazione dei pasti e nella pulizia e riassetto delle stanze degli ospiti; vi è stata qualche discordanza in merito all'attività di distribuzione dei farmaci, ma in ogni caso i testimoni sono stati concordi nell'affermare che i medicinali erano già preparati dagli infermieri e dovevano solo essere distribuiti (v. testimonianze (...), (...), (...) e (...)). 38. È stato anche dichiarato da tutti i testimoni a cui è stato chiesto che la ricorrente, pur avendo iniziato il corso per operatrice socio-sanitaria, non lo ha mai portato a termine e non ha, pertanto, conseguito la relativa certificazione (v. testimonianze (...) e (...)). 39. Quanto alle declaratorie contrattuali, l'art. 47 CCNL Cooperative Sociali (doc. 3 ricorrente) descrive in questi termini gli inquadramenti professionali rilevanti ai fini del presente giudizio: "A1) (ex 1 livello) Addetta/o alle pulizie, addetta/o alla sorveglianza e custodia locali, addetta/o all'assolvimento di commissioni generiche, addetta/o ai servizi di spiaggia, ausiliaria/o ? B1) (ex 3 livello) Operaia/o qualificata/o, autista con patente B/C, aiuto cuoca/o, addetta/o all'infanzia con funzioni non educative, addetta/o alla segreteria, assistente domiciliare e dei servizi tutelari, operatrice/ore socio-assistenziale, addetta/o all'assistenza di base o altrimenti definita/o non formata/o. C2) (nuovo) Operatore Socio Sanitario effettivamente operante in servizi e strutture sociosanitarie". 40. Da quanto emerso dall'istruttoria testimoniale, si deve escludere che la ricorrente svolgesse mansioni inquadrabili al livello C2, non essendo incaricata di preparare i farmaci da somministrare agli ospiti delle strutture e non avendo conseguito la certificazione di operatrice socio-sanitaria. 41. Allo stesso modo, le mansioni svolte dalla lavoratrice risultano sussumibili nel livello B1, specialmente considerando che questo livello comprende i profili professionali "aiuto cuoca", "operatrice socio-assistenziale" e "addetta all'assistenza di base"; attività che la ricorrente ha dimostrato di aver svolto. 42. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, qualora sia stata proposta domanda di inquadramento a un livello superiore a quello attribuito dal datore di lavoro, si deve ritenere implicitamente proposta anche la domanda di inquadramento a un livello intermedio tra quello contrattualmente previsto e quello richiesto, se risultano allegati gli elementi di fatto da cui desumere tale qualifica intermedia (Cass. 1 giugno 2020, n. 10407). 43. Deve quindi ritenersi accertato il diritto della ricorrente a percepire sin dall'inizio del rapporto di lavoro il trattamento retributivo corrispondente al livello B1 del CCNL applicabile. 44. È stato poi documentato dal ricorrente che, a partire da febbraio 2018, la convenuta abbia formalmente riconosciuto alla ricorrente il livello C2, come risulta dalle buste paga prodotte in atti (doc. 15 ricorrente). 45. A prescindere dalle mansioni effettivamente svolte, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere il trattamento retributivo corrispondente all'inquadramento riconosciuto in contratto; pertanto, da febbraio 2018 in avanti spettano alla ricorrente le differenze retributive tra il trattamento previsto per il livello C2 e quanto effettivamente percepito. 46. Quanto all'ulteriore domanda di differenze retributive per le ore di lavoro aggiuntive rispetto a quelle riconosciute in busta paga, si osserva quanto segue. 47. Com'è noto, in tema di lavoro supplementare e straordinario il lavoratore che alleghi di aver effettuato la sua prestazione per un numero di ore superiore a quello contrattualmente previsto ha l'onere di allegare e provare di avere effettivamente lavorato tali ore aggiuntive (Cass. 29 gennaio 2003, n. 1389; Cass. 20 febbraio 2018, n. 4076; Cass. 19 giugno 2018, n. 16150). 48. Le deposizioni testimoniali hanno fornito indicazioni non univoche in merito agli orari di lavoro osservati dalla ricorrente. In particolare, alcuni testimoni che svolgevano le stesse mansioni della lavoratrice hanno dichiarato di non conoscere i suoi orari precisi, ma hanno riferito che i propri orari erano di 7 ore giornaliere, in quanto svolgevano a seconda dei giorni il turno mattutino dalle 7 alle 14 o il turno pomeridiano dalle 14 alle 21 (v. testimonianza (...), (...), 49. Dalle testimonianze è emerso inoltre che la ricorrente osservava un orario di lavoro abbreviato per consentirle di portare a scuola il figlio al mattino o di accompagnarlo ad attività sportive come calcio o nuoto al pomeriggio. Una teste ((...)) hanno riferito che la ricorrente la mattina iniziava alle 9, invece che alle 7; un'altra ((...)) ha dichiarato che la lavoratrice tornava al lavoro dopo aver accompagnato il figlio a scuola verso le 8-8:10. 50. Si può perciò ritenere che, in media, la lavoratrice svolgesse turni di 6 ore al giorno per cinque giorni settimanali. 51. Non è invece stato dimostrato lo svolgimento di lavoro notturno o festivo. In particolare, è emerso che la ricorrente si tratteneva nei locali della residenza sanitaria assistenziale dopo il termine del proprio turno di lavoro in quanto alloggiava lì (v. testimonianze (...) e (...)). 52. La teste (...) ha poi anche riferito che "i turni di notte li faceva prevalentemente, quasi sempre, la sig. (...)". 53. È perciò dovuto alla lavoratrice l'importo calcolato dal CTU, sulla base di questi parametri di inquadramento contrattuale e di orario, in Euro 8.570 (nel quale sono ricomprese anche l'incidenza della maggiore retribuzione dovuta su TFR e altri istituti di retribuzione indiretta). 54. Quanto alle domande di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale proposte dalla ricorrente, esse non possono trovare accoglimento, essendo rimaste le allegazioni poste a loro fondamento, tanto in termini di condotte dannose che di voci di danno asseritamente risarcibili, del tutto generiche e indeterminate. 55. In considerazione dell'accoglimento parziale delle domande svolte dalla ricorrente, sussistono ragioni idonee a compensare per un terzo le spese di lite, con condanna della convenuta alla rifusione della restante parte delle spese processuali sostenute dalla ricorrente, liquidate come in dispositivo. 56. Le spese di CTU sono poste definitivamente a carico della convenuta soccombente. P.Q.M. Il Tribunale Ordinario di Parma, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza, eccezione o deduzione disattesa o assorbita, così dispone: 1. dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del 16.10.2018; 2. condanna Cooperativa Sociale (...) al pagamento in favore di (...) di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a quattro mensilità di Euro 1.185,01 ciascuna dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo effettivo; 3. condanna Cooperativa Sociale (...) al pagamento in favore di (...) della somma di Euro 8.570 a titolo di differenze retributive, oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo effettivo; 4. condanna Cooperativa Sociale (...) al pagamento in favore di (...) della somma di Euro 205,17 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo effettivo; 5. rigetta per il resto il ricorso; 6. compensa per un terzo le spese di lite tra le parti; 7. condanna Cooperativa Sociale (...) al pagamento in favore di (...) della restante parte delle spese di lite, che liquida in Euro 3.000, oltre 15% per spese generali, i.v.a., se dovuta, e c.p.a. come per legge; 8. pone definitivamente a carico di Cooperativa Sociale (...) le spese della consulenza tecnica d'ufficio, liquidate con separato decreto; 9. fissa il termine di 15 giorni per il deposito della sentenza. Così deciso in Parma il 23 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 28 febbraio 2023.

  • TRIBUNALE ORDINARIO DI PARMA SEZIONE PRIMA CIVILE in composizione collegiale nelle persone dei signori Magistrati: Dott.ssa Angela CHIARI - Presidente rel. Dott.ssa Paola BELVEDERE - Giudice Dott.ssa Maria Pasqua Rita VENA - Giudice ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. ...del Ruolo Generale dell'anno 2017 promossa da: X , con il patrocinio dell'avv. ... - RICORRENTE contro Y , con il patrocinio dell'avv. ... CONVENUTO e con l'intervento del Pubblico Ministero in sede in punto a: divorzio contenzioso Causa rimessa in decisione al Collegio sulle seguenti CONCLUSIONI Il procuratore della ricorrente chiede e conclude: "previa ammissione delle prove orali tutte contenute nella propria memoria istruttoria 13.2.2019 e previo stralcio della parte della CTU relativa alla posizione della ricorrente, in quanto effettuata in modo erroneo, ultroneo e comunque in palese inosservanza di quanto disposto in via istruttoria con l'ordinanza istruttoria pronunciata 24.7.2019; dato atto che con sentenza parziale sul vincolo dello stesso Tribunale di Parma n. 1213/2018 del 4.9.2018 è stata pronunciata la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dai signori X e Y , trascritto negli atti di matrimonio del Comune di ... (PR), n. ... - parte ..., s. ... per l'anno 1987: Darsi atto che la casa coniugale sita in ... (PR) strada ... n. ..., di proprietà esclusiva della signora X, rimane assegnata alla stessa, la quale continuerà a viverci con le figlie MT e G., con tutti i beni, gli arredi e suppellettili ivi esistenti. Dichiarare tenuto il signor Y a corrispondere alla signora X, a titolo di contributo al mantenimento delle figlie MT e G., maggiorenni ma non economicamente autosufficienti e conviventi con la madre, la somma mensile di 1.200,00 (milleduecento) euro (600 per ciascuna figlia) annualmente rivalutabile secondo gli indici ISTAT relativi al costo della vita a fare tempo dal giugno 2018, e che verrà dal padre mensilmente corrisposta entro il giorno 10 di ogni mese a mezzo bonifico bancario sul conto corrente della signora X alle coordinate bancarie già note al padre. Il padre concorrerà altresì, nella misura del 90°f%, al pagamento delle spese scolastiche tutte (compresi i costi tutti legati alla frequenza di un-università fuori sede), di trasporto. mediche e terapeutiche, per partecipare a corsi di musica, attività sportive e ricreative, dentistiche nonché delle spese straordinarie mediche e tiekcts per le figlie, entro 10 giorni dall' invio della relativa documentazione. Dichiarare tenuto il signor Y a corrispondere alla signora X, dapprima a titolo di contributo al mantenimento e, successivamente a titolo di assegno di divorzio, la somma mensile di Euro 1.000,00, o quella maggiore o minore somma che risulterà congrua, importo da corrispondersi a fare tempo dalla domanda, da versarsi entro il 10 di ogni mese alle coordinate bancarie già note, somma rivalutabile secondo gli indici ISTAT del costo della via a fare tempo da giugno 2018. Spese legali con rimborso forfettario nella misura del 15%, I.T.A. e C.P.A. oltre le spese della consulenza tecnica d'ufficio, come liquidate a favore del Dott. ... con ordinanza 9.7.2021, a carico del resistente, dandosi atto che fino a tutto l'arino 2017 la ricorrente è stata ammessa ai benefici del Patrocinio a spese dello Stato, a favore del quale andrà quindi destinata la parte di spese legali relativa al predetto periodo. La moglie perderà il cognome del marito che aveva aggiunto a seguito del matrimonio." Il procuratore del convenuto chiede e conclude: "Voglia il Tribunale. stante la già pronunciata cessazione degli effetti civili del matrimonio, respingere ogni ulteriore richiesta di natura economica formulata dalla ricorrente, non sussistendo i presupposti per il relativo accoglimento. Con vittoria di spese, competenze ed onorari del presente giudizio." FATTO La ricorrente X ha chiesto dichiararsi ex art. 3 n. 2, lett. b) della legge 898/1970 la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con Y, essendo intervenuta separazione consensuale omologata il 17.6.2009 ed essendosi protratta ininterrottamente la separazione dalla comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale avvenuta il 26.5.2009. In ordine alle condizioni di divorzio, la ricorrente, dopo avere premesso che dall'unione erano nati i figli E., MT e G., rispettivamente il 9.10.1987, il 15.4.1990 e il 3.6.1994, il primo deceduto all'età di tredici anni e le altre due maggiorenni, ma non ancora economicamente autosufficienti, ha chiesto: a) che fosse aumentato l'assegno previsto in sede di separazione a carico del padre per il mantenimento delle figlie da euro 1.000,00 (attualizzati ad euro 1.084,00 per rivalutazione ISTAT) ad euro 1.200,00 mensili, b) che fosse previsto a carico del padre una contribuzione alle spese straordinarie relative alle figlie nella misura del 90%, anziché del 50% come previsto in sede di separazione e c) che fosse disposto in suo favore un assegno divorzile di euro 1.000.00 mensili. A tal fine la ricorrente ha dedotto che: le parti si erano separate consensualmente con decreto omologato il 17 giugno 2009, concordando l'affidamento della figlia minore G. in via condivisa ad entrambi i genitori con sua collocazione prevalente presso la madre, l'assegnazione alla ricorrente della casa familiare, già di sua proprietà; un assegno a carico del padre per il mantenimento delle figlie MT e G. di euro 1.000,00 mensili, oltre al 50% delle spese straordinarie; in sede di separazione consensuale le parti avevano "rinunciato ad ogni reciproco mantenimento e pretesa economica"; all'epoca della separazione la ricorrente svolgeva attività di allevamento di cani, era titolare di un'impresa agricola e di un pensionato per cani; il marito era architetto libero professionista e svolgeva inoltre l'attività di allevatore di cani bassotto, attività che aveva condiviso con la moglie durante il matrimonio e che, dopo la separazione aveva proseguito con la sua nuova compagna, sig.ra L.R.; le condizioni di salute della ricorrente, già precarie. erano peggiorate, tanto da impedirle di svolgere qualsiasi attività lavorativa; di non avere più la qualità di imprenditrice agricola; di soffrire di un disturbo depressivo maggiore, trattato con antipsicotici e di essere affetta da fibromialgia, patologia altamente invalidante che le era stata diagnosticata nel 2015; di essere stata riconosciuta invalida al 76% e di percepire una pensione di invalidità di 499,39 euro al mese; da oltre un anno il convenuto non corrispondeva più l'assegno di 1.000.00 euro mensili per il mantenimento delle figlie maggiorenni ma non autosufficienti; la figlia C. era studentessa universitaria e G. aveva smesso di studiare per dedicarsi allo sport, ma era ancora alla ricerca di un'occupazione ed era iscritta al Centro per l'impiego; di essere stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato il marito godeva di una condizione economica di piena tranquillità, come dimostrava il suo costoso hobby di allevamento di cani bassotto che lo impegnava in viaggi in Italia e all'estero per partecipare a gare e manifestazioni cinofile. Il convenuto Y si è costituito in giudizio con memoria difensiva con la quale ha aderito alla domanda di divorzio, ma ha chiesto che nulla fosse disposto a suo carico per il mantenimento della moglie, come da accordi raggiunti in sede di separazione e ha chiesto il rigetto delle domande della ricorrente relativamente al mantenimento delle figlie, allegando che G. era stata assunta presso una catena di ristorazione, mentre MT non conviveva più con la madre. Il convenuto ha altresì allegato: di non svolgere più alcuna attività lavorativa, pur avendo conservato l'iscrizione all'albo degli architetti, di non essere tenuto, proprio perché privo di redditi, a presentare le dichiarazione fiscali; di vivere grazie alle "ragguardevoli risorse economiche della nuova compagna", che provvedeva integralmente ai suoi bisogni; di non essere proprietario di alcun bene immobile. né di autovetture, né di beni mobili di valore; di vivere in un piccolo appartamento in locazione con l'aiuto della nuova compagna che pagava i relativi canoni; i cani bassotto che allevava erano formalmente intestati a lui e alla sua compagna L.R., ma erano di proprietà della sola R.; i cani della compagna non erano poi "di grande valore"; di partecipare mensilmente con detti cani a concorsi di bellezza grazie alla disponibilità della compagna che si faceva interamente carico delle relative spese; la figlia MT nel l'agosto 2017 si era trasferita a vivere con la nonna paterna; la X già all'epoca della separazione era affetta da disturbi depressivi che le impedivano di svolgere attività lavorativa, salvo quella di allevatrice di cani bassotto. attività che ancora svolgeva; la ricorrente aveva la qualifica di imprenditrice agricola all'epoca della separazione, ma non aveva mai sfruttato tale qualità per coltivare terreni; la moglie conviveva con un nuovo compagno, che provvedeva ai suoi bisogni; di aver versato l'assegno di 1.000,00 euro mensili per il mantenimento delle figlie fino a quando aveva potuto, utilizzando i risparmi in precedenza accumulati; di non versare più da circa un anno l'assegno in questione, ma di aver sostenuto direttamente le spese universitarie e le spese personali di MT e alcune spese per G. (bollo e assicurazione auto); di provvedere alla spesa e ai bisogni di C. da quando la figlia si era trasferita presso la nonna paterna; G. era ancora convivente con la madre, ma era stata assunta presso una catena di ristorazione e percepiva uno stipendio fisso mensile. Innanzi al Presidente del Tribunale comparivano entrambe le parti. All'udienza presidenziale del 25.10.2017 la ricorrente dichiarava che la figlia MT si era trasferita temporaneamente a vivere dai nonni paterni ed allegava che dal gennaio 2016 il marito non corrispondeva più l'assegno di mantenimento per le figlie. L'attrice deduceva altresì che la figlia R. frequentava uno stage non retribuito e che il marito aveva uno studio presso il quale esercitava attività professionale. Alle successive udienze presidenziali la ricorrente allegava che la figlia C. aveva ripreso a convivere con lei, mentre il convenuto deduceva che la figlia R. aveva trovato un impiego. All'esito della fase presidenziale. esperito infruttuosamente il tentativo di conciliazione, il Presidente del Tribunale in via provvisoria ed urgente prevedeva un assegno a carico del convenuto di euro 400,00 mensili per il mantenimento della moglie e confermava. quanto al contributo a suo carico per il mantenimento delle figlie, le condizioni già previste in sede di separazione. Il P.M.. notiziato della pendenza della causa, dichiarava di intervenire nel processo. Introdotta la fase contenziosa, all'udienza ex art. 183 cpc avanti al nominato G.I. la ricorrente chiedeva pronunciarsi sentenza parziale di divorzio e il Tribunale con sentenza non definitiva n. 1213/2018, pubblicata in data 04.09.2018, pronunciava la cessazione degli effetti civili del matrimonio. La causa veniva quindi rimessa sul ruolo del giudice istruttore, il quale convocava le parti per interrogatorio libero all'udienza del 16.10.2018. A tale udienza la ricorrente allegava di essere attualmente pensionata e di percepire circa 500,00 euro mensili, di avere ancora qualche bassotto. ma di avere "quasi cessato" per motivi di salute l'attività di allevamento. La X dichiarava, inoltre. che la figlia C. dal marzo 2018 si era trasferita a vivere presso i nonni paterni, mentre R. lavorava con contratto a tempo determinato presso il fast food 100 M.. La ricorrente precisava che R., la quale aveva studiato al liceo scientifico sportivo e aveva frequentato un solo anno di scienze della comunicazione all'Università, aveva intrapreso in via temporanea attività lavorativa presso il menzionato fast food con contratto a tempo determinato con scadenza prevista a novembre 2018 e percepiva uno stipendio variabile di circa 500-700,00 euro mensili. La ricorrente deduceva inoltre che il marito non versava l'assegno per le figlie da circa due anni e non aveva mai versato l'assegno di 400,00 euro mensili previso per il suo mantenimento in sede presidenziale. Alla medesima udienza il convenuto Y dichiarava di essere architetto libero professionista e di aiutare la sua nuova compagna nell'allevamento di cani bassotto; di non avere "praticamente reddito" in quanto "lavorava pochissimo". Il resistente precisava inoltre che nel 2009 (anno della separazione) "lavorava di più come architetto", mentre "ora la sua attività prevalente era quella di aiutare la sua nuova compagna nell'allevamento". Il convenuto dichiarava infine di vivere in un appartamento in locazione sita in Parma, ... ..., per il quale era previsto un canone di 300.00 euro mensili e confermava che la figlia C., studentessa di ingegneria presso l'Università di Padova, si era trasferita a vivere presso i nonni paterni, mentre la figlia R. aveva iniziato a lavorare in un fast food. Espletate le prove orali richieste dalle parti, venivano disposte indagini tributarie sulle condizioni economiche del convenuto e all'esito veniva espletata ctu contabile per l'accertamento della capacità patrimoniale c reddituale di entrambe le parti. Acquisita la relazione del ctu dott. ..., la causa veniva rimessa alla decisione del Collegio, previa concessione alle parti dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. per il deposito delle difese finali. MOTIVI DELLA DECISIONE Come premesso è già stata pronunciata la cessazione degli effetti civili del matrimonio con sentenza non definitiva n. 1213/2018. Quanto alle ulteriori domande si osserva quanto segue Sulla condizione economica delle parti La ricorrente X , in possesso del solo diploma di licenza media (v. verbale udienza presidenziale), all'epoca della separazione dichiarava nel ricorso introduttivo (doc. 4 ricorrente) di trarre redditi dalla attività fino ad allora svolta di pensionato per cani. La X ha allegato di avere cessato tale attività e di aver perso la qualifica di imprenditore agricolo professionale a causa del peggioramento delle sue condizioni di salute. Sul punto il convenuto ha allegato che l'ex moglie già all'epoca della separazione era alletta da disturbi depressivi che le impedivano di svolgere attività lavorativa, salvo quella di allevatrice di cani bassotto, attività che ancora svolgeva. In realtà dalla documentazione in atti si evince indubbiamente il peggioramento delle condizioni di salute della ricorrente. Più precisamente, dalla relazione del Centro Salute Mentale allegata sub doc. 17 dalla ricorrente si evince che la X "è in carico al CSM di ... dal luglio 2007, per Depressione Ricorrente e Disturbo Misto di Personalità, in anamnesi Disturbo della Condotta Alimentare" ed è dovuta ricorrere a prolungati ricoveri per affrontare tali patologie. In tale documento si legge che la X sperimenta "vissuti personali di sofferenza difficilmente superabili ed affrontabili con esclusivo aggiustamento di terapia farmacologica e che portano alla rievocazione di vissuti di angoscia e sofferenza che la paziente fatica a gestire". Vissuti di angoscia plausibilmente correlati al prematuro decesso all'età di 13 anni per leucemia del figlio primogenito della coppia E., scomparso nel 2001 e alla crisi coniugale che ha indotto la coppia a separarsi nel 2008 con ricorso giudiziale promosso dalla medesima X che all'epoca chiedeva l'addebito della separazione al marito per violazione dell'obbligo di fedeltà. procedimento poi trasformato in consensuale nella fase presidenziale del giudizio separativo. Se dunque i disturbi psichici di cui in premessa si erano già manifestati prima della separazione. è altresì vero quanto allegato dalla ricorrente in merito al peggioramento delle sue condizioni di salute. La relazione del CSM specifica infatti che "Alla storia personale si associa negli ultimi anni l'aggravarsi della sintomatologia con compromissione e limitazione nelle attività quotidiane ed inevitabile compromissione del tono dell'umore nei periodi di aumento ed intensificazione della sintomatologia dolorosa .. in parte riconducibile a fibromialgia, per la quale segue dei percorsi di cura presso il Centro di Terapia del Dolore (da marzo 2017 introduzione di terapia con cannabinoidi)". La X ha inoltre documentato di essere attualmente affetta da fibromialgia "con algie polidistrettuali e reazione avversa al cortisone" (v. doc. 20 ricorrente). Dal 2016 inoltre la ricorrente è stata riconosciuta invalida civile in misura superiore a 2/3 per le patologie di "disturbo depressivo maggiore ricorrente in terapia con antipsicotici, disturbo misto di personalità, fibromialgia e spondiloartrosi con bulging discali multipli lombari" (v. doc. 18 ricorrente relativo al giudizio di invalidità). La ricorrente rispetto alla data della separazione ha dunque manifestato un peggioramento delle patologie preesistenti e ha contratto nuove patologie (fibromialgia curata dal Centro per il dolore e spondiloartrosi) "con compromissione e limitazione nelle attività quotidiane" tanto da essere stata riconosciuta invalida civile in misura superiore a 2/3. Quanto al convenuto Y è da precisare che lo stesso ha allegato di aver svolto la professione di architetto libero professionista e di essere tuttora iscritto all'albo degli architetti, ma di non lavorare più di anni, di non percepire alcun reddito, di non avere la proprietà di alcun bene immobile o mobile di valore e di vivere solo grazie all'ausilio della propria facoltosa compagna. Tali allegazioni, recisamente contestate dalla ricorrente, hanno determinato la necessità di effettuare una approfondita istruttoria a mezzo di indagini tributare e consulenza tecnica contabile. Dalla relazione peritale depositata dal ctu dott. ..., che ha tenuto conto di tutti i dati emergenti dalle indagini della GdF, delle movimentazioni dei conti riconducibili al convenuto, nonché dell'ulteriore documentazione acquisita presso pubblici depositari ex art. 213 per delega espressa del GI, è emersa la completa inattendibilità della situazione economica rappresentata dal convenuto, il quale ha dichiarato di nulla guadagnare e di nulla possedere. In primo luogo, come rileva il citi, il resistente ha completamente omesso dal 2008 ad oggi di depositare qualsivoglia dichiarazione fiscale, benché abbia avuto redditi, come emerge dai modelli 770 dei committenti (sostituti di imposta) allegati dalla GdF (v. pag. 10 e 15 ctu) e avrebbe dovuto dunque presentare sia le dichiarazioni annuali dei redditi sia le dichiarazioni IVA (v. pag. 20 ctu). Tale cirC. impone al Collegio di trasmettere gli atti alla Procura in sede e all'Agenzia delle Entrate per le determinazioni di competenza. Il convenuto ha inoltre operato dal 2008 alla data della relazione peritale su ben 36 rapporti bancari, di cui lo stesso è risultato intestatario o cointestatario o delegato ad operare. Trattasi, come evidenzia il ctu, di una "inconsueta numerosità di rapporti" (v. pag. 14 e pag. 12 c 13 della relazione peritale). Ad eccezione dei conti intestati alla Associazione Noi per loro (per la quale il convenuto riveste la carica di tesoriere) e alla società ES. srl in fallimento (della quale il convenuto era legale rappresentante), i rimanenti rapporti, in relazione ai quali il convenuto risulta solo cointestatario o delegato ad operare, ad avviso del ctu in base a presunzioni gravi precise e concordanti (valutazione che il Collegio fa propria e condivide), sono in realtà riconducibili alla disponibilità esclusiva dello Y e ciò sia in quanto i titolari o contitolari sono stretti familiari del convenuto (e specificamente la madre del resistente MI.Mi.) sia in quanto tali rapporti non presentano entrate (quali stipendi, pensioni o altri redditi) o uscite (ad esempio connesse alle spese quotidiane) riconducibili agli apparenti intestatari o cointestatari. Nei rapporti bancari intestati al convenuto o a lui riconducibili sono presenti frequenti versamenti e prelievi per contanti o assegni (ovvero versamenti che non consentono di identificare i beneficiari) - v. pag. 14 relazione peritale. Il ctu ha inoltre evidenziato che sono state effettuate dal convenuto "numerose operazioni extraconto anche di importi considerevoli e movimenti di investimento in fondi e polizze assicurative/risparmio non sempre segnalate dalle indagini finanziarie" (pag. 14 relazione peritale). Il ctu rileva altresì che il convenuto ha effettuato diversi pagamenti per canoni di locazione per oltre 62.000,00 euro dai 2009 al 2018 (v. pag. 23 relazione peritale). La relazione del dott. ... evidenzia poi che il convenuto ha continuato a sostenere spese connesse all'esercizio della professione, quali le spese per l'iscrizione all'ordine degli architetti e spese per formazione professionale e corsi di aggiornamento (pag. 23 relazione peritale). Il convenuto è libero professionista architetto, iscritto all'Albo degli Architetti di Parma ed ha uno studio professionale in Parma Viale ... .... E' altresì iscritto all'albo CTU e Periti del Tribunale di Parma con specializzazione "stima di terreni e fabbricati" (v. pag. 19 ctu). Il resistente risulta essere allevatore di cani di razza "bassotto", iscritto al registro degli allevatori tenuto presso ENCI (Ente Nazionale Cinofilia Italiana), contitolare dell'allevamento ... di L.R. e Y (V. PACI. 20 ctu), con sede in ... (PC) Strada ... ..., ove risulta risiedere la compagna del convenuto, anch'ella architetto iscritta all'ordine degli architetti di Piacenza e con recapito anche Milano. Il ctu evidenzia per il convenuto "una significativa differenza tra il reddito certificato e le entrate complessivamente rilevate sui c/c che non si giustificano neppure ricorrendo alca descrizione riportata sugli stessi movimenti" (v. pag. 29 e relativa tabella). Ciò premesso, il ctu in base a quanto emerso dalle indagini tributarie quantifica un presumibile reddito netto mensile del convenuto (tenuto conto di tutte le movimentazioni riconducibili al medesimo resistente) che si attesta sui circa 6200,00 curo nel 2008 e va immediatamente diminuendo negli anni successivi: dai 2.200 euro mensili del 2009 a circa 580 euro mensili del 2019. Il ctu ha inoltre cura di precisare che il reddito così ricostruito in base a quanto le indagini hanno potuto accertare non è in linea con il reddito medio eli un architetto, pari per Inarcassa nel 2019 a circa 30.000,00 euro. Orbene, ritiene il Collegio che la situazione economica del convenuto non sia certamente corrispondente a quanto dallo stesso rappresentato (lo Y si dichiara sostanzialmente nullatenente) e neppure emerga appieno dalle indagini tributarie svolte e dalla ricostruzione che pur diligentemente ha effettuato il ctu. Il convenuto, per quanto accertato dal ctu, è dal 2008 (anno anteriore alla separazione) evasore totale, avendo omesso di presentare tutte le dichiarazioni fiscali a cui era tenuto. Nonostante il resistente abbia dichiarato di non esercitare alcuna attività lavorativa e di essere integralmente mantenuto dalla nuova compagna nel 2009, all'epoca della separazione consensuale, si impegnava a corrispondere 1.000,00 euro mensili per il mantenimento delle figlie. Più precisamente il convenuto ha dichiarato all'udienza del 16.10.2018: "nel 2009 lavoravo di più come architetto. Ora la mia attività prevalente è quella di aiutare la mia compagna nell'allevamento", mentre nella memoria difensiva in sede presidenziale a pag. 2 ha dichiarato di essere iscritto all'albo degli architetti ma di "NON svolgere attività lavorativa" e di vivere grazie alle "ragguardevoli risorse economiche della compagna che provvede integralmente ai suoi bisogni". Lo stesso convenuto dunque, mentre in memoria difensiva ha allegato di aver mantenuto l'iscrizione all'albo ma di non lavorare affatto, nella successiva udienza del 16.10.2018 faceva intendere di lavorare ancora, benché limitatamente essendo "la sua attività prevalente quella di aiutare la compagna nell'allevamento". Dalle risultanze fiscali acquisite a mezzo delle indagini tributarie è emerso che negli anni successivi alla separazione il convenuto. come già detto, non ha dichiarato alcun reddito, tuttavia in base ai modelli 770 dei committenti (sostituti di imposta) risulta aver percepito un reddito complessivo di euro 4.000,00 nel 2008, di 6.815,00 nel 2009, di 9.940,00 nel 2010, di 1 9.450,00 nel 2011, di 15.217,97 nel 2012, di 6.204,81 nel 2013, di 4.422 nel 2014, di 19.737,60 nel 2015, di 5.200 nel 2016, di 2.537,60 nel 2017 e nulla negli anni 2018 e 2019. Non è dunque neppure vero quanto dallo stesso dichiarato all'udienza del 16.10.2018, ossia che "nel 2009 lavorava di più come architetto", atteso che in tali anni percepiva, per quanto dichiarato dai suoi committenti - sostituti di imposta solamente 4.000,00 nel 2008 e 7.000,00 euro annuali nel 2009 (inferiori ai redditi del 201 1, 2012 e 2015 emergenti sempre dalle dichiarazioni dei sostituti di imposta), salvo ammettere, come sembra ragionevole affermare anche per dar credito allo stesso convenuto, che lo stesso abbia avuto redditi professionali ben maggiori non siano transitati sui conti ricostruiti dal ctu. Il convenuto. allorché nel 2009 aveva apparenti redditi emergenti dai dichiarativi fiscali depositati dai suoi sostituti di imposta di soli 7.000,00 euro, si impegnava a versare 1.000.00 euro mensili per il mantenimento delle figlie, segno anche questo evidente di capacità economiche ben maggiori di quelle che rappresenta il convenuto. E' poi allegazione delle parti che lo Y abbia sempre puntualmente adempiuto al versamento dell'assegno di euro 1.000,00 mensili per il mantenimento delle figlie dal 2009 (anno della separazione) al gennaio 2016 e dunque per 5 anni, benché. a dire del convenuto lo stesso non avesse alcuna fonte di reddito. Si aggiunga che il convenuto, per quanto da lui stesso dichiarato, è gravato da un canone di locazione dell'appartamento in cui vive a Parma di circa 300,00 euro mensili. In corso di causa è emerso che il resistente è altresì titolare di uno studio professionale che esercita in un altro immobile in locazione (v. pag. 1 memoria ex art. 183 comma 6 n. 2 cpc), arredato con beni apparentemente a lui concessi in comodato dalla nuova compagna con contratto registrato all'Agenzia delle Entrate (v. doc. 13 ricorrente), documento da cui si dovrebbe desumere che il resistente non sarebbe proprietario di neppure uno degli arredi (anche i più personali quali il tecnigrafo o di più limitato valore. quali le lampade) destinati al suo studio professionale. Lo Y ha dichiarato di essere riuscito a sostenere l'esborso di 1.000,00 euro mensili per le figlie dal 2009 al 2016, benché non lavorasse più, attingendo ai risparmi in precedenza accumulati, ma di tale cirC. non ha fornito alcuna prova e ha dichiarato di essere riuscito a sostenere l'esborso per la locazione della propria abitazione e dello studio professionale grazie all'aiuto della compagna, ma anche di tale cirC. non ha dato prova, emergendo anzi nei conti riconducibili al convenuto (nessuno dei quali intestato o cointestato alla nuova compagna del resistente) numerosi esborsi per canoni di locazione (v. sul punto relazione peritale già citata). Ancora lo Y ha dichiarato a pag. 5 della memoria difensiva che, pur non versando più l'assegno per le figlie dal 2016, ha comunque continuato "a sostenere direttamente le spese universitarie e altre spese personali per la figlia MT e altre spese per G. (bollo e assicurazione auto)". In comparsa conclusionale il convenuto ha allegato che "i bisogni della figlia MT" la quale vive presso i nonni paterni dall'aprile 2018 ed è iscritta fuori corso all'università di ingegneria a Padova, "vengono direttamente soddisfatti dal padre o dai familiari di quest'ultimo". Il convenuto, pur essendo contitolare di un allevamento pluripremiato di cani bassotto di particolare rinomanza (v. produzioni della ricorrente), ha dichiarato di non essere proprietario dei cani dell'allevamento, benché ne sia formalmente comproprietario e ha precisato che non si tratterebbe di cani di "grande valore", sicché, come allega la ricorrente tale allevamento rappresenterebbe un costoso hobby per il convenuto, che lo impegna, come da lui stesso riconosciuto, quantomeno mensilmente in viaggi per esposizioni nazionali e internazionali canine (v. pag. 3 comparsa di costituzione in sede contenziosa). Anche tali esborsi sarebbero sostenuti secondo lo Y dalla nuova compagna, ma anche di tale cirC. non ha fornito alcuna prova. Da tutto quanto indicato pare evidente che il resistente, benché per tutto il giudizio si sia dichiarato nullatenente, abbia invece una capacità economica ragguardevole e certamente ben maggiore della moglie (peraltro ora invalida), atteso che: certamente continua a svolgere attività professionale da architetto (la stessa attività esercitata anche dalla sua nuova compagna che ha studio sia a Piacenza che a Milano) benché nulla da anni dichiari: non si spiegherebbe infatti perché, pur essendo asseritamente nullatenente e asseritamente inattivo da anni, mantenga l'iscrizione all'albo e la partita IVA e segua corsi di formazione professionale, sostenendone gli esborsi, né perché tenga aperto a Parma uno studio a suo nome per il quale paga oltretutto un canone di locazione, La giustificazione addotta dal convenuto, il quale afferma di avere in tutti questi anni tenuto aperto lo studio professionale in locazione solo per consentire alla figlia C. di andarci a studiare e un domani lavorarvi appare francamente impalusibile. benché dichiaratamente privo di qualsivoglia entrata, il resistente ha convenuto in sede di separazione un assegno per il mantenimento delle figlie di 1.000,00 euro mensili, assegno che ha regolarmente versato fino al gennaio 2016; dall'epoca della separazione ad oggi, oltre a sostenere l'ingente contributo spontaneamente assunto in sede di separazione per il mantenimento delle figlie, ha sostenuto anche esborsi di almeno 600,00 euro mensili per la locazione dell'appartamento ove ha formale residenza in Parma (anche se allega che la sua attività prevalente è quella di aiutare la compagna nell'allevamento dei bassotti a ... nel piacentino) e per la locazione di uno studio professionale che da circa 13 anni non utilizzerebbe più per la sua attività professionale e che utilizzerebbe solo la figlia C. per studiare; sostiene per sua stessa allegazione (pur con l'ausilio della nonna paterna) il mantenimento integrale della figlia C. da quando si è trasferita nell'aprile 2018 presso i nonni paterni. anche con riferimento alle spese Universitarie e di soggiorno a Padova, dove la ragazza ancora studia; partecipa mensilmente ad esposizioni cinofile in Italia e all'estero, coltivando una passione che comporta certamente notevoli costi: invero è lo stesso convenuto ad asserire che tale attività non ha un apprezzabile riscontro economico. sicché deve dedursi sia svolta dal convenuto per passatempo allega che tutti i considerevoli esborsi che ha sostenuto in questi anni (anche per spese che sarebbero del tutto superflue ove fosse vero che non esercita più alcuna attività libero professionale) sarebbero stati resi possibili dall'utilizzo di risparmi in precedenza accantonati o dalle elargizioni della nuova compagna, circostanze di cui però non ha fornito alcun riscontro; lo Y, che nulla ha più versato alla X dal 2016 per il mantenimento delle figlie e che nulla ha mai versato in relazione all'assegno di mantenimento della moglie posto a suo carico in via provvisoria dall'ordinanza presidenziale, ha subito il pignoramento da parte della X di somme depositato in un conto cointestato con la madre. Quest'ultima ha proposto opposizione di terzo allegando l'esclusiva titolarità delle somme pignorate. opposizione che è stata tuttavia rigettata dal Tribunale di Parma. ad ulteriore conferma della validità delle conclusioni del ctu sulla riconducibilità dei conti cointestati al convenuto e alla di lui madre al medesimo resistente Sull'assegno di mantenimento delle figlie Ciò premesso, occorre evidenziare che deve essere certamente revocato a decorrere dall'aprile 2018 l'assegno posto a carico del padre per il mantenimento della figlia MT. Invero, per allegazione concorde di entrambe le parti MT si è trasferita a vivere presso i nonni paterni dall'aprile 2018. Quanto alla figlia G., il padre ha allegato che la stessa era divenuta economicamente autosufficiente già con la memoria difensiva in sede contenziosa avendo reperito un impiego come cameriera a tempo determinato presso un fast food. Dal percorso lavoratore relativo alla figlia acquisito presso il Centro per l'impiego emerge che la ragazza ha lavorato con contratto di lavoro a tempo determinato solo per 8 mensilità dal dicembre 2017 all'agosto 2018 quale cameriera e addetta alla vendita di cibi fasi food, attività certamente all'epoca non coerente con il suo percorso scolastico (G. ha conseguito il diploma di liceo scientifico sportivo). Non è poi contestato quanto allegato dalla BIRATTI in ordine al fatto che in tale periodo la figlia ha percepito uno stipendio variabile da 500,00 a 700.00 euro mensili, importo inidoneo a garantire l'autosufficienza economica della ragazza. Non può dunque trovare accoglimento la domanda del padre di revoca dell'assegno a suo carico per il mantenimento della figlia R. a decorrere dalla data di introduzione del presente giudizio. Tale domanda tuttavia deve essere accolta a decorrere dalla data di deposito della presente sentenza. Il prossimo giugno G. compirà infatti 29 anni. La ragazza ha interrotto gli studi universitari da tempo. Non può essere dunque più prorogato l'onere di mantenimento a carico del padre. Invero, "Il figlio divenuto maggiorenne ha diritto al mantenimento a carico dei genitori soltanto se, ultimato il prescelto percorso formativo scolastico, dimostri, con conseguente onere probatorio a suo carico, di essersi adoperato effettivamente per rendersi autonomo economicamente, impegnandosi attivamente per trovare un'occupazione in base alle opportunità reali offerte dal mercato del lavoro, se del caso ridimensionando le proprie aspirazioni, senza indugiare nell'attesa di una opportunità lavorativa consona alle proprie ambizioni" (Cass. Sez. 1 - n. 17183 del 14/08/2020. v. anche Cass. Sez. 1 - , n. 38366 del 03/12/2021 secondo cui "Il figlio di genitori divorziati, che abbia ampiamente superato la maggiore età, e non abbia reperito, pur spendendo il conseguito titolo professionale sul mercato del lavoro, una occupazione lavorativa stabile o che, comunque, lo remuneri in misura tale da renderlo economicamente autosufficiente, non può soddisfare l'esigenza ad una vita dignitosa, alla cui realizzazione ogni giovane adulto deve aspirare, mediante l'attuazione dell'obbligo di mantenimento del genitore, bensì attraverso i diversi strumenti di ausilio, ormai di dimensione sociale, che sono finalizzati ad assicurare sostegno al reddito, fermi restando l'obbligazione alimentare da azionarsi nell'ambito familiare per supplire ad ogni più essenziale esigenza di vita dell'individuo bisognoso"). Come già evidenziato G. ha ormai 29 anni, ha ultimato il suo percorso formativo scolastico ed è tenuta, per usare le parole della Cassazione, ad "impegnarsi attivamente per trovare un'occupazione in base alle opportunità reali offerte dal mercato del lavoro, se del caso ridimensionando le proprie aspirazioni", tanto più considerato che ha cessato gli studi universitari sicché, tenuto conto del suo diploma (liceo scientifico sportivo) non appaiono plausibili aspirazioni ad un lavoro di specifica qualificazione. L'assegno a carico del padre per il mantenimento della figlia R. deve essere pertanto essere revocato a far data dalla pubblicazione della presente sentenza. Sull'assegnazione della casa coniugale Deve essere revocata l'assegnazione alla ricorrente della casa coniugale, atteso che deve ritenersi conseguita, per quanto sopra esposto, l'indipendenza economica della figlia convivente G.. La casa è peraltro già di proprietà esclusiva della X, che ne ha dunque la piena disponibilità Sull'assegno divorzile Richiamato quanto sopra in relazione allo squilibrio nelle rispettive condizioni economiche delle parti per come ricostruito dal ctu e dalle considerazioni svolte in premessa, deve esaminarsi la domanda di assegno divorzile proposta dalla X. In merito deve anzitutto premettersi che, diversamente da quanto allegato dal convenuto, non ha rilievo il fatto che in sede di separazione consensuale la ricorrente abbia rinunciato all'assegno di mantenimento. Invero, l'assegno di separazione e l'assegno di divorzio hanno presupposti diversi: l'assegno di separazione presuppone la permanenza del vincolo coniugale e, conseguentemente, la correlazione dell'adeguatezza dei redditi con il tenore di vita goduto in C. di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea. dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell'assegno di divorzio -ex multis, Cass., n. 12196 del 16/05/2017. Al contrario, tale parametro non rileva (più) in sede di fissazione dell'assegno divorzile, che deve invece essere quantificato in considerazione della sua natura assistenziale, compensativa e perequativa, secondo i criteri indicati all'art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970. Del resto, gli accordi in sede di separazione non possono in alcun modo vincolare la decisione del giudice del divorzio circa il regime giuridico-patrimoniale degli ex coniugi. Ed invero, la cirC. che nessuna delle parti abbia in quella sede chiesto un assegno non esclude che successivi mutamenti della situazione patrimoniale di una delle due possano giustificarne la richiesta di corresponsione a carico dell'altra (Cass., n. 15064 del 09/10/2003) e tanto in considerazione della natura e funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conseguenza del divorzio, così come di quelli attinenti al regime della separazione, che postulano la possibilità di modularne la misura al sopravvenire di nuovi elementi di fatto (Cass., n. 29290 del 21/10/2021; Cass., n. 19020 del 14/09/2020 e Cass., n. 3925 del 12/03/2012). Si aggiunga, infine, che "Gli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico-patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio sono invalidi per illiceità della causa. perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale di cui all'art. 160 c.c. Ne consegue che di tali accordi non può tenersi conto ai, lini della determinazione dell'assegno divorzile. non solo quando limitino o addirittura escludano il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto necessario a soddisfare le esigenze della vita, ma anche quando soddisfino pienamente tali esigenze. in quanto una preventiva pattuizione potrebbe influenzare il consenso al successivo divorzio." (cfr. Cass., n. 20745 del 28/06/2022 Cass., n. 2224 del 30/01/2017; Cass., n. 1810 del 18/02/2000). Ciò premesso, deve precisarsi che nel ricorso e nei successivi atti difensivi la ricorrente, la quale ha dichiarato all'udienza presidenziale di essere in possesso della sola licenza di scuole medie, nulla ha allegato di preciso in ordine al contributo fornito alla realizzazione della vita familiare e in particolare in ordine alle aspettative professionali sacrificate, allegando solo in comparsa conclusionale di avere avuto un ruolo trainante endofamiliare. Pare tuttavia ragionevole affermare che dalle implicite allegazioni delle parti possa ritenersi comprovato un significativo contributo fornito dalla X alla conduzione della vita familiare. E' invero pacifico che la X prima della separazione esercitava attività di pensionamento di cani e allevamento di bassotti, che esercitava presso l'abitazione familiare, cirC. che le ha reso plausibilmente agevole dedicarsi in via principale alla cura dei figli, senza dimenticare la grave malattia che ha colpito il figlio primogenito deceduto a 13 anni per leucemia e alla cura del quale certamente la X si è dedicata. Sembra peraltro altrettanto plausibile ritenere che tale ruolo endofamilare sia stato trainante, tenuto conto che lo Y ha dichiarato che prima della separazione la sua attività libero professionale, svolta certamente fuori dalle mura domestiche, era più intensa ed assorbente del periodo attuale. In ogni caso ritiene questo Collegio che sussistano i presupposti dell'assegno in questione a prescindere dalla valutazione del contributo fornito dalla X alla vita familiare, su cui appunto, si ribadisce, non vi è stata specifica allegazione e prova e ciò in ragione della funzione assistenziale dell'assegno in questione. Invero, come precisato da Cass. Sezione l °Civile con sentenza del 28 luglio 2022 n. 23583 "le Sezioni Unite del 2018, pur confermando l'abbandono del parametro del "tenore di vita" e il riparto degli oneri probatori definito nel 2017, nel senso che è il coniuge richiederete a dover provare la situazione che giustifica la corresponsione dell'assegno. hanno riconosciuto all'assegno di divorzio una funzione non già soltanto assistenziale (qualora la situazione economico-patrimoniale di uno degli ex coniugi mm gli garantisca l'indipendenza economica), ma anche riequilibratrice, ovvero compensativo perequativa, ove ne sussistano i presupposti - in presenza di un significativo squilibrio delle situazioni economico patrimoniali tra gli ex coniugi. dopo il divorzio, e quantunque entrambi versino in Situazione di autosufficienza economica - per la cui verifica è stata bandita la separazione tra criteri attributivi, tali da incidere sull'an del diritto all'assegno, e criteri determinativi, da utilizzarsi solo successivamente, ai fini della fissazione del quantum: la Corte ha avuto riguardo al caso in cui l'ex coniuge richiedente, specialmente nei rapporti matrimoniali protrattisi per lungo tempo, pur trovandosi, all'esito del divorzio; in situazione di autosufficienza economica, versi rispetto all'altro in condizioni economico-patrimoniali deteriori per aver rinunciato, al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, ad occasioni in senso lato reddituali, attuali o potenziali, con sacrificio economico, a favore dell'altro coniuge, che merita un intervento, "compensativo-perequativo". L'assegno divorzile è quindi dovuto o nell'ipotesi in cui l'ex coniuge non sia economicamente autosufficiente o in quella in cui matrimonio sia stato causa di uno spostamento patrimoniale divenuto ingiustificato ex post dall'uno all'altro coniuge. spostamento patrimoniale che, in tal caso, e volo in tal caso, va corretto attraverso l'attribuzione di un assegno, in funzione compensativo perequativa. L'assegno di divorzio deve essere riconosciuto, non in rapporto al pregresso tenore di vita familiare, ma in misura adeguata anzitutto a garantire, in funzione assistenziale, l'indipendenza o autosufficienza economica dell'ex coniuge, secondo un criterio di normalità, avuto riguardo allo concreta situazione del coniuge richiedente nel contesto in cui egli vive, e inoltre, ove ne ricorrano i presupposti e vi sia una specifica prospettazione in tal senso, deve essere adeguato a compensare il coniuge economicamente più debole, in funzione perequativo-compensativa, del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali (che il coniuge richiedente ha l'onere di dimostrare nel giudizio), al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, rimanendo, in tal caso, assorbito l'eventuale profilo assistenziale (Cass. 24250/2021)." L'assegno in esame può dunque giustificarsi in funzione esclusivamente assistenziale laddove l'ex coniuge non sia economicamente autosufficiente, come è certamente da Ce--affermarsi nell'ipotesi di specie, in cui la ricorrente ha 60 anni. è divenuta invalida (invalidità al 75%,) è affetta da patologie gravemente incidenti sulla sua autonomia e sulla vita quotidiana (ormai croniche e plausibilmente non destinate a remissione) peggiorate negli ultimi anni. curate con terapie specifiche antipsicotiche e con l'assistenza del Centro per il Dolore, e vive con una pensione di invalidità di soli 500,00 euro mensili, somma che dovrà plausibilmente impiegare almeno in parte in spese per cure farmacologiche e sanitarie. Le condizioni economiche del convenuto, reiteratamente e intenzionalmente occultate al fisco e a questo Tribunale, devono ritenersi per quanto esposto significativamente più elevate e tali da garantire al resistente un elevato tenore di vita, tanto da consentirgli di poter sostenere per anni esborsi solo per il mantenimento delle figlie e delle locazioni (della casa di formale residenza e dello studio professionale) di circa 1.600.00 euro mensili. Ciò premesso, tenuto conto della lunga durata del matrimonio (31 anni - dal 1987 anno di celebrazione alla data della sentenza parziale di divorzio pronunciata nel 2018) e del fatto che con la presente sentenza viene revocata ogni contribuzione a carico del convenuto per il mantenimento delle figlie (circa 1.100 euro mensili considerata la rivalutazione monetaria) con conseguente incremento delle capacità reddituali del resistente, ma tenuto conto altresì che la ricorrente non ha esborsi per necessità abitative, si ritiene congruo, fermi restando i precedenti provvedimenti provvisori. determinare a carico dello Y un contributo di euro 500,00 mensili a titolo di assegno divorzile a decorrere, in applicazione dei principi generali, dal passaggio in giudicato della presente sentenza. Si aggiunga per completezza che non si oppone a tale conclusione l'allegata convivenza della X con un nuovo compagno, illazione del convenuto (recisamente contestata alla X), che è rimasta del tutto sfornita di ogni più precisa allegazione e di qualsivoglia prova. Né si oppone a tale conclusione il fatto che la ricorrente sia proprietaria di alcuni terreni c della abitazione familiare. Invero i terreni, contrariamente a quanto allega il convenuto, non risultano produttivi di reddito (né vi è prova in tal senso) e in ogni caso anche riguardo ai redditi potenziali lo stesso resistente indica un plausibile canone dei terreni, ove dati in affitto, di soli 200,00 euro mensili. A sua volta, la casa familiare di proprietà esclusiva della X, pur avendo certamente un valore economico non trascurabile, non appare sfruttabile dalla GL ricorrente se non come abitazione principale, senza potenzialità reddituali (mai invero allegate dal convenuto) e non incide pertanto sulla valutazione della impossibilità per la X di condurre con i propri mezzi un'esistenza economicamente autonoma e dignitosa. Sulle spese di lite Le spese di giudizio devono essere integralmente compensate tra le parti in ragione della reciproca soccombenza. La ricorrente è invero soccombente sulla domanda relativa al mantenimento delle figlie e in relazione all'importo dell'assegno divorzile. Le spese della ctu devono essere poste integralmente a carico del convenuto, atteso che la necessità dell'accertamento peritale è stato determinato dalla assoluta infedeltà fiscale e dall'intenzionale occultamento del resistente dei propri redditi al fisco e a questo Tribunale PQM Il Tribunale di Parma, definitivamente pronunciando nella causa promossa da X nei confronti di Y , iscritta al n. 3220 del Ruolo Generale dell'anno 2017, ogni altra domanda, istanza, eccezione rigettata, così provvede: REVOCA a decorrere dall'aprile 2018 l'assegno previsto a carico del padre per il mantenimento della figlia MT REVOCA a decorrere dalla data di pubblicazione della presente sentenza l'assegno previsto a carico del padre per il mantenimento della figlia G. Fermi restando i provvedimenti provvisori assunti sul punto in corso di causa. DICHIARA tenuto Y con decorrenza dalla data di passaggio in giudicato della presente sentenza alla corresponsione entro il giorno 20 di ogni mese in favore di X , a titolo di assegno divorzile, della somma di euro 500,00 mensili, oltre rivalutazione monetaria annuale secondo gli indici ISTAT DISPONE l'integrale compensazione tra le parti delle spese di lite PONE definitivamente a carico del convenuto le spese di etti liquidate in corso di causa in favore del ctu dott. ... DISPONE a cura della Cancelleria la trasmissione degli atti del presente procedimento alla Procura della Repubblica in sede e la trasmissione alla Agenzia delle Entrate della presente sentenza per le determinazioni di competenza in merito agli illeciti tributari ravvisabili a carico di Y in relazione a quanto evidenziato a pag. 9 e 12 della presente sentenza Così deciso in Parma, nella Camera di Consiglio del I Gennaio 2023

  • REPUBBLICA ITALIANA In nome del popolo italiano Il Tribunale Ordinario di Parma SEZIONE PRIMA CIVILE in persona del dott. Andrea Fiaschi, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa di primo grado iscritta al n. 3958 del Ruolo Generale degli affari contenziosi per l'anno 2018 promossa da (...) (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. (...) parte attrice opponente contro (...) (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. (...) parte convenuta opposta OGGETTO: Vendita di cose immobili CONCLUSIONI DELLE PARTI Le parti hanno concluso come segue: per parte attrice: "In via pregiudiziale: revocare il decreto ingiuntivo opposto in quanto emesso sulla base di una scrittura del 23 giugno 2011 priva dei requisiti di cui agli articoli 633 e 634 cpc e comunque non idonea a far sorgere un credito in capo a (...); In subordine: accertare e dichiarare l'inadempimento di (...) al rogito di vendita del 17 giugno 2011 stipulato a ministero del notaio (...) per non aver cancellato l'ipoteca giudiziale iscritta sull'immobile e di conseguenza condannare, in via riconvenzionale, (...) al risarcimento del danno subito da (...) per tale inadempimento pari alla somma di euro 213.958 (prezzo versato al momento del rogito) ovvero a quella ritenuta di giustizia, dichiarando la compensazione tra parte del credito risarcitorio e la somma ingiunta e condannare (...) al pagamento a favore di (...) del danno residuo "; per parte convenuta: "In via pregiudiziale Accertato il mancato esperimento della procedura di mediazione nel termine previsto, dichiarare l'improcedibilità della domanda giudiziale proposta dal sig. (...) con conseguente conferma del decreto ingiuntivo opposto N. 82/2018 RG 1996/2018. In via preliminare concedere, ai sensi dell'art. 648 c.p.c., la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto n. 782/2018 RG 1996/2018, non essendo l'opposizione fondata su alcuna valida prova scritta, né risulta essere di pronta e facile soluzione. In via principale nel merito rigettare in toto l'opposizione proposta ex adverso, in quanto infondata in fatto e in diritto e, per l'effetto, confermare il decreto ingiuntivo opposto N. 782/2018 RG 1996/2018, per tutti i motivi esposti in atti, il tutto con rivalutazione monetaria sull'importo ingiunto dal tempo del dovuto pagamento e interessi sulla somma così rivalutata sino al saldo". Fatto e Diritto Con atto di citazione ritualmente notificato, (...) ha convenuto innanzi all'intestato Tribunale (...), proponendo opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 782/2018 emesso dal Tribunale di Parma in data 8.05.2018, notificato il 20.06.2018, con cui è stato ingiunto all'opponente il pagamento di Euro 55.000,00, oltre interessi e spese del procedimento monitorio, a favore dell'opposta. In via riconvenzionale, l'opponente ha chiesto la condanna dell'opposta al pagamento di Euro 213.958,00 a titolo di risarcimento del danno per l'inadempimento di controparte alle obbligazioni assunte con contratto di vendita del 17.06.2011. A sostegno delle proprie domande l'opponente ha rilevato che il decreto ingiuntivo opposto è stato emesso sulla base di una scrittura privata datata 23.06.2011 che non contempla un obbligo restitutorio nei propri confronti per l'importo ingiunto, essendo generica e priva di un riconoscimento di debito. Inoltre, secondo l'opponente, l'opposta non aveva adempiuto all'obbligo, assunto con contratto di vendita del 17.06.2011, di provvedere alla cancellazione di una ipoteca giudiziale per l'importo di Euro 9.000,00 iscritta dal Rag. (...) in data 3.08.2007 su di un immobile alienato da parte della (...), attraverso il citato contratto, a favore dello stesso opponente; a tale inadempimento era seguita una procedura esecutiva, promossa dagli eredi del defunto Rag. (...), nel cui ambito era intervenuta anche la Banca titolare di ipoteca volontaria sul suddetto immobile, procedura conclusasi con la vendita del bene e la distribuzione del ricavato esclusivamente a favore dei creditori, con il conseguente configurarsi di un danno per l'opponente pari alla parte del prezzo di vendita già versato all'opposta al momento del rogito (Euro 213.958,00), di cui viene richiesto il risarcimento a controparte. Si è costituita in giudizio parte convenuta opposta (...), la quale ha integralmente contestato le domande dell'opponente, chiedendone il rigetto. L'opposta ha evidenziato, in particolare, che la definizione della propria posizione debitoria nei confronti del Rag. (...) era oggetto della scrittura privata sottoscritta dalle parti del presente giudizio in data 23.06.2011, prodotta in sede monitoria ai fini dell'emissione del decreto ingiuntivo opposto: con tale scrittura infatti il (...) si era impegnato a gestire i contenziosi della (...) con il Rag. (...) e con il Sig. (...), ai fini della loro transazione, trattenendo presso di sé a tal fine la somma di Euro 55.000,00 di titolarità della stessa (...). Non essendo stati tali contenziosi positivamente definiti dal (...), l'importo in questione era dovuto in restituzione alla (...), la quale a tal fine si era attivata in sede monitoria. Con ordinanza del 30.01.2019, a scioglimento della riserva assunta all'esito della prima udienza di comparizione delle parti, il Giudice rigettava l'istanza di concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto avanzata da parte convenuta e disponeva la mediazione delegata assegnando termine di quindici giorni dalla comunicazione del provvedimento per l'introduzione del procedimento e avvisando le parti che la mediazione costituisce condizione di procedibilità e che, per giurisprudenza consolidata, l'instaurazione grava sulla parte che ha interesse a coltivare la causa di opposizione, ovvero l'opponente. Assegnava altresì i termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c. con decorrenza dal 5.06.2019 e rinviava la causa all'udienza del 23.10.2019. In data 20.03.2019 parte opponente depositava istanza di rimessione in termini per instaurare la procedura di mediazione, adducendo di non aver avuto comunicazione del provvedimento del 30.01.2019. Con ordinanza del 2.07.2019, dopo aver sentito in contraddittorio le parti in merito alla suddetta istanza, il Giudice rigettava la richiesta di rimessione in termini e, ritenuta la causa matura per la decisione in ragione della mancata instaurazione del procedimento di mediazione nel termine assegnato, fissava udienza per la precisazione delle conclusioni al 17.11.2020, successivamente rinviata all'udienza del 15.06.2021 da svolgersi mediante trattazione scritta. All'esito della suddetta udienza, il Giudice, preso atto del deposito di note scritte da parte del solo difensore di parte convenuta opposta, rimetteva la causa in decisione, assegnando i termini di cui all'art. 190 c.p.c. per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica. Con provvedimento del 19.11.2021, a seguito del deposito degli atti conclusivi da parte della sola convenuta opposta, il Giudice, ritenuto che la decisione della causa imponesse la disamina della questione inerente l'individuazione della parte del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo chiamata a instaurare il procedimento di mediazione, richiamata la pronuncia della Corte di Cassazione, Sezioni Unite n. 19596 del 18.09.2020, rimetteva la causa sul ruolo, invitando le parti a prendere posizione sulla suddetta questione. Alla successiva udienza del 12.01.2022 nessuno compariva per parte opponente e il Giudice, preso atto delle deduzioni del difensore presente di parte opposta, rinviava per la precisazione delle conclusioni. All'udienza del 6.12.2022 i difensori delle parti precisavano le conclusioni come sopra riportate ed il Giudice tratteneva la causa in decisione, assegnando i termini di cui all'art. 190 c.p.c. per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica. La risoluzione della presente controversia impone di affrontare la questione delle conseguenze derivanti dalla mancata instaurazione del procedimento di mediazione delegata dal giudice nelle ipotesi di opposizione a decreto ingiuntivo, anche alla luce dell'evoluzione giurisprudenziale in materia. Come noto, l'art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 28/2010 nella versione attualmente vigente prevede che "il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell'istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l'esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda anche in sede di appello". È altrettanto noto che, con riferimento ai giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, la questione dell'individuazione della parte onerata ad introdurre il procedimento di mediazione, a seguito della decisione da parte del giudice sulle istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione, è stata oggetto di un acceso dibattito giurisprudenziale, con particolare riguardo alle ipotesi di mediazione obbligatoria di cui al comma 1-bis dell'art. 5 del citato decreto, In particolare, secondo una parte della giurisprudenza, l'onere di esperire il tentativo di mediazione nelle ipotesi suddette era da porsi in capo alla parte opponente; tale conclusione, che trovava conforto anche in una pronuncia della Suprema Corte a Sezioni semplici (Cass. n. 24629/2015), si fondava essenzialmente sul rilievo della natura deflattiva del procedimento di mediazione e sulla ravvisata opportunità di porre l'onere di instaurare tale procedimento sulla parte che ha l'effettivo interesse ad introdurre il giudizio di merito a cognizione piena, attraverso lo strumento dell'opposizione a decreto. Contro tale orientamento si era posta gran parte della giurisprudenza di merito, la quale, in aperto contrasto con il precedente di legittimità, riteneva che l'onere di introdurre il procedimento di mediazione, nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, gravasse sulla parte opposta, in quanto attore in senso sostanziale (cfr. App. Bologna, 1.10.2019; App. Palermo 17.5.19; Trib. Milano 6.12.2016; Trib. Firenze 15.12.2016; Trib. Grosseto 7.6.16; Trib. Busto Arsizio 3.02.2016). A dirimere tale contrasto sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali, con la sentenza n. 19596 del 18.09.2020, hanno affermato il principio - oggi unanimemente accolto in giurisprudenza - secondo cui "nelle controversie soggette a mediazione obbligatoria ai sensi dell'art. 5, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 28 del 2010, i cui giudizi vengano introdotti con richiesta di decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, l'onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta; ne consegue che, ove essa non si attivi, alla pronuncia di improcedibilità di cui al citato comma 1-bis conseguirà la revoca del decreto ingiuntivo". Orbene, a fronte di questo quadro giurisprudenziale, occorre rilevare che nel caso di specie il procedimento di mediazione, non previsto obbligatoriamente ex lege in relazione alla natura della controversia, è stato delegato dal Giudice, il quale, con ordinanza del 30.01.2019, all'esito della decisione sulla provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo opposto, ha statuito: "letto l'art. 5 D. Lgs 28/2010, dispone la mediazione delegata assegnando termine di giorni quindici dalla comunicazione del presente provvedimento per l'introduzione del procedimento e avvisando le parti che essa costituisce condizione di procedibilità e che, per giurisprudenza consolidata, l'instaurazione grava sulla parte che ha interesse a coltivare la causa di opposizione, ovvero l'opponente". Il fatto che, a seguito dell'ordinanza di rimessione, il procedimento di mediazione non sia stato introdotto nel termine assegnato dal giudice è pacifico. Parte opponente, preso atto di tale circostanza, ha depositato in data 20.03.2019, a seguito dello scadere del termine suddetto, un'istanza di rimessione in termini, rigettata dal Giudice con provvedimento del 2.07.2019, anche in ragione del fatto che l'ordinanza di rinvio in mediazione risultava essere stata correttamente comunicata da parte della Cancelleria. In sede di conclusioni, si è posto così il problema di capire in che modo l'omessa introduzione del procedimento di mediazione delegata incida sull'esito del giudizio, essendo peraltro medio tempore intervenuta la sentenza delle Sezioni Unite n. 19596 del 18.09.2020 sopra richiamata. Parte opposta, unica parte ad avere argomentato sul punto (avendo l'opponente del tutto omesso di depositare atti difensivi a seguito dell'istanza di rimessione in termini), ritiene che la sanzione dell'improcedibilità contemplata all'art. 5, comma 2, D.Lgs. n. 28/2010 per le ipotesi di mancato esperimento della mediazione delegata determini nel caso di specie la conferma del decreto ingiuntivo opposto. Essa fonda questa tesi essenzialmente su due argomenti: 1) la sentenza delle Sezioni Unite n. 19596/2020 "riguarda esclusivamente le ipotesi di mediazione obbligatoria" (pag. 2 note di trattazione scritta depositate l'8.03.2022); 2) nel caso di specie il "chiaro tenore" dell'ordinanza di rimessione adottata dal Giudice porta a ritenere che "fosse parte opponente il soggetto gravato dall'onere di introdurre il procedimento di mediazione" (pag. 6 comparsa conclusionale depositata il 27.12.2022). In questa prospettiva, sostiene l'opposta, l'omessa introduzione del procedimento di mediazione da parte dell'opponente nel termine assegnato dal giudice non determinerebbe la revoca del decreto ingiuntivo opposto, come per le ipotesi di mediazione obbligatoria, ma la sua irrevocabilità. A giudizio del Tribunale, la conclusione prospettata da parte opposta non può essere condivisa per le seguenti ragioni. Le considerazioni svolte dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 19596/2020 a sostegno della configurabilità in capo a parte convenuta opposta dell'onere di introdurre il procedimento di mediazione nelle cause di opposizione a decreto ingiuntivo, pur riferite esplicitamente alle ipotesi di mediazione obbligatoria, si fondano su di argomenti di carattere testuale, logico-sistematico e costituzionale suscettibili di assumere rilevanza generale, con riferimento a tutte le ipotesi di mediazione. In particolare, con riguardo al dato testuale, le Sezioni Unite osservano come una serie di disposizioni del D.Lgs. n. 28/2010 portino a ritenere che l'onere di introdurre il procedimento di mediazione gravi sulla parte che, nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, è attore in senso sostanziale, ossia il creditore opposto: in particolare, oltre all'art. 5, comma 1-bis, che fa espresso riferimento a colui che "intende esercitare in giudizio un'azione", vengono in rilievo anche norme applicabili alle ipotesi di mediazione delegata, quali il comma 2 dell'art. 4, secondo cui l'istanza di mediazione deve indicare "le ragioni della pretesa", e il comma 6 dell'art. 5, che ricollega all'istanza di mediazione l'effetto interruttivo della prescrizione. Dal punto di vista logico e sistematico, accanto al tradizionale rilievo per cui l'inversione dei ruoli nelle cause di opposizione a decreto ingiuntivo è solo formale, di talché "appare più conforme al sistema, letto nella sua globalità, che le parti riprendano ciascuna la propria posizione, per cui sarà creditore a dover assumere l'iniziativa di promuovere la mediazione", le Sezioni Unite aggiungono il rilievo - invero significativo anche per le ipotesi di mediazione delegata - della insostenibilità a livello normativo (se non attraverso una "evidente forzatura") delle conseguenze per le parti derivanti dall'ammettere la soluzione contraria rispetto a quella accolta: "se, infatti, si pone l'onere (... di attivare il procedimento di mediazione) a carico della parte opponente e questi rimane inerte, la conseguenza è che alla pronuncia di improcedibilità farà seguito l'irrevocabilità del decreto ingiuntivo; se l'onere, invece, è a carico dell'opposto, la sua inerzia comporterà l'improcedibilità e la conseguente revoca del decreto ingiuntivo; il quale ben potrà essere riproposto, senza quell'effetto preclusivo che consegue alla irrevocabilità del decreto". Infine, con riguardo ai rilievi di natura costituzionale, le Sezioni Unite osservano che i diversi orientamenti sorti in giurisprudenza in ordine all'individuazione della parte onerata ad attivare il procedimento di mediazione sottendono un conflitto tra principi costituzionali, rappresentati dal principio di efficienza e ragionevole durata del processo (valorizzato da chi riteneva che l'onere gravasse sulla parte opponente) e dalla garanzia del diritto di difesa (valorizzato da chi riteneva che l'onere gravasse sulla parte opposta), la cui risoluzione non può che essere offerta riconoscendo prevalenza a quest'ultima. Tutte queste considerazioni non trovano il loro precipuo fondamento nel fatto che l'onere di introdurre il procedimento di mediazione sorga in forza di una disposizione di legge, anziché di un ordine del giudice, e risultano pertanto applicabili anche alle ipotesi di mediazione delegata. D'altra parte, a conferma di tale conclusione, si può rilevare che l'art. 5, comma 2, D.Lgs. n. 28/2010, nel sancire le conseguenze della mancata instaurazione del procedimento di mediazione per le ipotesi di mediazione delegata, utilizza una formula identica a quella utilizzata dal comma 1-bis della medesima disposizione per le ipotesi di mediazione obbligatoria, sancendo che "l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale " E poiché, come ricordato dalle Sezioni Unite, nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo la "domanda giudiziale " è rappresentata in prima battuta dalla pretesa attivata dalla parte creditrice opposta (attore in senso sostanziale) in sede monitoria, le conseguenze derivanti dalla mancata instaurazione del procedimento di mediazione non possono essere diverse a seconda che si tratti di mediazione delegata o di mediazione obbligatoria. Alla luce di questi rilievi, deve ritenersi che, nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, la mancata instaurazione del procedimento di mediazione, ancorché si tratti di mediazione delegata dal giudice, determini, quale conseguenza della pronuncia di improcedibilità, la revoca del decreto ingiuntivo, in quanto l'onere di attivare il procedimento di mediazione, come per le ipotesi di mediazione obbligatoria, grava sempre e comunque su parte convenuta opposta, alla luce di una corretta interpretazione del dettato normativo. È bene chiarire peraltro che nel caso di specie la suddetta conclusione non risulta essere smentita, contrariamente a quanto sostenuto da parte opposta, dal fatto che l'ordine di esperire il procedimento di mediazione adottato da parte del Giudice sia stato accompagnato dall'avviso che tale procedimento "costituisce condizione di procedibilità e che, per giurisprudenza consolidata, l'instaurazione grava sulla parte che ha interesse a coltivare la causa di opposizione, ovvero l'opponente" (cfr. ordinanza del 30.01.2019). Infatti, tale avviso, per quanto potenzialmente fuorviante, si fonda su di un orientamento giurisprudenziale che, già all'epoca della pronuncia del relativo provvedimento, non costituiva "giurisprudenza consolidata", in quanto, come visto, gran parte della giurisprudenza di merito era da tempo orientata nel senso di ritenere che l'onere di attivare il procedimento di mediazione gravasse sull'opposta, come successivamente confermato da parte delle Sezioni Unite. In questa prospettiva, a prescindere dalla sussistenza dei presupposti per la rimessione in termini (non richiesta dall'opposta nel presente giudizio), il riferimento all'opponente operato nel provvedimento suddetto è riconducibile ad un errore di diritto che non incide sulle conseguenze, oggi chiaramente sancite dalla giurisprudenza, della mancata instaurazione del procedimento di mediazione nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, giacché in tali giudizi la parte opposta è per legge gravata dall'onere di introdurre il procedimento di mediazione (obbligatoria o delegata). Tutto ciò considerato, a fronte della mancata instaurazione del procedimento di mediazione delegata, deve dichiararsi l'improcedibilità della domanda proposta in sede monitoria da (...), con la conseguente revoca del decreto ingiuntivo opposto nel presente giudizio. La pronuncia di improcedibilità sopra prospettata, in linea di principio, non preclude la possibilità di esaminare nel merito la domanda avanzata in via riconvenzionale da parte attrice opponente con l'atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo: l'improcedibilità, infatti, investe soltanto la domanda originariamente avanzata in sede monitoria ma non le ulteriori domande che, per ragioni di economia processuale (cfr. ex multis Cass. n. 6091/2020), si ammette possano essere proposte nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. Ciò posto, si deve osservare che la domanda risarcitoria proposta in via riconvenzionale da (...) con l'atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, fondata sul riferimento ad un contratto di vendita immobiliare concluso tra le parti in data 17.06.2011 (doc. 1 di parte opponente), risulta sfornita di supporto probatorio e caratterizzata da una serie di incongruenze difficilmente spiegabili. In particolare, dall'esame della documentazione agli atti, non è chiaro in che cosa consista il danno subito dal (...) per l'espropriazione dell'immobile oggetto di compravendita, considerato che lo stesso (...), prima della notifica dell'atto di pignoramento (doc. 4 di parte opponente), risulta aver alienato tale immobile a (...) con atto di donazione del 5.03.2012 (doc. 3 di parte opponente); né si comprende come si sia sviluppata precisamente la procedura esecutiva che avrebbe portato alla vendita all'asta dell'immobile (acquistato per un prezzo dichiarato in sede di rogito di Euro 460.000,00), e che parte opponente imputa all'inadempimento della (...) all'impegno ad ottenere la cancellazione di un'ipoteca giudiziale che, sulla base del rogito, risultava iscritta su tale immobile per Euro 9.000,00 nei confronti di (...) in ragione di un decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Reggio Emilia il 3.08.2007 (cfr. doc. 1 parte opponente, art. 3). In effetti, come emerge dalle difese di parte convenuta opposta, è verosimile ritenere che le vicende che hanno interessato l'immobile oggetto di vendita si inseriscano in una più ampia rete di rapporti tra le parti che non è emersa nel corso del giudizio, anche in ragione del fatto che parte attrice non ha in alcun modo coltivato la propria domanda risarcitoria dopo la sua proposizione. In ogni caso, per quanto qui interessa, si deve osservare che il disinteresse manifestato da parte attrice per l'andamento del giudizio consente di ritenere pacifica, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., la ricostruzione offerta da parte convenuta secondo cui la propria esposizione debitoria nei confronti del Rag. (...), che aveva determinato l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale sull'immobile venduto al (...), avrebbe dovuto essere transatta dallo stesso (...), in forza degli impegni assunti, successivamente alla stipula del rogito, con la scrittura privata del 23.06.2011 (doc. 1 di parte opposta), nella quale l'opponente si impegnava verso l'opposta a "risolvere le problematiche che sta attraversando per causa degli atti giudiziari promossi contro di lei dal Sig. (...), e dal commercialista Ragioniere (...)". In questa prospettiva, a prescindere dalla configurabilità o meno di un danno per il (...) in relazione alla vicenda in esame, la riconducibilità di tale danno ad un inadempimento di parte opponente non si ravvisa, in quanto l'impegno assunto dalla (...) in sede di rogito risulta essere venuto meno a fronte dei successivi accordi scritti tra le parti. La domanda risarcitoria avanzata da parte opponente nel presente giudizio è pertanto infondata e deve essere respinta. In merito alle spese di lite, si osserva che l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla questione posta a fondamento della pronuncia di improcedibilità e il rigetto della domanda riconvenzionale proposta da parte opponente consentono di ravvisare giustificate ragioni, ai sensi dell'art. 92 c.p.c., per una compensazione integrale delle spese. P.Q.M. definitivamente decidendo sulla causa N.R.G. 3958/2018, ogni diversa domanda ed eccezione disattesa e respinta: 1. dichiara improcedibile la domanda avanzata in sede monitoria da (...); 2. revoca il decreto ingiuntivo n. 782/2018 emesso dal Tribunale di Parma in data 8.05.2018; 3. rigetta la domanda riconvenzionale di risarcimento del danno proposta da (...); 4. compensa integralmente tra le parti le spese di lite. Parma, 2 febbraio 2023.

  • TRIBUNALE DI PARMA SEZ. I CIVILE composto dai seguenti Magistrati: dott. Nicola Sinisi Presidente dott. Simone Medioli Devoto Giudice dott.ssa Maria Pasqua Rita Vena Giudice relatore-estensore riunito in camera di consiglio ha pronunciato la seguente SENTENZA DEFINITIVA nella causa civile di primo grado iscritta al n. 3676/2017 RG vertente tra X, rappresentato e difeso, giusta delega a margine del ricorsa, dall'Avv...., presso il cui studio i elettivamente domiciliato in Maranello (MO), Via (...) n. ... ricorrente e Y, rappresentata e difesa, giusta delega in calce alla comparsa di costituzione e risposta, dall'Avv...., presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Parma, ... resistente Con l'intervento del Pubblico Ministero in sale avente per oggetto: cessazione degli effetti civili del matrimonio CONCLUSIONI All'udienza del 21 settembre 2022 le parti precisavano le proprie conclusioni che si intendono ivi integralmente richiamate e trascritte. RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Si procede alla redazione del presente provvedimento, richiamando, quanto alla parte in fatto, lo svolgimento del processo già riportato nella sentenza parziale n. .../2018 pronunciata da questo Tribunale in data 14 novembre 2018, pubblicata il successivo 15 novembre 2018, e ripercorrendo anche l'iter processuale successivo alla pronuncia della predetta sentenza. Con ricorso depositato in data 24 luglio 2017, X chiedeva a questo Tribunale di pronunciare la cessazione degli effetti civili del matrimonio da lui contratto in Parma il 19 aprile 2008 con Y, dalla cui unione era nata il 2 febbraio 2009 una figlia, R.. A sostegno del ricorso, il ricorrente esponeva che, con decreto emesso in data 5 dicembre 2016, il Tribunale di Parma aveva omologato la separazione consensuale dei coniugi e che, dalla data di comparizione innanzi al Presidente del Tribunale, i coniugi avevano sempre vissuto separati, senza che si fosse più ricostituita la comunione materiale e spirituale tra gli stessi. Il X domandava, inoltre, l'affidamento condiviso della figlia minore con collocazione prevalente presso la madre e con facoltà di visita a suo favore. Il ricorrente allegava che la moglie, dopo la separazione, aveva intrapreso una vera e propria politica ostruzionistica dei rapporti tra lui e la piccola R., impedendogli di poter incontrare la figlia secondo il calendario fissato in sede di accordi di separazione. Per tale ragione, chiedeva il coinvolgimento dei Servizi Sociali, affinché questi sovraintendessero al rispetto da parte della Y del calendario di frequentazione padre-figlia e affinché provvedessero a predispone un percorso di sostegno alla genitorialità a favore della Y. Quanto alla misura della partecipazione alle spese di vita della figlia, il X affermava di essere disposto a versare la somma mensile di euro 300,00, indicizzati Istat, oltre alla metà delle spese straordinarie mediche, scolastiche e ludico-ricreative sostenute nell' interesse della minore. Si costituiva Y, senza opporsi alla domanda di cessazione degli effetti civili, ma rimettendosi a giustizia quanto al regime di frequentazione padre-figlia. Quanto alla misura della partecipazione alle spese di vita della figlia, la Y chiedeva la corresponsione di un contributo di mantenimento per la minore di euro 500,00 mensili, rivalutabili annualmente secondo gli indici Istat. Domandava, inoltre, in via riconvenzionale la condanna del X al risarcimento dei danni da ella patiti a causa della relazione extraconiugale intrapresa dal marito manente matrimonio e chiedeva inoltre la corresponsione di una somma pari a140% del TFR liquidato al coniuge. All'udienza presidenziale comparivano entrambi i coniugi ed il Presidente delegato, dott.ssa Vena, esperito vanamente il tentativo di conciliazione, con ordinanza del 28 giugno 2018, adottava i provvedimenti provvisori, disponendo l'affidamento condiviso della minore R. ad entrambi i genitori, con collocazione prevalente presso la madre e con obbligo a carico del X di versare la somma mensile di euro 300,00 per il mantenimento della figlia, oltre al 50% delle spese straordinarie medico-sanitarie non coperte dal SSN, scolastiche e ricreative. Dichiarava l'inammissibilità della domanda risarcitoria svolta dalla Y, stante il difetto di connessione qualificata ex art. 40 c.p.c. della stessa con la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Radicatosi il contraddittorio innanzi al GI, la resistente, nella memoria integrativa ex art. 163 c.p.c. chiedeva per la prima voltala corresponsione di un assegno divorzile di euro 200,00 mensili. All'udienza del 7 novembre 2018 le parti precisavano le proprie conclusioni, ai fini della pronuncia della sentenza parziale di divorzio. Il Tribunale, con sentenza parziale del 14 novembre 2018, pronunciava la cessazione degli effetti civili del matrimonio e rimetteva la causa in istruttoria, assegnando alle parti i termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c. La causa veniva istruita mediante l'espletamento di una CM psicodiagnostica e l'acquisizione delle dichiarazioni dei redditi delle parti. All'udienza dei 21 settembre 2022 la causa veniva nuovamente rimessa al Collegio per la decisione, con concessione dei termini di legge ex art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica. Nella memoria di replica, la resistente dichiarava espressamente di rinunciare alla corresponsione del 40% del 1NR percepito dal Fidi-dei e nonché alla domanda risarcitoria in precedenza formulata. Ciò premesso in fatto, il Tribunale ha già emesso sentenza parziale di divorzio tra le parti, sicché il thema decidendum è oggi circoscritto alle questioni relative all'affidamento della figlia minore, alla sua collocazione prevalente, al regime di frequentazione della stessa con il genitore non collocatario e, infine, alle richieste economiche avanzate dalla Y Quanto ai provvedimenti nell'interesse della prole, come già detto, in sede di provvedimenti provvisori sono state demandate ai Servizi Sociali la verifica e la vigilanza sul regime di frequentazione padre-figlia ed è stato agli stessi affidato anche lo svolgimento di una funzione di coordinamento genitoriale. Nel corso del giudizio è stato poi disposta una CTU, al fine di acquisire motivato parere sulla capacità genitoriale delle parti nonché al fine di individuare il regime di affidamento più rispondente agli interessi della minore e i tempi di permanenza della stessa con ciascun genitore. L'incarico è stato conferito alla Dott.ssa..., psicologa-psicoterapeuta presso l'Ausl di Parma. In merito alla capacità genitoriale delle parti, già dalla relazione trasmessa dai Servizi Sociali di Parma emerge che la figura materna ha un legame affettivo intenso con R., di cui si occupa con attenzione e senso di responsabilità, tale è che R. ha nella madre un significativo punto di riferimento. I Servizi Sociali hanno tuttavia segnalato che nella madre permane un residuo di rigidità nei confronti dell'ex marito, che si è estrinsecate ad esempio nel negare al padre la possibilità di prendere la figlia il venerdì pomeriggio, nonostante il Servizio avesse offerto la mediazione e avesse evidenziato la necessità di fintile un'interpretazione estensiva di quanto previsto nell'ordinanza presidenziale, anche in considerazione del limitato periodo di frequentazione della bambina con il padre. Dalla relazione dei Servizi Sociali emerge che anche il padre ha un legame affettivo intenso con R., di cui parla con parole ricche di sentimento. Pur non potendo condividere la quotidianità con la bambina, stante la distanza geografica tra le due residenze (la minore vive a Parma con la madre, il X vive a Maranello, in provincia di Modena), ha dimostrato di conoscerne la personalità, gli stati d'animo ed i suoi gusti personali. L'esame peritale ha evidenziato che entrambi i genitori mostrano potenziali competenze genitoriali che tuttavia appaiono limitate dalla presenza di difficoltà nella funzione di coordinazione genitoriale: entrambi sono costantemente sotto giudizio da parte dell'altro, in una catena ansiogena di continua allerta. Entrambi appaiono avere difficoltà a scindere nella propria mente l'immagine dell'altro dal ruolo di ex-partner (verso il quale si ritiene lecito un vissuto rancoroso) e quello di genitore, ruolo, quello genitoriale, che deve essere tutelato da entrambe le parti, separandolo dalla distruttività del conflitto separativo. Secondo il CTU, benché permanga una sostanziale conflittualità e incompatibilità caratteriale tra i genitori, tale dato non è l'elemento più disturbante, poiché ciò che risulta più preoccupante è la distanza non solo fisica, ma anche psicologica tra R. e il padre. E' indiscutibile l'urgenza di favorire una regolarità degli incontri tra R. e il padre per evitare pregiudizi n alterazioni nel normale sviluppo psico-emotivo della minore, stante l'importanza di entrambe le figure genitoriali in periodi specifici delle fasi evolutive, al fine di garantire un corretto sviluppo psicosessuale, svolgendo, padri e madri funzioni diverse. In particolare, i padri favoriscono la competizione, la sfida, l'indipendenza, mentre le madri conferiscono una base di sicurezza; tutti elementi fondamentali per una crescita equilibrata. La relazione padre- figlia è fondamentale nel periodo della pubertà per favorire il distacca) della figlia dalla madre e agevolare lo sviluppo di una propria indipendenza fisica ma soprattutto mentale. Quanto alla minore, R. viene descritta dal CTU come "una bambina sostanzialmente silenziosa, come schiacciata dalla personalità delle persone che le sono vicine, piuttosto orientata all'ascolto, all'osservazione, con un atteggiamento remissivo e composto". Inoltre, le indagini peritati hanno messo in luce la tendenza di R. ad esprimere una visione idealizzata degli altri nell'ambito delle relazioni con gli adulti significativi, scissi in mondi positivi e negativi, nonché "una generale tendenza a compiacere gli altri, ad appiattire in conflitti, a mettersi in secondo piano, a mostrarsi servizievole, brava". In conclusione, sia i Servizi Sociali che il CTU, con argomentazioni pienamente condivisibili, si sono espressi nel senso dell'opportunità di mantenere l'attuale regime di affidamento condiviso, con collocamento prevalente della minore presso la madre e con una frequentazione ordinaria della minore con il padre. Relativamente a quest'ultimo aspetto, deve essere confermato l'attuale calendario di visite, secondo i) quale il padre potrà vedere e tenere con sé la figlia R.: 1) a fine settimana alternati durante il periodo scolastico, dal termine delle lezioni scolastiche del venerdì pomeriggio (indicativamente dalle ore 19.00) alla domenica sera, quando la riaccompagnerà presso la dimora della madre alle ore 21.00. Laddove la minore frequenti la scuola anche il sabato mattina, la minore verrà ritirata dal padre il sabato all'uscita della scuola e resterà presso il domicilio paterno fino alla domenica sera; nel periodo extrascolastico a fine settimana alternati, dalle ore 19.00 circa del venerdì sino alla domenica sera, quando la riaccompagnerà presso la dimora materna, alle ore 21.30, ed alle ore 22.00 nel periodo estivo. Qualora il padre svolga una occupazione stabile e con orario di lavoro che termini non altre le ore 17.00, à opportuno che lo stesso possa recarsi a settimane alterne al ritiro della minore anticipatamente, sempre in accordo con la madre e compatibilmente con le attività extrascolastiche svolte dalla minore; 2) tre settimane, anche non consecutive, durante le vacanze estive, da concordarsi con la Y entro il 30 maggio di ogni anno; in caso di disaccordo negli armi pari deciderà il X, mentre negli antri dispari deciderà la Y; 3) durante il periodo natalizia per sei giorni consecutivi a decorrere, ad anni alterni, dal 23 dicembre o dal 31 dicembre, con sospensione dell'ordinario regime di incontri e con la previsione di un analogo periodo continuativo per l'altro genitore, in modo tale che la minore trascorra, alternativamente, con un genitore le festività natalizie e con l'altro quelle di Capodanno; 4) tre giorni durante le vacanze pasquali, alternando di anno in anno con la Y la prima e la seconda parte delle vacanze stesse; 5) durante tutte le rimanenti festività civili, secondo un criterio di alternanza annuale tra i genitori. Durante i periodi di permanenza della minore presso il domicilio paterno devono essere assicurati momenti individuali nella relazione tra padre-figlia, senza la presenza di altre persone. Con riferimento alla minore, la disamina peritale ha evidenziato la sussistenza di una sindrome ansiosa, che merita di essere approfondita dal punto di vista del controllo degli impulsi, segnatamente di quelli compensatori nei confronti del cibo, nonché delle difficoltà emerse nell'esprimersi nei confronti dei coetanei e delle figure adulte. Ciò rende necessario l'attivazione da parte dei Servizi. Sociali di un percorso di sostegno psicologico a favore della minore, quale luogo "neutro" sia in termini psicologici che fisici, nel quale vengano affrontati gli aspetti caratteriali e quelli legati ad "un'affettività espressa fortemente coartata". Alla luce dei contrasti insorti tra i coniugi in ordine al rispetto del calendario degli incontri, appare opportuno confermare l'incarico affidato, in sede di provvedimenti provvisori, ai Servizi Sociali del Comune di Parma, i quali provvederanno a: a) vigilare sull'applicazione del calendario di frequentazione innanzi indicato, che dorrà garantire la presenza della bambina con il genitore non collocatario; b) svolgere una funzione di coordinamento genitoriale, in modo da garantire le opportune comunicazioni tra i genitori riguardanti la scuola, le attività del tempo libero, le informazioni sanitarie relative alla minore. Quanto alla misura della partecipazione da parte di ciascun coniuge al mantenimento della figlia minore R., entrambe le parti, in sede di precisazione delle conclusioni, hanno concordemente chiesto che fosse confermata l'entità del contributo fissata in sede di provvedimenti provvisori, pari a euro 300,00 mensili, oltre al 50% delle spese straordinarie. La misura del contributo innanzi indicata appare congrua, alla luce dei redditi percepiti dai coniugi. Quanto al ..., dalla documentazione in atti (docc. 21-24) risulta che il ricorrente nel mese di marzo 2018 è stato licenziato dalla società ... Srl; in precedenza, il ricorrente lavorava come operaio, percependo un reddito annuo netto pari a circa euro 15.004,00. Nel corso del giudizio, il X ha reperito una nuova occupazione, dapprima alle dipendenze della "... ove ha lavorato dal 7 maggio 2018 sino al 30 gennaio 2019, e poi alle dipendenze della "... S.r.l." sita in Sassuolo (MO), a far data dal 18 marzo 2019. Lo stesso ha dichiarato un reddito annuo netto pari a curo 12.978,00 nell'anno di imposta 2019 e pari a curo 13.447,00 nell'anno di imposta 2020, per l'attività svolta alle dipendenze della "... S.r.l.". Consta, inoltre, che il X risiede, unitamente alla compagna e alla di lei figlia, presso l'immobile adibito a casa coniugale sito in Maranello Via G. (...) n. 49. Dai modelli CUD prodotti in atti, emerge, invece che la Y lavora alle dipendenze della società cooperativa "... A.r.l.", presso la sede di Parma, e ha percepito: - un reddito annuo netto pari a euro 13.340,00 nell'anno di imposta 2017; - un reddito annuo netto paria curo 13.756,49 nell'anno dì imposta 2018; - un reddito annuo netto pari a euro 1 5.566,00 nell'anno di imposta 2019; - un reddito annuo netto pari a euro 1 7.055,00 nell'anno di imposta 2020. La Y, successivamente al venire meno della convivenza matrimoniale, ha fatto ritorno presso la casa dei propri genitori sita in Parma, Via (...) n.(...). L'esame comparato della situazione economico-patrimoniale induce a ritenere equa la misura del contributo al mantenimento della figlia minore fissata da questo Tribunale con l'ordinanza del 28 giugno 2018, pari a euro 300,00 mensili, indicizzati Istat, oltre alla metà delle spese straordinarie come di seguito riportate. Potranno essere sostenute nell'interesse della figlia senza necessità di preventivo accordo tra i coniugi le seguenti spese straordinarie: tasse, imposte e costi di iscrizione alla scuola pubblica e trasporto pubblico dei figli da e per la scuola; testi di studio, particolari attrezzature didattiche di norma escluse dall'ordinario equipaggiamento scolastico (es. computer e relativi accessori e aggiornamenti), gite scolastiche che importino un costo non superiore a euro 150,00; lezioni private di sostegno scolastico solo ove necessarie e se consigliate dall'insegnante; corsi di ordinaria pratica sportiva e scoutistica con relative attrezzature e spese accessorie, quali oneri di trasferta, ritiri estivi, partecipazione a tornei di categoria; centri-vacanza, soggiorni estivi a iniziativa delle locali parrocchie e/o enti analoghi (colonie) e luoghi assimilati. Quanto alle spese medico-specialistiche, protesiche, terapeutiche non coperte dal Servizio Sanitario Nazionale, va posto a carico della Y l'obbligo di fornire al X un preavviso, laddove consentito dalle esigenze di carattere sanitario della prole, di almeno 20 giorni, al fine di consentire al medesimo genitore di reperire ed indicare modalità alternative e meno onerose di soddisfacimento delle medesime esigenze. In assenza di alcuna indicazione alternativa, il contributo sarà dovuto in relazione alle spese originariamente indicate dal proponente; viceversa, il contributo sarà dovuto nella misura del 50% del minore importo della modalità alternativa debitamente documentata dall'altro genitore. Dovranno essere inoltre preventivamente concordate dai coniugi le seguenti spese straordinarie: imposte, tasse e rette relative alla frequentazione di scuole private; corsi educativi e sportivi di rilevante impegno finanziario e agonistico, quali ippica, tennis, sci, scherma, nautica, golf, educazione musicale allorché implichi la frequentazione del Conservatorio e l'acquisto di costosi strumenti musicali (il genitore che abbia prestato il proprio consenso alla frequentazione dei corsi anzidetti, non potrà sottrarsi dal partecipare a tutte le relative spese accessorie, quali acquisto e rinnovo periodico delle relative attrezzature, oneri di trasferta per la partecipazione a concorsi, gare e tornei, ritiri e soggiorni di esercitazione e studio); corsi privati per l'apprendimento delle lingue straniere; soggiorni all'estero; gite scolastiche che importino una spesa superiore a euro 150,00; viaggi di istruzione e/o diporto, vacanze estive e/o invernali. Resta da esaminare la richiesta avanzata dalla Y di corresponsione in suo favore della somma di euro 200,00 mensili a titolo di assegno post coniugale. Il X ha fortemente contestato l'an del diritto all'assegno divorzile la moglie, sostenendo che la stessa non ha provato la mancanza di mezzi adeguati a provvedere al proprio mantenimento. La Y, dal canto suo, ha asserito di avere diritto a tale assegno per effetto "del fatto di essere stata costretta ad abbandonare la casa coniugale e per effetto del fatto di essere costretta a vivere suo malgrado una situazione familiare pesantissima, non potendosi permettere al momento nemmeno di condurre una autonoma vita con la figlia, assumendo come riferimento la propria famiglia di origine" (memoria integrativa del 24 ottobre 2018). In altri termini, a dire della resistente, il diritto all'assegno divorzile troverebbe il suo fondamento nell'imputabilità al marito della rottura dell'unione coniugale. Ritiene il Tribunale che non sussistano i presupposti per riconoscere alla Y l'assegno divorzile. In diritto, ai fini della decisione sulla domanda di corresponsione di un assegno periodico formulata dalla ricorrente, è necessario soffermarsi preliminarmente sulla recente pronuncia delle Sezioni Unite che, con la sentenza n. 18287/2018, ha ridefinito i principi in materia. I Giudici di legittimità, con la sentenza n. 18287/20 hanno statuito il seguente principio di diritto: "Ai sensi della L. n. 898 del 1970, ari. 5, comma 6, dopo le modifiche introdotte con la L. n 74 del 1987, il riconoscimento dell'assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una, funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi o comunque dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l'applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economica patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornita dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all'età dell'avente diritto", introducendo la necessità dì una valutazione complessiva dei parametri normativamente previsti, anche ai fini dell'accertamento del diritto al riconoscimento della provvidenza, e superando la rigida distinzione tra criterio attributivo e criteri determinativi dell'assegno di divorzio. In particolare, si legge al riguardo: "L'eliminazione della rigida distinzione fra criterio attributivo e criteri determinativi dell'assegno di divorzio e la conseguente inclusione, nell'accertamento cui il Giudice è tenuto, di tutti gli altri indicatori contenuti nell'art. 5, c. 6, in posizione equiordinata, consente, in conclusione, senza togliere rilevanza alla comparazione della situazione economica-patrimoniale delle parti, di escludere i rischi di ingiustificato arricchimento derivanti dall'adozione di tale valutazione comparativa in aia prevalente ed esclusiva, ma nello stesso tempo assicura una tutela in chiave perequativa alle situazioni molto frequenti., caratterizzate da una sensibile disparità di condizioni economica patrimoniali ancorché non dettate dalla radicale mancanza di autosufficienza economica, ma piuttosto da un dislivello reddituale conseguente alle comuni determinazioni assunte dalle parti nella conduzione della vita familiare". La valutazione da compiere è, dunque, quella di accertare il rapporto causale tra la disparità economica eventualmente esistente tra coniugi e l'impegno profuso dal coniuge economicamente più debole nella conduzione della vita familiare e nella formazione del patrimonio, oltre che comune anche dell'altro. Il pregio della suddetta pronuncia è quello di aver chiarito che l'assegno divorzile assicura al coniuge economicamente più debole una tutela in chiave perequativa, ogniqualvolta sussista una sensibile disparità di condizioni economico-patrimoniali e al tempo stesso una funzione compensativa, nella misura in cui l'assegno è finalizzato a ristorare il coniuge che abbia sacrificato le proprie ambizioni personali di realizzazione lavorativa in ragione di scelte endofamiliari. In conclusione, all'assegno divorzile viene attribuita una funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, non finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole alla gestione del menage familiare e alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale. Ciò posto, aderendo all'opzione ermeneutica prospettata dalle Sezioni Unite, quanto al caso in esame si osserva quanto segue. L'esame comparato della situazione economico-patrimoniale delle parti attesta l'assenza di una disparità apprezzabile tra le parti, tale da escludere che la moglie versi in una condizione deteriore rispetto a quella del marito. Nello specifico, la resistente ha percepito un reddito annuo netto pari a euro 15.566,00 nell'anno di imposta 2019 e pari a euro 17.055,00 nell'anno di imposta 2020. Il X, nei medesimi anni di imposta, ha dichiarato redditi rispettivamente pari a euro a euro 12.978,00 nell'anno di imposta 2019 e pari a euro 13.447,00 nell'anno di imposta 2020. Pertanto, non è ravvisabile una sostanziale sperequazione economica che vede la Y in posizione deteriore rispetto al X a causa di scelte fatte nel corso del matrimonio, anzi se una leggera disparità reddituale sussiste questa è sicuramente a favore della Y, che dispone di entrate mensili superiori a quelle del marito. In conclusione, deve essere rigettata la domanda di corresponsione di un assegno divorzile a favore della resistente. Infine, deve dichiararsi la cessazione della materia del contendere con riferimento alle domande di risarcimento danni e di corresponsione di una quota del TFR, inizialmente proposte dalla Y e poi dalla stessa espressamente abbandonate. Quanto alle istanze istruttorie reiterate da entrambe le parti in sede di precisazione delle conclusioni, tali istanze non meritano accoglimento sulla base delle motivazioni già espresse dal Giudice Istruttore, nell'ordinanza del 4 febbraio 2021, che devono intendersi ivi richiamate. Quanto alle spese di lite, la prevalente soccombenza della resistente giustifica la condanna della Y alla rifusione a favore del ricorrente delle spese processuali, che vengono liquidate come in dispositivo, in applicazione dei parametri di cui al D.M. n. 55/2014. Le spese relative alla CTU psicodiagnostica svolta nel corso del giudizio, in quanto espletata nell'interesse superiore della minore, sono invece poste a carico di entrambe le parti solidalmente. Va, tuttavia, rilevato il mancato deposito da parte del nominato perito. dott.ssa ..., dell'i stanza di liquidazione del compenso alla stessa spettante per le indagini peritali espletate. Pertanto, considerato che è stato già riconosciuto a favore della dott.ssa ..., un acconto di euro 1.000,00, oltre accessori di legge, tale spesa deve essere ripartita in base al criterio sopra enunciato, per cui deve essere posta per 112 a carico della Y e per 1/2 a carico del X. P.Q.M. Il Tribunale di Parma, definitivamente pronunciando sulla causa in epigrafe indicata, così provvede: 1) Dispone l'affidamento condiviso della figlia minore R. a entrambi i genitori, con collocazione prevalente della medesima presso la madre e con facoltà per il padre di vederla e tenerla con sé: a) a fine settimana alternati durante il periodo scolastico, dal termine delle lezioni scolastiche del venerdì pomeriggio (indicativamente dalle ore 19.00) alla domenica sera, quando la riaccompagnerà presso la dimora della madre alle ore 21.00. Laddove la minore frequenti la scuola anche il sabato mattina, la minore verrà ritirata dal padre il sabato all'uscita della scuola e resterà presso il domicilio paterno fino alla domenica sera; nel periodo extrascolastico a fine settimana alternati, dalle ore 19.00 circa del venerdì sino alla domenica sera, quando la riaccompagnerà presso 1° dimora materna, alle ore 21.30, ed alle ore 22.00 nel periodo estivo. Qualora il padre svolga una occupazione stabile e con orario di lavoro che termini non oltre le ore 1 7.00, è opportuno che io stesso possa recarsi a settimane alterne al ritiro della minore anticipatamente, sempre in accordo con la madre e compatibilmente con le attività extrascolastiche svolte dalla minore; b) tre settimane, anche non consecutive, durante le vacanze estive, da concordarsi con la Y entro il 30 maggio di ogni anno; in caso di disaccordo, negli anni pari deciderà il X, mentre negli anni dispari deciderà la Y; c) durante il periodo natalizio per sei giorni consecutivi a decorrere, ad anni alterni, dal 23 dicembre o dal 31 dicembre, con sospensione dell'ordinario regime di incontri e con la previsione di un analogo periodo continuativo per l'altro genitore, in modo tale che la minore trascorra, alternativamente, con un genitore le festività natalizie e con l'altro quelle di Capodanno; d) tre giorni durante le vacanze pasquali, alternando di anno in anno con la Y la prima e la seconda parte delle vacanze stesse; e) durante tutte le rimanenti festività civili, secondo un criterio di alternanza annuale tra i genitori. Durante i periodi di permanenza della minore presso il domicilio paterno devono essere assicurati momenti individuali nella relazione tra padre-figlia. 2) Demanda ai Servici Sociali del Comune di Parma il compito di: a) vigilare sull'applicazione del calendario di frequentazione innanzi indicato, che dovrà garantire la presenza della bambina con il genitore non collocatario; b) svolgere una funzione di coordinamento genitoriale, in modo da garantire le opportune comunicazioni tra i genitori riguardanti la scuola, le attività del tempo libero, le informazioni sanitarie relative alla minore; e) attivare un percorso di sostegno psicoterapeutico a favore della minore, R. X; 3) Pone a carico di X, a far data dal mese di luglio 2017, l'obbligo di contribuire al mantenimento della figlia minore R. nella misura pari a curo 300,00 mensili, indicizzati Istat, oltre al 50% delle spese straordinarie sostenute nel suo interesse, dì seguito elencate. Potranno essere sostenute nell'interesse della figlia senza necessità di preventivo accordo tra i coniugi le seguenti spese straordinarie: tasse, imposte e costi di iscrizione alla scuola pubblica e trasporto pubblico dei figli da e per la scuola; testi di studio, particolari attrezzature didattiche di norma escluse dall'ordinario equipaggiamento scolastico (es. computer e relativi accessori e aggiornamenti), gite scolastiche che importino un costo non superiore a euro 150,00; lezioni private di sostegno scolastico solo ove necessarie e se consigliate dall'insegnante; corsi di ordinaria pratica sportiva e scoutistica con relative attrezzature e spese accessorie, quali oneri di trasferta, ritiri estivi, partecipazione a tornei di categoria; centri-vacanza, soggiorni estivi a iniziativa delle locali parrocchie e/o enti analoghi (colonie) e luoghi assimilati. Quanto alle spese medico-specialistiche, protesiche, terapeutiche non coperte dal Servizio Sanitario Nazionale, va posto a carico della Y l'obbligo di fornire al X un preavviso, laddove consentito dalle esigenze di carattere sanitario della prole, di almeno 20 giorni, al fine di consentire al medesimo genitore di reperire ed indicare modalità alternative e meno onerose di soddisfacimento delle medesime esigenze. In assenza di alcuna indicazione alternativa, il contributo sarà dovuto in relazione alle spese originariamente indicate dal proponente; viceversa, il contributo sarà dovuto nella misura del 50% del minore importo delta modalità alternativa debitamente documentata dall'altro genitore. Dovranno essere inoltre preventivamente concordate dai coniugi le seguenti spese straordinarie: imposte, tasse e rette relative alla frequentazione di scuole private; corsi educativi e sportivi di rilevante impegno finanziario e agonistica, quali ippica, tennis, sci, scherma, nautica, golf, educazione musicale allorché implichi la frequentazione del Conservatorio e/o l'acquisto di costosi strumenti musicali (il genitore che abbia prestato il proprio consenso alla frequentazione dei corsi anzidetti, non potrà sottrarsi dal partecipare a tutte le relative spese accessorie, quali acquisto e rinnovo periodico delle relative attrezzature, oneri di trasferta per la partecipazione a concorsi, gare e tornei, ritiri e soggiorni di esercitazione e studio); corsi privati per l'apprendimento delle lingue straniere; soggiorni all'estero; gite scolastiche che importino una spesa superiore a euro 150,00; viaggi di istruzione e/o diporto, vacanze estive e/o invernali; 4) Rigetta la richiesta di corresponsione di un assegno divorzile avanzata da l'appaia; 5) Dichiara la cessazione della materia del contendere con riferimento alle domande di risarcimento danni e di corresponsione di una quota del TFR, inizialmente proposte dalla Y; 6) Condanna Y alla rifusione in favore di X delle spese di lite, che si liquidano in euro 125,00 per spese e in curo 3.500,00 per compenso professionale, ditte rimborso forfetario spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge; 7) Pone le spese di CTU a carico di entrambe le parti solidalmente; 8) Manda alla Cancelleria per la comunicazione ai Servizi Sociali del Comune di Parma. Così deciso in Parma, nella Camera di Consiglio del 19 dicembre 2022.

  • TRIBUNALE DI PARMA Il Tribunale di Parma, sezione I, in composizione collegiale composta dai sottonotati magistrati: Dr. Nicola Sinisi - Presidente rel. - Dr. Simone Medioli Devoto - Giudice - Dr. Paola Belvedere - Giudice ha pronunziato la seguente SENTENZA nella causa civile promossa da: X , rappresentata e difesa dall'avv. ....ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Parma ..... in forza di procura in calce al ricorso introduttivo - RICORRENTE - contro Y , rappresentato e difeso dall'avv..... ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Parma ....in forza di procura in calce alla comparsa di costituzione - RESISTENTE - Pubblico Ministero presso il Tribunale di Parma Causa Civile iscritta al n..../19 del Ruolo Generale rimessa alla decisione del Collegio sulle seguenti conclusioni rassegnate all'udienza del 26 settembre 2022: Per la ricorrente: l'Ill.mo Tribunale voglia pronunciare la cessazione degli effetti civili del matrimonio .. e, respinte le avverse istanze, del tutto infondate, accogliere la domanda di contributo alimentare/assegno di divorzio e per l'effetto dichiarare il sig. Y tenuto al versamento in favore di lotti di un contributo nella misura mensile di Euro 350,00 o nella diversa misura ritenuta di giustizia. Con vittoria di spese e competenze legali" Per il resistente: "Voglia il Tribunale Ill.mo, contrariis reiectis, previe le declaratorie del caso e di legge, prendere atto dell'intervenuta sentenza parziale di divorzio tra le parti e così si precisa: stante le condizioni di salute e finanziarie gravemente e irreversibilmente precarie del sig. Y, dichiarare tenuta la sig.ra lotti alla corresponsione di assegno alimentare in favore del sig. Y nella misura di euro 100,00 (oltre aggiornamento ISTAT) o di quella diversa somma anche maggiore, da determinarsi che - anche in via equitativa - sarà ritenuta di giustizia; salvo e in via subordinata, sempre a titolo di contributo assistenziale, assegnare al sig. Y l'abitazione posta in via *** n.*** loc. *** - *** (PR) Respingere ogni richiesta formulata dalla .... Si richiamano le istanze istruttorie già formulate. Con vittoria di spese e competenze legali." Pubblico Ministero Conclude per l'accoglimento del ricorso con i conseguenti provvedimenti di legge FATTO E MOTIVI DELLA DECISIONE In data 2/16 aprile 2021 questo Tribunale pronunciava la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto in data 26/04/1975 in *** da Y e X; la sentenza ... non è stata appellata ed è diventata definitiva. Rileva il Collegio, all'esito della disamina delle ragioni delle parti, come unica questione controversa riguardi il profilo economico avendo ciascuna parte formulato richiesta di assegno divorzile. Il profilo economico è stato valutato nella sentenza di separazione n.34/2014 di questo Tribunale, respingendo la istanza del Y di mantenimento a carico della moglie, in quanto non aveva mai dedotto di essere impedito all'attività di impresa, nonostante le condizioni di salute e la riconosciuta invalidità, allegando solo di aver cessato l'attività di allevamento bestiame, deducendo anzi ".. di proseguire senza difficoltà l'attività di coltivazione dei fondi riconvertita in colture che non richiedono particolari sforzi fisici, quali quelle foraggere .." (pag.18 cit. sentenza); quel Collegio aveva rilevato, altresì, una situazione economica sostanzialmente equivalente fra le parti e l'inammissibilità dell'analoga richiesta dalla X - spiegata solo con la prima memoria autorizzata (pag.21 sent.) - reputata comunque infondata non avendo ella dimostrato una riduzione patrimoniale dopo la separazione. Tali statuizioni venivano confermate dalla Sez. I della Corte d'Appello di Bologna, con la pronuncia del 6.03.2015. In ricorso (novembre 2019) la X esponeva, a sostegno, di percepire "...una pensione mensile di Euro 517,00 (doc. n.4) .. comproprietaria, con l'ex marito, di un unico immobile, ovvero la casa unifamiliare sita in ... non assegnata in sede di separazione ma abitata da allora in via esclusiva dal sig. Y, a nulla essendo valsi i tentativi bonari di divisione o le istanze di vendere il bene comune (doc. n.5) .. mentre un tempo gestiva un piccolo negozio di fiori, ora la ricorrente non è neppure più in grado di pagare un affitto abitativo, sostenuta unicamente dalla misera pensione, mentre il sig. Y, pensionato e agricoltore, da anni abita da solo nell'immobile in comproprietà, interamente ristrutturato con denaro esclusivo della moglie ...". Nella memoria di costituzione (febbraio 2020), a sua volta, il resistente esponeva di essere un grave cardiopatico per fibrillazione atriale cronica e permanente in ipertiroidismo e in trattamento anticoagulante; con la vendita del podere di Fiesso di Gattatico (doc.13) era stato acquistato il podere in ***, in parte con il ricavato della vendita e in parte con il mutuo del quale paga le rate come può e quando può (docc. da 8 a10); in conseguenza delle precarie condizioni di salute aveva contratto ulteriore finanziamento con banca Unicredit (doc.14), al quale fa fronte con il pagamento di 90,00 euro mensili, a volte ricorrendo a qualche prestito benevolo di qualche amico; è pensionato con assegno mensile di Euro 621,00, nel 2020. Domandava, quindi, un contributo alimentare di Euro 100,00; ".. in via subordinata e per prudente tuziorismo difensivo, il Tribunale potrebbe 1surrogare" (nell'accezione più ampia di pretium succedit in locum rei) il detto assegno alimentare convogliandolo nell'assegnazione della casa coniugale -posta in via *** n.53 loc. *** *** ..", nella quale abita da solo dopo che la moglie si era allontanata. All'esito della fase presidenziale nulla veniva modificato di quanto statuito in sede di separazione. Orbene, ai sensi dell'art.5, comma 6 L.898/1970 (come sostituito dalla legge 74/1982) con la sentenza che pronuncia la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno, quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o, comunque, non può procurarseli per ragioni oggettive. Com'è noto, le Sezioni Unite (n.18287/2018), abbandonati sia ogni automatismo basato sul pregresso tenore di vita o sull'autosufficienza, quanto la concezione bifasica del procedimento di determinazione del beneficio - fondata sulla distinzione fra criteri attributivi e criteri determinativi - hanno ritenuto che l'assegno divorzile, di natura composita non meramente assistenziale, vada riconosciuto in applicazione del principio di solidarietà post-coniugale, ispirato ai parametri costituzionali di cui agli artt.2 e 29 Cost., tenendo conto dei criteri equiordinati previsti dalla prima parte del cit. sesto comma, preferendo a un criterio assoluto e astratto che valorizzi l'adeguatezza o l'inadeguatezza dei mezzi, una visione che propenda per la causa concreta e la contestualizzi nella specifica vicenda familiare, tramite la valorizzazione dell'intera storia coniugale nel suo completo evolversi e realizzi una prognosi futura che consideri le condizioni (di età, salute, etc.) dell'avente diritto. Ciò posto, come si legge in un recente arresto della S. Corte (Sez. I, 28/07/2022 n.23583) che ha ripreso l'insegnamento delle Ss.Uu., il principio secondo il quale, sciolto il vincolo coniugale, ciascun ex coniuge deve provvedere al proprio mantenimento, è derogato, oltre che nell'ipotesi di non autosufficienza di uno degli ex coniugi, anche nel caso in cui il matrimonio sia stato causa di uno spostamento patrimoniale dall'uno all'altro coniuge, ex post divenuto ingiustificato, che deve perciò essere corretto attraverso l'attribuzione di un assegno, in funzione compensativo-perequativa, adeguato a compensare il coniuge economicamente più debole del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali, che il richiedente l'assegno ha l'onere di indicare specificamente e dimostrare nel giudizio .." Il Collegio intende dare applicazione al principio in forza del quale la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch'essa conferita dal legislatore all'assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all'età dell'avente diritto. Nella fattispecie, quindi, non può non rilevare che le difese si sono concentrate (esclusivamente) sulla situazione economico/reddituale delle parti, alcun riscontro offrendo (né chiedendo di offrire) a proposito del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno. L'istruttoria ha, infatti, consentito di appurare che le odierne parti sono comproprietarie di un (piccolo) compendio colonico rustico posto in..., composto dall'abitazione di 115 mq occupata dal Y; la restante parte di mq.435 è libera (la X con beni propri ne occupa una parte). La comproprietà del compendio colonico rustico è caduta formalmente in comunione legale tra i coniugi, a seguito dell'impiego di parte del ricavato da plurimi atti di acquisto e rivendita e, per altra parte, da mutuo fondiario in testa al Y in via esclusiva (docc.8, 9 e 10 suo fasc.). Le parti hanno venduto - nell'ottobre 2017 - un appezzamento di terreno, in comunione, al prezzo di Euro 12.500. E' incontroverso che il Y si dedica anche alla coltivazione di circa 7 biolche di terra, ossia di quello che rimane del piccolo podere in S. Maria del Piano, prevalentemente a prato stabile per fare un po' di fieno che rivende; altre 13 biolche di terra in affittanza, di proprietà della Curia Diocesana, vengono dal medesimo coltivate prevalentemente a prato stabile e talvolta a grano (per le necessità della rotazione). I ricavi della piccola attività agronomica (riferita al fondo in proprietà ed a quello in affittanza) non sono particolarmente significativi, in sostanza chiude in pareggio o con scarsissimo utile (docc.25 e 26); il Y ha anche un piccolo orto, che tiene curato di fianco a casa, i cui frutti utilizza per il suo sostentamento. La titolarità di impresa agricola comporta periodicamente un beneficio economico, costituito dalla "PAC" (Politica Agricola Comune); è riscontrabile un accredito su conto corrente di Euro 1877,85), misura assistenziale agli agricoltori, per tale ragione non ricompresa nei redditi; La documentazione raccolta il sede di indagini della Guardia di Finanza attesta la sua titolarità - presso Unicredit, Agenzia 01584, Traversetolo, di un Conto corrente - n. 101951581 - sul quale risultano i seguenti saldi contabili: - al 31/12/2018 pari ad Euro 1.636,81 a credito - al 31/12/2019 ad Euro 716,96 a credito - al 31/12/2020 ad Euro 174,51 a credito - al 03/11/2021 ad Euro 3.816,29 a credito; un prestito personale (n. 12736880) erogato per Euro 5.378,00, estinto il 13/05/2019, altro Prestito personale (n. 14032667) erogato per Euro 5.504,00 (oggetto di conferimento per cartolarizzazione alla Co.Th. s.r.l.). Scorrendo gli estratti conto allegati dalla difesa resistente, si ricavano gli importi di pensione percepiti dal Y - per tredici mensilità - da Euro 593 nell'anno 2018 (doc.14); il reddito mensile ricavabile dai Modelli PF, pari ad Euro 666, nell'anno 2017 (doc.19) e ad Euro 609, per il 2018 (doc.20). Infine l'estratto conto Un. al 31.12.2020 (doc.28) indica un introito da pensione incrementatisi ad Euro 818,00 mensili. Il mutuo contratto con Cr.Ag. (doc.8 e piano di ammortamento, doc.33) comporta(va) un esborso pro rata di circa Euro 530 mensili, ma dovrebbe intendersi ormai esaurito (ultima rata ottobre 2022). Riguardo alla X, quanto ereditato dalla madre (mancata nell'anno 2010) risulta dalla dichiarazione di successione (doc.27 suo fasc.): Euro 241.000,00 ed una casa in comproprietà venduta successivamente (doc.10) ricavando circa Euro 32.500,00 pro-quota. Nel maggio 2013, cedeva a terzi la sua quota nella s.a.s. esercente l'attività di fiorista in v.le Villetta a Parma (della quale era altra socia la figlia Ro.), al prezzo di Euro 10.500 (doc.31). Risulta dai modelli fiscali (docc.4 anni 2016/18) un reddito pari a circa Euro 550 mensili; dagli estratti conto Cr., allegati alla relazione della G. di F., si ricava un introito per ratei di pensione pari ad Euro 703 mensili (anno 2018) incrementati ad Euro 717 (anno 2021). Presso lo stesso istituto la ricorrente è intestataria di investimenti. Al dicembre 2018 l'ammontare investito era pari ad Euro 44.264, con un saldo passivo nel conto corrente di Euro 5.222; al dicembre 2019 si avevano Euro 42484, con saldo passivo c/c per Euro 6.459; al dicembre 2020 somme investite per Euro 32.694, con saldo attivo di c/c per Euro 2.836; infine al dicembre 2021 ammontare investito Euro 32.999, con saldo attivo c/c per Euro 2.806. La difesa ricorrente evidenzia un esborso di Euro 460 mensili a titolo di canone di locazione. Comparando l'esposta situazione economico/reddituale delle parti, il Collegio reputa confermata la sostanziale equivalenza già rilevata in sede separativa. "Ai fini del riconoscimento dell'assegno divorzile, stante la sua funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, è richiesto l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge istante e dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equi-ordinati di cui alla prima parte dell'art. 5, comma 6, 1. n. 898/1970, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere tanto sull'attribuzione che sulla quantificazione dell'assegno" (cfr. CASS. Sez. I, 2 agosto 2022 n.23997). Discende il rigetto delle richieste di assegno divorzile. Si aggiunga, per completezza, con riferimento al contributo fornito dall'ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, tenendo conto altresì della durata del matrimonio, delle potenzialità reddituali future e dell'età dell'avente diritto (cfr. di recente in sede di merito Trib.Forlì, 17/11/2022 n.1001, Trib.Oristano, 18/11/2022 n.568) che, come già evidenziato, nonostante il matrimonio sia durato 35 anni, alcunché di significativo risulta provato, in argomento, dalle rispettive difese nel presente giudizio. In particolare, riguardo al contributo che il Y afferma di aver dato a moglie e figlia per l'apertura del negozio di fiori, la figlia Ro., escussa quale teste, ha riferito ".. non è vero fu contratto un prestito con Ca. di Euro 40.000 e dopo la costituzione della società effettuai versamento della quota traendo l'importo dal mio conto corrente ..". Analogamente, se ".. .la coppia ha cresciuto due figli e la sig.ra ...ha dato un contribuito sostanziale alla famiglia: si è sempre sacrificata lavorando nei campi e nella stalla e altrove .." (così da ultimo in conclusionale la sua difesa) alcun riscontro risulta fornito sulle circostanze ritenute indispensabile presupposto dalla .... "Il riconoscimento dell'assegno divorzile in funzione perequativo-compensativa non si fonda sul fatto, in sé, che uno degli ex coniugi si sia dedicato prevalentemente alle cure della casa e dei figli, né sull'esistenza in sé di uno squilibrio reddituale tra gli ex coniugi - che costituisce solo una precondizione fattuale per l'applicazione dei parametri di cui all'art. 5, comma 6 .. essendo invece necessaria un'indagine sulle ragioni e sulle conseguenze della scelta, seppure condivisa, di colui che chiede l'assegno, di dedicarsi prevalentemente all'attività familiare, la quale assume rilievo nei limiti in cui comporti sacrifici di aspettative professionali e reddituali, la cui prova spetta al richiedente (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che, in presenza di uno squilibrio reddituale tra gli ex coniugi, aveva attribuito l'assegno divorzile in ragione dell'attività domestica svolta dalla ex moglie, a prescindere dall'allegazione e dalla prova della perdita di concrete prospettive professionali e di potenzialità reddituali conseguenti alla scelta di dedicarsi alle cure della famiglia ed omettendo, altresì, di considerare che il patrimonio della richiedente era formato in misura prevalente da attribuzioni compiute da parte dell'ex coniuge)" (cfr. CASS. Sez. VI, 13/10/2022 n.29920). Riguardo, infine, alla richiesta subordinata formulata dal Y va ribadito che si tratta di questione che esula dall'oggetto del presente giudizio. L'esito del giudizio con la reciproca soccombenza delle parti induce a compensare integralmente le spese di causa. P. Q. M. definitivamente pronunciando, ogni diversa od ulteriore istanza, eccezione o deduzione disattesa, così provvede: rigetta la richiesta di assegno divorzile spiegata da ciascuna delle parti, in via principale e subordinata. dichiara interamente compensate le spese di causa. Parma, 16 gennaio 2023

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI PARMA SEZIONE LAVORO Il Tribunale di Parma, in funzione di giudice del lavoro, nella persona del giudice designato per la trattazione, dott.ssa Ilaria Zampieri, nella causa iscritta al n. 712/2018 RG., promossa da: (...), rappresentata e difesa, giusta procura allegata al ricorso, dagli Avv.ti Lu.Pe., Ma.Ma. e Ma.Pe. del Foro di Parma, ed elettivamente domiciliato presso il relativo studio professionale, sito in Parma, Via (...); RICORRENTE contro (...) S.R.L., in persona del Legale Rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura allegata alla memoria difensiva, dagli Avv.ti Fr.Pe. e Cr.Os. del Foro di Parma, ed elettivamente domiciliata presso lo studio professionale del primo, sito in Parma, Borgo (...); RESISTENTE SVOLGIMENTO DEL PROCESSO - MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Svolgimento del processo. 1.1. Con ricorso depositato in data 7.09.2018 e ritualmente notificato, (...) agiva in giudizio dinnanzi all'intestato Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, proponendo opposizione ex art. 1, co. 51, L. n. 92 del 2012 avverso l'ordinanza del 17.08.2018 con la quale, all'esito del giudizio introdotto nelle forme di cui all'art. 1, co. 48, L. n. 92 del 2012, era stata rigettata la domanda attorea e dichiarata la legittimità del licenziamento comminato all'odierna ricorrente in data 8.04.2016. Premettendo di essere dipendente della società convenuta a far data dall'1.12.2000 e che, con lettera datata 8.04.2016, le veniva comunicato il recesso "per raggiungimento del periodo di comporto", la lavoratrice ribadiva le argomentazioni svolte a base del precedente ricorso in prima fase sostenendo, anzitutto, la nullità del menzionato recesso in quanto discriminatorio. Evidenziava, in particolare, che, in virtù delle malattie dalle quali era affetta, la ricorrente avrebbe dovuto essere considerata portatrice del fattore di rischio da handicap e che un conteggio del periodo di comporto effettuato in termini analoghi agli altri dipendenti e tale da includere anche le patologie che avevano cagionato tale disabilità, avrebbe determinato una discriminazione indiretta. Secondo la (...) invero, da un'analisi delle assenze dal lavoro alla medesima imputate, raffrontata con i certificati medici prodotti in atti, si evincerebbe che le stesse sarebbero state determinate in larghissima parte dalle patologie alla stessa riconosciute e ben note alla società convenuta. Il licenziamento, pertanto, a detta della lavoratrice, presenterebbe profili di discriminazione correlati alle previsioni dell'art. 46 del CCNL Federpanificatori, alla luce dei principi sanciti dalla direttiva 2000/78/CE e dalle sentenze della Corte di Giustizia del 18.1.2018 (causa C-270-2016) e del 9 Marzo 2017 (C-406-2017). La normativa europea, infatti, avrebbe dato particolare rilevanza all'esigenza di assicurare una particolare protezione ai lavoratori portatori di potenziali fattori di discriminazione o, comunque, che si trovino in condizioni personali destinate a incidere negativamente sulla loro vita professionale. Sicché, l'art. 46 del CCNL Federpanificatori, nel regolamentare il comporto per sommatoria, sarebbe discriminatorio perché prescinderebbe dalla valutazione relativa all'esistenza o meno, in capo al lavoratore, della situazione di disabilità di cui alle disposizioni comunitarie, le quali troverebbero, comunque, applicazione diretta nell'ordinamento interno. La ricorrente sosteneva, inoltre, l'illegittimità del licenziamento per violazione della disposizione di cui all'art. 10, comma 4, L. n. 69 del 1999, in quanto, essendo la lavoratrice stata inserita ex art. 4, quarto comma, della richiamata legge nella quota di riserva destinata agli invalidi su domanda presentata alla società datrice di lavoro il 14.09.2015, la(...) S.r.l., licenziandola, avrebbe avuto alla proprie dipendenze un numero di lavoratori occupati obbligatoriamente inferiore alla quota di riserva prevista dall'art. 3 della L. n. 68 del 1999. Rilevava, poi, l'illegittimità del recesso sotto altro profilo, inerente alla riferibilità a responsabilità datoriale delle assenze dal lavoro per le diagnosticate patologie, in quanto causalmente connesse e conseguenti all'inosservanza da parte della S.r.l. delle disposizioni di cui all'art. 2087 c.c. e all'art. 32 Cost., in materia di sicurezza sul lavoro e tutela della salute psico-fisica del lavoratore. Deduceva, infine, la ricorrente la tardività del licenziamento in quanto intervenuto 26 giorni dopo la scadenza del periodo di comporto. Conclusivamente, sosteneva che il licenziamento era caratterizzato da illegittimità idonea a fondare il diritto alla reintegra ex art. 18, co. 1 o 2, L. n. 300 del 1970, a dispetto di quanto ritenuto nell'ordinanza opposta, sicché così concludeva: " Voglia il Tribunale Ill.mo; dato atto che si dichiara che la presente controversia in materia di lavoro è di valore indeterminabile, e che parte ricorrente ha versato un C.U. di Euro 259,00; contrariis reiectis; previa ogni declaratoria, anche incidentale, ed ogni provvedimento, anche istruttorio, che sia del caso e di legge; integrato il contraddittorio con l'INPS ovvero con qualsiasi altro soggetto col quale si ritenesse esistente un litisconsorzio necessario; previe, occorrendo, le C.T.U. medico-legali e contabili del caso; previa, occorrendo la assunzione, ex art. 421 c.p.c., di informazioni presso le associazioni sindacali e la acquisizione al giudizio degli accordi, delle tabelle salariali e dei CCNL del settore della panificazione utili al caso (facendone richiesta a Flai Cgil di Parma via Confalonieri 5); previa acquisizione, presso il Centro Gemini e presso l'Ospedale Maggiore di Parma di ogni esame diagnostico - compresa l'ecografia 30.9.14 prodotta in copia quale doc. 32 - effettuato dalla ricorrente dal 2000 in poi; previa la disapplicazione delle norme di legge che siano illegittime e la declaratoria di nullità e conseguente disapplicazione (con esercizio dei poteri di determinazione equitativa della durata del comporto spettante ex art. 2110 c.c.) di quelle collettive che risultassero contrastanti con l'ordinamento comunitario o con norme di rango superiore o, comunque, previ tutti gli incidenti di costituzionalità del caso ovvero la proposizione alla Corte di Giustizia Europea delle questioni preliminari che egualmente siano del caso; previa ogni opportuna attività istruttoria, anche officiosa, (e seguendo, ex art. 421 c.p.c., ogni "pista probatoria" offerta o che possa presentarsi); occorrendo, entrando nel merito delle ragioni del licenziamento de quo e accertando la penale responsabilità del titolare della impresa convenuta e/o dell'incaricato della sicurezza e la conseguente responsabilità anche in sede civile della (...) s.r.l.; dato atto delle riserve tutte di cui in premesse; dichiarare nullo, o quantomeno invalido per le ragioni sopra dedotte o per le altre meglio viste il licenziamento intimato da (...) r.l. alla sig.ra (...)on lettera datata 8.4.16 e per l'effetto condannare la prima a reintegrare in servizio la ricorrente ed a risarcirle i danni patiti e patiendi, in applicazione dell'art. 18, commi 1 e 2 S.L., in misura pari alla retribuzione percipienda fino al momento della reintegrazione, per le somme che risulteranno all'esito di apposita CTU (in ogni caso con il minimo di 5 mensilità di retribuzione globale) ovvero assumere le minori determinazioni che fossero del caso, ai sensi dello stesso art. 18 S.L.; condannare, inoltre, la società resistente a regolarizzare la posizione previdenziale del ricorrente. Maggiorando tutte le somme dovute alla ricorrente, e determinate escludendo ogni rivalsa della quota di contributi a suo carico, di rivalutazione monetaria ed interessi legali dal dì del dovuto al saldo effettivo. In accoglimento della proposta istanza ex art. 614-bis c.p.c., e previo l'incidente di costituzionalità del caso, fissare la somma di denaro dovuta dalla (...) s.r.l. per la eventuale violazione della sentenza di reintegrazione o riammissione in servizio. Con vittoria delle spese del presente procedimento, più rimborso forfettario, C.P.A. ed IVA". 1.2. Con memoria depositata in data 25.10.2018, si costituiva in giudizio la società (...) r.l., contestando tutto quanto ex adverso sostenuto ed argomentato. La convenuta, in particolare, costituendosi in giudizio, sosteneva, in primo luogo, la legittimità del licenziamento in controversia, in quanto irrogato al superamento del termine contrattuale di comporto. Inoltre, la resistente non avrebbe violato in alcun modo la tutela della sicurezza della dipendente ex articolo 2087 c.c. e, in ogni caso, quest'ultima non avrebbe assolto al proprio onere della prova della sussistenza di un nesso causale tra le patologie sofferte e tali eventuali inadempimenti. Così, dunque, concludeva: "Piaccia a codesto Ill.mo Tribunale, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, - in via principale: rigettare l'avversario ricorso in opposizione perché infondato e, per l'effetto, confermare l'ordinanza resa inter partes dal Tribunale di Parma, Sezione Lavoro in data 17 agosto 2018, comunicata a mezzo PEC il 20 agosto 2018, accertando e dichiarando la legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto irrogato alla sig.ra (...) e assolvendo, conseguentemente, la (...) S.r.l. dalle domande proposte dall'opponente; - in subordine: in caso di accertamento del difetto di giustificazione del licenziamento, rigettare la domanda di reintegrazione in servizio formulata dalla sig.ra (...) e contenere la somma riconosciuta nella misura minima di 12 mensilità in caso di violazione sostanziale o di 6 mensilità in caso di violazione formale; - in ulteriore subordine: nella denegata ipotesi di reintegrazione in servizio della sig.ra (...), detrarre dall'eventuale somma riconosciuta in favore della medesima l'aliunde perceptum et percipiendum, fermo restando il tetto massimo delle 12 mensilità. Con vittoria di spese e compensi di entrambe le fasi del giudizio". 1.3. Fallito il tentativo di conciliazione, la causa veniva istruita sulla scorta della documentazione versata in atti dalle parti nonché delle risultanze della CTU medico- legale disposta. 1.4. All'udienza del 18.10.2022, il giudice invitava i procuratori delle parti alla discussione e la causa veniva, quindi, trattenuta in decisione. 2. Le ragioni della decisione. Tanto premesso in ordine allo svolgimento del processo, il ricorso è fondato e deve, dunque, essere accolto per le ragioni di seguito esposte. Il licenziamento della ricorrente è stato motivato dal superamento del comporto e nella comunicazione di recesso sono stati indicati tutti i periodi di malattia della ricorrente, per complessivi 193 giorni nel periodo 27.03.2015 - 26.03.2016, così suddivisi: 9 giorni dal 27.03.2015 al 04.04.2015, 18 giorni dal 07.04.2015 al 24.04.2015 e 166 giorni dal 13.10.2015 al 26.03.2016 (si veda doc. 14 fasc. parte ricorrente). Non è in contestazione inter partes la complessiva durata della malattia tale da integrare in astratto il superamento del periodo di comporto previsto dal CCNL. Sul punto, l'art. 46 del CCNL Federpanificatori stabilisce che "il lavoratore che non sia in periodo di prova o di preavviso, che debba interrompere il servizio a causa di malattia o di infortunio non sul lavoro, avrà diritto alla conservazione del posto, con riconoscimento dell'anzianità relativa a tutti gli effetti, per un periodo massimi di 180 giorni, anche in caso di diverse malattie, nei 12 mesi precedenti" (doc. 7 fasc. parte resistente fase sommaria). Risulta, per contro, oggetto di contestazione il numero di giorni in cui la lavoratrice si sarebbe assentata dal lavoro per malattia, avendo la ricorrente sostenuto, in sede di opposizione, che i giorni di assenza dal lavoro sarebbero stati 183 e non 193; e, ciò, in quanto "i 9 giorni di assenza andati dal 27.3 al 4.4.15" e il "7.4.15" non avrebbero potuto essere computati, sul presupposto che "il termine esterno (il periodo per il quale le assenze vanno considerate e sono rilevanti) è di un anno" e, quindi, "bisogna andare a ritroso dall'8.4.16 (giorno di intimazione del licenziamento)" (cfr. ric. opp., pag. 48). Tale doglianza - come correttamente rilevato da parte resistente - è, per un verso, infondata, e, per altro verso, inconferente. Sotto un primo profilo, invero, si condivide la tesi patrocinata dalla società convenuta secondo cui il termine esterno di 12 mesi previsto dall'art. 46 CCNL di settore per la conservazione del posto di lavoro deve essere computato a ritroso, non già dal giorno del licenziamento, bensì dall'ultimo giorno di malattia conteggiato ai fini del comporto. In secondo luogo, il rilievo svolto dalla ricorrente è palesemente irrilevante ai fini del decidere, poiché - a prescindere dal fatto che i giorni di assenza siano 193 o 183 - il periodo di comporto è stato, comunque, pacificamente superato, in quanto, per espresso disposto del CCNL viene raggiunto al 180 giorno di assenza per malattia. Tanto premesso, come detto, a sostegno della domanda la ricorrente assume, in via principale, la nullità del licenziamento in quanto discriminatorio; in via subordinata, ne ritiene la illegittimità, sia per violazione della disposizione di cui all'art. 10, comma 4, L. n. 69 del 1999, sia per la dedotta riferibilità a responsabilità datoriale delle assenze dal lavoro della ricorrente per la diagnosticate patologie, in quanto causalmente connesse e conseguenti all'inosservanza, da parte della società convenuta, delle disposizioni di cui all'art. 2087 c.c. e all'art. 32 Cost., in materia di sicurezza sul lavoro e tutela della salute psico-fisica del lavoratore; in via ulteriormente subordinata, ne deduce l'illegittimità per presunta tardività, essendo il recesso intervenuto 26 giorni dopo la scadenza del periodo di comporto. Tanto premesso, nell'ordine logico di esame delle questioni, occorre dare la precedenza alla verifica della sussistenza di quei profili di illegittimità dedotti in ricorso che, se fondati, darebbero luogo ad una maggiore tutela per la ricorrente. E' pacifico e documentale che la ricorrente, assunta in data 1 dicembre 2000 alle dipendenze della società con mansioni di commessa addetta alle vendite nel negozio - in precedenza, nel maggio 2007, giudicata invalida in misura inferiore al 74% (doc. 5 fasc. parte ricorrente) - nella primavera del 2015 è stata riconosciuta "portat(rice) di handicap" ex art. 4 L. n. 104 del 1992 ed invalida civile in misura pari al 75% a causa di "artrite psoriasica in trattamento, bronchite asmatiforme, ipertensione arteriosa, obesità, lesione tendinea spalla dx, stress incontinence in cistocele" (docc. 6/7, 11 fasc. parte ricorrente). Parte ricorrente, dunque, deducendo la discriminatorietà del licenziamento, assume che, in quanto lavoratrice assunta ex L. n. 68 del 1999, ai fini del superamento del comporto non avrebbero dovuto computarsi i periodi di malattia riconducibili alle patologie che riguardano il suo stato di invalidità ed in relazione al quale era stata avviata al lavoro presso la società resistente. Ciò posto, non pare possa dubitarsi che la ricorrente rientri nella nozione di persona affetta da handicap secondo la nozione introdotta dalle norme sovranazionali ed eurounitarie: in particolare, la Corte di Giustizia, nella decisione, 11.4.2013, H.D. C-335/2011, ha invero affermato che la nozione di "handicap" debba "essere intesa nel senso che si riferisce ad una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Inoltre, dall'articolo 1, secondo comma, della Convenzione dell'ONU risulta che le menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali debbano essere "durature". La ricorrente ha, dunque, diritto a vedersi riconoscere tutti i benefici che le norme nazionali e sovranazionali riconoscono ai soggetti e - in particolare - ai lavoratori disabili. Il tema posto da parte attrice a fondamento della impugnazione del licenziamento attiene alla sussistenza di una discriminazione nella condotta datoriale che, procedendo al licenziamento, non avrebbe tenuto in considerazione la disabilità della lavoratrice, operando così una discriminazione. Occorre, anzitutto, chiarire che, nella fattispecie, non si configura, in difetto di allegazione, una discriminazione diretta della lavoratrice: neppure parte ricorrente assume, infatti, che vi siano fatti dai quali desumere che la società abbia licenziato la ricorrente perché invalida e a causa della sua disabilità. Per completezza, si richiamano, le disposizioni che regolano la fattispecie. Sul punto merita, anzitutto, ricordare: - come, secondo la Direttiva 2000/78/CE, quanto a parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro: "la messa a punto di misure per tener conto dei bisogni dei disabili sul luogo di lavoro abbia un ruolo importante nel combattere la discriminazione basata sull'handicap" (Sedicesimo Considerando) e, ancora, come "il divieto di discriminazione non debba pregiudicare il mantenimento o l'adozione di misure volte a prevenire o compensare gli svantaggi incontrati da un gruppo di persone... avente determinati handicap..." (Ventiseiesimo Considerando); - come, nella sua raccomandazione 86/379/CEE del 24 luglio 1986, concernente l'occupazione dei disabili nella Comunità, il Consiglio abbia definito un quadro orientativo in cui si elencano alcuni esempi di azioni positive intese a promuovere l'occupazione e la formazione di portatori di handicap; - e, come, infine, nella sua risoluzione del 17 giugno 1999, relativa alle pari opportunità di lavoro per i disabili, il Consiglio abbia affermato l'importanza di prestare un'attenzione particolare segnatamente all'assunzione e alla permanenza sul posto di lavoro del personale e alla formazione e all'apprendimento permanente dei disabili" (Ventisettesimo Considerando). Con la conseguenza che: sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio... le persone portatrici di un particolare handicap... a meno che: i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che ii) nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica la presente direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all 'articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi" (art. 2, lett. b, Direttiva 200/78/CE). Il D.Lgs. n. 216 del 9 luglio 2003 - di attuazione della direttiva 2000/78/CE - all'art. 2, per quanto qui interessa, fissa la nozione di discriminazione e prevede che, salvo quanto disposto dall'articolo 3, commi da 3 a 6, per principio di parità di trattamento si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale. Alla lettera a) della stessa disposizione, poi, è definita la discriminazione diretta che si ravvisa "quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga". Alla successiva lettera b), poi, è data la definizione della nozione di discriminazione indiretta, che sussiste nel caso in cui "una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone". Mentre nel caso di discriminazione diretta è la condotta, il comportamento tenuto, che determina la disparità di trattamento, nel caso di discriminazione indiretta la disparità vietata è l'effetto di un atto, di un patto di una disposizione di una prassi in sé legittima ovvero di un comportamento che è corretto in astratto e che, in quanto destinato a produrre i suoi effetti nei confronti di un soggetto con particolari caratteristiche - nello specifico un portatore di handicap - determina, invece, una situazione di disparità che l'ordinamento sanziona. Sono, perciò, diversi i presupposti di fatto e, conseguentemente, le allegazioni che devono sorreggere una azione volta a far valere una discriminazione diretta rispetto a quelli necessari per sostenere una richiesta di accertare l'esistenza di una discriminazione indiretta. Facendo, dunque, applicazione, al caso concreto, dei principi poco sopra richiamati, fatti propri anche dal Legislatore nazionale con il D.Lgs. n. 216 del 2003, non può che concludersi per la fondatezza della tesi attorea. Appare, invero, evidente come, ai fini del computo delle assenze per malattia - e, dunque, del calcolo della maturazione del comporto del dipendente disabile - le assenze per malattia connesse alla specifica condizione di disabilità costituisca discriminazione indiretta, in quanto "prassi... o un comportamento apparentemente neutri" che, tuttavia, mette "le persone portatrici di handicap... in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone" (art. 2, co. 1, lett. b), D.Lgs. n. 216 del 2003). Merita richiamare quanto chiarito dalla giurisprudenza del Tribunale di Milano nell'ordinanza del 12.6.2019, Giudice dott.ssa C., procedimento N. 4139/19 R.G.L., con motivazione assolutamente condivisibile, che, di seguito, si riporta e richiama anche ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 118 disp. att. c.p.c.: "L'assunto della assoluta equiparabilità della condizione del lavoratore invalido con quella del lavoratore non disabile ma affetto da malattia e, quindi, della possibilità di applicare ai primi la medesima - indistinta - disciplina in materia di comporto è, con tutta evidenza, erroneo. Così operando, infatti, si regolano nel medesimo modo due situazioni radicalmente differenti, violando il principio di uguaglianza sostanziale e, prima ancora, dando luogo a una discriminazione indiretta. Tanto si afferma in quanto i lavoratori affetti da una inabilita sono soggetti portatori di uno specifico fattore di rischio che ha quale ricaduta più tipica, connaturata alla condizione stessa di disabilità, quella di determinare la necessità per il lavoratore sia di assentarsi più spesso per malattia sia di ricorrere, in via definitiva o per un protratto periodo di tempo, a cure specifiche e/o periodiche. Di qui, necessariamente, l'esigenza di interpretare la disciplina in materia di comporto in una prospettiva di salvaguardia dei lavoratori che, portatori di disabilità, si trovano in una condizione di oggettivo e ineliminabile svantaggio. Vien da sé che, nella materia che qui ci occupa, alla condizione di invalidità/disabilità deve riconoscersi una rilevanza obiettiva, per il sol fatto della ricorrenza di un'effettiva minorazione fisica e indipendentemente dal riconoscimento formale che della stessa i competenti Enti Previdenziali ne abbiano dato, pena la frustrazione in nuce delle tutele di legge. D'altronde, assoggettare l'applicazione delle tutele riservate ai soggetti portatori di questo specifico fattore di rischio alla ricorrenza, o all'adempimento, di formalità di qualsivoglia natura significherebbe creare un vulnus oltremodo severo allo statuto di protezione previsto dall'ordinamento, frustrandone ratio ed efficacia". Analogamente, il Tribunale di Milano, con ordinanza del 6 aprile 2018, già aveva rilevato che "da ciò si ricava pertanto che la norma contrattuale, la quale limita a 180 giorni di assenza l'avvenuto superamento del periodo di comporto - e, quindi, rende legittima la risoluzione del rapporto di lavoro - non può trovare applicazione nel caso di specie in quanto sarebbe causa di una discriminazione indiretta: pur essendo una disposizione di per sé neutra, essa pone il portatore di handicap - in questo caso il ricorrente - in una condizione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori. È, infatti, evidente che il portatore di handicap è costretto ad un numero di assenze di gran lunga superiore rispetto al lavoratore che limita le proprie assenze ai casi di contingenti patologie che hanno una durata breve o comunque limitata nel tempo. È per tali soggetti che il termine di comporto è evidentemente previsto. Sicché, un'interpretazione della norma contrattuale rispettosa dei principi affermati dalla direttiva 2000/78, dal D.Lgs. n. 2016 del 2003 e dalla sentenza della Corte di Giustizia prima esaminati deve fare escludere dal computo del termine per il comporto i periodi di assenza che trovino origine diretta nella patologia causa dell'handicap (a tale conclusione era peraltro pervenuta la Corte di Giustizia con la sentenza del 2013 richiamata, a proposito di un termine di preavviso di 120 giorni cfr punto 76 della sentenza)...È, infatti, evidente che il portatore di handicap aggiunge, ai normali periodi di malattia che subisce per cause diverse dall'handicap, quelle direttamente collegate a quest'ultimo: ma una parità di trattamento tra lavoratori esige che, solo con riferimento alle prime, i lavoratori portatori di handicap e tutti gli altri siano sottoposti al limite temporale del comporto". Tanto premesso - anche in considerazione dell'esistenza, in seno all'ordinamento, di posizioni giurisprudenziali di segno contrario - si ritiene opportuno svolgere un'importante precisazione. Ritiene questo Giudice come la malattia del disabile non possa sempre ed aprioristicamente essere trattata in maniera diversa da quella del lavoratore non disabile e che, dunque, non sempre il licenziamento per superamento del comporto del lavoratore affetto da disabilità rappresenti una discriminazione del medesimo. Sul punto, si richiamano taluni passaggi della sentenza 12/09/2022, n. 19 resa dal Tribunale di Lodi, che, pur rigettando la domanda attorea, ha espresso principi condivisibili: "In linea generale ed astratta, invero, non vi sono ragioni, nell'ordinamento italiano, per trattare i lavoratori disabili diversamente dagli altri con riguardo particolare e specifico alle conseguenze sulla stabilità del rapporto legate alla durata della malattia: il disabile, infatti, non è di per sé necessariamente un lavoratore malato, affetto, cioè, da una patologia che imponga assenze "per malattia". Malattia e disabilità sono concetti differenti, così come lo sono il lavoratore malato e quello disabile; il lavoratore disabile non è un lavoratore malato. Occorre, dunque, distinguere fra disabilità e malattia: la prima attiene alle difficoltà funzionali del lavoratore, difficoltà che lo pregiudicano nello svolgimento dell'attività lavorativa (in ragione di tale deficit funzionale sono previste le norme sul collocamento obbligatorio, il principio sul ragionevole accorgimento da adottare da parte del datore di lavoro per consentire l'espletamento dell'attività lavorativa). La malattia riguarda, per contro, lo stato morboso, stato temporaneo, che impedisce in assoluto al lavoratore di prestare l'attività lavorativa. Da ciò consegue che, per ipotizzarsi una discriminazione indiretta, dovrebbe potersi dire che, in generale, il lavoratore disabile, quando si ammala, proprio a causa della sua disabilità, viene trattato diversamente, meno favorevolmente, di un altro lavoratore; e, tuttavia, tale affermazione non è vera. Vi sono, infatti, disabili che non sono affetti da patologie che comportino la necessità di assenze legate ad un particolare stato morboso: si pensi ai disabili non vedenti, non udenti, focomelici, privi di arti o ai disabili psichici o affetti da deficit cognitivo: si tratta di soggetti la cui disabilità, di per sé, non porta a stati morbosi e, quindi, alla necessità di assentarsi per malattia. D'altro canto, vi sono lavoratori, affetti da malattie croniche e/o gravi che non sono disabili e che, proprio in ragione di tali patologie, sono soggetti a periodi più o meno lunghi di malattia (si pensi ai malati oncologici, ai diabetici, ai soggetti che soffrono di emicrania o cefalea). Vi sono poi disabili, come la ricorrente, affetti da patologie che possono generare stati morbosi e, dunque, periodi di malattia". Quanto sopra, a parere del tribunale, porta a ritenere - come detto - che la malattia del disabile non possa sempre ed aprioristicamente essere trattata in maniera diversa da quella del lavoratore non disabile e che, dunque, il discrimine ipotizzabile ai fini della durata del comporto attenga, non già allo status di disabilità, ma, piuttosto, alla tipologia di malattia. Occorre, cioè, valutare se, in concreto, quando si verifichi una assenza per malattia, tenuto conto della natura della malattia in relazione alla natura della disabilità, il licenziamento per superamento del comporto comporti una discriminazione del lavoratore. Taluni contratti collettivi prevedono, infatti, che la gravità della patologia od altre caratteristiche della malattia consentano un comporto prolungato e, dunque, distinguono la durata del comporto a seconda della gravità della patologia. A parere del tribunale, per verificare se, in concreto, nel caso in esame, la norma collettiva attui una discriminazione indiretta della lavoratrice in relazione al computo del comporto come disciplinato dalla contrattazione collettiva, occorre valutare se tale disciplina sia penalizzante per la disabile in ragione della patologia che ha dato origine alla disabilità. Ebbene, nella fattispecie oggetto di causa, l'art. 46 CCNL Federpanificatori prevede, per i lavoratori, un comporto di 6 mesi (con assenze riferibili ad una pluralità di eventi morbosi nell'arco degli ultimi 12 mesi): nel caso in esame, il superamento del comporto si è verificato per una pluralità di eventi morbosi, verosimilmente tutti riconducibili alla disabilità (come emerge dalla Ctu espletata). Il nominato CTU, invero, ha così precisato: "(...) è affetta da plurime patologie di competenza internistica e ortopedica: 1) artropatia psoriasica in trattamento cronico con methotrexate e dosi elevate di cortisone; 2) asma bronchiale, anche questa necessitante di "frequenti cicli di terapia sistemica steroidea" (certificato del curante del 25/1/2017) e caratterizzata da un progressivo peggioramento iniziato 17 anni fa; 3) obesità; 4) prolasso uro-genitale; 5) Disturbo Ansioso-Depressivo, almeno in parte reattivo alle condizioni di salute e accentuatosi dopo il licenziamento, in trattamento farmacologico; 6) lesione tendinea alla spalla destra, operata. Già commessa presso il (...) in seguito al riconoscimento di un grado di invalidità del 67% (per artropatia psoriasica, asma bronchiale/bronchite cronica asmatiforme; obesità e prolasso) era riassunta dal panificio nelle stesse mansioni come quota invalidi e dichiarata idonea con limitazioni dal medico competente (comprendenti la movimentazione manuale di carichi). In epoca imprecisata, in seguito a caduta in riferita occasione di lavoro, riportava trauma indiretto alla spalla dx con lesione di tendini della cuffia rotatori, all'origine di una limitazione dolorosa invalidante a carico dell'arto dominante. Si rendevano quindi necessario il trattamento chirurgico e una successiva prolungata riabilitazione, con conseguente altrettanto prolungata inabilità lavorativa. In particolare, l'intervento sui tendini della spalla comportava un'astensione dal lavoro (dal 13/10/2015 al 26/3/2016) pari a 166 giorni che, sommata a due precedenti assenze per malattia nel corso del 2015 (per complessivi 27 giorni), portava al superamento del periodo di comporto (193 giorni) e al licenziamento. Relativamente ai 166 giorni di assenza dopo l'intervento sulla spalla, è bene premettere, al di là dei limiti del presente accertamento, che si tratta di un periodo pienamente giustificato. Sono ben noti, infatti, i tempi richiesti per la riabilitazione e il recupero della spalla operata e l'assoluta non idoneità lavorativa del paziente per almeno 6 mesi, salvo attività del tutto sedentarie ed esenti da impegno dell'arto superiore. L'astensione certificata era dunque necessaria. Da rilevare che l'aggiungersi della patologia di spalla al preesistente quadro menomativo comportò una rivalutazione della percentuale di invalidità civile nella misura del 75%...La lesione della cuffia, nei riguardi della quale la caduta denunciata rappresenta la reale concausa che ha innescato il quadro doloroso, è sicuramente una patologia con assoluta prevalenza degenerativa, correlata sia all'invecchiamento fisiologico delle strutture tendinee ma in grande prevalenza riconducibile all'artropatia psoriasica e alle relative terapie croniche". Ebbene, ritiene questo Giudice che la disciplina del comporto nel caso di specie sia discriminante, tenuto conto: - del limitato (laddove confrontato con altre previsioni contrattuali) periodo di comporto previsto dal CCNL di settore applicabile al caso di specie; - della riconducibilità delle assenze della lavoratrice che hanno determinato il superamento dell'ordinario periodo di comporto alle patologie in relazione alle quali l'invalidità è stata riconosciuta; - della circostanza per cui la maggior parte delle assenze della lavoratrice (dal 13.10.2015 al 26.3.2016) sono successive all'intervento dei tendini della spalla e giustificate dai tempi richiesti per la riabilitazione e il recupero della spalla medesima e, dunque, pur essendo indubbiamente riconducibili all'invalidità riconosciuta alla ricorrente (si legge, invero, nella consulenza: "La lesione della cuffia, nei riguardi della quale la caduta denunciata rappresenta la reale concausa che ha innescato il quadro doloroso, è sicuramente una patologia con assoluta prevalenza degenerativa, correlata sia all'invecchiamento fisiologico delle strutture tendinee ma in grande prevalenza riconducibile all'artropatia psoriasica e alle relative terapie croniche"), si giustificano in relazione all'operazione subita e non, per contro, ad uno stato morboso cronico tale da impedire, per una durata non predeterminabile da parte datoriale, lo svolgimento dell'attività lavorativa. Sotto tale profilo, in particolare, se è vero che l'art. 2110 c.c., nel disciplinare il licenziamento per superamento del comporto, risponde alla finalità di salvaguardare, non solo il diritto del disabile alla conservazione del posto, ma anche il diritto del datore di lavoro di risolvere il contratto quando la malattia si protragga per un tempo così lungo da far venir meno l'interesse al rapporto di lavoro con il lavoratore, è altrettanto vero che, a fronte delle ragioni che, nel caso concreto, hanno giustificato le assenze, l'esclusione dal computo dei periodi malattia legati alla disabilità non si sarebbe risolto in un onere sproporzionato per il datore di lavoro, non trattandosi, all'evidenza, per le ragioni esposte, di un lavoratore non in grado di garantire la prestazione per un periodo sufficientemente continuativo. Per questi motivi, in accoglimento della domanda principale, deve essere dichiarata la natura discriminatoria del licenziamento intimato alla ricorrente conseguente diritto della stessa di vedersi applicata la massima tutela di cui all'art. 18 L. n. 300 del 1970. La società dovrà, per l'effetto, essere condannata all'immediata reintegrazione della lavoratrice oltre che al risarcimento del danno, determinato nella retribuzione mensile globale di fatto pari a Euro 1.796,95 lordi mensili (come dedotto in ricorso e dalla resistente non contestato), da corrispondersi dalla data del licenziamento a quella di effettiva reintegrazione - detratto l'aliunde perceptum - e, comunque, in misura non inferiore a cinque mensilità, oltre interessi e rivalutazione e versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione. Ogni residua questione ulteriore di cui in atti resta disattesa o assorbita in quanto superflua ai fini del decidere. 3. Sulle spese di lite. Quanto alle spese di lite, giova ribadire che, con la recente sentenza n. 77/2018, la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 92, comma 2 c.p.c. nella parte in cui non consente di compensare parzialmente o per intero le suddette spese ove ricorrano gravi ed eccezionali ragioni, diverse da quelle tipizzate dal legislatore. Secondo la Corte, devono ritenersi riconducibili alla clausola generale delle "gravi ed eccezionali ragioni" tutte quelle ipotesi analoghe a quelle tipizzate espressamente nell'art. 92 comma 2 c.p.c., ovvero che siano di pari o maggiore gravità ed eccezionalità, con la conseguenza che "l'assoluta novità della questione trattata" e il "mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti" assumono la sola funzione di parametro di riferimento per la determinazione dell'area di operatività della norma e non un ruolo tipizzante esclusivo. Ebbene, nell'ipotesi de qua, la complessità delle questioni giuridiche sottese alla fattispecie in controversia nonché la difformità degli orientamenti formatisi sul punto presso la giurisprudenza di merito - costituendo "analoga grave ed eccezionale ragione di compensazione delle spese di lite tra le parti" - autorizza la compensazione integrale delle predette spese nonché la ripartizione delle spese di CTU, come separatamente liquidate, tra le parti in causa, in solido tra loro. P.Q.M. Il Tribunale di Parma - Sezione Lavoro, in persona del Giudice, dott.ssa Ilaria Zampieri, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe indicata, disattesa o assorbita ogni contraria istanza, eccezione e difesa, così provvede: 1) In accoglimento del ricorso, dichiara la nullità del licenziamento intimato a parte ricorrente con lettera del 8.4.2016 e ordina a (...) S.r.l. la reintegrazione nel posto di lavoro o in altro equivalente della lavoratrice in mansioni compatibili con il proprio stato di salute. 2) Condanna (...) S.r.l. a corrispondere all'opponente l'indennità di cui al II comma dell'art. 18 della L. n. 300 del 1970 nella misura della retribuzione mensile - pari alla retribuzione globale di fatto (Euro 1.796,95 lordi mensili) - dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegrazione, nonché a versare i contributi previdenziali ed assistenziali di legge per il medesimo periodo. 3) Compensa integralmente le spese di lite tra le parti. 4) Pone le spese di CTU, negli importi già liquidati con separata ordinanza nel presente processo, a carico di entrambe le parti, in solido tra loro. Così deciso in Parma il 6 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 9 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna sezione staccata di Parma Sezione Prima ha pronunciato la presente SENTENZA ai sensi dell'art. 60 cod.proc.amm. -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avv. Ma. El. Co., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Interno e Ufficio Territoriale del Governo di Piacenza, in persona dei legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Bologna, domiciliataria ex lege; per l'annullamento del provvedimento della Prefettura di Piacenza - Ufficio Territoriale del Governo prot. n. -OMISSIS- del -OMISSIS-, recante la "revoca del contratto di soggiorno sottoscritto in data -OMISSIS- relativo alla domanda di emersione dal lavoro irregolare, presentata dal sig. -OMISSIS-" e la "revoca della richiesta di rilascio permesso di soggiorno". Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno e dell'Ufficio Territoriale del Governo di Piacenza; Visti tutti gli atti della causa; Relatore il dott. Italo Caso nella camera di consiglio del 5 ottobre 2022 e uditi, per le parti, i difensori come specificato nel verbale; Visto l'art. 60 cod.proc.amm., che consente l'immediata assunzione di una decisione di merito, con "sentenza in forma semplificata", ove nella camera di consiglio fissata per l'esame della domanda cautelare il giudice accerti la completezza del contraddittorio e dell'istruttoria e nessuna delle parti dichiari che intende proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza o regolamento di giurisdizione; Considerato che in data -OMISSIS- il sig. -OMISSIS- presentava allo Sportello Unico dell'Immigrazione di Piacenza un'istanza ex art. 103 del decreto-legge n. 34 del 2020 (conv. legge n. 77/2020), ai fini della "emersione" di un rapporto di lavoro irregolare con il ricorrente, cittadino -OMISSIS-; che in data -OMISSIS- veniva sottoscritto il contratto di soggiorno tra le parti, con contestuale richiesta di rilascio di permesso di soggiorno in favore dell'interessato; che, tuttavia, preso atto della sopraggiunta comunicazione della Questura di Piacenza, in data -OMISSIS-, circa la presenza nella banca-dati SIS di un provvedimento di inammissibilità nell'area Schengen a carico del ricorrente (per iniziativa dell'Autorità di polizia -OMISSIS-), lo Sportello Unico dell'Immigrazione di Piacenza riteneva conseguentemente "nullo" il contratto del -OMISSIS- e, in ragione di ciò, disponeva la "revoca del contratto di soggiorno sottoscritto in data -OMISSIS- relativo alla domanda di emersione dal lavoro irregolare, presentata dal sig. -OMISSIS- in data -OMISSIS- in favore del sig. -OMISSIS- (...) per inammissibilità nell'area Schengen" e disponeva altresì la "revoca della richiesta di rilascio permesso di soggiorno" (v. provvedimento prot. n. -OMISSIS- del -OMISSIS-); che avverso tale atto ha proposto impugnativa il ricorrente, lamentando di non essere stato preventivamente ammesso a presentare osservazioni circa l'adottanda misura - in violazione degli artt. 7 e 10-bis della legge n. 241 del 1990 -, e deducendo altresì l'inesistenza di un divieto di lasciare il territorio nazionale prima della conclusione della procedura di "emersione" ex art. 103 del decreto-legge n. 34 del 2020 nonché lo stato di necessità scusabile legato all'esigenza di assistere uno zio malato in Francia, sicché non si sarebbe verificata nessuna situazione tale da farlo assurgere al ruolo di soggetto pericoloso e l'Amministrazione avrebbe dovuto approfondire tale aspetto verificando i motivi sottostanti la "segnalazione Schengen" operata da altro Stato, anche per rispetto della ratio della normativa di sanatoria ex art. 103 del decreto-legge n. 34 del 2020, nella fattispecie del tutto rispettata; che si sono costituiti in giudizio il Ministero dell'Interno e l'Ufficio Territoriale del Governo di Piacenza, a mezzo dell'Avvocatura dello Stato, opponendosi all'accoglimento del ricorso; che alla camera di consiglio del 5 ottobre 2022 la causa è passata in decisione; Ritenuto che la controversia ha ad oggetto la sopraggiunta revoca del "contratto di soggiorno" a suo tempo sottoscritto dal ricorrente, cittadino -OMISSIS-, in esito alla procedura di "emersione" ex art. 103 del decreto-legge n. 34 del 2020 (conv. legge n. 77/2020), nonché la relativa perdita di efficacia della richiesta di rilascio di permesso di soggiorno in suo favore, il tutto scaturente dall'accertata adozione di un provvedimento di inammissibilità dell'interessato nell'area Schengen per effetto di decisione assunta dall'Autorità di polizia -OMISSIS-; che, in particolare, si duole il ricorrente di non essergli stato consentito di partecipare al procedimento e di fare in tal modo valere le proprie ragioni prima dell'adozione della determinazione conclusiva, e si duole altresì dell'acritica adesione alla misura assunta dalla Francia - senza accertare l'effettivo svolgersi dei fatti e l'assenza di profili rivelatori di pericolosità sociale nella sua condotta -, oltre all'insussistenza di cause ostative ricavabili dalla normativa di sanatoria che gli dava titolo al rilascio di un permesso di soggiorno nel nostro Paese; che, ad avviso del Collegio, occorre muovere dal consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la segnalazione di inammissibilità dell'ingresso del cittadino straniero nel territorio Schengen preclude, in radice, ogni possibilità di ottenere la regolarizzazione dello straniero presente in Italia, con la conseguenza che, in simili casi, è sufficiente che l'Amministrazione richiami l'atto adottato in altro Stato dell'area Schengen, senza alcuna necessità di argomentare ulteriormente in ordine alla concreta pericolosità del cittadino extracomunitario o di vagliare la legittimità e correttezza di tale atto (v. Cons. Stato, Sez. III, 14 ottobre 2021 n. 6901); che, in linea con tale indirizzo, si è detto (v. TAR Puglia, Bari, Sez. II, 3 febbraio 2020 n. 138) che: a) la segnalazione fatta pervenire ai sensi dell'Accordo di Schengen da parte del Paese inseritore, ai fini della non ammissione dello straniero nel territorio dello Stato, vincola l'Amministrazione all'adozione del diniego del permesso di soggiorno o dell'istanza di regolarizzazione, b) si tratta di un atto vincolato che presuppone soltanto la verifica dell'esistenza della segnalazione, della riferibilità della stessa allo straniero e della sua attuale (al momento dell'adozione del provvedimento) validità ed efficacia, c) non sussiste l'obbligo per l'Amministrazione di verificare i presupposti e la natura dell'iscrizione, quando vi è certezza dell'identità del soggetto, d) non grava sull'Amministrazione un onere istruttorio e motivazionale eccedente rispetto alla mera indicazione relativa all'esistenza della ragione ostativa, all'indicazione del Paese che aveva operato la segnalazione e al titolo relativamente al quale la segnalazione al Sistema Informativo era stata effettuata, ossia delle uniche informazioni a disposizione dell'Amministrazione, anche in considerazione dei limitati oneri informativi gravanti sui Paesi firmatari dell'Accordo di Schengen ai sensi del par. 3 dell'art. 94 del medesimo accordo; che, ancora, si è insistito sulla "non sindacabilità " nel merito, salvi i casi eccezionali di errore materiale e/o di disguido burocratico, dei provvedimenti di non ammissione dello straniero emessi da ciascun Stato aderente all'accordo di Schengen, in quanto l'appartenenza a tale accordo impone di evitare o ridurre al minimo le ipotesi in cui la valutazione compiuta da uno Stato estero possa essere vanificata o diversamente valutata da un altro Stato, in ossequio ad una regola europea che costituisce pilastro dello spazio comune di libera circolazione, all'interno del quale ciascun Paese membro ha il dovere di applicare segnalazioni o richieste provenienti da altro Paese membro, per evitare che, diversamente opinando, le disposizioni del trattato siano violate (v, da ultimo, TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 9 marzo 2022 n. 1612); che, pronunciando proprio su di un caso di "emersione" da lavoro irregolare ex art. 103 del decreto-legge n. 34 del 2020, si è evidenziato come il comma 10 preveda che "Non sono ammessi alle procedure previste dai commi 1 e 2 del presente articolo i cittadini stranieri: a) (....); b) che risultino segnalati, anche in base ad accordi o convenzioni internazionali in vigore per l'Italia, ai fini della non ammissione nel territorio dello Stato; c) (...)" e in tal modo ricomprenda anche la segnalazione proveniente dal "Sistema Informativo Schengen", quale causa che preclude l'ingresso e/o il soggiorno dello straniero sul territorio nazionale, con il risultato che, se - come è vero - le valutazioni e gli accertamenti in ordine alla pericolosità sociale del lavoratore possono essere compiute fino al momento dell'adozione del provvedimento di regolarizzazione, ciò vuol dire che l'assenza di profili di pericolosità sociale integra una situazione che deve sussistere al momento della proposizione della domanda, permanere durante il procedimento e sussistere anche al momento di adozione del provvedimento richiesto, e allora l'Amministrazione, che ha svolto accertamenti in sede di proposizione della domanda, ben può rinnovare la verifica di tali profili anche in sede di rilascio del provvedimento, al fine di accertare che il richiedente non costituisca un pericolo per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato (v. TAR Veneto, Sez. III, 14 giugno 2022 n. 1030); che, tali essendo i principi regolatori della materia, correttamente l'Amministrazione ha nella fattispecie tenuto conto della preclusione Schengen che era stata inserita a carico del ricorrente nella banca-dati SIS in data -OMISSIS-, e quindi già prima della sottoscrizione del contratto di soggiorno - avvenuta il successivo 5 agosto -, con la conseguenza che, senza poter vagliare la legittimità e correttezza dell'atto di inserimento (tranne la verifica dell'esistenza della segnalazione, della riferibilità della stessa allo straniero e della sua perdurante validità ed efficacia), lo Sportello Unico dell'Immigrazione di Piacenza è legittimamente intervenuto per rimediare ad una regolarizzazione emersa ex post viziata, e ha così impedito il successivo rilascio del permesso di soggiorno; che, in quest'ottica, appare evidente come nessuna utilità avrebbe avuto la partecipazione procedimentale del ricorrente - il quale non ha addotto in giudizio nessun elemento che avrebbe potuto mettere in discussione l'esito dell'iter di autotutela intrapreso dall'Amministrazione -, sicché soccorre l'art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, che esclude l'annullamento dell'atto emesso senza la previa comunicazione di avvio del procedimento quando, anche per non avere il privato fornito argomentazioni idonee ad un esito diverso, emerga che non si sarebbero comunque adottate determinazioni differenti da quelle censurate (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. II, 4 giugno 2020 n. 3537); che, in conclusione, il ricorso va respinto; Considerato che, stante la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 60 cod.proc.amm., la Sezione può decidere con "sentenza in forma semplificata"; che nel corso della camera di consiglio sono stati avvertiti i presenti della possibile definizione della controversia secondo le suindicate modalità, senza venirne addotte ragioni ostative; che, per la particolarità della controversia, le spese di lite possono essere compensate P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia-Romagna, Sezione staccata di Parma, pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente. Così deciso in Parma nella camera di consiglio del giorno 5 ottobre 2022 con l'intervento dei magistrati: Italo Caso - Presidente, Estensore Jessica Bonetto - Consigliere Massimo Baraldi - Primo Referendario In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna sezione staccata di Parma Sezione Prima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 391 del 2015, proposto da -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Vi. Do., Ga. Pe., con domicilio eletto presso lo studio Ma. Pa. in Parma, via (...); contro Ministero dell'Interno, U.T.G. - Prefettura di Reggio Emilia, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale Bologna, domiciliataria ex lege in Bologna, via (...); per l'annullamento del provvedimento prot.n. -OMISSIS- a firma del Prefetto della Provincia di Reggio Emilia, comunicato con nota di pari numero e data, inviata via PEC il successivo 20 ottobre, con il quale è stata respinta l'istanza di riesame e revoca dell'informazione antimafia interdittiva ex art. 91 del Codice Antimafia datata -OMISSIS-; di ogni atto presupposto, connesso e consequenziale, ancorché non conosciuto Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza smaltimento del giorno 17 giugno 2022 la dott.ssa Jessica Bonetto e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO -OMISSIS- ha agito in giudizio nel presente giudizio per l'annullamento del provvedimento prot. -OMISSIS-, a firma del Prefetto della Provincia di Reggio Emilia, con il quale è stata respinta l'istanza di riesame dell'informazione antimafia interdittiva ex art. 91 del Codice Antimafia del -OMISSIS-. Con sentenza -OMISSIS- del Tar Parma il ricorso è stato dichiarato inammissibile, ma la -OMISSIS- ha proposto appello chiedendone la riforma per violazione e omessa applicazione dell'art. 73 comma 3 D. Lgs. n. 104/2010, anche in relazione alla violazione delle garanzie del contraddittorio e il Consiglio di Stato, con sentenza -OMISSIS-, ha accolto l'appello annullando la sentenza con rinvio al Giudice di primo grado, sicché il giudizio è stato riassunto ex art. 105 c.p.a. davanti a questo Tribunale. In occasione dell'udienza di discussione fissata per il 17.6.2022, la Società ricorrente ha chiesto un rinvio, perché con verbale di assemblea del -OMISSIS- sono stati deliberati lo scioglimento della società e la sua messa in liquidazione, sicché all'esito potrebbe venire meno l'interesse alla decisione. Il Tribunale non ha concesso il rinvio e la causa è stata trattenuta in decisione. All'esito del giudizio, ad avviso del Collegio, il ricorso va dichiarato inammissibile. In fatto la vicenda può essere sintetizzata come segue, riportandosi sul punto a quanto rappresentato dal Consiglio di Stato nella sentenza -OMISSIS-. Nel 2007 la -OMISSIS- Società che opera nel territorio emiliano nel settore dell'edilizia pubblica e privata - ha sottoscritto con il Comune di -OMISSIS- una convenzione urbanistica per l'attuazione di un piano particolareggiato di iniziativa privata. In data -OMISSIS- le è stata notificata la Deliberazione di Giunta comunale -OMISSIS-, con la quale la convenzione è stata revocata nella parte relativa al completamento delle opere di urbanizzazione a scomputo. Il provvedimento comunale di revoca (impugnato con ricorso straordinario al Capo dello Stato, poi trasposto dinanzi al Tar Parma che, con sentenza n. -OMISSIS-, ha accolto il ricorso), è stato assunto "in ottemperanza" alla Comunicazione antimafia ai sensi dell'art. 86, d.lgs. n. 159 del 2011, con la quale si comunicava, ai sensi e per gli effetti dell'art. 1 septies, l. n. 726 del 1982, che la società -OMISSIS- s.r.l. era destinataria dell'informazione interdittiva antimafia n. -OMISSIS-. L'interdittiva contestava la circostanza che uno dei componenti la società, il signor -OMISSIS-, risultato peraltro persona offesa dal reato nell'ambito di un procedimento penale, era considerato dalla Prefettura esposto al rischio di condizionamenti da parte di esponenti di una cosca, per essere stato appellato come -OMISSIS- in una intercettazione telefonica del 2004; si contestavano altresì sporadici rapporti commerciali che la società aveva avuto negli anni precedenti, con il signor -OMISSIS-, soggetto che sarebbe risultato legato ad esponenti di cosche calabresi, e con il signor -OMISSIS-, ritenuto nell'interdittiva, "fortemente contiguo" ad una cosca, entrambi soggetti terzi, del tutto estranei all'impresa. La società ha quindi presentato al Prefetto di Reggio Emilia istanza di riesame dell'informazione interdittiva del 3.12.2013, rigettata con provvedimento del 19.10.2015. Tale provvedimento è stato impugnato dalla -OMISSIS- dinanzi al Tar Parma, contestandone l'illegittimità sotto un duplice profilo: a) per violazione delle garanzie partecipative di cui all'ex art. 10 bis, l. n. 241 del 1990; b) per violazione degli artt. 86 e 91, d.lgs. n. 159 del 2011, in quanto il provvedimento risulta emanato all'esito di una istruttoria incompleta. Con sentenza n. -OMISSIS- il Tar Parma ha dichiarato inammissibile il ricorso, avendo qualificato il diniego di revoca prefettizio come atto meramente confermativo dell'interdittiva non impugnata. Con appello notificato l'11 febbraio 2019, la -OMISSIS- ha impugnato la citata sentenza del Tar Parma n. -OMISSIS- deducendo: erroneità della decisione per erronea qualificazione del provvedimento impugnato in primo grado ed erronea valutazione dei documenti in atti; erroneità della decisione per violazione e omessa applicazione dell'art. 73, comma 3, c.p.a., anche in relazione alla violazione dell'art. 111 Cost. e della garanzia del contraddittorio. Il Consiglio di Stato, con la sentenza -OMISSIS-, ha annullato la sentenza del Tar Parma, ritenendo illegittima la decisione del Giudice di primo grado di dichiarare il ricorso inammissibile, senza prima sollevare tale questione d'ufficio alle parti dandone avviso ex art. 73 comma 3 c.p.a. al fine di consentire alle stesse di contraddire sul punto. All'esito dell'odierno giudizio, ad avviso di questo Collegio, una volta che tale vizio è stato emendato, riconoscendosi alla ricorrente la possibilità di difendersi sul punto nell'atto di riassunzione, il ricorso va dichiarato inammissibile, per le stesse ragioni già esposte nella sentenza n. -OMISSIS-. Invero, con Delibera di Giunta -OMISSIS-, il Comune di -OMISSIS- ha disposto la revoca parziale della convenzione urbanistica sottoscritta con la Società ricorrente in data -OMISSIS- poiché a carico di quest'ultima, in data -OMISSIS-, il Prefetto di Reggio Emilia aveva emanato una comunicazione antimafia ex art. 86 del D. Lgs. n. 159/2011 ritenendo "accertata la sussistenza del pericolo di tentativi di infiltrazione mafiosa". Gli elementi posti alla base della misura adottata in data 3.12.2013 sono stati richiamati nella sentenza n. -OMISSIS- alla quale si fa integrale rinvio per quanto riguarda tale profilo. In data 28 settembre 2015, per quanto rileva in questa sede, ad integrazione di quanto già rappresentato in precedenza a propria difesa, la ricorrente ha prodotto all'Ente giurisprudenza riferita a suo dire a fattispecie analoghe, chiedendo la revoca dell'interdittiva, ma il Prefetto con il provvedimento del 19 ottobre 2015 impugnato nel presente giudizio, ha respinto l'istanza richiamando i contenuti del proprio precedente provvedimento, senza ulteriori valutazioni. La ricorrente ha impugnato in questa sede il diniego di autotutela deducendo: la violazione delle garanzie partecipative per l'omessa comunicazione del preavviso di diniego ex art. 10 bis della L. n. 241/1990; la violazione degli artt. 86 e 91 del D. Lgs. n. 159/2011; l'eccesso di potere sotto svariati profili e lamentando in ogni caso l'incongruità delle conclusioni cui perveniva l'Amministrazione in ordine alla propria permeabilità ai tentativi di infiltrazione da parte della criminalità organizzata. Tuttavia, come già evidenziato nella sentenza n. -OMISSIS-, la nota del 19 ottobre 2015 impugnata in questa sede ed adottata all'esito della richiesta di riesame articolata dalla ricorrente, non può essere qualificata come atto nuovo, innovativo della precedente informativa antimafia, bensì quale statuizione meramente confermativa della precedente decisione, nella quale l'Amministrazione si è limitata a richiamare le conclusioni del provvedimento interdittivo inizialmente emesso, senza procedere a nuova istruttoria (vedi Consiglio di Stato, VI, 27 luglio 2015, n. 3667, TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 5 aprile 2016, n. 882) e basandosi sulle stesse argomentazioni già espresse in precedente (vedi TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 2 maggio 2016, n. 1187), non bastando infatti per addivenire a conclusioni diverse il fatto che per esprimersi sulla richiesta di riesame la Prefettura abbia convocato il Gruppo Interforze in data 1.10.2015" (pag. 1) o che abbia nell'atto fatto riferimento alla "nuova istruttoria" espletata, formula quest'ultima di pure stile a fronte del mancato espletamento da parte dell'Amministrazione di indagini ulteriori. Invero, nell'atto da ultimo emesso sono stati semplicemente richiamati gli elementi dell'interdittiva del 3.12.2013, senza nulla aggiungere ed anzi evidenziando che gli elementi da ultimo rappresentati dalla Società costituivano "mere prospettazioni difensive di situazioni già valutate" che "non costituiscono motivi idonei all'aggiornamento dell'informativa interdittiva antimafia". E del pari irrilevante, per dimostrare la natura non meramente confermativa dell'atto impugnato in questa sede, è la circostanza che nella motivazione del provvedimento emesso in sede di riesame la Prefettura abbia fatto riferimento anche all'avvenuta cessione nelle more delle quote societarie da parte di uno dei soci, atteso che il Prefetto, a fondamento della ritenuta esistenza del pericolo di condizionamento della ricorrente, ha richiamato solo gli elementi già contenuti nella precedente informativa concernenti i rapporti personali dei soci con esponenti della criminalità organizzata, e non anche il diverso profilo della titolarità delle quote della Società . Infatti, nell'atto da ultimo emesso, a conferma della natura meramente confermativa, si legge che quanto al profilo A) dell'istanza di autotutela (relativo alla figura di -OMISSIS-), le conclusioni esposte risultano tratte "dall'istruttoria esperita a suo tempo" e confermata in questa sede, non incidendo a tal fine la circostanza della sopravvenuta cessione delle quote. Analogamente, quanto ai punti sub b) e C), la Prefettura ha evidenziato che le ragioni ivi prospettate dalla Società "sono mere prospettazioni difensive già valutate dal prefetto con l'interdittiva del 3.12.2013, divenuta definitiva per mancata impugnazione, e non costituiscono motivi idonei all'aggiornamento dell'informazione interdittiva antimafia a suo tempo rilasciata" Pertanto, atteso il carattere meramente confermativo del provvedimento impugnato in questa, il ricorso va dichiarato inammissibile, richiamandosi sul punto la giurisprudenza consolidata del Consiglio di Stato secondo cui "il diniego espresso di autotutela è un atto meramente confermativo dell'originario provvedimento, che non compie una nuova valutazione degli interessi in gioco, e che pertanto non può essere un mezzo per una sostanziale rimessione in termini quanto alla contestazione dell'originario provvedimento, dovendosi quindi escludere l'impugnabilità degli atti meramente confermativi attraverso i quali l'Amministrazione si limiti a richiamare, come in questo caso, una determinazione in precedenza adottata, senza effettuare una nuova istruttoria ed una nuova valutazione degli elementi di fatto e di diritto, già considerati, ovvero di altri e nuovi provvedimenti medio tempore acquisiti" (Consiglio di Stato, sezione III, sentenza 22 gennaio 2016, n. 213). Le spese di lite possono essere compensate per le ragioni della decisione e la peculiarità della vicenda in discussione. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna sezione staccata di Parma Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto: dichiara il ricorso inammissibile a spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare parte ricorrente. Così deciso in Parma nella camera di consiglio del giorno 17 giugno 2022 con l'intervento dei magistrati: Germana Panzironi - Presidente Jessica Bonetto - Consigliere, Estensore Marco Rinaldi - Consigliere

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