Sentenze recenti Tribunale Pesaro

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI PESARO SEZIONE LAVORO Il Tribunale, nella persona del giudice unico Dott. Maurizio Paganelli ai sensi dell'art. 429 c.p.c., all'udienza del giorno 20/07/2022 ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di primo grado, iscritta al N. 739/2018 R.G. promossa da: (...), rappresentata e difesa dall'avv. BA. NICOLA e MORENA LUCA, RICORRENTE contro: (...) SRL, rappresentata e difesa dall'avv. CO.ST., RESISTENTE (...) SRL, rappresentata e difesa dall'avv. TO.PA., RESISTENTE MOTIVI IN FATTO E DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso depositato il 31.08.2018 l'istante esponeva di aver lavorato alle dipendenze della SR Trasporti dal 02.10.2013 in forza di un contratto di apprendistato professionalizzante, categoria (...) (inquadramento di destinazione, 4 S) del CCNL Autotrasporto merci, con qualifica di autista e orario di 39 ore settimanali. A parte le prime due settimane di affiancamento al ricorrente non veniva assicurata alcun tutoraggio e formazione. Veniva impiegato presso la filiale TNT di Pesaro alla guida di furgoni cassonati di portata inferiore ai 35 q.li con i quali provvedeva alle operazioni di trasporto, ritiro e consegna pacchi per conto della TNT. L'orario di lavoro effettivamente osservato era molto superiore a quello regolarizzato poiché iniziava alle ore 7.00 con lo smistamento e il carico della merce presso la sede TNT di Pesaro e il disbrigo delle conseguenti pratiche amministrative. Verso le 9.30-10.30 partiva per il servizio nella zona assegnata (entroterra pesarese e dopo circa tre anni, P.C.). La quantità delle consegne giornaliere da esitare (per almeno il 98%) era tale da impedire riposi e soste fino alle ore 17.00. Il rientro in filiale avveniva verso le 17.30/18.00. Completate le operazioni amministrative di chiusura, l'istante terminava la giornata lavorativa verso le ore 18.00/18.30 lavorando quindi almeno 12 ore al giorno per 5 gg. a settimana. Almeno una volta a settimana il ricorrente era impegnato in attività extra di ritiro, a rotazione con altri dipendenti). Il ricorrente lamentava anche la compilazione non corretta dei prospetti paga, con inserimento di ore di assenza in realtà lavorate e ferie e permessi in realtà non goduti. Terminato l'apprendistato il rapporto di lavoro continuava fino al licenziamento per giusta causa intervenuto i 22.01.2018, impugnato in un distinto giudizio. Ciò premesso, il ricorrente chiedeva anzitutto che fosse accertata la nullità del contratto di apprendistato, per carenza di qualunque attività formativa e assegnato all'istante il livello 4 fini dall'inizio del rapporto. Chiedeva poi la condanna della datrice di lavoro al pagamento delle differenze retributive dovute in ragione sia del superiore inquadramento che del lavoro straordinario svolto. Rivendicava un credito di Euro 118.545,47, di cui Euro 5.593,04 per TFR. L'importo suddetto era rivendicato anche nei confronti di TNT sulla base dell'art. 29, c. 2, del D.Lgs. n. 276 del 2003. Il Tribunale, in data 12/08/2019, sospendeva il giudizio sino alla definizione del procedimento RG 740/2018, concernente l'impugnazione del licenziamento. Tale procedimento si concludeva con sentenza n. 262/2020, del 20/11/2020, con la quale la Corte di Appello di Ancona confermava la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Pesaro in data 16/05/2019 n. 185/2019 nel procedimento RG 740/2018. Passata in cosa giudicata la sentenza n. 262/2020, della Corte d'Appello di Ancona, il ricorrente procedeva alla riassunzione del presente giudizio con ricorso depositato in data 15.03.2021. Occorre preliminarmente valutare l'incidenza nel presente giudizio della sentenza n. 262/2020 emessa dalla Corte di Appello di Ancona a definizione del procedimento RG 740/2018, concernente l'impugnazione del licenziamento per giusta causa comminato dalla resistente (...) SRL al ricorrente, con particolare riferimento all'illegittimità e/o nullità del contratto di apprendistato. Il giudice del gravame, confermando la sentenza di rigetto di primo grado, ha inoltre rilevato che "Il quarto, il quinto, il sesto e il settimo motivo di impugnazione, tutti incentrati sulla eccepita illegittimità del contratto di apprendistato, risultano, secondo il Collegio, inammissibili ... nel caso concreto, stipulato il contratto di apprendistato ... non è intervenuta alcuna disdetta ... La continuità del rapporto di lavoro costituisce, pertanto, nel caso in oggetto, un diretto ed automatico effetto di legge, con conseguente mancanza di interesse del lavoratore alla declaratoria di illegittimità del contratto di apprendistato per ottenere il medesimo fine già riconosciuto dalla legge. Da qui la declaratoria di inammissibilità degli indicati motivi". Tale statuizione non integra un accertamento di merito in relazione alla domanda di nullità del contratto di apprendistato, in quanto, i relativi motivi di impugnazione, sono stati dichiarati inammissibili per difetto di interesse. Pertanto, non è precluso allo scrivente giudice di statuire nel merito sulla legittimità dell'apprendistato e non sono meritevoli di accoglimento le eccezioni avanzate dalle società resistenti circa l'inammissibilità delle domande del ricorrente per effetto del passaggio in giudicato della sentenza. Ai fini di tale accertamento assume carattere dirimente la valutazione circa l'avvenuta formazione dell'apprendista ad opera della società resistente, non potendosi configurare un legittimo contratto di apprendistato in assenza dell'adempimento datoriale dell'onere formativo. La figura contrattuale in questione è caratterizzata, infatti, da una causa mista, affiancandosi al normale scambio fra prestazione di lavoro e retribuzione, l'essenziale elemento specializzante costituito dallo scambio fra attività lavorativa e formazione professionale, finalizzata al conseguimento da parte dell'apprendista dell'apposita qualificazione professionale. Nel caso in cui il lavoratore eccepisca l'assenza di attività di insegnamento e formazione, l'onere probatorio di dimostrare di avere adempiuto ai propri obblighi formativi resta in capo al datore di lavoro. Nel caso di specie, il ricorrente sosteneva la totale assenza di formazione e la mancata attuazione del proprio piano formativo individuale (doc. 3 del ricorso), nel quale si individuava nella persona del Sig. (...) il tutor aziendale affidato al lavoratore e si prevedeva un monte orario complessivo di 120 ore di formazione annua. Ad esclusione delle prime due settimane di affiancamento presso la filiale TNT di Rimini, il ricorrente avrebbe lavorato privo di alcun tutoraggio e sorveglianza e soprattutto non avrebbe mai ricevuto nemmeno un'ora di formazione, né teorica né pratica, né interna all'azienda né esterna attraverso la formazione pubblica fornita dalla Regione Marche. Incontestata è, inoltre, l'assenza di certificazione circa l'avvenuta formazione, di cui la resistente (...) SRL non ha fornito alcuna documentazione. Nelle proprie difese la società ha resistito in maniera generica all'eccepita mancanza di formazione, non fornendo alcuna prova idonea a soddisfare l'onere probatorio su di essa gravante, non contestando in maniera puntuale nemmeno l'assunto avversario secondo il quale l'affiancamento si sarebbe limitato alle sole prime due settimane di apprendistato, limitandosi ad allegare che il ricorrente avrebbe ricevuto la formazione formale prevista dal suo piano individuale. Quest'ultimo prevedeva lo svolgimento di 120 ore di formazione a base annua, di cui la resistente non ha, appunto, fornito prova dell'effettiva attuazione di tale programma né ha presentato precise richieste istruttorie. In base alla regola codificata nell'art. 2697 c.c.., si deve ritenere la (...) SRL inadempiente all'obbligo formativo e quindi nullo il contratto di apprendistato, avendo le parti ab origine costituito di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in conformità con l'orientamento giurisprudenziale consolidato, ribadito anche da recente pronuncia della Corte di Cassazione (Ordinanza n. 16595/2020), "in tema di contratto di apprendistato, l'inadempimento degli obblighi di formazione ne determina la trasformazione, fin dall'inizio, in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ove l'inadempimento abbia un'obiettiva rilevanza, concretizzandosi nella totale mancanza di formazione, teorica e pratica, ovvero in una attività formativa carente o inadeguata rispetto agli obiettivi indicati nel progetto di formazione e trasfusi nel contratto, ferma la necessità per il giudice, in tale ultima ipotesi, di valutare, in base ai principi generali, la gravità dell'inadempimento ai fini della declaratoria di trasformazione del rapporto in tutti i casi di inosservanza degli obblighi di formazione di non scarsa importanza" (in tal senso anche Cass. sent. n.6068/2014 e sent. 1324/2015). Le ulteriori richieste avanzate dal ricorrente concernono il riconoscimento del diritto a percepire differenze retributive invocate a titolo di lavoro supplementare e/o straordinario svolto, esorbitante le 39 ore settimanali stabilite nel contratto full time e a titolo di indennità di trasferta. All'esito dell'istruttoria non risultano provate né le ore di lavoro straordinario né le trasferte. Le dichiarazioni rilasciate dai testi escussi (Sig. (...) e Sig. (...), rispettivamente legale rappresentante e dipendente di (...), Sig. (...), Sig. (...) e Sig. (...), dipendenti di (...)) convergono nel delineare lo svolgimento effettivo di un orario di lavoro coincidente con quello contrattualmente stabilito, negando conseguentemente ed implicitamente la sussistenza di ore di straordinario. La giornata lavorativa iniziava alle 7:30, quando gli autisti si recavano al centro di smistamento per caricare le merci di cui effettuare la consegna, la quale iniziava intorno alle 09:30 e si protraeva fino alla pausa pranzo, del cui godimento da parte del ricorrente si trova conferma nelle dichiarazioni rilasciate dal teste (...) all'udienza del 31.05.2022 ("vedevo spesso il furgone del ricorrente parcheggiato vicino a casa sua sempre negli stessi posti e tutti i giorni verso le 12.30 e presumo perciò che a quell'ora pranzasse. Il ricorrente abitava nella zona che curavo per (...)"). Il turno pomeridiano di consegna/ritiro terminava mediamente fra le 16:30-17:00, massimo alle 17:30, orario in cui gli autisti facevano ritorno al centro di smistamento e si adoperavano ad adempiere le operazioni di scarico nonché le successive attività di quadratura e di consegna della documentazione e del denaro raccolto nel corso delle consegne/ritiri giornalieri, il cui svolgimento non richiedeva particolari tempistiche, stante quanto dichiarato dal teste (...) ("non si producevano file particolari per le operazioni successive all'arrivo in sede. Tra scarico del mezzo e operazioni successive serviva circa una mezzora o forse meno") e dal teste (...) ("In TNT la consegna dei documenti e del denaro era veloce (5 minuti)"). Il teste (...) riferisce che "In filiale le attività degli autisti RC non credo potessero andare oltre le ore 18.00", circoscrivendo temporalmente la durata massima della giornata lavorativa degli autisti RC. In definitiva, l'orario di lavoro effettivamente svolto dal ricorrente non risulta esorbitante rispetto al tetto orario settimanale di 39 ore (nella fase contrattuale rientrante nell'apprendistato) e 40 ore (a seguito della conversione del contratto a tempo indeterminato). La giornata lavorativa aveva inizio intorno alle 7:30, si interrompeva alle 12:30 circa per un paio d'ore per consentire al lavoratore di usufruire della pausa pranzo, riprendeva, quindi, alle 14:30, protraendosi fino alle 17/17:30, per un totale complessivo di 8 ore giornaliere e di 40 ore settimanali, avuto riguardo delle cinque giornate lavorative a settimana. Sulla base del conteggio allegato al ricorso, le differenze retributive dovute per il diverso inquadramento (il CCNL prevede che l'autista che guida veicoli di portata fino a 30 q.li è inquadrato al 4 livello), sono pari ad Euro 14.533,88, oltre al TFR la cui esatta determinazione richiede un ricalcolo. Anche per l'indennità di trasferta l'esito dell'istruttoria ne impedisce il riconoscimento. Si è appurato come la zona di competenza del ricorrente fosse quella di Pesaro centro e, solo in caso di assenza dei rispettivi autisti (e quindi in modo occasionale), egli veniva assegnato in sostituzione per le zone di Cagli, Apecchio e Fossombrone, come riferito dai testi (...) e (...), mentre il teste (...) non ricorda tale ultima circostanza, limitandosi ad affermare che il ricorrente operasse nella zona di P.C.. Pertanto, la circostanza dell'effettivo svolgimento di trasferte di lavoro non retribuite non si è stata provata con sufficiente precisione. Riconosciuto il diritto del ricorrente alle sole differenze retributive derivanti dalla dichiarazione di nullità del contratto di apprendistato e dalla conseguente applicazione del superiore inquadramento collettivo, è necessario stabilire se sussistano i presupposti per ritenere la responsabilità solidale della resistente (...) SRL. Essa troverebbe fondamento normativo, oltre che nell'art. 1676 c.c., nell'art. 29 comma 2 D.Lgs. n. 276 del 2003, il quale dispone che in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell'inadempimento. A tal fine occorre qualificare correttamente il rapporto contrattuale intercorrente con la società (...) SRL, caratterizzato da un primo contratto di appalto di servizi di prese e consegne, stipulato nel 2010 e annualmente rinnovato in maniera tacita fino al 2017, e da un successivo contratto di trasporto, datato ottobre 2017. Ci si deve soffermare, in particolare, sulla concreta portata del secondo contratto, nell'ottica di appurare se esso sia un genuino contratto di trasporto oppure, andando oltre il nomen juris conferitogli, un ulteriore contratto di appalto di servizi; infatti, qualora lo si qualificasse come contratto di trasporto si escluderebbe alla radice la possibilità di applicazione dell'art. 29 D.Lgs. n. 276 del 2003. La soggezione alla disciplina dell'appalto è subordinata alla sostanziale presenza di elementi individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza alla stregua di indici rivelatori dell'esistenza di siffatta tipologia contrattuale. I recenti approdi hanno sottratto rilevanza decisiva all'esecuzione da parte del trasportatore di prestazioni ulteriori e diverse, come servizi di riscossione del prezzo dei trasporti e di logistica, rispetto a quelle proprie del trasporto e accessorie, quali ad esempio il carico e lo scarico delle merci e la loro custodia durante il trasporto. Gli elementi sostanziali da rinvenire in concreto ai fini della riconduzione del rapporto contrattuale alla disciplina dell'appalto sono, quindi, stati individuati, in primo luogo, nella continuità della prestazione, in contrapposizione alle singole ed occasionali prestazioni eseguite nel contratto di trasporto, idonea a costituire un rapporto contrattuale unico ed onnicomprensivo. Inoltre, si richiede la sussistenza di un'organizzazione d'impresa, l'assunzione del rischio da parte dell'appaltatore (trasportatore) e la previsione di un corrispettivo unitario per la complessiva prestazione fornita. Tale orientamento ha trovato ulteriore e recente avallo da parte della Corte di Cassazione con la pronuncia n. 20413/2019, nella quale si ribadisce che "costituisce principio consolidato quello secondo il quale è configurabile un contratto di appalto di servizio di trasporto e non un semplice contratto di trasporto, allorché ci si trovi in presenza di un'apposita organizzazione di mezzi apprestata dal trasportatore per l'esecuzione del contratto, in relazione all'importanza e alla durata dei trasporti da effettuare. Connotati rivelatori di detta organizzazione sono, normalmente, da individuarsi nella molteplicità e sistematicità dei trasporti, nella pattuizione di un corrispettivo unitario per le diverse prestazioni, nell'assunzione dell'organizzazione dei rischi da parte del trasportatore (Cass., Sez. 1, 21 marzo 1980, n. 1902; Cass., 29 aprile 1981, n. 2620). La presunzione di esistenza di un unitario contratto di appalto nel servizio di trasporto, anziché di una molteplicità di contratti di trasporto, può essere utilmente invocata qualora le modalità di esecuzione dei trasporti medesimi, e, in generale, il comportamento delle parti, siano tali da evidenziare, a prescindere dai contenuto formale dei negozi predisposti dalle parti, un rapporto contrattuale unico ed onnicomprensivo, caratterizzato da continuità e predeterminazione delle rispettive prestazioni" (Cass., 11 maggio 1982, n. 2926). L'applicazione di questi principi al caso di specie, comporta la qualificazione anche del secondo accordo stipulato fra la (...) SRL e (...) SRL nell'ottobre del 2017, come contratto di appalto di servizio di trasporto, alla luce degli indici rilevatori suindicati. Essi emergono dalla lettura del contratto stesso (doc. 4 fascicolo TNT). All'art. 2, si definisce l'oggetto della pattuizione, prevedendo che "il fornitore è tenuto a svolgere i servizi avvalendosi della propria organizzazione imprenditoriale e a proprio rischio"; all'art. 15, si stabilisce un "corrispettivo onnicomprensivo" e, infine, dall'art. 19, si desume il carattere continuativo e duraturo delle prestazioni di RC Trasporti, per 24 mesi, dal 01.10.2017 al 30.09.2019. Il servizio fornito dalla RC alla TNT ha assunto indubbiamente un carattere sistematico, caratterizzato da molteplicità di prestazioni e dall'assunzione del rischio da parte della prima, con organizzazione d'impresa propria. Pertanto, inquadrando come contratto di appalto di servizi di trasporto l'accordo stipulato nell'ottobre del 2017 e considerando il precedente contratto di appalto vigente dal 2012 al 2017, si deve trarre la conseguenza che il rapporto intercorso fra la (...) SRL e la (...) SRL sia qualificabile in tal senso ab origine e per l'intero arco temporale decorrente dal 2012 al 2019. Essendo perciò applicabile a tale rapporto l'art. 29, comma 2, D.Lgs. n. 276 del 2003, si deve dichiarare la responsabilità solidale della (...) SRL, per le somme dovute al ricorrente, salvo il beneficio di preventiva escussione nei confronti della (...) SRL. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in complessivi Euro 3.000,00. P.Q.M. Definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattese, accoglie parzialmente il ricorso e per l'effetto condanna le resistenti, in solido, al pagamento della somma di Euro 14.533,88, oltre al TFR e accessori di legge, in favore del ricorrente. Pone a carico delle resistenti le spese di lite che liquida in complessivi Euro 3000,00, per compenso al difensore e spese forfettarie, oltre iva e cpa come per legge. Così deciso in Pesaro il 13 settembre 2022. Depositata in Cancelleria il 15 settembre 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI PESARO SEZIONE LAVORO Il Tribunale di Pesaro, in persona del Giudice del Lavoro, dott.ssa Maria Rosaria Pietropaolo, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa n. 727/2021 R.G. promossa DA (...), (CF: (...)) res. P., Via B. 2/G, rappresentato e difeso dall'avv. Vi.Qu. (CF: (...)) ed elettivamente domiciliato nel suo studio in Pesaro, Largo (...) (studio avv. Pa.Pa.) in virtù di mandato in calce al ricorso; - ricorrente - CONTRO (...) S.P.A., (P.IVA (...)) in persona dell'Amministratore unico, legale rappresentante pro - tempore, Sig.ra A.L.A., rappresentata e difesa, unitamente e disgiuntamente, in virtù di mandato informaticamente in calce alla memoria difensiva, dall'avv. Ga.Ri. (cf. (...)) e dall'Avv. Lo.Io. (CF: (...)); - resistente - OGGETTO:Licenziamento per superamento del periodo di comporto. MOTIVI DELLA DECISIONE Con ricorso depositato in data 15.10.2021, (...) - premesso di essere stato assunto alle dipendenze della società (...) S.p.A. in data 1.8.2018, con qualifica di operaio e mansioni di autista - ha impugnato il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimatogli dalla società in data 3.6.2021, eccependo la illegittimità del recesso, per violazione dell'art. 2110 c.c. e dell'art. 63 CCNL di riferimento, nonché la nullità per discriminazione indiretta. La società resistente, nel costituirsi in giudizio, ha contestato la domanda, ribadendo la correttezza del proprio operato, conforme alla disciplina prevista nel CCNL applicabile. Espletato, senza esito, il tentativo di conciliazione, la causa, istruita mediante produzioni documentali, è stata discussa e decisa come da dispositivo in calce, previa concessione di termine per il deposito di note conclusive. Il ricorrente ha eccepito la illegittimità del licenziamento, per violazione dell'art. 2110, comma 2, c.c., come integrato dalla contrattazione collettiva, deducendo che il CCNL applicabile al rapporto (CCNL Logistica Trasporto Merci e spedizioni) prevede che non tutte le malattie concorrono, nell'arco temporale indicato, ad esaurire il periodo di comporto, ma solo quelle che non siano particolarmente gravi (o al contrario, il CCNL afferma che le malattie particolarmente gravi non concorrono all'esaurimento del comporto). In effetti, l'art. 63 del CCNL citato così dispone: "I lavoratori non in prova hanno diritto alla conservazione del posto: 1) per 245 giorni di calendario se aventi anzianità di servizio non superiore a 5 anni; ... Ai fini del computo dei diritti di cui sopra si sommano tutti i periodi di assenza per malattia, ad esclusione di quelli per malattie particolarmente gravi occorsi al lavoratore durante un arco temporale di 24 mesi, per i lavoratori di cui al punto 1 del precedente comma e di 30 mesi, per i lavoratori di cui al punto 2. L'arco temporale da assumere per il calcolo coincide con i 24 o 30 mesi consecutivi immediatamente precedenti qualsiasi momento considerato ove concomitante con lo stato di malattia in corso e con l'esclusione del periodo di prova". Poiché le assenze per malattia del ricorrente erano, per la gran parte, riconducibili a patologie particolarmente gravi (insufficienza renale e scompenso cardiaco), patologie di cui l'azienda era, peraltro, a conoscenza, avendo il ricorrente comunicato la circostanza all'azienda (nella persona del responsabile, (...), alla cui utenza telefonica il Bottiglione inviava di volta in volta messaggi per informarlo dei motivi dell'assenza), alla quale aveva anche inviato i certificati medici nella copia per il lavoratore, con indicazione, quindi, della patologia (v. doc. da n. 33 a n. 59), la società avrebbe dovuto applicare il termine lungo previsto dalla contrattazione collettiva. A sostegno del proprio assunto, ha richiamato talune pubblicazioni di carattere medico-scientifico, una in particolare su emodialisi e trapianto, da cui risulta che la dialisi è classificata come terapia salvavita; ha invocato, inoltre, l'art. 43 CCNL Sanità (secondo cui "... 1. In caso di patologie gravi che richiedano terapie salvavita, come ad esempio l'emodialisi, la chemioterapia ed altre ad esse assimilabili, attestate secondo le modalità di cui al comma 2, sono esclusi dal computo delle assenze per malattia, ai fini della maturazione del periodo di comporto, i relativi giorni di ricovero ospedaliero o di day - hospital, nonché i giorni di assenza dovuti all'effettuazione delle citate terapie. In tali giornate il dipendente ha diritto all'intero trattamento economico previsto dai rispettivi CCNL"); ha sottolineato, infine, come gli utenti emodializzati abbiano diritto al congedo straordinario (D.L. n. 509 del 1988) per l'esecuzione delle cure pari a 30 gg lavorativi, nonché all'esenzione, per le prestazioni diagnostiche, dalla spese sanitaria in tutte le regioni italiane. La società resistente, nel contestare la prospettazione difensiva di parte ricorrente, ha evidenziato come la clausola contrattuale in esame debba essere interpretata in modo rigoroso, proprio perché, escludendo dal computo del periodo di comporto l'intero periodo di impossibilità al lavoro per malattie particolarmente gravi, determina una integrale traslazione del rischio da impossibilità della prestazione lavorativa sul datore di lavoro. Riguardo, poi, alla interpretazione della espressione "malattie particolarmente gravi", esclusa la possibilità di ricorrere a disposizioni della contrattazione collettiva riferita ad altro settore, ha sostenuto la necessità di utilizzare il criterio che si fonda sulla ricerca della comune intenzione delle parti, che può essere, in realtà, desunta solo dalle clausole contenute nello stesso CCNL, nella specie, nell'art. 21, che individua, in modo puntuale, i casi per i quali si possono ottenere permessi per gravi e documentati motivi familiari, tra i quali non rientrano le patologie per le quali il ricorrente è rimasto assente dal lavoro. Così sommariamente ricostruito il thema decidendum, è opportuno richiamare, in punto di diritto, il principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità (v. Cass. 28.9.2018, n. 23596, in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto), in base al quale, in ipotesi di impugnativa di licenziamento, grava sul datore di lavoro, ai sensi dell'art. 5 L. n. 604 del 1966 l'onere di allegare e provare i fatti costitutivi del legittimo esercizio del potere di recesso, fatti che comprendono l'intervenuto superamento del periodo di comporto, nei sensi definiti dalla contrattazione collettiva di settore. Ne deriva che gravava su parte resistente l'onere di provare la correttezza della esclusione delle assenze indicate dal ricorrente, perché si trattava di malattie non particolarmente gravi. Sulla questione della esistenza o meno delle patologie che hanno determinato le assenze di cui il ricorrente chiede lo scomputo dal periodo di comporto e sulla qualificazione in termini di particolare gravità di tali patologie non vi è stata, in effetti, contestazione da parte della società resistente, la quale ha impostato le proprie difese esclusivamente sulla individuazione delle singole e specifiche fattispecie che potrebbero integrare la clausola generale "malattie particolarmente gravi", sostenendo che il riempimento di tale clausola non potrebbe che avvenire attraverso il richiamo di altra clausola dello stesso CCNL e non invece, come sostenuto da parte ricorrente, mediante il riferimento ad un contratto collettivo di altro settore. Ritiene il giudicante che l'opzione interpretativa sostenuta da parte resistente non sia condivisibile, in quanto la clausola richiamata in funzione integrativa (art. 21 CCNL) disciplina altro aspetto del rapporto di lavoro, che è quello del diritto ai permessi non retribuiti in caso di patologie acute o croniche a carico di familiari, per cui non si ravvisa una identità o analogia di ratio, che potrebbe giustificare un'interpretazione estensiva o analogica, anche in considerazione del fatto che le ipotesi di cui alla lett. D del comma 1 dell'art. 2 del D.M. 21 luglio 2000, n. 278, sono formulate in modo da ricollegare le patologie a specifiche forme di assistenza e partecipazione del familiare, che nulla hanno a che vedere con le patologie che interessano direttamente il lavoratore. Tra l'altro, se davvero l'intenzione delle parti fosse stata quella di considerare come malattie particolarmente gravi quelle elencate nell'art. 21, sarebbe bastato un semplice richiamo alla stessa disposizione richiamata dal citato art. 21, cosa che le parti collettive non hanno fatto. Se si fa ricorso, invece, al canone della interpretazione letterale, è agevole rilevare che le parti collettive hanno, volutamente, utilizzato una dizione particolarmente ampia ed elastica, facendo riferimento al concetto generale di "malattie particolarmente gravi", senza ulteriore specificazione e senza far seguire una elencazione di patologie anche solo in via esemplificativa, al pari di analoghe disposizioni di altri contratti collettivi, evidentemente per lasciare un più ampio margine di valutazione dei casi concreti ad opera dell'interprete. Se, quindi, lo spazio lasciato all'interprete consente una valutazione del concetto di particolare gravità sotto vari profili, non v'è dubbio che, sul piano eminentemente medico-scientifico, l'insufficienza renale cronica sia una malattia particolarmente grave, visto che il malato deve assoggettarsi a terapia che è classificata come terapia salvavita. Trattasi, peraltro, di terapia salvavita (emodialisi), che, comportando per il lavoratore la necessità di sottoporsi a specifiche terapie presso strutture ospedaliere pubbliche o private (oppure presso il domicilio del dipendente), ben può giustificare il mancato computo delle relative assenze ai fini del comporto (come, peraltro, espressamente previsto in taluni contratti collettivi). Ne deriva che al ricorrente doveva essere applicato il termine lungo previsto contrattualmente. Riguardo alla questione della valenza da attribuire ai messaggi inviati dal ricorrente al responsabile di filiale, (...), per renderlo edotto dei motivi delle assenze e della riconducibilità di tali assenze alle gravi patologie da cui è affetto, va osservato che, in ossequio a quanto affermato dal giudice di legittimità (Cass. 6.9.2005, n. 1778), in riferimento alle conseguenze del mancato adempimento dei doveri di informazione a carico del lavoratore circa la natura della malattia, è da escludere che il datore di lavoro possa recedere sulla base di un fatto, quale il superamento del comporto, che egli ritiene erroneamente essersi verificato, per non essere stato informato di una circostanza impeditiva della maturazione del termine previsto, posto che la legittimità del recesso a seguito della maturazione del comporto deve essere "valutata in relazione al compiersi o no del relativo periodo, e non dalla percezione che di tale situazione abbia il datore di lavoro". La fattispecie di recesso del datore di lavoro, per l'ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (c.d. eccessiva morbilità), si inquadra, infatti, nello schema previsto, ed è soggetta alle regole dettate, dall'art. 2110 c.c., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali (v., tra le altre, Cass. 31.1.2012, n. 1404), con la conseguenza che, in dipendenza di tale specialità e del contenuto derogatorio delle suddette regole, il datore di lavoro, da un lato, non può unilateralmente recedere o, comunque, far cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (c.d. periodo di comporto), predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa, e, dall'altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è all'uopo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali (così, di recente, Cass. 4.2.2020, n. 2527). Il licenziamento è, pertanto, da ritenersi illegittimo, per violazione dell'art. 2110 c.c., non essendo maturato il termine lungo previsto dall'art. 63 CCNL applicato al rapporto. Non sussistono i presupposti per una declaratoria di nullità del licenziamento per discriminatorietà, non essendo stato evidenziato sotto quale profilo l'applicazione della disciplina collettiva determinerebbe una disparità di trattamento, anche solo in forma indiretta. In ordine alla qualificazione del licenziamento e alla tutela applicabile (trattandosi di lavoratore assunto dopo il 7.3.2015), va osservato che in un recente arresto a Sezioni Unite, la Corte di Cassazione ha affermato la nullità, per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2110, comma 2, c.c., del licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità (Cass., Sez. Lav., 22.5.2018, n. 12568). Nella parte motiva di tale statuizione si precisa che "all'affermazione della nullità del licenziamento in discorso non osta l'avere il vigente testo dell'art. 18 L. n. 300 del 1970 (come novellato ex L. n. 92 del 2012) collocato la violazione dell'art. 2112, comma 2, cod. civ., nel comma 7 anziché nel comma 1 (riservato ad altre ipotesi di nullità previste dalla legge), con conseguente applicazione del regime reintegratorio attenuato anziché pieno. Infatti, in considerazione d'un minor giudizio di riprovazione dell'atto assunto in violazione di norma imperativa, ben può il legislatore graduare diversamente il rimedio ripristinatorio pur in presenza della medesima sanzione di nullità, di guisa che la citata previsione del comma 7 dell'art. 18 si pone come norma speciale rispetto a quella generale contenuta, nel comma 1 là dove si parla di altri casi di nullità previsti dalla legge". Con la successiva sentenza n. 19661 del 22.7.2019, la Suprema Corte ha avuto modo di ribadire l'orientamento secondo cui il licenziamento intimato prima della scadenza del periodo di comporto è affetto di nullità (e non anche da inefficacia), specificando, tuttavia, che le conseguenze di tale nullità vanno tratte dalla disciplina generale contenuta in seno al codice civile, indipendentemente dal numero di dipendenti occupati dall'azienda, in quanto l'atto nullo è improduttivo di effetti (e non potendosi ricorrere, in via analogica, all'applicazione della disciplina contenuta nella L. n. 604 del 1966 per le aziende che occupano fino a 15 dipendenti). In tali ipotesi, in mancanza di un'espressa regolamentazione, la Corte ha ritenuto dovesse trovare applicazione la disciplina generale del codice civile per l'atto nullo, improduttivo di effetti (nella specie sulla continuità del rapporto di lavoro), secondo il noto brocardo "quod nullum est nullum producit effectum": con la dichiarazione di nullità dell'atto estintivo del rapporto di lavoro subordinato, le obbligazioni contrapposte, nascenti dal contratto di lavoro, restano integre e le parti vengono a trovarsi in una posizione di inadempienza reciproca, originata dall'iniziale rifiuto del creditore di ricevere la prestazione di lavoro e di versare il corrispettivo pattuito, così che si realizza una fattispecie da regolare secondo le norme che disciplinano l'inadempimento delle obbligazioni nei contratti con prestazioni corrispettive. Coerentemente, la medesima disciplina di diritto civile deve trovare applicazione in caso di licenziamento intimato in violazione dell'art. 2110 c.c., comma 2, in relazione ad un rapporto di lavoro non disciplinato dall'art. 18 L. n. 300 del 1970, quale è quello oggetto di causa. Pertanto, accertata la nullità del licenziamento intimato e preso atto che il ricorrente ha impugnato il licenziamento e messo in mora la società con raccomandata del 9.6.2021 (doc. n. 31 fasc. ric.), la resistente va condannata alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data di messa in mora sino a quello della effettiva reintegrazione, oltre accessori di legge e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. Quanto alla retribuzione da prendere a parametro, il ricorrente ha indicato l'importo di Euro 1806,54, non contestato da parte resistente. Le spese di lite seguono la soccombenza, con relativa liquidazione come da dispositivo, in applicazione dei criteri di cui al D.M. n. 55 del 2014, avuto riguardo ai valori medi per la cause di valore indeterminabile per le sole fasi di studio e introduttiva, tenuto conto dell'assenza di attività per le ulteriori fasi (istruttoria e decisionale). P.Q.M. definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa, -in accoglimento del ricorso, annulla il licenziamento e, per l'effetto, dichiara tenuta e condanna la società resistente alla reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro, nonché al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dalla data di messa in mora sino a quello dell'effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per il medesimo periodo; -condanna la società resistente alla rifusione delle spese di lite, liquidate in Euro 4.235,00, oltre rimborso spese generali, IVA e CA come per legge, con distrazione in favore del difensore antistatario. Così deciso in Pesaro il 27 aprile 2022. Depositata in Cancelleria il 27 aprile 2022.

  • TRIBUNALE DI PESARO REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Pesaro, sezione prima, nella persona della dott.ssa Manuela Mari, la pronunciato, dopo rituale delibera, la seguente SENTENZA nella causa n. 2024/2019 R.G., promossa DA (...), rappresentato e difeso dall'avv. St.Ur. e dall'avv. Fe.Ga.; ATTORE-OPPONENTE CONTRO (...) S.r.l. e per essa procuratrice (...) e per essa procuratrice (...) S.r.l., rappresentata e difesa dall'avv. (...) e dall'avv. (...) CONVENUTA-OPPOSTA E CON L'INTERVENTO DI (...) S.p.A. in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall'avv. (...) e dall'avv. (...) TERZA INTERVENUTA MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto di citazione notificato il 19.7.2019 (...) ha proposto opposizione al decreto ingiuntivo n. 1488/19 emesso da questo Tribunale il 16.5.2019, su ricorso della società (...) S.r.l. in qualità di procuratrice della (...) S.p.A. a sua volta procuratrice della (...) srl, nei confronti del debitore principale (...) e del fideiussore (...), avente ad oggetto il pagamento di complessivi Euro 135.174,72. (...) ha chiesto la revoca del provvedimento monitorio, deducendo una pluralità di eccezioni ed argomentazioni. Si è costituita la (...) srl, la quale ha chiesto il rigetto dell'opposizione. È intervenuta volontariamente nel processo la (...) S.p.A. deducendo la sua posizione ex-titolare del credito, ceduto alla (...). Procedendo alla decisione della causa, il Tribunale osserva quanto segue. L'opponente ha eccepito la nullità totale o parziale della fideiussione bancaria omnibus da lui rilasciata il 20.11.2006, in quanto stipulata in violazione della normativa antitrust e ha eccepito anche l'estinzione del diritto di garanzia a causa del superamento del termine semestrale entro cui il creditore aveva l'onere di attivarsi per far valere le sue ragioni ex art. 1957 c.c.. In primo luogo va precisato che trattandosi di eccezioni volte unicamente a paralizzare la domanda avanzata dalla (...) srl - e non di domande riconvenzionali, non si ravvisa il difetto di competenza eccepito dalla interveniente (...) S.p.A. in favore del Tribunale delle Imprese. L'opponente ha espressamente e chiaramente ribaditi nei suoi atti - fin da principio - che era sua intenzione unicamente formulare una eccezione di nullità della fideiussione e non una domanda riconvenzionale. La speciale competenza per materia prevista dall'art. 33 comma 2 L. n. 287/1990 e artt. 33 e 4 D.Lg. n. 168/2003 riguarda il caso in cui debbano essere decise domande di nullità delle intese antitrust e dei contratti con cui si dà esecuzione alle intese (v. Cass. n. 6523/2021), ma non anche la decisione delle mere eccezioni. La Corte di Cassazione già in altri casi ha avuto modo di chiarire che la formulazione di una eccezione riconvenzionale non comporta la separazione delle cause e lo spostamento della competenza (v. Cass. n. 23074/2020, n. 10356/2000, n. 3632/1979). Nel merito, è documentato che la fideiussione omnibus stipulata nel 2006 da (...) (doc. 13 del fascicolo monitorio) è conforme al modello ABI censurato nel 2005 dalla Banca d'Italia in qualità di Autorità Antitrust; l'opponente ha documentato oltre al testo del modello ABI anche la pronuncia n. 55 del 2005 della Banca d'Italia (doc.2, 3, 5, 30, 31 dell'opponente). Conformemente al prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità va attribuita alla pronuncia della Banca d'Italia in qualità di Autorità antitrust uno speciale valore probatorio all'interno del processo civile in cui il giudice di merito è chiamato a decidere se uno specifico contratto sia il prodotto a valle di una intesa anticoncorrenziale (v. Cass. n. 13846/2019, Cass. n. 18176/2019). La pronuncia della Autorità garante costituisce una prova privilegiata dell'esistenza di una intesa anticoncorrenziale. Nel caso di specie, per tutti i motivi analiticamente esposti dalla Banca d'Italia nel provvedimento i.55/2005, a cui si rimanda, deve concludersi che lo schema contrattuale di fideiussione omnibus elaborato dall'ABI nel 2003 contiene disposizioni illecite, che violano l'art. 2 comma 2 lett.a) L. n.287/1990;n. 287/1990; le clausole lesive della concorrenza sono precisamente quelle contenute negli artt. 22, 6 e 8 dello schema ABI. Ne consegue che sono nulle le omologhe clausole contenute nella fideiussione stipulata da (...), che hanno dato attuazione all'intesa anticoncorrenziale conclusa a monte tra le banche. Il rapporto di "derivazione" tra l'intesa anticoncorrenziale e il contratto per cui è causa trova riscontro probatorio non solo nella conformità del testo, ma anche nella stretta contiguità temporale tra le condotte anticoncorrenziali accertate dall'ABI e la fideiussione rilasciata da (...) nel 2006. Per il principio della conservazione degli atti, la nullità non si estende all'intero contratto, ma resta limitata alle sole clausole n. 2, 6 e 8 (v. Cass. n. 24044/2019; S.U. n. 41994/2021 ). Infatti, valutato l'oggetto e il contenuto complessivo della fideiussione, non può ritenersi provata l'esistenza della condizione posta dall'art.1419 c.c.: non risulta cioè che le parti non avrebbero concluso la fideiussione senza le clausole n. 2, 6 e 8 (non vi è prova che la banca avrebbe preferito non avere nessuna fideiussione piuttosto che avere una fideiussione priva di quelle tre clausole; non vi è prova che il garante non avrebbe rilasciato la fideiussione senza le tre clausole il cui contenuto era favorevole alla controparte). L'opponente ha eccepito che in conseguenza della invalidità della clausola 6 - che derogava alla previsione normativa contenuta nell'art.1957 c.c. - la fideiussione ha perso efficacia, in quanto la banca non ha provveduto ad escutere il debitore entro sei mesi dalla scadenza dell'obbligazione. L'eccezione è fondata. È documentato - e non contestato - che la banca ha intimato la risoluzione dei contratti e revocato le linee di credito al debitore principale nell'agosto 2017 (doc.14 del fascicolo monitorio) e solo nel maggio 2019 si è attivata giudizialmente contro il debitore principale oltre che contro il fideiussore, chiedendo il decreto ingiuntivo. La violazione del termine previsto dall'art.1957 c.c. comporta ex lege la perdita di efficacia della fideiussione. Sul significato del termine "istanze" contenuto nell'art. 1957 c.c. l'orientamento della giurisprudenza è ormai consolidato: la norma che impone al creditore di proporre e di coltivare la sua istanza contro il debitore entro sei mesi dalla scadenza per l'adempimento dell'obbligazione garantita dal fideiussore - a pena di decadenza dal suo diritto verso quest'ultimo - tende a far si che il creditore stesso prenda sollecite e serie iniziative contro il debitore principale per recuperare il proprio credito, in modo che la posizione del garante non resti indefinitamente sospesa. Il termine "istanza" si riferisce ai vari mezzi di tutela giurisdizionale del diritto di credito, in via di cognizione o di esecuzione, che possano ritenersi esperibili al fine di conseguire il pagamento, indipendentemente dal loro esito e dalla loro idoneità a sortire il risultato sperato; l'invio di una raccomandata di diffida o anche di un precetto non seguito da esecuzione non costituisce "istanza" ai fini dell'art. 1957 (v. Cass. 6823/2001, n. 1724/2016). L'opposta e la interveniente hanno sostenuto che (...) sarebbe comunque obbligato al pagamento in forza della clausola 7 della fideiussione - non colpita da nullità - che stabilisce che "il fideiussore è tenuto a pagare immediatamente alla banca, a semplice richiesta scritta, anche in caso di opposizione del debitore, quanto dovutole per capitale ..." L'argomentazione non può essere condivisa, in quanto la clausola non prevede affatto che il fideiussore non possa sollevare eccezioni, tanto meno prevede che il fideiussore non possa far valere la nullità o inefficacia della fideiussione. Qualora le parti avessero voluto pattuire un divieto per il garante di sollevare eccezioni secondo lo schema del solve et repete o avessero voluto stipulare un contratto autonomo di garanzia avrebbero dovuto farlo usando formule più esplicite e non ambigue. Il decreto ingiuntivo va quindi revocato nei confronti del fideiussore (...). Ogni altra eccezione è assorbita. Va osservato che la terza interveniente volontaria nella sua costituzione in giudizio ha concluso per la condanna dell'opponente a pagare a (...) le somme dovute e ha aggiunto genericamente "sollevando l'interveniente da ogni responsabilità". Quest'ultima dicitura è un mero inciso, non qualificabile come autonoma domanda giudiziale, stante l'assoluta genericità della formula e la carenza di allegazioni assertive pertinenti. In applicazione del principio della soccombenza l'opposta viene condannata a rifondere all'opponente le spese di causa, liquidate come in dispositivo ex DM n. 55/14 in base al valore della controversia e al contenuto della attività difensiva svolta. Le spese della terza interveniente restano a carico della stessa interveniente. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando nella causa n. 2024/2019 R.G., promossa DA (...); ATTORE-OPPONENTE CONTRO (...) srl e per essa la procuratrice (...) S.p.A. e per essa la procuratrice (...) S.r.l. CONVENUTA-OPPOSTA E CON L'INTERVENTO DI (...) spa, in persona del legale rappresentante; TERZA INTERVENUTA ogni altra domanda, istanza ed eccezione respinta; 1) revoca il decreto ingiuntivo n. 488/2019 limitatamente alla ingiunzione emessa nei confronti dell'opponente (...); 2) condanna la parte opposta a rifondere all'opponente le spese di causa liquidate in Euro 406,50 per esborsi ed Euro 13.430,00 per compenso del difensore, oltre spese generali nella misura del 15%, Iva e Cpa se dovuti come per legge; 3) dichiara compensate le spese della terza intervenuta. Così deciso in Pesaro l'11 marzo 2022. Depositata in Cancelleria il 16 marzo 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI PESARO Il Tribunale, nella persona del Giudice Unico dott. Emanuele Mosci ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 2200/2020 promossa da: (...) - (...) - (...) rappresentata e difesa dall'Avv. GU.PI. domiciliata in via (...) - FANO PARTE ATTRICE - OPPONENTE contro (...) S.p.A. (quale cessionaria di (...) SpA) rappresentata e difesa dall'Avv. MA.PE. e dall'Avv. FR.CO. domiciliata c/o Avv. CA.CO., via (...) - FANO PARTE CONVENUTA - OPPOSTA OGGETTO: Fideiussione - Polizza fideiussoria CONCLUSIONI Le parti hanno concluso come da verbale d'udienza di precisazione delle conclusioni del 20/01/2022. IN FATTO ED IN DIRITTO (...) SpA - nella persona del procuratore (...) Srl - ha chiesto ed ottenuto d.i. (Tribunale di Pesaro n. 603/2020 del 6/8/2020) nei confronti dei fidejussori (...), (...) e (...) al pagamento della somma di Euro 66.406,06 di cui Euro 11.846,19 a titolo di saldo debitore del contratto di conto corrente n. (...) (acceso in data 08/10/2012 presso la sede di Fano di (...) - (...) S.p.A.), intestato alla garantita (...) Srl, oltre interessi di mora al tasso convenzionale dal 28/02/2020 al saldo; ed Euro 54.559,87, quale residuo importo per capitale ed interessi del finanziamento chirografario n. (...) con garanzia cambiaria di originari Euro 100.000,00, concesso sempre a (...) S.r.l. (in data 12/11/2011 da (...) - (...) SpA) oltre interessi di mora al tasso convenzionale dal 28/02/2020 al saldo. Hanno proposto opposizione, con atto di citazione ritualmente notificato (a (...) SpA), (...), (...) e (...) i quali hanno dato atto di aver ricevuto la notifica del decreto ingiuntivo in data 4/9/2020 e, nel merito, hanno eccepito la nullità dell'atto di fidejussione ai sensi dell'art. 2 comma 2 lett. (a) della L. 287/1990. In data 19/1/2021 si è costituita la cessionaria del credito, (...) SpA, la quale ha chiesto la concessione della p.e. del d.i. opposto e, nel merito, l'accoglimento della domanda formulata in via monitoria, previa dichiarazione della successione della convenuta nel credito. Alla udienza ex art. 183 c.p.c. (celebrata, in modalità cartolare) gli opponenti hanno eccepito la carenza di legittimazione attiva in capo a (...) SpA e la inefficacia della notifica del decreto ingiuntivo nei confronti del (...). All'esito, è stata rigetta la istanza di concessione della p.e. del d.i. e sono stati concessi i termini ex art. 183 VI comma c.p.c.. Alla successiva udienza, su istanza delle parti, la causa è stata trattenuta in decisione. Questa è stata, infine, rimessa in istruttoria per permettere alle parti di prendere posizione in merito alla sopravvenienza giurisprudenziale, di cui alla ordinanza di rimessione disposta dalla Corte di Cassazione alle Sezioni Unite (Ord. n. 11486/2021) ed alla successiva pronuncia delle Sezioni Unite stesse (Sent. 41994/2021), con riguardo, in particolare, alla validità delle clausole contenute nell'atto di fidejussione in quanto riproduttive di uno schema contrattuale standardizzato assunto in violazione dei principi di cui alla L. 287/1990. Premesso quanto sopra, si osserva, che, in relazione alle obbligazioni assunte da (...) Srl, erano state prestate le seguenti fidejussioni. (...), (...) e la terza estranea (...) si erano dichiarati fidejussori con atto del 20/11/2012 sino a concorrenza dell'importo di Euro 26.000,00, atto che era stato ratificato da (...) e (...), in data 31/3/2017, a seguito del recesso della (...), nei confronti della cessionaria (...) SpA. (...), (...) e la terza estranea (...) si erano dichiarati fidejussori con atto del 26/6/2013 sino a concorrenza dell'importo di Euro 26.000,00, atto che era stato ratificato da (...) e (...), in data 31/3/2017, a seguito del recesso della (...), nei confronti della cessionaria (...) SpA e confermata in data 4/4/2017 dalla (...) a seguito dello scarico del (...). (...) si era dichiarata fidejussore con atto del 4/4/2017, sino a concorrenza dell'importo di Euro 26.000,00. (...), (...), (...) e la terza estranea (...) si erano dichiarati fidejussori, con atto del 12/11/2014, sino a concorrenza dell'importo di Euro 130.000,00, ratificato da (...) e (...), in data 31/3/2017, a seguito del recesso della (...), nei confronti della cessionaria (...) SpA. In data 28/11/2019 (...) SpA aveva revocato gli affidamenti e disposto la chiusura dei rapporti in essere con (...) S.r.l. (dichiarata fallita il successivo 7/1/2020). Con missive ricevute in data 28/11/2019-8/1/2020, (...), (...), (...) e (...) venivano invitati ad adempiere in luogo della garantita in virtù della fidejussione prestata per l'importo di Euro 130.000,00. La (...) ed il (...) avevano ricevuto, inoltre, in data 1 8/6/2020, una comunicazione da (...) SpA, in qualità di procuratrice di (...) SpA, contenente una proposta di definizione transattiva della lite. Nel rito, la domanda è procedibile poiché il difetto di mediazione non è stato eccepito né rilevato alla prima udienza (art. 5 L. 28/2010). Non si è verificata, inoltre, la ipotesi di inefficacia del decreto di cui all'art. 644 c.p.c. dal momento che il decreto ingiuntivo è stato portato per la notifica nel termine di gg. 60. La costituzione del (...), inoltre, ha sanato la iniziale nullità della notifica (art. 156 cpc - vedasi la relata con la indicazione della irreperibilità del destinatario, datata 4/9/2020). Preliminarmente, nel merito, si osserva che, alla data del 31/7/2020 (data del deposito del ricorso per decreto ingiuntivo) non era ancora avvenuta la cessione del credito per cui è causa a favore di (...) SpA. La costituzione in giudizio della cessionaria ha, dunque, realizzato la fattispecie di cui all'art. 111 c.p.c. poiché il processo era pendente sin dal momento del deposito del ricorso monitorio (cfr. Cass. 18707/2014). - (...), (...), (...) hanno proposto opposizione mediante la quale hanno eccepito la nullità degli artt. 2,6 e 8 della fidejussione per violazione dell'art. 2 comma 2 lett. (a) L. 287/1990. Le clausole oggetto della censura di nullità sono di seguito riportate nella versione approvata dall'ABI e in quella riproposta da (...) SpA e dalla cessionaria del credito (...) SpA. ART. 2 - Annullamento, inefficacia e revoca dei pagamenti "Il fideiussore s'impegna altresì a rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo" "I fideiussori si impegnano altresì a rimborsare alla Banca le somme che dalla Banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo" ART. 6 - Responsabilità del fideiussore "I diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall'art. che si intende derogato" "I diritti derivanti alla Banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti dall'art. 1957 cod. civ., che si intende derogato" ART. 8 - Invalidità dell'obbligazione garantita "Qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l'obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate" "Nell'ipotesi in cui le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide per qualsiasi causa, la fideiussione si intende fin d'ora estesa a garanzia dell'obbligo di restituzione delle somme comunque erogate al debitore" La questione - si ritiene - va risolta nei termini indicati dalle Sezioni Unite della Cassazione (Sent. 41994/2021) secondo la quale la illegittimità delle singole clausole non comporta la dichiarazione di nullità dell'atto di fidejussione bensì solamente la dichiarazione di nullità di quelle che vengono invocate nel caso concreto, salvo che non si dimostri che l'atto non sarebbe stato concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità. Nel caso che ci occupa, però, non è stato prospettato il pregiudizio subito dagli opponenti con riguardo né ad ipotesi di revoca di pagamenti (art. 2) né ad ipotesi di preventiva escussione del debitore principale (art. 6 - peraltro, già dichiarato fallito all'atto del deposito del ricorso per decreto ingiuntivo) né, da ultimo, ad ipotesi di validità della obbligazione garantita (art. 8). Ne consegue che la dichiarazione di nullità delle clausole indicate dagli opponenti non fa venir meno il titolo in ragione del quale è stato richiesto ed ottenuto il decreto ingiuntivo. Deve trovare, pertanto, accoglimento la domanda formulata in via monitoria. Il contrasto giurisprudenziale esistente al momento della introduzione del giudizio consiglia la compensazione delle spese relativamente alla fase di opposizione. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: Rigetta la opposizione e dichiara la esecutorietà del decreto ingiuntivo opposto. Spese interamente compensate tra le parti. Così deciso in Pesaro il 6 marzo 2022. Depositata in Cancelleria il 9 marzo 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI PESARO PRIMA SEZIONE Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Flavia Mazzini ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 1711/2021 promossa da: (...) SRLS (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. NA.LO. presso il cui studio in FIRENZE VIA (...) elegge domicilio RICORRENTE contro PREFETTURA - UFFICIO TERRITORIALE DEL GOVERNO DI PESARO E URBINO (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. AN.AN. elettivamente domiciliato in C/O PREFETTURA - UFFICIO TERRITORIALE DEL GOVERNO - PESARO RESISTENTE ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO A BASE DELLA DECISIONE C.U. in qualità di legale rappresentante della Società "(...) Srls" conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Pesaro la Prefettura - Ufficio Territoriale del Governo di Pesaro e Urbino, per ottenere l'annullamento dell'ordinanza di ingiunzione emessa nei suoi confronti in data 07.06.2021 e notificata il 18.6.2021, con la quale veniva ingiunto del pagamento della somma di Euro 803,60, nonché della chiusura dell'esercizio commerciale di cui era titolare per un periodo di giorni 20. Il ricorrente esponeva che in data 15.01.2021 decideva di aprire al pubblico il proprio locale "(...)" adibito a servizio di ristorazione, nonostante i divieti governativi, ed in particolare in violazione del DPCM 03.12.2020. In quella occasione, a seguito di un accertamento ispettivo veniva emesso il verbale di contestazione n. 67461, poiché alle 23:10, al di fuori quindi della fascia oraria consentita (dalle ore 5.00 alle ore 18.00), in violazione di quanto disposto dall'art. 1 c. 10, lett. gg.) del DPCM 03.12.2020, all'interno dell'esercizio vi erano circa 25 avventori che avevano consumato cibi e bevande nelle precedenti ore, dalle 20:00 alle 23:30 circa. Contestualmente veniva disposta la chiusura provvisoria dell'esercizio per giorni 05 dall'atto dell'accertamento e, ciò ai sensi e per il disposto dell'art. 2 commi 1 e 2 del D.L. n. 33/2020, con applicazione della sanzione in misura ridotta di Euro 280,00. In data 18.06.2021 veniva notificato al ricorrente da parte della Prefettura - Ufficio Territoriale del Governo di Pesaro e Urbino - ordinanza ingiunzione - Prot. Uscita n. 3889/2021 del 07.06.2021, con la quale gli veniva ordinato di pagare la somma complessiva di Euro 803,60 e la chiusura per giorni 20 dell'attività esercitata. Il ricorrente agiva in questa sede per ottenere l'annullamento della suindicata ordinanza ingiunzione in quanto originava dal DPCM del 03.12.2020, da ritenersi illegittimo poiché emesso in violazione dell'art. 17 comma IV della Legge 400/1988, e mancante di motivazione in violazione dell'art. 3 della L. 241/1990, oltre che inefficace per omessa notifica alla Commissione Europea in violazione dell'art. 13 D.Lgs. 59/2010. Il ricorrente eccepiva inoltre l'incompetenza del Prefetto a comminare la sanzione amministrativa accessoria della chiusura provvisoria dell'attività, ed invocava a proprio favore lo stato di necessità atto a costituire causa di esclusione della responsabilità per la violazione comminata. Da ultimo, il ricorrente sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 comma 1 del D.L. 19/2020 per violazione dell'art. 76 Cost., dell'art. 4 comma II, lett. V) del D.L. 19/2020 per violazione degli artt. 41 comma I, 117 Cost. e Art. 1 Primo Protocollo C.E.D.U.. Si costituiva ritualmente in giudizio la parte resistente, la quale chiedeva il rigetto del ricorso in quanto infondato in diritto. In particolare, la resistente rilevava che il ricorrente non aveva presentato ricorso amministrativo avverso il verbale di accertamento, né aveva chiesto di essere sentito a propria difesa, ai sensi dell'art. 18 legge n. 689/1981; eccepiva l'inammissibilità e l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata; osservava altresì che i DPCM dovevano intendersi sottoposti al solo controllo della Corte dei Conti ai sensi dell'art. 2 comma 4 del D.L. 19/2020 e che, stante la natura di atto amministrativo generale, i DPCM erano sottratti all'obbligo di motivazione. Inoltre rilevava la resistente, l'assenza di connessione oggettiva ai sensi dell'art. 24 della legge 689/81 atteso che le disposizioni contenute nei DPCM si basavano sulla violazione delle disposizioni recanti norme di comportamento finalizzate ad evitare il dilagare ed il diffondersi del contagio senza configurare ipotesi di reato, e l'assenza dei presupposti previsti dall'art. 54 c.p. per la configurabilità dello stato di necessità ex adverso invocato. La causa, istruita con produzioni documentali, veniva posta in decisione all'udienza del 09.02.2022. Il ricorso proposto è fondato e merita, pertanto, di essere accolto. In primo luogo si osserva come sia destituito di fondamento il rilievo preliminare della resistente circa la mancata presentazione da parte del ricorrente di ricorso amministrativo avverso il verbale di accertamento della violazione e l'omessa presentazione di scritti difensivi da parte sua ex art. 18 legge 689/1981. Compiendo infatti una rapida analisi dell'iter sanzionatorio, è possibile osservare che in una prima fase, quella in cui è prevista la contestazione e la notificazione dell'illecito amministrativo commesso tramite apposito verbale, il trasgressore può ai sensi dell'art. 18 1 comma della legge 689/81, presentare scritti difensivi e chiedere di essere sentito all'autorità competente a ricevere il rapporto a norma dell'art. 17 della suddetta legge. L'autorità competente, sentiti gli interessati, ove questi ne abbiano fatta richiesta, ed esaminati i documenti inviati e gli argomenti esposti negli scritti difensivi, se ritiene fondato l'accertamento, determina, con ordinanza motivata, la somma dovuta per la violazione e ne ingiunge il pagamento, insieme con le spese, all'autore della violazione e alle persone che vi sono obbligate solidalmente, altrimenti emette l'ordinanza motivata di archiviazione degli atti. E' evidente che la natura amministrativa di tale sistema, introduce la possibilità per gli interessati di poter instaurare una prima forma di difesa, che si estrinseca nella possibilità di esternare le proprie ragioni all'Autorità competente. La presentazione di scritti difensivi e memorie, si prospetta pertanto come una facoltà per gli interessati e non certo un obbligo, rappresentando uno strumento utile per poter esprimere le proprie ragioni in merito al verbale di illecito amministrativo a loro notificato a seguito di accertamento ispettivo. Nel merito, occorre un breve richiamo alla normativa emergenziale di riferimento. Il D.L. 23 Febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni della legge 5 marzo 2020 n. 13, reca misure urgenti dirette a fronteggiare l'evolversi della situazione epidemiologica in Italia, causata dalla diffusione dell'epidemia da Coronavirus. L'art. 2 del D.L. 23 Febbraio 2020, n. 6, rubricato "ulteriori misure di gestione dell'emergenza", dispone che "le autorità competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell'emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell'epidemia da COVID -19 anche fuori dai casi di cui all'articolo 1, comma 1". L'art. 3 dispone che 'le misure di cui agli articoli 1 e 2 sono adottate, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della salute, sentito il Ministro dell'interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell'economia e delle finanze e gli altri Ministri competenti per materia, nonché i Presidenti delle regioni competenti, nel caso in cui riguardino esclusivamente una sola regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni, nel caso in cui riguardino il territorio nazionale. 2. Nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 1, nei casi di estrema necessità ed urgenza le misure di cui agli articoli 1 e 2 possono essere adottate ai sensi dell'articolo 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, dell'articolo 117 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, e dell'articolo 50 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. Sono fatti salvi gli effetti delle ordinanze contingibili e urgenti già adottate dal Ministro della salute ai sensi dell'articolo 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833. Salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto e' punito ai sensi dell'articolo 650 del codice penale. Il Prefetto, informando preventivamente il Ministro dell'interno, assicura l'esecuzione delle misure avvalendosi delle Forze di polizia e, ove occorra, delle Forze armate, sentiti i competenti comandi territoriali. I termini del controllo preventivo della Corte dei conti, di cui all'articolo 27, comma 1, della legge 24 novembre 2000, n. 340, sono dimezzati. In ogni caso i provvedimenti emanati in attuazione del presente articolo durante lo svolgimento della fase del controllo preventivo della Corte dei Conti sono provvisoriamente efficaci, esecutori ed esecutivi, a norma degli articoli 21-bis, 21-ter e 21-quater, della legge 7 agosto 1990, n. 241." Successivamente il D.L. 19/2020 ha modificato la disciplina introdotta dal D.L. 6/2020, prevedendo all'art. 1 comma 2 che le misure per la prevenzione della diffusione da Sars Covid-2 "possono essere adottate, secondo i principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso". Ciò premesso, ai fini di causa è necessario tentare di dare una qualificazione giuridica ai DPCM previsti dal D.L. 6/2020 e successive modificazioni, senza nascondere che essa natura è controversa e, senza avere alcuna presunzione di dare una risposta certa ed inequivoca in proposito. Per una prima impostazione dottrinale, i DPCM sarebbero da assimilare sotto il profilo funzionale alle ordinanze extra ordinem contingibili e urgenti di cui all'art. 54 T.U. 18 agosto 2000 n. 267, condividendo con esse la finalità di contrastare una situazione emergenziale che non può essere affrontata e risolta con gli strumenti normativi ordinari, perché subordinata alla minaccia di un pericolo grave in termini di probabilità, fondata su una valutazione concreta dei fatti e su dati scientifici obbiettivi. E' stato osservato (cfr. E.Ra. "Sulla legittimità dei provvedimenti del Governo a contrasto dell'emergenza virale da coronavirus" in (...) - (...) n. 2/2020, 4) come i DPCM, nonostante non ne assumano la denominazione, rientrino nella categoria delle ordinanze extra ordinem. Si tratta di atti formalmente amministrativi che regolano i fatti emergenziali a partire da una generica autorizzazione della legge cd. a fattispecie aperta. A sostegno di questa tesi è stata richiamata la sentenza n. 4/1977 della Corte Costituzionale la quale, nel punto 2 del "Considerato in diritto", fa menzione proprio delle cd. ordinanze necessitate i cui poteri di adozione "soltanto genericamente sono prefigurati dalla norme che li attribuiscono e perciò sono suscettibili di assumere vario contenuto per adeguarsi duttilmente alle mutevoli situazioni" e sempre che questi provvedimenti siano dotati di "efficacia limitata nel tempo in relazione ai dettami della necessità e dell'urgenza; adeguata motivazione; efficace pubblicazione nei casi in cui il provvedimento non abbia carattere individuale, conformità del provvedimento stesso ai principi dell'ordinamento giuridico". Sul punto, la giurisprudenza della Corte Costituzionale (cfr. Corte Costituzionale 4 aprile 2011, n. 115), ha fornito precise indicazioni circa l'ammissibilità delle ordinanze contingibili ed urgenti, ritenendo indispensabile il ricorso al principio di legalità sostanziale e statuendo: "non è sufficiente che il potere sia finalizzato dalla legge alla tutela di un bene o di un valore, ma è indispensabile che il suo esercizio sia determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell'azione amministrativa". Accostando il DPCM alle ordinanze contingibili ed urgenti, i corollari dei principi di legalità e di riserva di legge, ovvero la tipicità e nominatività dei provvedimenti amministrativi condurrebbero alla temporaneità degli effetti del DPCM stesso. Il principio di riserva di legge viene rispettato giacché il potere di emanare il DPCM trova un suo fondamento legale nel D.L. 6/2020 convertito in legge, nonché nel successivo D.L. 19/2020; mentre, in forza del principio di nominatività, il Decreto Legge ha individuato nel DPCM, il provvedimento funzionale a quello scopo, la causa giustificativa del potere che il legislatore stesso ha tipizzato, ovvero neutralizzare un pericolo grave per la salute pubblica, altrimenti non contrastabile. Tuttavia, pare non sia rispettato il principio di tipicità, in quanto il contenuto atipico del DPCM permette il suo adattarsi alla peculiarità del caso concreto e all'evolversi della curva epidemiologia. Del resto, l'atipicità contenutistica che caratterizza le ordinanze contingibili ed urgenti è coerente con l'esigenza di elasticità che connota il potere extra ordinem, adattabile alle più imprevedibili o impreviste situazioni di rischio per gli interessi contemplati dalla legge. Tuttavia, il principio di legalità sostanziale impone un limite essenziale all'utilizzo di tale potere: il doveroso rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, in quanto l'ordinanza di necessità adottata a tutela di interessi collettivi, spesso incide su interessi di soggetti determinati, e ciò comporta la soluzione più idonea ed adeguata, con il minor sacrificio possibile per gli interessi compresenti. Con ciò si spiega il motivo per cui le ordinanze di necessità non sono sottratte all'obbligo di motivazione di cui all'art. 3 della L. 241/1990; al contrario, l'eccezionalità del potere, l'atipicità contenutistica degli atti in questione, nonché la devoluzione alla stessa amministrazione del compito di verificare in concreto la sussistenza dei presupposti di adottabilità dell'atto stesso, impongono una più accentuata attenzione nell'esplicitazione dei motivi. La motivazione deve dare conto, pertanto, non solo della sussistenza dei presupposti di esercizio del potere, ma anche degli elementi istruttori che hanno determinato l'adozione dell'atto (cfr. Consiglio di Stato Sez. V 7 aprile 2003, n. 1831). Secondo altro orientamento dottrinale (cfr. J. Bracciale "La controversa natura del DPCM" in Salvis Juribus pubblicato il 13.11.2020), lo strumento del DPCM introdotto dal D.L. 6/2020 sarebbe piuttosto assimilabile al regolamento. Quest'ultimo è atto amministrativo nella forma, ma normativo nella sostanza, giacché connotato da generalità, astrattezza e innovatività, applicabile ad una serie indefinita di destinatari e di casi, nonché capace di apportare all'ordinamento modifiche definitive. Secondo tale impostazione, il DPCM sarebbe pertanto collocabile nell'ambito dei regolamenti attuativi - integrativi disciplinati dalla legge n. 400/1988, ed ammessi nelle materie coperte da riserva relativa di legge, rivolti all'attuazione di leggi e atti aventi forza di legge in modo dettagliato ed integrativo sul piano tecnico-scientifico. La legge n. 400/1988 impone per la formazione del regolamento governativo una rigida scansione procedimentale che non risulta sia stata rispettata per il DPCM in esame, prescrivendo la delibera del Consiglio dei Ministri, previo parere obbligatorio del Consiglio di Stato, la registrazione da parte della Corte dei Conti, la pubblicazione in G.U. con decorrenza dell'ordinario termine di vacatio legis di 15 giorni prima dell'entrata in vigore. Peraltro, il parere del Consiglio di Stato, il visto del giudice contabile e la pubblicazione in Gazzetta, sono imposti altresì per i regolamenti adottati con decreto ministeriale o interministeriale, ossia riferibile al singolo dicastero, ovvero all'azione in concerto di più dicasteri. Ciò premesso, per la questione prospettata è utile riferirsi a talune indicazioni fornite dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte Costituzionale. Il Consiglio di Stato, con parere n. 850/2021 del 13 Maggio 2021 ha convalidato lo schema normativo utilizzato e inaugurato dal D.L. 6/2020. Pur discostandosi dal modello già previsto dall'ordinamento, la normativa introdotta sarebbe comunque conforme alla Costituzione nella produzione di atti normativi di secondo grado, sostanzialmente equiparabili alle ordinanze emergenziali di protezione civile sotto il profilo della temporaneità, dell'eccezionalità e del presupposto dello stato di emergenza dichiarato con delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020, ai sensi dell'art. 24 del codice della protezione civile di cui al D.Lgs. n. 1 del 2018. Anche la Corte Costituzionale ha fornito alcune considerazioni dirimenti. La Corte Costituzionale ha riconosciuto la legittimità del meccanismo prescelto dal Governo, qualificando i DPCM come atti amministrativi assoggettati al sindacato del giudice, e non come atti legislativi o normativi (cfr. Corte Costituzionale sentenza n. 198/2021). La discrezionalità amministrativa del Presidente del Consiglio è stata tuttavia adeguatamente limitata a due condizioni: le misure limitative devono rientrare in quelle astrattamente indicate dagli stessi decreti legge; la scelta su quali misure adottare, tra quelle consentite, devono essere ancorate ai principi di proporzionalità ed adeguatezza, nel rispetto dei rischi effettivamente presenti nel contesto pandemico. Naturalmente, la giustificazione di tale ultimo presupposto impone la presenza di una motivazione particolarmente accurata, per dimostrare la sussistenza di tutti requisiti fattuali. La Corte infatti ha affermato che "la tipizzazione delle misure di contenimento - coerente con l'esigenza di assicurare il corretto rapporto tra fonti primarie e fonti secondarie (...) - è stata accompagnata nell'economia del d.l. n. 19/2020 da ulteriori garanzie, sia per quanto attiene alla responsabilità del Governo nei confronti del Parlamento, sia sul versante della certezza dei diritti dei cittadini. Il D.L. n. 19/2020 ha invero disposto la temporaneità delle misure restrittive, adottabili solo per periodi predeterminati e reiterabili non oltre il termine finale dello stato di emergenza. La tipizzazione delle misure di contenimento operata dal d.l. n. 19/2020 è corredata dall'indicazione di un criterio che orienta l'esercizio della discrezionalità attraverso i principi di adeguatezza e proporzionalità del rischio effettivamente presente in specifiche patii del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso. In tal senso assume rilievo - giacché supporta sul piano istruttorio la messa in atto della disciplina primaria, rendendone più concreta ed effettiva la verifica giudiziale - quanto stabilito dall'ultimo periodo dell'art. 2 comma 1 dello stesso d.l. n. 19/2020, cioè che per i profili tecnico-scientifici e le valutazioni di adeguatezza e proporzionalità, i provvedimenti di cui al presente comma sono adottati sentito, di norma, il Comitato tecnico-scientifico di cui all'ordinanza del Capo del dipartimento della Protezione Civile 3 febbraio 2020 n. 630, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 32 dell'8 Febbraio 2020. La fonte primaria, pertanto, non soltanto ha tipizzato le misure adottabili dal Presidente del Consiglio dei Ministri, in tal modo precludendo all'autorità di Governo l'assunzione di provvedimenti extra ordinem, ma ha anche imposto un criterio tipico di esercizio della discrezionalità amministrativa, che è di per sé del tutto incompatibile con l'attribuzione di potestà legislativa ed è molto più coerente con la previsione di una potestà amministrativa, ancorché ad efficacia generale. D'altronde, come rilevato anche dal Consiglio di Stato in sede consultiva su ricorso straordinario al Presidente della Repubblica per l'annullamento di alcuni D.P.C.M. attuativi del d.l. n. 19 del 2020 (parere 13 maggio 2021, n. 850), la legislazione sulle ordinanze contingibili e urgenti e lo stesso codice della protezione civile non assurgono al rango di leggi "rinforzate", sicché il Parlamento ben ha potuto coniare un modello alternativo per il tramite della conversione in legge di decreti-legge che hanno rinviato la propria esecuzione ad atti amministrativi tipizzati". Pertanto, il DPCM rientra nella categoria degli atti amministrativi, e come tale riveste carattere di fonte normativa secondaria. La funzione dei DPCM introdotti dal D.L. 6/2020 è quella di dare concreta attuazione e regolazione alla situazione di epidemia da Covid 19, proprio perché la sua velocità di emanazione consente di rispondere meglio alla velocità di diffusione del virus. Individuati i principi fondamentali dal decreto convertito, l'esatta definizione tecnica ed attuazione delle norme per la convivenza civile a seconda del rischio epidemiologico individuato, è affidata allo strumento del DPCM, ma nell'esercizio di una specifica discrezionalità amministrativa. Tuttavia quest'ultima, per espressa previsione del D.L. 19/2020, deve necessariamente rispondere a criteri di proporzionalità, adeguatezza e ragionevolezza che connotano ogni fonte di diritto amministrativo. D'altronde, i momenti essenziali che connotano la discrezionalità, quale attività comparativa tra gli interessi primari e secondari nel minor sacrificio possibile per questi ultimi, si compie in due momenti: il giudizio, nell'individuazione e valutazione di tutti i fatti e gli interessi rilevanti, sulla base di un'adeguata istruttoria; la scelta, con la quale l'Amministrazione, sulla scorta di una logica e ragionevole valutazione delle istanze istruttorie, individua la soluzione più idonea a realizzare l'interesse pubblico primario con il minor sacrificio possibile degli altri interessi compresenti. Lo strumento attraverso cui si rendono visibili la logicità e la ragionevolezza della decisione, consiste nell'enunciazione dei presupposti e dei motivi su cui si fonda un atto amministrativo "necessitato" come ritenuto dalla stessa pronuncia della Corte Costituzionale (cfr. sentenza 198/2021): da un lato, individua le circostanze di fatto e di diritto a base del provvedimento (la cd. giustificazione), dall'altro l'esposizione dei motivi in senso stretto, vale a dire del percorso logico-giuridico che ha presieduto e condotto ad una determinata decisione. L'atto amministrativo non può mancare di rendere ragione dei suoi presupposti, in quanto l'obbligo per l'amministrazione di rendere noti i fattori legittimanti il potere esercitato con l'adozione di un determinato provvedimento, si pone a presidio del sindacato del giudice sul provvedimento stesso nella tutela giurisdizionale dei diritti individuali, nell'esame sulla congruità dei passaggi logici percorsi dall'Amministrazione per pervenire alla decisione. Del resto, l'espresso riferimento operato dalla Corte Costituzionale alla sindacabilità dei DPCM da parte del giudice, impone di far riferimento unicamente alla logicità della motivazione, giacché l'opportunità delle scelte riservate all'Amministrazione non consente al giudice di sostituirsi ad essa, ma unicamente di verificare la congruità del percorso logico seguito dalla P.A.. Quanto alla motivazione dell'atto amministrativo occorre che la stessa espliciti i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche in coerenza alle risultanze dell'istruttoria, e ciò anche avuto riguardo all'atto amministrativo necessitato in cui l'Amministrazione si limiti ad un accertamento delle condizioni di fatto che impongono l'adozione dell'atto amministrativo medesimo. Ammissibile anche una motivazione per relationem, prevedendo che, qualora le ragioni della decisione risultino da altro atto dell'amministrazione, richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest'ultima debba essere indicato e reso disponibile anche l'atto cui essa si richiama. L'omessa esternazione del percorso giustificativo e dell'iter logico seguito dall'amministrazione determina pertanto l'illegittimità del provvedimento, ed il conseguente dovere del giudice civile di disapplicarlo. La motivazione deve essere esternata chiaramente attraverso espressioni comprensibili, logiche e percepibile all'esterno. Giurisprudenza e dottrina prevalenti hanno peraltro sottolineato la polifunzionalità della motivazione, che assolverebbe a una funzione di garanzia del privato nei confronti dell'operato della pubblica amministrazione, ma che andrebbe soprattutto riconosciuta come fondamentale strumento per l'interpretazione e il controllo sull'esercizio del potere amministrativo, nonché per l'accertamento giudiziale dell'atto conseguente. Su questo sentiero sembra del resto muoversi la stessa interpretazione comunitaria, secondo cui l'obbligo di motivazione risponderebbe alla duplice esigenza di consentire agli interessati di conoscere le giustificazioni del provvedimento adottato, e quindi di difendere i propri diritti, e, dall'altro, di rendere possibile al giudice l'esercizio del suo sindacato sulla legittimità del provvedimento stesso. In sintesi, l'attestazione dell'avvenuto rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza non può emergere se non dalla motivazione dell'atto stesso che garantisce la trasparenza dell'azione amministrativa, rendendola controllabile da parte dell'opinione pubblica, affermando la responsabilizzazione degli organi della P.A. (art. 97 Cost.). Del resto la stessa Corte Costituzionale (sentenza 198/2021) sottolinea come la delimitazione della discrezionalità del Presidente del Consiglio sia stata perseguita attraverso i principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale, ovvero sulla totalità di esso (art. 1 comma 2 D.L. 19/2020). Poiché la proporzionalità deve essere misurata in concreto in base al livello di rischio, l'adozione dell'atto amministrativo nello specifico, troverebbe giustificazione nelle indicazioni fornite dal Comitato Tecnico-Scientifico, a cui il D.L. 19/2020 fa espressamente riferimento per l'adozione delle misure sanitarie. Nell'ipotesi di specie, il DPCM del 03 dicembre 2020 indica tra i presupposti di fatto: "l'evolversi della situazione epidemiologica, il carattere particolarmente diffusivo dell'epidemia e l'incremento di casi sul territorio nazionale; (...) le dimensioni sovranazionali del fenomeno epidemico e l'interessamento di più ambiti sul territorio nazionale". Come da indicazioni del D.L. 19/2020, il DPCM del 3 dicembre 2020 fa espresso riferimento al verbale n. 133 della seduta del 3 dicembre 2020 del Comitato Tecnico Scientifico di cui all'ordinanza del Capo del Dipartimento della protezione civile 3 Febbraio 2020 n. 630 e successive modificazioni e integrazioni. All'interno del Verbale di cui sopra si legge: "il CTS ha ricevuto questa notte dal Ministero della Salute la bozza del DPCM avente ad oggetto l'adozione di nuove misure urgenti di contenimento per l'emergenza COvid-19, efficace dal 4 dicembre 2020 al 15 gennaio 2021, per le valutazioni di competenza del Comitato Tecnico Scientifico. Al riguardo, il CTS valuta congruo l'impianto generale del DPCM relativo all'adozione di ulteriori misure volte al contenimento del contagio dal virus Sars - cov 2 riguardante eminentemente il prossimo periodo natalizio, commisurate all'attuale fase epidemiologia". Nello specifico, l'art. 1 c. 10 lett. gg) DPCM 03.12.2020 disponeva che "le attività dei servizi di ristorazione (fra cui bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie) sono consentite dalle ore 5,00 fino alle ore 18,00; il consumo al tavolo è consentito per un massimo di quattro persone per tavolo, salvo che siano tutti conviventi; dopo le ore 18,00 e' vietato il consumo di cibi e bevande nei luoghi pubblici e aperti al pubblico; resta consentita senza limiti di orario la ristorazione negli alberghi e in altre strutture ricettive limitatamente ai propri clienti, che siano ivi alloggiati; dalle ore 18,00 del 31 dicembre 2020 e fino alle ore 7,00 del 1 gennaio 2021, la ristorazione negli alberghi e in altre strutture ricettive e' consentita solo con servizio in camera; resta sempre consentita la ristorazione con consegna a domicilio nel rispetto delle norme igienico-sanitarie sia per l'attività di confezionamento che di trasporto, nonché fino alle ore 22,00 la ristorazione con asporto, con divieto di consumazione sul posto o nelle adiacenze; le attività di cui al primo periodo restano consentite a condizione che le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano abbiano preventivamente accertato la compatibilità dello svolgimento delle suddette attività con l'andamento della situazione epidemiologica nei propri territori e che individuino i protocolli o le linee guida applicabili idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio nel settore di riferimento o in settori analoghi; detti protocolli o linee guida sono adottati dalle regioni o dalla Conferenza delle regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano nel rispetto dei principi contenuti nei protocolli o nelle linee guida nazionali e comunque in coerenza con i criteri di cui all'allegato 10; continuano a essere consentite le attività delle mense e del catering continuativo su base contrattuale, che garantiscono la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro, nei limiti e alle condizioni di cui al periodo precedente"; alla lettera hh) era inoltre previsto che "restano comunque aperti gli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande siti nelle aree di servizio e rifornimento carburante situate lungo le autostrade, gli itinerari europei E45 e E55, negli ospedali e negli aeroporti, nei porti e negli interporti con obbligo di assicurare in ogni caso il rispetto della distanza interpersonale di almeno un metro". Ora, né dalla parte introduttiva del DPCM in commento, né dal Verbale del CTS emergono specifiche indicazioni sulla gravità ed incidenza della diffusione del virus tali da rendere congrue, proporzionate ed adeguate le misure adottate. L'attività comparativa svolta, comportando la compressione di diritti costituzionalmente garantiti, necessitava di un adeguato impianto giustificativo, soprattutto nel momento in cui le decisioni adottate dal DPCM del 3 dicembre 2020 determinavano una modifica delle disposizioni precedentemente adottate, che consentivano senza limitazioni di orario e di luogo lo svolgimento dell'attività di ristorazione, non differenziando ad esempio il ristorante dalle aree di servizio. In tal caso, la precisa differenziazione, all'interno delle disposizioni richiamate, tra le attività consentite e non consentite, nonché l'identificazione della fascia oraria consentita per lo svolgimento dell'attività di ristorazione, si traduce in una precisa scelta da parte dell'Amministrazione che avrebbe dovuto essere supportata da dati scientifici precisi, nonché da spiegazioni tecniche in relazione al maggior rischio di diffusione del contagio nelle attività e negli orari non consentiti. Nessuna indicazione è stata fornita sul punto, se non tramite generici riferimenti "all'evolversi della situazione epidemiologica" ed "alla congruità delle misure adottate". In altri termini, la specificità delle misure adottate non si rivela congrua e logica rispetto alla genericità dei presupposti addotti, privi di specifiche indicazioni di rischio, sia dal punto di vista sanitario che tecnico. Neppure erano state indicate le ragioni per le quali quelle (precedenti) misure restrittive in vigore che elencavano minuziosamente le cautele da osservarsi nell'esercizio dell'attività di ristorazione, non erano ritenute più idonee a prevenire il contagio, tanto da aver determinato la chiusura delle attività. Ne consegue l'illegittimità del DPCM, sia che lo si intenda assimilare alla tipologia dell'ordinanza contingibile ed urgente, sia che lo si voglia piuttosto assimilare alla tipologia dell'atto amministrativo necessitato, non risultando esplicitato, neanche tramite l'istituto della motivazione per relationem, i presupposti di fatto, nonché le ragioni tecnico-scientifiche poste a fondamento dell'adozione delle misure prescelte. In proposito, non può ritenersi utile allo scopo il richiamo al verbale n. 133 della seduta del 3 dicembre 2020 del Comitato Tecnico Scientifico di cui all'ordinanza del Capo del Dipartimento della protezione civile 3 Febbraio 2020 n. 630 e successive modificazioni e integrazioni, in quanto, all'interno del verbale suddetto altro non è dato leggere se non una valutazione di "congruità" in ordine alle misure adottate con il DPCM qui in commento, per contenere il contagio, rapportate all'imminente periodo natalizio e alla fase epidemiologica in essere. Il tutto senza alcuna specificazione che tenesse conto ad esempio dello specifico livello di contagiosità al momento dell'adozione del DPCM, in relazione alle attività fino a quel momento autorizzate e consentite; della probabile curva di contagio prevista per l'imminenza delle festività, sulla base della diffusività del virus e delle restrizioni che si andavano ad introdurre; senza alcuna specificazione delle motivazioni tecnico scientifiche per le quali veniva prevista una regolamentazione differenziata per la medesima attività di ristorazione (ad esempio ristoranti per i quali veniva introdotto il limite orario di esercizio dalla ore 5.00 alle ore 18.00, ed aree di servizio in cui veniva svolto il servizio di somministrazione di alimenti e bevande senza limitazioni di orario, e ancora, le strutture alberghiere nelle quali era ammesso per la propria clientela il medesimo servizio di ristorazione senza previsione di alcun limite di orario - articolo 1 comma 10 lettere gg) e hh) DPCM 3.12.2020). Si intende dire che ogni valutazione contenuta nel DPCM deve ritenersi sia mancante di riferimenti specifici utili a giustificare (rectius motivare) l'adozione di un siffatto strumento che, avrebbe imposto la previsione di una motivazione specifica, non soddisfatta da un generico riferimento ai Verbali del Comitato tecnico-scientifico (Cts); Verbali che il governo stesso, non si dimentichi, aveva classificato come "riservati" o "secretati. Proprio l'insufficienza e l'incompletezza di motivazione nei termini anzidetti che è dato ravvisare nel DPCM 3.12.2020, determina l'impossibilità di ritenere rispettati i parametri di proporzionalità e adeguatezza previsti dall'art.2 comma 1 D.L.19/2020, e autorizza la disapplicazione da parte del giudice ordinario nell'esercizio del potere derivante dall'art.5 della legge n. 2248 del 1865 Allegato E), ed il conseguente annullamento dell'ordinanza ingiunzione qui opposta. Ogni altra questione assorbita. La peculiare natura della controversia meramente interpretativa e la novità della questione giustificano l'integrale compensazione tra le parti delle spese di lite. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, nella causa iscritta al n. 1711/2021 di R.G. ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: in accoglimento del ricorso in opposizione proposto, previa disapplicazione del DPCM 3.12.2020, annulla l'Ordinanza di Ingiunzione - Prot. Uscita n. 3889/2021 del 07.06.2021, emessa dall'Ufficio Territoriale del Governo di Pesaro e Urbino; spese compensate. Così deciso in Pesaro il 17 febbraio 2022. Depositata in Cancelleria il 17 febbraio 2022.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI PESARO PRIMA SEZIONE Il Tribunale, nella persona del Giudice (...) ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. promossa da: (...), (C.F. (...)) con il patrocinio dell'avv. MA.MA. presso il cui studio in P.LE (...) PESARO elegge domicilio RICORRENTE contro (...), con il patrocinio dell'avv. (...) presso il cui studio in via (...) elegge domicilio RESISTENTE ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO A BASE DELLA DECISIONE (...) conveniva in giudizio (...) avanti al Tribunale di Pesaro per sentirsi accertare l'invalidità ex artt. 1283, 1284 c.c. ed ex art. 117 TUB degli interessi pattuiti ed applicali al contratto di mutuo stipulato con la convenuta, nonché l'usurarietà degli stessi. L'attrice inoltre instava per la ripetizione delle somme indebitamente versate e la condanna della convenuta al risarcimento per condotta contraria a buona fede contrattuale. A tal fine l'attrice esponeva che, in data 20.03.2007, si era accollata parte di mutuo ipotecario originariamente sottoscritto in data 13.04.2006 dalla parte venditrice ((...) con (...)), per l'originario importo di Euro 260.000,00. In data 20.03.2007, le parti modificavano parzialmente le condizioni economiche dell'originario rapporto, in particolare venivano modificati il tasso corrispettivo e la durata dell'ammortamento. In ragione di esso ed a parziale soddisfacimento del prezzo di vendita, veniva erogata dall'istituto di credito la somma di Euro 244.243,33. Contestualmente alla sottoscrizione di tale rapporto veniva imposto alla cliente la stipula di contratto di conto corrente ordinario (...) dove venivano addebitate le rate mensili del mutuo. Veniva altresì pretesa la sottoscrizione di una polizza assicurativa (Polizza n. (...) nonché la sottoscrizione di una fideiussione specifica limitata (per Euro 244.243,00) a carico della Sig.ra (...) madre della parte mutuataria. Con due successivi versamenti, la Sig.ra (...) riduceva parzialmente il debito contratto con l'istituto bancario, in particolare in data 21/01/2008 (per Euro 135.000,00) ed in data 29/07/2008 (per Euro 19.000,00). I suindicati rapporti (mutuo, c/c e polizza assicurativa) si estinguevano in data 22/06/2009, in quanto la Sig.ra (...) decideva di aderire alle agevolazioni di cui al D.L. 07/2007 (c.d. Decreto Bersani), al fine di ridurre il carico economico imposto da (...). In data 26.01.2015 l'attrice contestava l'operato dell'istituto e chiedeva ex art. 119 TUB tutta la documentazione necessaria afferente al rapporto di mutuo, senza ottenere riscontro. L'attrice lamentava la violazione dell'art. 117 comma 6 TUB per mancanza dell'indicazione del TAEG nel contratto, e pertanto instava per l'applicazione della relativa sanzione, con l'utilizzo dei tassi BOT. La parte attrice asseriva inoltre che il TAE al netto delle spese (5,316%) era superiore al TAN dichiaralo in contralto (5,191%). L'attrice inoltre riferiva che nel contratto di mutuo erano presenti condizioni usurane. In particolare l'applicazione della percentuale per estinzione anticipata, mediante addebito di una commissione omnicomprensiva, pari ad una percentuale del 1,00% del capitale rimborsato, comportava il superamento del tasso soglia di usura; inoltre anche il lasso di mora applicato al rapporto si rivelava superiore al tasso soglia di usura individuati dal Ministero di Economia, in violazione dell'art. 1815 2 c.. Inoltre la parte attrice riferiva che nel contralto di mutuo era stato pattuito il metodo di ammortamento alla francese, in violazione dell'art. 1283 c.c. ovvero della capitalizzazione composta degli interessi. La parte attrice riferiva inoltre che il contratto era vizialo da illegalità ed indeterminatezza perché ancorato ad un parametro di riferimento (Euribor) che è stato dichiarato illegittimo per le pattuizioni relative agli anni 2005-2008, dalla decisione della Commissione Europea del 04.12.2013, a seguito di un accordo di cartello finalizzato a manipolare l'Euribor. Pertanto, in conseguenza delle plurime violazioni perpetrate dall'istituto di credito, l'attrice instava per l'accertamento della violazione della buona fede contrattuale ed il conseguente risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, da calcolarsi su tutti gli importi eliminati per effetto dell'applicazione dell'art. 1815 II c. c.c., 117 TUB e 1346 c.c.. Si costituiva ritualmente in giudizio la parte convenuta, la quale chiedeva il rigetto della domanda in quanto infondata in fatto ed in diritto. Preliminarmente la Banca convenuta eccepiva la propria carenza di legittimazione passiva. L'istituto di credito riferiva che l'estinzione del mutuo, stipulato con (...), era avvenuta in data 22.06.2009. mentre con provvedimento del 22.11.2015 la Banca d'Italia aveva disposto la cessione, senza soluzione di continuità, di tutti i diritti, le attività e le passività, ivi compresi i rapporti contrattuali stipulati da (...) a favore di (...) il quale poi aveva modificato la propria denominazione sociale in (...) e poi si era fusa per incorporazione nella capogruppo (...) con effetto dal 23.10.2017). Pertanto il rapporto controverso era stato estinto prima dell'avvenuta cessione, rendendo impossibile il subentro nella titolarità dei contratti da parte di (...). Inoltre la convenuta asseriva la piena legittimità delle pattuizioni contrattuali, compreso il piano di ammortamento, nonché la loro riferibilità al di sotto della soglia antiusura. La convenuta inoltre riteneva che la penale per estinzione anticipata non dovesse essere ricompresa nel calcolo dei tassi soglia, in quanto con l'estinzione venivano meno per la banca i futuri flussi di cassa originariamente previsti dal contratto, subendo un maggior onere che doveva essere compensato dalle somme aggiuntive ricollegabili all'estinzione della medesima (art. 40 T.U.B.). Inoltre la convenuta deduceva che gli interessi monitori dovevano essere esclusi dal calcolo antiusura, in quanto aventi una funzione risarcitola assimilabile alla clausola penale. La convenuta inoltre affermava che l'eventuale difformità tra l'ISC indicalo in contratto e quello effettivamente praticato dalla Banca, non poteva mai provocare la declaratoria di invalidità dei tassi corrispettivi applicati dall'Istituto di Credito nel corso del rapporto. La causa, istruita con produzioni documentali ed espletamento della CTU tecnico-contabile, era stata posta in decisione all'udienza del, in occasione della quale erano stati concessi i termini di cui all'art. 190 c.p.c. per comparse conclusionali e memorie di replica. La domanda merita di essere parzialmente accolta per le ragioni che di seguito si andranno ad esporre. Va preliminarmente rigettata l'eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dalla difesa di parte convenuta. La questione riguarda essenzialmente l'individuazione del soggetto legittimato a resistere alla domanda, dopo la fusione con l'ente ponte (...), ai sensi del D. Lgs 180/2015. dell'art. 58 T.U.B. e dei provvedimenti emessi dalla Banca d'Italia in attuazione di detta normativa. Dopo l'estinzione del rapporto di mutuo oggetto del giudizio (in data 22.06.2009), è stato dato avvio alla risoluzione di (...) in amministrazione straordinaria. La Banca d'Italia ha disposto, con la risoluzione del 22.11.2015, la cessione dell'azienda di parte della (...) S.p.A., in risoluzione, all'ente ponte "(...)", ai sensi dell'art. 43, comma I lett. b) del D. Lgs 16 Novembre 2015, n. 180. La normativa applicabile, desumibile dall'art. 58 TUB e dal D.Lgs. 180/2015, prevede il trasferimento delle passività al cessionario, e non la semplice aggiunta della responsabilità di quest'ultimo a quella del cedente, in deroga pertanto alla disciplina generale di cui all'art. 2560 c.c.. La successione dell'ente-ponte non può essere intesa quale successione lout-court, in qualsiasi rapporto afferente l'azienda ceduta. Infatti, ai sensi dell'art. 43 del D. Lgs. 180/2015 la cessione, in una o più soluzioni ad un ente ponte, ha ad oggetto a) tutte le azioni o altre partecipazioni emesse da uno o più enti sottoposti a risoluzione, o parte di esse; b) tutti i diritti, le attività o le passività, anche individuabili in blocco, di uno i più enti sottoposti a risoluzione, o parte di essi". Quanto ai contratti di mutuo, l'art. 32 del D. Lgs 180/2015 prevede che la Banca d'Italia individui i beni ed i rapporti giuridici da cedere all'ente ponte o alla società ponte o ad una società veicolo per la gestione dell'attività. Poiché quindi secondo il sistema del d. lgs. 180/2015 sono stati trasferiti "tutti i diritti, le attività e le passività costituenti l'azienda bancaria della banca in risoluzione", è possibile affermare che in esse siano ricomprese anche le passività corrispondenti ad obblighi risarcitori dell'emittente derivanti da condotte antecedenti la cessione (Tribunale di Pesaro, sentenza n. 421/2019). Il passaggio al nuovo ente è avvenuto con riferimento alle azioni risarcitone promosse o in essere alla data della cessione. Pertanto con il conferimento di azienda bancaria in cui si fa riferimento a tutti i rapporti attivi e passivi, è possibile ritenere comprese anche tutte le situazioni di soggezione connesse con i rapporti giuridici precedenti. Richiamata la normativa applicabile, è necessaria qualche considerazione ulteriore. L'attrice aveva contestato l'operato della Banca già con missiva del 26.01.2015 (doc. 13 allegato all'atto di citazione in fascicolo dell'attrice), pertanto in data antecedente alla decisione della Banca porre (...) e alla cessione dei crediti verso (...). Non si ignora che parte della giurisprudenza ritenga le azioni risarcitone in essere al tempo della cessione solo quelle già avviate al tempo di apertura della procedura di risoluzione. Pur tuttavia è necessario considerare la complessità degli strumenti di tutela predisposti dall'ordinamento giuridico, alla luce del principio di effettività della tutela giusdizionale (art. 14, 113 Cosi., arti. 19 TUE, 263 Tfue e 6 CEDU). Tale principio impone all'ordinamento di approntare un bagaglio di tutele processuali idonee ad assicurare una protezione pienamente satisfattivi alle situazioni soggettive. Da tempo la Corte di Cassazione considera il principio di effettività della tutela giurisdizionale (Cass. SSUU. n. 26242/2014) come esigenza che la domanda dei consociali debba, per quanto possibile, essere esaminata sempre e preferibilmente nel merito evitando i rigidi formalismi, in virtù del diritto al libero accesso alla giustizia. In materia di contratti bancari il debitore, il quale intenda contestare l'illegittimità o usurarietà delle condizioni contrattuali (in tal caso del mutuo) è onerato in via di fatto dell'adempimento di alcune attività strumentali. Tra queste può essere ricompresa anche la richiesta ex art. 119 TUB c. 4, ai sensi del quale "il cliente (...) ha diritto di ottenere, a proprie spese, entro un congruo termine e comunque non oltre 90 giorni, copia della documentazione inerente le singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni". Tale richiesta è avanzata in fatto in vista della predisposizione dei mezzi di prova necessari ai fini di un'azione del cliente, o chi per lui, contro la banca. Si rammenta che la richiesta documentale viene formulata al fine di poter accedere alla compiuta analisi, contrattuale e tecnico-contabile, del rapporto: l'aver correttamente proposto tale istanza consente infatti - in caso di mancato adempimento da parte della Banca - di chiedere e ottenere, in giudizio, un ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. avente ad oggetto i documenti non consegnati (documenti che nel caso oggetto del giudizio, sono stati consegnati al CTU solo successivamente all'ordinanza del 07.02.2019 contenente l'ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c.). In tal caso l'attrice ha effettuato la richiesta ex art. 119 TUB in data 26.01.2015 per ottenere copia del contralto di mutuo originario e copia del documento di sintesi, ma al precipuo scopo di "richiedere la ripetizione di quanto illegittimamente da Voi incassato in danno della Sig.ra (...)". E chiaro perciò che la richiesta ex art. 119 TUB si rivela attività antecedente, necessaria e strumentale alla contestazione del rapporto di cui agli atti di giudizio. Tanto è vero che in data 11.07.2016 è stata effettuata domanda di attivazione della procedura di mediazione volta all'accertamento dell'illegittimità ed usurarietà degli interessi, competenze, spese e altre remunerazioni extralegali del contralto di mutuo (doc. 11 allegato all'atto di citazione in fascicolo di parte attrice), ovvero le stesse domande proposte nel giudizio corrente. Alla luce di ciò, seppur l'attrice non avesse proposto formalmente l'atto di introduzione del giudizio in epoca antecedente alla cessione, essa ha comunque svolto un'attività contestativa del rapporto, avendo e dovendo necessariamente compiere attività strumentali e funzionalmente connesse all'introduzione del giudizio. Non solo. L'art. 47 c. 7 del D.Lgs. 180/2015 prevede che "salvo quanto è disposto dal Titolo VI, gli azionisti, i titolari di altre partecipazioni o i creditori dell'ente sottoposto a risoluzione e gli altri terzi i cui diritti, attività, o passività non sono oggetto di cessione non possono esercitare pretese sui diritti, sulle attività o sulle passività oggetto della cessione e, nelle cessione disciplinate dalle sottosezioni II e III, nei confronti dei membri degli organi di amministrazione e controllo o dell'alta dirigenza del cessionario". La lettura della norma consente di rilevare che l'azione avverso l'Ente pone è preclusa a coloro che sono titolari di posizione non cedute alla nuova banca, ovvero gli obbligazionisti secondari. Tuttavia la parte attrice non agisce per ottenere il rimborso delle azioni, pacificamente escluso dalla normativa di fine 2015, ma per chiedere la restituzione di somme illegittimamente addebitale dalla banca a titolo di interessi capitalizzati illegittimamente e usurari, a fronte quindi di inadempimenti della banca. Alla lettera della norma non sembra vi siano preclusioni per coloro che facciano valere diritti relativi all'adempimento a contratti stipulati dalla vecchia banca a prescindere dal fatto che siano esauriti (Trib. Ferrara ordinanza del 29.10.2017, per il quale "diversamente si dovrebbe ritenere che i correntisti di Corife (ente ponte) con conto estinto, non possano fare valere avverso l'ente ponte alcuna pretesa inerente somme indebitamente addebitate dalla banca a titolo di interessi capitalizzati illegittimamente, iute l'essi usurari e così via"). Pertanto si ritiene che le attività poste in essere dall'attrice, in particolar modo la richiesta ex art. 119 TUB, nonché l'attivazione della domanda di mediazione, in quanto attività preordinate alla tutela giurisdizionale, si rivelino idonee ad identificare il rapporto in causa quale passività contestata ceduta ai sensi del D. Lgs. 180/2015. La disamina delle altre questioni e domande poste dall'attrice presuppone l'analisi della CTU tecnico-contabile disposta in corso di causa (cfr. CTU a firma dott.ssa (...) in atti allegata) i cui esili in quanto sorretti da motivazione immune di vizi logici, meritano di essere qui condivisi. La CTU ha ricostruito i rapporti intercorrenti tra le parti come segue: "Con atto di compravendita immobiliare del 20.03.2007 a rogito del Notaio Dott. (...) di Pesaro, rep. (...) raccolta (...) la Sig.ra (...) acquistalo dalla società (...) un fabbricato di civile abitazione il cui prezzo di vendita è stato parzialmente corrisposto tramite l'accollo del debito residuo di un mutuo fondiario stipulalo in data 13.04.2006 dalla società cedente con l'allora (...) a cui successivamente è subentrata (...). Alla data del subentro il mutuo risultava in ammortamento ed il debito residuo era pari ad Euro 244.243.33, importo che costituisce quindi l'effettiva somma di denaro che la banca ha concesso nel tempo al finanziato. I successivi atti di rinegoziazione e di riduzione non prevedono infatti l'erogazione di ulteriore finanza" (pag. 7 dell'elaborato peritale). In ordine all'ammontare della sorte capitale e degli interessi di qualsiasi tipo, la CTU ha rilevato che "il piano di ammortamento è stato ricostruito applicando la tecnica del c.d. "anno commerciale ", secondo quanto indicato nel documento di sintesi allegato al contratto di mutuo originario del 13/04/2006 stipulato tra l'allora (...) e la società (...) a rogito del Notaio Dott. (...) rep. (...) - raccolta (...). Si ricorda che la sig.ra (...) è subentrata alla (...) nel mutuo in argomento a seguito di accollo del debito residuo imputato a parziale pagamento Ut un alto di compravendita immobiliare meglio esposto nel paragrafo meglio esposto nel paragrafo che precede. Il ricalcolo sopra esposto ha ad oggetto il piano di ammortamento originario ed è stato sviluppalo sulla base delle pattuizioni contrattuali. La sottoscritta ha inoltre sviluppalo un secondo conteggio, basato sui pagamenti concretamente effettuati dal mutuatario. La sottoscritta ha quindi ricostruito il piano di ammortamento effettivo, sulla base della documentazione agli atti e di quella ulteriore consegnata dalla banca convenuta a seguito di ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., riscontrando che gli interessi debitori complessivamente addebitati da parte della banca ammontano ad Euro 19.082,98 -, dei quali Euro 19.081,06 - a titolo di interessi corrispettivi ed Euro 1,92 - di interessi monitori (ALLEGATO "D"). Gli interessi di mora sono stati calcolati solamente sulla rata n. 11 (pagata in data 08/02/2008, in ritardo rispetto alla scadenza prevista per il 31/01/2008) e sono stati determinati ad un tasso dell'8,073%, pari al tasso nominale debitore vigente in quel periodo maggiorato di due punti percentuali, come previsto dal contratto" (pag. 8 dell'elaborato peritale). La CTU ha poi verificato la corrispondenza tra gli interessi convenzionali conglobati in ciascuna rata, di cui al piano di ammortamento, con la misura contrattualmente pattuita. In particolare è stata riscontrata "la piena rispondenza tra il piano di ammortamento in atti e gli interessi calcolati sulla base delle pattuizioni contrattuali, (...) tanto con riferimento agli interessi corrispettivi che a quelli moratori. Si registrano alcune discrepanze di pochi centesimi (Euro 0,34) di punto percentuali tra i tassi da applicare e quelli applicali. Questo potrebbe derivare dalla diversa fonte presso cui la sottoscritta ha reperito la serie storica del parametro variabile di riferimento (media mensile dell'Euribor lettera 6 mesi relativa al mese precedente). Le divergenze sono in ogni caso risibili e non tali da generare differenze apprezzabili. Per questo motivo la sottoscritta riscontra la sostanziale conformità" (pag. 9 dell'elaborato peritale). In ordine al regime di capitalizzazione applicato dalla convenuta durante l'ammortamento la CTU ha potuto rilevare che "lo stesso è strutturato sulla base del noto metodo di ammortamento c.d. "alla francese", incardinato sul regime di capitalizzazione composta degli interessi. Nel mutuo con piano di ammortamento alla francese non esiste una vera e propria operazione di capitalizzazione, la quale avviene in modo implicito ed è inglobata nell'ammontare di ciascuna rata. In particolare si ritiene che la capitalizzazione degli interessi avvenga per effetto dell'imputazione dei pagamenti prima agli interessi e solo sussidiariamente al capitale, circostanza che in termini di effetti finanziari, consente lo stesso risultato di una operazione di capitalizzazione degli interessi". In tal caso, rispetto all'eventuale presenza di una clausola contrattuale che preveda il pagamento di interessi sul debito residuo di volta in volta in essere, la CTU ha riscontrato a pag. 11 dell'elaborato quanto segue: "l'art. 14 del capitolato allegato al contratto di mutuo originario del 13.04.2006 rubricalo IMPUTAZIONE DEI PAGAMENTI E PAGAMENTI EFFETTUATI DA TERZI prevede che "qualunque somma pagala alla Banca da Parte Mutuatario, o da terzi, verrà imputata al pagamento delle spese di qualsiasi natura, comprese quelle giudiziali e irripetibili, nonché all'eventuale rimorso dei premi di assicurazione e di quant'altro fosse stato pagalo dalla Banca per conto della Parte Mutuataria; quindi, per ogni rata scaduta, a partire da quella più antica, al regolamento degli interessi di mora, degli accessori, degli interessi ordinari ed infine alla restituzione dei capitale mutualo, e ciò salvo che la Banca ritenga di adottare un diverso ordine di imputazione". Nell'atto modificativo stipulato in deità 20.03.2007 a rogito del Notaio (...) le parti hanno pattuito che gli interessi devono essere computati sulla somma di capitale gradualmente residua". La CTU ha ritenuto che il criterio di ammortamento alla francese consenta lo stesso risultato di una operazione di capitalizzazione degli interessi, generando così un effetto implicito ed occulto di anatocismo in violazione dell'art. 1283 c.c.. La CTU per annullare gli effetti della capitalizzazione composta, a modifica del predetto criterio di imputazione, ha applicato un regime di capitalizzazione semplice, rielaborando il piano di ammortamento. È stata inoltre riscontrata dalla CTU una violazione dell'art. 117 c. 4 TUB. La norma prevede che "i contratti indicano il tasso d'interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora". In tal caso, nel contratto di mutuo, la CTU ha rilevato la mancala indicazione del T.A.E.G. (pag. 17 elaboralo peritale). La CTU ha pertanto rielaborato il piano di ammortamento del mutuo secondo quanto disposto dall'art. 117 comma 7 T.U.B. nella formulazione vigente all'epoca della stipula del contratto, e quindi sostituendo il tasso di interesse debitore contrattualmente pattuito con "il tasso nominale minimo e quello massimo dei buoni ordinari del tesoro annuali o di altri titoli similari eventualmente indicati dal Ministero dell'Economia e delle Finanze, emessi nei dodici mesi precedenti la conclusione del contrailo, rispettivamente per le operazioni attive e per quelle passive". Dopo aver effettuato il ricalcolo, la CTU ha effettuato un secondo conteggio, basato sui pagamenti concretamene effettuati dal mutuatario. "Quanto al piano di ammortamento aggiornalo, la rettifica del criterio di capitalizzazione (da composta a semplice) e la sostituzione dei lassi di interesse (con il rendimento minimo dei Bot) avrebbe generalo minori oneri per il cliente per un ammontare complessivo di Euro 8.919,95" (pag. 13 dell'elaborato peritale). La domanda volta all'accertamento dell'usurarietà degli interessi pattuiti ed applicati al rapporto in causa non può essere accolta. La CTU, per verificare l'eventuale presenza di usura originaria, ha provveduto ad effettuare il calcolo per la determinazione del TEG secondo la formula contenuta nelle Istruzioni per la rilevazione dei Tassi effettivi globali medi ai sensi della legge sull'usura emanate dalla Banca d'Italia e al raffronto alla soglia di usura vigente all'epoca della stipula del contratto. Il T.E.G. rilevato è di 5,320571%, mentre la vigente soglia di usura al tempo della conclusione del contratto, ai sensi dell'art. 2, comma 4 legge 108/96 era pari a 7,65%. La CTU non ha rilevato infrazioni della soglia di usura (pag. 15 dell'elaborato). La CTU ha poi verificato l'eventuale usura originaria con riferimento al tasso di mora pattuito. La CTU, come richiesto dal quesito, ha effettuato le rilevazioni in ossequio alle Istruzioni della Banca d'Italia, in particolare alle Note di chiarimenti del 03.07.2013, secondo cui: "Gli interessi di mora sono esclusi dal calcolo del TEG, perché non sono dovuti dal momento dell'erogazione del credito ma solo a seguito di un eventuale inadempimento da parie del cliente. L'esclusione evita di considerare nella media operazioni con andamento anomalo. Infatti, essendo gli interessi monitori più alti, per compensare la banca del mancato adempimento, se inclusi nel TEG medio potrebbero determinare un eccessivo innalzamento delle soglie, in danno della clientela. Tale impostazione è coerente con la disciplina comunitaria sul credito al consumo che esclude dal calcolo del TAEG (Tasso Annuo Effettivo Globale) le somme pagate per l'inadempimento di un qualsiasi obbligo contrattuale, inclusi gli interessi di mora. L'esclusione degli interessi di mora dalle soglie è sottolineata nei Decreti trimestrali del Ministero dell'Economia e delle Finanze i quali specificano che "i tassi effettivi globali medi (...) non sono comprensivi degli interessi di mora contrattualmente previsti per i casi di ritardato pagamento". In ogni caso, anche gli interessi di mora sono soggetti alla normativa anti-usura. Per evitare il confronto tra tassi disomogenei (TEG applicato al singolo cliente, comprensivo della mora effettivamente pagata, e tasso soglia che esclude la mora), i Decreti trimestrali riportano i risultati di un'indagine per cui "la maggiorazione stabilita contrattualmente per i casi di ritardato pagamento è mediamente pari a 2,1 punti percentuali". In assenza di una previsione legislativa che determini una specifica soglia in presenza di interessi mora tori, la Banca d'Italia adotta, nei suoi controlli sulle procedure degli intermediari, il criterio in base al quale i TEG medi pubblicati sono aumentati di 2,1 punti per poi determinare la soglia su tale importo (cfr. paragrafo 1)". La modalità appena descritta risulta peraltro in linea con l'orientamento espresso dalle SS.UU. 19597/2020. Le Sezioni Unite, con riferimento all'individuazione dei tassi soglia per l'accertamento dell'usurarietà degli interessi di mora, hanno ritenuto che "la disciplina antiusura intende sanzionare la pattuizione di interessi eccessivi, convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma altresì degli interessi monitori, che sono comunque convenuti e costituiscono un possibile debito per il finanziato; la mancata indicazione, nell'ambito del T.e.g.m. degli interessi di mora mediamente applicati non preclude l'applicazione dei decreti ministeriali de quibus, ove essi ne contengano la rilevazione statistica". La CTU non ha rilevato infrazioni della soglia di usura (pag. 17 dell'elaborato). La CTU ha da ultimo escluso l'eventuale usurarietà del Tasso Effettivo di Estinzione Anticipata. In particolare il T.E.E.A. del finanziamento del contratto agli alti di causa è stato rilevato nella misura del 6,03%, valore che "rispetta la vigente soglia di usura, sia con riferimento all'origine del rapporto che al suo svolgimento. (...) la soglia di usura non è mai scesa al di sotto del 6,03% ed in particolare il valore minimo per il periodo di osservazione è del 6,870% e si registra nel trimestre 01/04 - 30/06/2009. La sottoscritta conclude pertanto che gli oneri di estinzione anticipala non hanno comportato per il mutuatario un aggravio di costi tale da rendere il finanziamento usurario" (pag. 18 dell'elaborato peritale). Le spese processuali, liquidate in aderenza al D.M. 55/2014 come aggiornalo e modificato dal D.M. 37/2018 seguono la parziale soccombenza reciproca. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando nella causa iscritta al n. (...) di R.G., ogni altra eccezione disattesa o assorbita così dispone: - Accoglie parzialmente la domanda limitatamente all'accertata violazione dell'art. 1283 c.c. e 117 T.U.B. da parte della convenuta (...) di cui al contratto di mutuo n. (...), e per l'effetto condanna la stessa alla restituzione di Euro 8.919,95, quali interessi indebitamente percepiti, che sarà tenuta a pagare oltre agli interessi legali a far data dal deposito della CTU tecnico - contabile (28.02.2020) sino all'effettivo saldo; - Condanna (...) al pagamento nei confronti di (...) di 1/2 delle spese processuali che si liquidano per l'intero in Euro 4.835, oltre iva epa e rimb. Forf, la restante parte si intende compensata. Pone a carico di (...) il pagamento di 1/2 delle spese di CTU come già liquidate in corso di causa, con compensazione del residuo 1/2. Così deciso in Pesaro il 13 ottobre 2021. Depositata in Cancelleria il 16 ottobre 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI PESARO PRIMA SEZIONE Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Flavia Mazzini ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 1378/2019 promossa da: (...) SRL (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. MA.MA. presso il cui studio in VIA (...) 61121 PESARO presso il difensore avv. MA.MA. RICORRENTE contro (...) (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. AN.RO. presso il cui studio in SIDERNO VIA (...) elegge domicilio RESISTENTE Esposizione delle ragioni di fatto e di diritto a base della decisione In data 09.07.2018 l'azienda (...) s.r.l. - che svolgeva attività di fabbricazione e interlocuzione di interior design per case di riposo - ordinava alla ditta individuale (...) - produttrice di articoli ortopedico-medicali, tra cui letti removibili per persone con disabilità - la fornitura di n. 84 letti con manovelle e coppie di gambe di cui: - n. 44 reti letto articolato a due manovelle complete di piedi altezza cm. 47/48, con reti corte di 10 cm (in lunghezza), - n. 30 reti letto articolato a due manovelle complete di piedi altezza 47/48 di lunghezza normale, - n. 10 reti letto articolato a due manovelle complete di piedi con predisposizione ruote altezza completa 47/48. La ditta fornitrice provvedeva a consegnare tale fornitura in data 24-25.09.2018, emettendo regolare fattura di pagamento n. (...) (DDT nn. 000538/18 del 24.09.2018 e 000539/18 del 25.9.18) per un importo complessivo Euro 15.572,08 IVA inclusa, con scadenza di pagamento prevista per il 10 dicembre 2018. A seguito del mancato pagamento da parte dell'azienda (...) s.r.l., in data 11.12.2018 la ditta (...) provvedeva a sollecitarne l'adempimento. Data la persistente insolvenza, in data 12.02.2019 la ditta (...) inviava alla stessa formale diffida ad adempiere a mezzo PEC al fine di chiedere il pagamento del summenzionato importo dovuto, unitamente alla restituzione di n. 54 tubi manovelle e n. 75 canotti per manovelle - giuste DDT n. 000614/2018 del 24.10.2018 e DDT n. 000684/2018 del 27.11.2018 - per un valore complessivo di Euro 2.800,00 IVA inclusa, importo maggiorato dell'ulteriore somma di Euro 600,00 "determinata forfettariamente e senza pregiudizio, a titolo di interessi moratori e competenze legali", per un totale complessivo di Euro 18.972,08, con scadenza di pagamento nel termine perentorio di 15 giorni dal ricevimento della presente. A tale diffida seguiva PEC di risposta dell'azienda (...) s.r.l., con la quale denunciava una serie di problemi riscontrati da alcune case di riposo, sue clienti, che lamentavano o il distacco dalle reti letto del blocco schienale con conseguente caduta degli anziani che si trovavano sopra, o la eccessiva lunghezza delle manovelle rispetto alla pediera del letto. A dette contestazioni la ditta (...) rispondeva inviando delle "boccole" nuove da sostituire - ad opera dell'azienda compratrice - con quelle presenti. Seguivano ulteriori segnalazioni in conseguenza delle quali in data 17.01.2019 la ditta (...) provvedeva ad eseguire interventi di ripristino in due strutture clienti dell'azienda (...) s.r.l., La (...) s.r.l. in P. S. E. (F.) e (...) s.r.l. in C. (A.). Interventi durante i quali su alcuni letti la ditta (...) riscontrava l'utilizzo, per l'accoppiamento al telaio dei semi-telai, di "boccole in polipropilene che ad una verifica preliminare sono risultate, probabilmente, stampate con materiale di mescola differente dallo standard utilizzato per le abituali produzioni (NEVIPROP 040 TL40-Polipropilene omopolimero caricato a talco)", cui provvedeva ad ovviare sostituendo, in via cautelativa, "tutte le boccole e le relative viti di fissaggio sui letti". La ditta (...), inoltre, suggeriva all'azienda (...) s.r.l. di non effettuare la consegna dei letti ancora giacenti presso i loro magazzini potendo anch'essi contenere "bussole di materiale non conforme, partita difettosa riconducibile solo all'ultima fornitura del settembre 2018 (DDT 538 e 539)", e prestava la propria disponibilità a ritirare a proprio mezzo il materiale giacente presso i magazzini dell'azienda stessa. In data 13.03.2019, la ditta (...) depositava ricorso per decreto ingiuntivo ex artt. 633-642 ss. c.p.c. per chiedere l'ingiunzione avverso la società (...) s.r.l. di pagamento degli importi di cui asseriva essere creditrice relativamente alla fattura n. (...) per somma complessiva di Euro 15.572,08 IVA inclusa, oltre interessi, oneri, accessori e spese legali. Il Tribunale di Pesaro accoglieva il procedimento monitorio presentato - ritenendo suddetto credito "certo, liquido ed esigibile" - e ingiungeva alla società (...) s.r.l. di pagare detta somma nel termine di 40 giorni, unitamente al pagamento delle spese legali liquidate per la procedura monitoria pari ad Euro 540,00 per onorari ed Euro 145,50 per esborsi, oltre spese generali, iva cpa ed oltre alle successive occorrende (decreto ingiuntivo n. 275/2019, N. 692/2019 R.G.). Avverso il predetto decreto ingiuntivo, notificato via PEC in data 08.04.2019, la società (...) s.r.l. proponeva opposizione - contenente anche domanda riconvenzionale - sulla base di molteplici punti. Un primo motivo si basava sulla eccezione di nullità della notifica del decreto ingiuntivo n. 275/2019 ritenuto inefficace in quanto la notifica era stata eseguita via PEC tramite indirizzo estratto dall'Indice Nazionale degli indirizzi PEC delle imprese e dei professionisti (INI-PEC). In secondo luogo, parte attrice assumeva di aver subìto dalla ditta (...) una grave forma di inadempimento contrattuale a seguito dei problemi riscontrati sulla merce da essa fornita e di cui aveva ricevuto contestazioni - tanto con riferimento a suddetta fornitura quanto a forniture precedenti - da parte di alcune sue clienti relativamente alla maggiore ed eccessiva lunghezza delle manovelle poste nella pediera del letto: - la casa di riposo Comune di Castel del Giudice (IS), alla quale venivano consegnati in data 26.09.2018 n. 10 reti letto, - la casa di riposo (...) s.r.l. di M. (P.), alla quale venivano consegnati in data 26.10.2018 n. 44 reti letto, - una casa di riposo di Pomezia (RM). Affermava inoltre che l'inottemperanza contrattuale fosse aggravata dal mancato - seppur richiesto - intervento della ditta (...), la quale provvedeva al solo invio della merce di lunghezza corretta, alla cui sostituzione l'azienda (...) s.r.l. aveva dovuto provvedere da sé e a proprie spese, mediante il lavoro dei propri operai recatisi personalmente nelle case di riposo, cui però, non essendo riuscita detta sostituzione, seguiva il necessario l'intervento della ditta (...) a tal fine. Parte attrice sosteneva dunque di aver subìto gravi danni economici e all'immagine e nello specifico lamentava un danno patrimoniale pari a complessivi Euro 17.216,67 di cui: - Euro 3.666,67 di danno emergente, costituito dalle spese di trasferte ed interventi effettuati dagli operai della società attrice presso le strutture; - Euro 13.550,00 di lucro cessante, rappresentato dal guadagno che parte attrice avrebbe avuto se l'adempimento fosse stato correttamente eseguito, e calcolato considerando le commesse perse da due case di riposo (ordine di n. 50 letti, con costo cadauno di Euro 271,00). In particolare, parte attrice assumeva che la ditta (...) avesse venduto merce in violazione dell'art. 1490 c.c. - ai sensi del quale "il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all'utilizzo cui è destinata ovvero ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore" - essendo le reti letto carenti dei dovuti "requisiti di funzionalità, utilità e pregio", e definiva i vizi riscontrati nella merce come vizi occulti - in quanto da essa non noti al momento della stipula della fornitura e non rilevabili utilizzando l'ordinaria diligenza - e giuridicamente rilevanti, "tali da rendere il bene pericoloso all'uso cui è destinato e/o tali da diminuirne il valore". Parte attrice sosteneva, fermo restando l'obbligo del venditore ex art. 1940 c.c. di provare "di aver ignorato senza colpa i vizi della cosa", di poter perseguire un duplice canale di tutela, l'actio aestimatoria - ovverosia, una proporzionale riduzione del prezzo - e l'actio redhibitoria - vale a dire, la risoluzione del contratto - e, quest'ultima poteva essere specificamente domandata ex art. 1497 c.c. "quando la cosa venduta non ha le qualità promesse ovvero quelle essenziali per l'uso a cui è destinata...purché il difetto di qualità ecceda i limiti di tolleranza stabiliti dagli usi". Infine, parte attrice assumeva che il mancato pagamento della fattura n. (...), oggetto del decreto ingiuntivo opposto, fosse conseguenza del succitato inadempimento da parte della ditta (...), e la cui legittimità discendeva dall'eccezione di compensazione di cui all'art. 1460 c.c. proponibile in presenza di vizi o difetti su qualità essenziali e che si configurano come forma di inadempimento inesatto, come quello realizzato da parte convenuta. Ai fini dell'istruttoria, parte attrice richiedeva l'ammissione di una CTU volta a "verificare la conformità della struttura dei letti consegnati alle case di riposo con riguardo agli ingranaggi - boccole e manovelle" - non ammessa dal giudice data la genericità della richiesta - e l'interrogatorio formale del convenuto e prova per testi. Si costituiva in giudizio la ditta individuale (...) contestando l'opposizione de qua, assumendo innanzitutto che la denuncia di parte attrice di supposte varie tipologie di vizi non fosse interamente afferente alla merce di cui alla azionata fattura n. (...) bensì a precedenti forniture intercorse tra le parti, come tali pertanto inammissibili ed irrilevanti ai fini del presente giudizio. Parte convenuta riteneva infondato il richiamo alle garanzie di cui agli artt. 1490 e 1497 c.c.. Innanzitutto assumeva di non aver mai ricevuto l'ordine di manovelle con lunghezza inferiore facendosi esclusivamente richiesta, nell'ordine relativo alla successiva emanata fattura n. (...), di una riduzione di 10 cm delle reti da letto e non di una diversa lunghezza delle manovelle, il che rendeva non provata la sussistenza di tali vizi. Inoltre sosteneva che la variazione di lunghezza delle manovelle accessorie fosse più corretto considerarla quale mero difetto e non come vizio in sé, dal momento che di per sé non è idonea a "privare i letti venduti della propria funzionalità tipica né tantomeno delle loro qualità essenziali". Sosteneva, altresì, la mancata denuncia di parte attrice del lamentato vizio entro otto giorni dalla scoperta ex art. 1495 c.c., non fornendo alcuna documentazione all'uopo idonea a provare la tempestività della denuncia, e ciò in contrasto con i principi dell'onere della prova di cui all'art. 1697 c.c., in forza del quale grava sul compratore l'onere di provare la presenza dei vizi che lamenta. Assumeva poi che parte attrice avrebbe potuto accorgersi della maggior lunghezza delle manovelle al momento della consegna della fornitura mediante il documento di trasporto del 25.09.2018 relativo alla fattura n. (...) in cui è riportata la descrizione del prodotto consegnato, momento a partire dal quale si riteneva dovessero decorrere i termini di decadenza di cui all'art. 1495 c.c.. Parte convenuta sosteneva, d'altra parte, che l'invio da essa operato della merce delle dimensioni richieste non costituiva ammissione del vizio da parte della stessa ma esclusivamente l'assunzione di un comportamento conforme ai canoni di correttezza e buona fede contrattuale di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.. Relativamente all'eccezione di inadempimento sollevata da parte attrice, parte convenuta dichiarava, contrariamente a quanto sostenuto dall'azienda (...) s.r.l. di aver correttamente provveduto ad adempiere la propria prestazione mediante l'invio prima della merce come richiesta e poi dei pezzi in sostituzione. Circa il lamentato danno patrimoniale, parte convenuta sosteneva che il calcolo relativo al danno emergente fosse stato eseguito sommando "le spese di trasferta sostenute da (...) s.r.l. per la riparazione e sostituzione di merce non ricompresa nella fattura opposta nel presente giudizio"; sicché, anche qualora dovesse essere accertata la responsabilità della ditta (...) per i suddetti vizi, la somma richiesta in via riconvenzionale a titolo di danno emergente doveva essere riquantificata considerando esclusivamente gli interventi eseguiti presso le case di riposo cui la merce di cui alla fattura (...) è stata inviata. Infine, relativamente al lucro cessante, riteneva trattasi di acquisizione meramente ipotetica e priva di riscontro documentale prodotto non essendo stato neppure provato il nesso di causalità tra i supposti vizi e la perdita di commesse. L'opposizione al decreto ingiuntivo è infondata e come tale rigettata per le seguenti considerazioni. In primo luogo è da rigettare la sollevata eccezione di nullità della notifica del decreto ingiuntivo eseguita tramite indiritto PEC estratto dall'Indice Nazionale degli Indirizzi PEC (INI-PEC), registro che racchiude gli indirizzi di posta elettronica di professionisti e imprese. Innanzitutto, la posta elettronica certificata (PEC) costituisce lo strumento di interazione del processo civile telematico mediante il quale devono avvenire depositi, comunicazioni e notifiche di cancelleria e notifiche delle parti, di cui ne attesta l'invio e l'avvenuta consegna e ne fornisce ricevute opponibili ai terzi. Invece, il "domicilio digitale" ex art. 1 D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (CAD, Codice amministrazione digitale) è definito "indirizzo elettronico eletto presso un servizio di posta elettronica certificata o un servizio elettronico di recapito certificato qualificato...valido ai fini delle comunicazioni elettroniche aventi valore legale". Tra i soggetti che hanno l'obbligo di dotarsi di domicilio digitale rientrano, insieme alle pubbliche amministrazioni, i professionisti tenuti all'iscrizione in albi e d elenchi e i soggetti tenuti all'iscrizione nel registro delle imprese (art. 3 bis CAD). Tra i pubblici elenchi dai quali è possibile estrarre gli indirizzi PEC è espressamente menzionato il registro INI-PEC che raccoglie gli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti (www.inipec.gov.it). Nel caso di specie, avendo parte convenuta estratto l'indirizzo PEC di parte attrice dal suddetto registro, ne consegue che la notifica del decreto ingiuntivo debba considerarsi valida. D'altra parte, anche qualora l'indirizzo PEC non fosse stato corretto, si ritiene che il principio di cui all'art. 156 co. 3 c.p.c. ai sensi del quale "la nullità non può mai essere pronunciata, se l'atto raggiunge lo scopo a cui è destinato" valga anche per le notificazioni, sicché nel caso de quo, avendo controparte poi proposto opposizione al decreto ingiuntivo oggetto di notifica, si ritiene che essa abbia agito come se l'atto fosse valido. Ciò trova altresì conferma nell'orientamento della Cassazione, secondo la quale "L'irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna dello stesso ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza e determinato così il raggiungimento dello scopo legale" (Cass. Sez. U, Sentenza n. 23620 del 28/09/2018, Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 3805 del 16/02/2018). Cica la grave inottemperanza contrattuale che parte attrice afferma di aver subìto dalla ditta (...) necessita una prima specificazione relativa alle contestazioni mosse dalle clienti strutture. Difatti, parte attrice sosteneva che la grave inadempienza subìto riguardasse tanto la eccessiva lunghezza delle manovelle poste alla base della pediera del letto quanto il malfunzionamento delle "boccole". Quest'ultima contestazione, tuttavia, attiene a rapporti commerciali diversi - se non addirittura antecedenti - a quelli di cui alla fattura azionata n. (...). Ne consegue che l'oggetto del giudizio de quo è costituito dalla sola merce ordinata e consegnata sulla base di suddetta fattura e che ogni doglianza relativa a forniture antecedenti non può trovare trattazione in tale giudizio. Ciò trova conferma nel fatto che parte attrice non ha addotto alcuna prova scritta a riguardo, non potendo il giudice in virtù del principio dispositivo di cui all'art. 115 c.p.c. esprimersi e porre a fondamento della propria decisione prove e documenti non prodotti dalle parti. Parte attrice sosteneva che i vizi di cui risultava affetta la merce fossero dei vizi occulti. Occorre una preliminare considerazione a riguardo. Nella compravendita, si parla di "vizio occulto" quando la cosa presenza difetti intrinseci e materiali, difficilmente eliminabili e tali da incidere sulla utilizzabilità della stessa, rendendola inadeguata all'uso cui è destinata o tale da diminuirne sensibilmente il valore. Il compratore è tenuto a denunciare al venditore la presenza di vizi occulti entro otto giorni dalla scoperta, a pena di decadenza, salvo il contratto disponga diversamente. L'art. 1490 c.c. si giustifica considerando che il compratore ha acquistato un bene immune da vizi sicché in presenza di questi è legittimo il suo diritto di chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo. Tuttavia, detto diritto sussiste qualora i vizi abbiano una certa consistenza e non anche quando le imperfezioni sia lievi o minime: queste, difatti, esulano dal campo della garanzia e ciò in virtù del principio di buona fede di cui all'art. 1176 c.c. che impone al compratore di sopportare i difetti minimi del bene. Nel caso de quo, il vizio lamentato da parte attrice - consistente nella eccessiva lunghezza delle manovelle poste alla base della pediera del letto - attiene ad un pezzo "accessorio" la cui diversa lunghezza non altera la funzionalità cui la merce è preposta potendo ugualmente svolgere lo scopo cui è destinato. Ciò trova conferma nell'orientamento della Corte di Cassazione secondo il quale "Gli artt. 1490 e 1492 del c.c. in tema di azione redibitoria, al pari dell'art. 1497 c.c., vanno interpretati con riferimento al principio generale sancito dall'art. 1455 c.c. con la conseguenza che l'esercizio dell'azione è legittimato soltanto da vizi concretanti un inadempimento di non scarsa importanza, i quali non sono distinti in base a ragioni strutturali, ma solo in funzione della loro capacità di rendere la cosa inidonea all'uso cui era destinata o di diminuirne in modo apprezzabile il valore, secondo un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito" (Cass. civ., Sez. II, sentenza n. 21949 del 25 settembre 2013; ugualmente Cassazione civile, Sez. II, sentenza n. 1424 del 12 febbraio 1994 in cui si afferma che "in tema di compravendita, si hanno vizi redibitori, che danno luogo alla garanzia di cui all'art. 1490 c.c., quando nella cosa venduta sussistono imperfezioni concernenti il processo di produzione, di fabbricazione e di formazione, che rendono la cosa inidonea all'uso al quale è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore, non anche allorché vi siano imperfezioni che lungi dall'interessare la natura della cosa compravenduta, si risolvono in manchevolezze nel tipo del materiale consegnato, da cui deriva soltanto un maggior aggravio per il compratore, per le maggiori spese occorrenti al momento della messa in opera"). Per le considerazioni fin qui svolte si ritiene, pertanto, che il decreto ingiuntivo n. 275/2019 non possa esser dichiarato nullo o inefficace e di confermare la somma in esso portata. In merito alla domanda riconvenzionale proposta da parte attrice - consistente nel riconoscimento del danno patrimoniale subìto e quantificato in Euro 17.216,67 - si ritiene che debba esser parzialmente accolta seppur diversamente quantificata. Difatti, relativamente al lucro cessante, che identifica il profitto che parte attrice non ha potuto conseguire a causa dell'inadempimento altrui, si ritiene che non possa essere riconosciuto nel caso de quo in quanto "Il risarcimento del danno futuro, sia in termini di danno emergente che di lucro cessante, non può compiersi in base ai medesimi criteri di certezza che presiedono alla liquidazione del danno già completamente verificatosi nel momento del giudizio, e deve avvenire secondo un criterio di rilevante probabilità; a tal fine, il rischio concreto di pregiudizio è configurabile come danno futuro ogni volta che l'effettiva diminuzione patrimoniale appaia come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati ed inequivocamente sintomatici di quella probabilità secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto" (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10072 del 27/04/2010). Nel caso di specie, non sussiste alcuna prova documentale che attesti il nesso causale il non corretto adempimento della prestazione e la perdita di guadagno conseguente al venir meno di ordini presi da due delle strutture clienti. Si ritiene d'altra parte risarcibile il danno emergente subìto da parte attrice in quanto documentalmente dimostrato e direttamente collegato alle spese sostenute dalla stessa per far fronte alla sostituzione delle manovelle in un primo tempo non direttamente eseguita da parte convenuta. Tuttavia risulta erronea, in quanto eccessiva, la quantificazione come indicata. Difatti, dall'analisi delle note spese allegate, si evince come la nota spese del 04.09.2018 relativa al sopralluogo effettuato c/o La casa di riposo (...) - P. S'E. (F.) (per un totale di Euro 252,77) non rientri tra le spese sostenute a causa della errata fornitura di cui alla fattura oggetto del decreto ingiuntivo opposto, essendo state sostenute in data antecedente la consegna della fornitura (avvenuta nei giorni 24-25.09.2018) e oltretutto attinenti ad una struttura che, come si deduce dagli atti, non era destinat a alla fornitura medesima; per la medesima motivazione è da escludere dal computo del danno emergente la nota spese del 10.12.2018 per intervento eseguito c/o la casa di risposo F. s.r.l. di C. (A.) (per un totale di Euro 628,24). Ne consegue pertanto che detratte suddette nota spese, la corretta quantificazione del danno emergente risulta pari a complessivi Euro 2.459,16. Riconosciuto che parte convenuta sia creditrice nei confronti di parte attrice della somma portata nel decreto ingiuntivo (pari ad Euro 15.572,08) e riconosciuto altresì il danno emergente subìto da parte attrice come sopra riquantificato, si ritiene di poter operare una parziale compensazione tra i due crediti, in virtù della quale la somma di cui al decreto ingiuntivo risulta rimodulata per complessivi Euro 13.112,92. P.Q.M. Il Tribunale definitivamente pronunciando nella causa iscritta al nr. 1378/2019 di RG ogni altra eccezione disattesa o assorbita così dispone: - rigetta l'opposizione al decreto ingiuntivo; - accoglie parzialmente la proposta domanda riconvenzionale con conseguente riquantificazione del decreto ingiuntivo; - condanna l'azienda (...) s.r.l. al pagamento della somma di Euro13.112,92 a favore della ditta (...); - condanna parte convenuta al pagamento delle spese processuali oltre iva cpa e rimb forf. come previsto per legge per compensi professionali. Così deciso in Pesaro il 13 luglio 2021. Depositata in Cancelleria il 12 agosto 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI PESARO PRIMA SEZIONE Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Flavia Mazzini ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 2600/2019 promossa da: REGIONE MARCHE (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. CO.FR. elettivamente domiciliato in C/O AVV. CA.VA., VIA (...) PESARO APPELLANTE contro (...) (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. MA.DE. presso il cui studio in VIA (...) 61100 PESARO elegge domicilio APPELLATA Esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione La Regione Marche, in persona del Presidente pro-tempore, proponeva appello avverso la sentenza n. 59/2019 emessa dal Giudice di Pace di Pesaro con la quale veniva condannata a rifondere a titolo di risarcimento per danno materiale derivante dal sinistro stradale occorso al sig. (...) la somma di Euro 1.788,91 oltre gli interessi legali e rivalutazione dal giorno del sinistro sino al soddisfo. Il giudizio de quo traeva origine dal seguente accaduto. In data 03.04.2017, intorno le 8.20, lungo la strada Micaloro, sita nel Comune di Pesaro (PU), in direzione Ginestreto-Montelabbate, il veicolo (...) con targa (...)- assicurato con polizza n. (...) presso la (...) Spa - di proprietà e condotto dal sig. (...), impattava con un ungulato che invadeva improvvisamente la sua corsia e, saltando sull'autovettura, causava la frantumazione del parabrezza ed ulteriori danni alla carrozzeria del veicolo. Sul luogo del sinistro interveniva alle ore 9.00 la Polizia Municipale del comune di Pesaro, Gradara e Unione dei Comuni di Pian del Bruscolo - nella persona degli agenti (...) e (...) - che svolgeva gli accertamenti e i rilievi fotografici del caso. Ne veniva redatta relazione di servizio (Prot. N. (...)) nella quale gli agenti dichiaravano di aver trovato l'autoveicolo, spostato rispetto al luogo dell'incidente e "con inequivocabili segni di una recente collisione con un animale" e altresì assumevano le spontanee dichiarazioni del conducente ai sensi dell'art. 350 co. 7 c.p.p. Questi riferiva di aver improvvisamente urtato con un animale - presumibilmente un capriolo - proveniente da sinistra, che impattava lateralmente (vetro conducente) e frontalmente (parabrezza) sulla vettura. Non si riveniva la carcassa dell'animale - essendosi questo, secondo quanto dichiarato dal conducente, dileguato nelle campagne circostanti - ma esclusivamente dei peli dello stesso sulle parti lesionate della vettura, come risulta dai rilievi fotografici eseguiti dalla Polizia Municipale. A seguito dei danni riportati al veicolo, il sig. (...) si rivolgeva all'autocarrozzeria (...) s.r.l.s. per la riparazione degli stessi, la cui quantificazione - come da preventivo eseguito in data 13.04.2017 - risultava di importo pari ad Euro 1.788,91. In data 20.07.2017, il sig. (...) formulava alla Regione Marche una raccomandata a/r contenente la richiesta di risarcimento danni materiali subìti come su quantificati, oltre Euro 200,00 per tale intervento, di cui Euro 30,00 quali spese di istruttoria per la richiesta di accesso agli atti alla Polizia Municipale di Pesaro. Dato l'esito negativo della richiesta, il sig. (...) citava in giudizio, innanzi al Giudice di Pace di Pesaro, la Regione Marche invocandone la responsabilità extracontrattuale per i danni asseritamente subìti in quanto Ente titolare - a decorrere dal 01.04.2016 e sulla base della normativa vigente, in particolare la L.R. n. 13 del 3 aprile 2015 ("Disposizioni per il riordino della funzioni amministrative esercitate dalle Province") con la quale sono state trasferite alcune funzioni alla Regione, tra cui alcune disciplinate dalla L.R. n. 7 del 1995 ("Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell'equilibrio ambientale e disciplina dell'attività venatoria"), dall'art. 44 della L.R. n. 10 del 1999 ("") e dall'art. 7 comma 2, lett. h) della L.R. n. 24 del 1998 ("Disciplina organica dell'esercizio delle funzioni amministrative in materia agro-alimentare, forestale, di caccia e di pesca nel territorio regionale") - dei poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna selvatica ivi insediata. Il sig. (...) riteneva inoltre sussistente in capo alla Regione Marche una condotta colposa ex art. 2043 c.c. per la mancata apposizione - rientrando il tratto di strada ove è avvenuto il sinistro de quo nella zona di ripopolamento e cattura della fauna selvatica in base al piano faunistico venatorio provinciale 2015-2019, e come tale caratterizzato dal frequente attraversamento della fauna selvatica - di accorgimenti tecnici, quali recinzioni lungo la strada, dissuasori olfattivi e/o visivi, illuminazione pubblica, segnaletica stradale di pericolo "animali selvatici vaganti", idonei ad avvertire e ad eliminare il rischio di interferenze della fauna selvatica con la circolazione stradale. Infine, il sig. (...) assumeva la provata sussistenza del nesso causale tra il danno materiale sul veicolo e il sinistro con l'animale selvatico, come da riproduzioni fotografiche della polizia municipale da cui risultano tanto la dinamica del sinistro quanto i danni riportati sul veicolo incidentato. Si costituiva in giudizio la Regione Marche contestando in toto tutto quanto eccepito, dedotto e richiesto dal sig. (...), ritenendo la domanda infondata in fatto ed in diritto e richiedendone il rigetto. Preliminarmente, eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva sull'assunto che l'apposizione della segnaletica di pericolo attraversamento animali selvatici rientrasse, non nella materia della tutela della fauna selvatica bensì, nella materia della viabilità, la cui regolamentazione è contenuta nel D.Lgs. n. 285 del 30 aprile 1992, dal cui art. 14 - disciplinante i poteri ed i compiti del proprietario della strada - emerge come la predisposizione di idonea cartellonistica rientra tra le competenze dell'Ente proprietario della strada, che nel caso de quo non è la Regione bensì il Comune. Nel merito la Regione Marche assumeva il difetto assoluto di prova della condotta colposa o dolosa e del nesso causale tra condotta e danno. In particolare, riteneva che il sig. (...) non avesse fornito un valido supporto probatorio a sostegno dei fatti assunti e della condotta rimproverabile alla Regione, basando la richiesta su mere asserzioni e su una sommaria esposizione degli accadimenti. Inoltre, la Regione Marche contestava tanto la dinamica del sinistro per assenza di testimoni quanto l'entità della somma richiesta a titolo di risarcimento del danno come quantificato nel preventivo di spesa allegato dall'attore - pari ad Euro 1.788,91 - considerandolo sproporzionato e indimostrato, ritenendo che "la mera allegazione del preventivo di riparazione dell'autocarrozzeria non può formare piena prova della riconducibilità certa degli asseriti danni al sinistro de quo". Infine, assumeva il concorso colposo del conducente per guida negligente a carico del quale iscrivere in via esclusiva la responsabilità per i danni occorsi - e solo in via residuale il concorso di colpa -, la cui conferma starebbe nella impossibilità di avvistare ed evitare l'impatto con l'ungulato e l'elevata velocità tenuta dal conducente. Veniva ammessa la prova testimoniale, richiesta da parte attrice, di uno degli agenti della polizia municipale di Pesaro intervenuto per rilevare il sinistro stradale, il sig. (...). Questi dichiarava - rectius, confermava - di aver constatato danni al vetro del parabrezza, cofano anteriore, tetto e porta anteriore, e di aver rinvenuto nelle parti lesionate dell'autovettura la presenza di peli riconducibili ad un animale selvatico; asseriva di poter presumere, "non avendo indicazioni di senso contrario", che il sig. (...) conduceva il veicolo nel rispetto dei limiti di velocità prescritti per la tipologia di strada percorsa e ciò trovava conferma nell'assenza di alcuna sanzione a riguardo; confermava - seppur "non con certezza assoluta" - l'assenza, lungo la corsia di marcia del veicolo, di installazioni stradali di pericolo di attraversamento della fauna selvatica e di strumenti atti ad evitare che animali selvatici attraversino la strada (quali recinzioni, catarinfrangenti, sottopassi o sovrapassi). Infine, dichiarava che, sulla base degli elementi raccolti sul sinistro, fosse plausibile che l'animale venisse dalla parte sinistra rispetto alla direzione di marcia del veicolo urtando così sulla parte laterale (lato conducente) e anteriore/frontale (parabrezza) del veicolo. Il Giudice di Pace di Pesaro si pronunciava con sentenza n. 59/2019 (R.G. n. 1617/2017) con la quale condannava la Regione Marche, in persona del presidente pro-tempore, al pagamento nei confronti di (...) della somma - liquidata forfetariamente e in via equitativa sulla base del preventivo di riparazione dell'autovettura "siccome congruo in relazione ai danni constatati sul veicolo" - di Euro 1.788,91, nonché a rifondere le spese di lite liquidate in Euro 1.325,00 di cui Euro 125,00 per esborsi oltre spese generali forfetarie, fiscali previdenziali. Nel condannare la Regione Marche il Giudice di prime cure premetteva che la risarcibilità del danno cagionato dalla fauna selvatica ai veicoli in circolazione fosse riconosciuta non in base alla presunzione stabilita nell'art. 2052 c.c. ma sulla base dei principi generali della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. anche in tema di onere della prova, richiedendosi, pertanto, "l'individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all'ente pubblico". Il Giudice di Pace indicava la Regione Marche quale soggetto tenuto al risarcimento del danno in oggetto in quanto titolare, a partire dal 01.04.2016, della competenza in materia di caccia e gestione della fauna "con subentro di tutti i rapporti attivi e passivi compreso il contenzioso", per effetto della L. n. 56 del 2014 e della L.R. n. 13 del 2015. Riteneva dimostrate - per il tramite del Rapporto della Polizia Municipale di Pesaro versato in atti - tanto l'esistenza quanto la dinamica del sinistro, oltre che la condotta colpevole della Regione "in nesso di causalità con l'evento dannoso" avendo omesso qualunque intervento cautelativo e di tutela dalla presenza di animali selvatici. Da ultimo, non riteneva sussistente una "responsabilità neppure concorsuale a carico del conducente dell'autovettura" né "una sua velocità non adeguata allo stato dei luoghi". La Regione Marche proponeva appello avverso suindicata sentenza ritenendola erronea ed ingiusta e ne invocava la riforma per molteplici motivi, tendenzialmente coincidenti con i motivi di contestazione assunti in primo grado. Difatti, sollevava eccezione di difetto di legittimazione ovvero infondatezza della domanda assumendo che i fatti oggetto delle allegazioni di controparte attenessero a funzioni e responsabilità dell'ente proprietario della strada o di altro ente. In particolare, la Regione riteneva di non avere alcun potere di intervento e di gestione in materia di gestione della fauna dovendosi invece ritenere sussistente la diversa legittimazione del Comune di Pesaro proprietario della strada, in virtù delle previsioni contenute nell'art. 14 D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 ("Nuovo codice della strada"), che definisce i poteri e i compiti del proprietario della strada, e nell'art. 77 del D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495 ("Regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada"), disciplinante le modalità di apposizione della segnaletica verticale di pericolo per la fauna selvatica, compito che spetterebbe all'Ente proprietario e all'Ente gestore della strada "che ne è altresì custode ai sensi dell'art. 2051 c.c." che, nel caso de quo, non è la Regione. Dunque, parte appellante sosteneva che "l'assenza della segnalazione di pericolo per animali selvatici, che doveva avvenire a cura del Comune di Pesaro, è idonea di per sé ad interrompere il nesso causale con l'evento dannoso, sotto il profilo della colpa rimproverabile alla Regione Marche". In secondo luogo, la Regione Marche sosteneva la erroneità della sentenza per violazione dell'art. 2043 c.c., per mancato accertamento della condotta omissiva colposa della Regione Marche, per violazione dell'art. 115 c.p.c. circa la valutazione delle prove, dell'art. 112 c.p.c. in materia di cognizione giudiziale di fatti non allegati dalle parti e, infine, per violazione di legge in materia di presunzioni ex art. 2727 c.c. Nello specifico, contestava la materialità del fatto per mancanza di prova circa l'evento, la colpa, il nesso e il danno, data l'assenza di testimoni che abbiano assistito al sinistro. In terzo luogo, parte appellante sosteneva la erroneità della sentenza per violazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c. per erronea interpretazione delle risultanze processuali in punto di accertamento del fatto e di nesso eziologico con il danno patrimoniale e non patrimoniale lamentato e per erronea interpretazione delle risultanze processuali in punto di liquidazione del danno lamentato, individuata in base ad una valutazione equitativa. Infine, parte appellante impugnava la sentenza n. 59/2019 sostenendone la erroneità per violazione dell'art. 1227 c.c. in relazione alla omessa pronuncia del concorso colposo del conducente, la cui condotta e velocità, se fossero state prudenti ed adeguate, avrebbero evitato la causazione dell'evento. Si costituiva in giudizio il sig. (...) il quale contestava tutti i motivi di appello di parte appellante riprendendo i motivi del ricorso di primo grado. In particolare, parte appellata assumeva la corretta legittimazione passiva della Regione Marche richiamando tanto la normativa nazionale - L. 22 febbraio 1992, n. 157 - quanto regionale - L.R. n. 7 del 1995, la L. 7 aprile 2014, n. 56 ("Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni"), la L.R. 3 aprile 2015, n. 13 ("Disposizioni per il riordino delle funzioni amministrative esercitate dalle Province"). Parte appellata sosteneva inoltre che il fatto, le modalità di svolgimento del sinistro e la condotta ascrivibile alla Regione fossero state prontamente fornite mediante la riproduzione in giudizio del rapporto di incidente stradale redatto dalla Polizia Municipale di Pesaro intervenuta sul luogo del sinistro de quo e altresì mediante l'assunzione delle dichiarazioni di uno degli agenti, (...). Inoltre, parte appellata evidenziava - come sottolineato anche dal Giudice di pace - le numerose controversie aventi il medesimo oggetto e coinvolgenti la stessa Regione Marche per sinistri verificatisi nel tratto di strada ove è avvenuto il sinistro de quo, affermazioni connotanti la condotta omissiva ascrivibile a parte convenuta e, dunque, fondanti la domanda risarcitoria del sig. (...). L'appello non è fondato e deve, pertanto, essere respinto. Il rigetto dell'eccezione di difetto di legittimazione passiva della Regione Marche trova una preliminare motivazione nella regolamentazione nazionale e regionale. In materia di fauna selvatica, dapprima con la L. 27 dicembre 1977, n. 968 ("Principi generali e disposizioni per la protezione e la tutela della fauna e la disciplina della caccia") e successivamente con la L. 11 febbraio 1992, n. 157 ("Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio"), la fauna selvatica è stata riconosciuta "patrimonio indisponibile dello Stato" la cui tutela avviene - anche in virtù dell'art. 117 Cost. - "nell'interesse della comunità nazionale ed internazionale". Il comma 3 dell'art. 1 della L. n. 157 del 1992 specifica che "Le regioni a statuto ordinario provvedono ad emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie della fauna selvatica in conformità alla presente legge, alle convenzioni internazionali ed alle direttive comunitarie", mentre l'art. 9 comma 1 prevede che "le Regioni esercitano le funzioni amministrative di programmazione e di coordinamento ai fini della pianificazione faunistico-venatoria di cui all'articolo 10 e svolgono i compiti di orientamento, di controllo e sostitutivi previsti dalla presente legge e dagli statuti regionali", attribuendo alle province "le funzioni amministrative in materia di caccia e di protezione della fauna secondo quanto previsto dalla L. 8 giugno 1990, n. 142, che esercitano nel rispetto della presente legge". Inoltre, il D.Lgs. 28 settembre 2000, n. 267, sostitutivo della L. n. 142 del 1990, attribuisce alle Province "le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale" in specifici settori tra cui quello della "protezione della flora e della fauna, parchi e riserve naturali" (lett. e). sulla base della disciplina nazionale, dunque, alle Regioni sono attribuite le funzioni di controllo, gestione e tutela degli animali selvatici con conseguente obbligo positivo di vigilanza degli animali, atto ad evitare che il loro comportamento possa arrecare danni a terzi. In attuazione di tale normativa, la Regione Marche ha provveduto ad emanare la L.R. 5 gennaio 1995, n. 7 ("Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell'equilibrio ambientale e disciplina dell'attività venatoria"), la quale all'art. 1 riconosce alla Regione il compito di tutelare la fauna selvatica "secondo metodi di razionale programmazione dell'utilizzazione del territorio e di uso delle risorse naturali" e di disciplinare "il prelievo venatorio nel rispetto delle tradizioni locali e dell'equilibrio ambientale, nell'ambito delle funzioni ad essa trasferite e nell'osservanza dei principi e delle norme stabiliti dalla L. 11 febbraio 1992, n. 157, dalle direttive comunitarie e dalle convenzioni internazionali". L'art. 2 di suddetta legge disciplina l'"esercizio delle funzioni" ed espressamente attribuisce alla Regione l'esercizio delle "funzioni di indirizzo, coordinamento e controllo", assegnando alle Province le "funzioni amministrative", tra le quali rientrano "la protezione della fauna del proprio territorio" e "la pianificazione e gestione territoriale e faunistica". In materia di risarcimento dei danni prodotti dalla fauna selvatica, l'art. 34 della medesima normativa all'art. 3-bis prevede l'istituzione di un "Fondo regionale per l'indennizzo dei danni causati dalla fauna selvatica alla circolazione stradale nel quale sono iscritte le somme che la Regione provvede a corrispondere ai soggetti coinvolti in incidenti stradali con esemplari di fauna selvatica diversi da quelli di cui alla L.R. 20 febbraio 1995, n. 17 ("Interventi e indennizzi per danni causati al patrimonio zootecnico da specie animali di notevole interesse scientifico e da cani randagi")". Successivamente, con L.R. 3 aprile 2015, n. 13 ("Disposizioni per il riordino delle funzioni amministrative esercitate dalle Province"), si è provveduto al riordino e al trasferimento in capo alla Regione Marche delle "funzioni non fondamentali individuate nelle norme di cui all'allegato A", tra le quali, in materia di caccia, sono indicate specifiche funzioni previste dalla L.R. n. 7 del 1995 in precedenza attribuite alle Province (nello specifico, gli artt. 2, commi 2, 4 e 7; artt. 3, 4, 5; art. 8, commi 4, 5 e 6; art. 9; art. 10, commi 1 e 3; art. 11, commi 3, 4 e 6; art. 12; art. 13, commi 1, 2, 4 e 8; art. 14, commi 1, 3 e 6; art. 16, comma 4; art. 18, comma 6; art. 19; art. 21, commi 1, 2 e 3; art. 23, commi 2, 3 e 5; art. 24, commi 1, e 6; art. 25, commi 2, 2 bis, e 4; art. 26, commi 2 e 3; art. 26 bis, comma 1; art. 27 bis, comma 6; art. 28, commi 1, 3 e 8 ; art. 31, commi 1, 5 e 13; art. 32, commi 2, 4, 5 e 6; art. 33, commi 1 e 5; art. 34 commi 2, 3 bis e 6; art. 36, comma 5; art. 37, commi 1 e 7; art. 38, comma 1; art. 39, comma 1, lett. uu); art. 40, comma 6). Pertanto, la Regione rimane l'ente titolare dei poteri di gestione, tutela e controllo della fauna selvatica, da cui consegue - anche nel caso di incidente stradale provocato da animale selvatico - "l'obbligo di predisporre tutte le misure idonee ad evitare che gli animali selvatici arrechino danni a persone o cose" (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23095 del 16/11/2010; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 13956 del 13/12/1999). Ciò trova conferma in molteplici pronunce della giurisprudenza di legittimità: tra queste, Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 18952 del 31/07/2017 ove si legge "La responsabilità extracontrattuale per danni provocati alla circolazione stradale da animali selvatici va imputata all'ente cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, sia che derivino dalla legge, sia che trovino fonte in una delega o concessione di altro ente"; Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 23151 del 17/09/2019 ove si dichiara "La responsabilità extracontrattuale per i danni provocati da animali selvatici alla circolazione dei veicoli deve essere imputata all'ente, sia esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, ecc., a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, anche in attuazione della L. n. 157 del 1992, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, sia che i poteri di gestione derivino dalla legge, sia che trovino la fonte in una delega o concessione di altro ente "; Cass. Sez. 3 - , Sentenza n. 7969 del 20/04/2020 in cui "Nell'azione di risarcimento del danno cagionato da animali selvatici a norma dell'art. 2052 c.c. la legittimazione passiva spetta in via esclusiva alla Regione, in quanto titolare della competenza normativa in materia di patrimonio faunistico, nonché delle funzioni amministrative di programmazione, di coordinamento e di controllo delle attività di tutela e gestione della fauna selvatica, anche se eventualmente svolte - per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari - da altri enti"; ed anche in Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 8206 del 24/03/2021 ove si riconosce la legittimazione passiva "in via esclusiva alla regione quale ente titolare della competenza normativa in materia di patrimonio faunistico, nonché delle funzioni amministrative concernenti l'attività di tutela e gestione della fauna selvatica, ancorché eventualmente svolte, per delega o in base a poteri propri, da altri enti". Pertanto, sulla base di quanto pervenuto, si ritiene di dover ritenere infondata la tesi di parte convenuta secondo cui la legittimazione passiva nel caso del sinistro oggetto del giudizio non sarebbe in capo alla Regione bensì il Comune quale proprietario della strada. Ciò in quanto detta legittimazione non trova fondamento nella proprietà della strada quanto nell'Ente titolare della funzione di controllo della fauna selvatica che, come su detto, è la Regione. Da rigettare gli ulteriori motivi di appello. La richiesta attorea di dichiarare infondata e non provata nell'an e nel quantum la domanda avversaria non può essere accolta. Chiarificatrice al riguardo Cass. Sez. 3 - , Ordinanza n. 13848 del 06/07/2020 ove si legge che "In materia di danni derivanti da incidenti stradali che abbiano coinvolto veicoli e animali selvatici, a norma dell'art. 2052 c.c. grava sul danneggiato l'allegazione e la dimostrazione che il pregiudizio lamentato sia stato causato dall'animale selvatico (cioè appartenente ad una delle specie oggetto della tutela di cui alla L. n. 157 del 1992 o, comunque, rientrante nel patrimonio indi sponibile dello Stato), la dinamica del sinistro, il nesso causale tra l'agire dell'animale e l'evento dannoso subito nonché - ai sensi dell'art. 2054, comma 1, c.c. - di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di avere adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida". A riguardo, si ritiene che la dinamica del sinistro e così il nesso eziologico tra la condotta dell'animale e i danni occorsi dal sig. (...) siano stati sufficientemente dimostrati e, a riprova di ciò, le dichiarazioni contenute nel rapporto di incidente stradale redatto dagli agenti della Polizia Municipale e i rilievi fotografici dagli stessi addotti, oltre che quanto dichiarato dal sig. (...), uno degli agenti accertatori, assunto quale testimone. Per converso, la Regione - alla quale spetta fornire "la prova liberatoria del caso fortuito, dimostrando che il comportamento dell'animale si è posto del tutto al di fuori della propria sfera di controllo, come causa del danno autonoma, eccezionale, imprevedibile o, comunque, non evitabile neanche mediante l'adozione delle più adeguate e diligenti misure - concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto e compatibili con la funzione di protezione dell'ambiente e dell'ecosistema - di gestione e controllo del patrimonio faunistico e di cautela per i terzi" (Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 13848/2020) - non ha allegato alcunché al fine di dimostrare che la condotta dell'animale sia stata al di fuori della sua sfera di possibile controllo e che siano state adottate misure di controllo della fauna, nonostante le quali l'evento lesivo si è comunque verificato, e così liberarsi dalla responsabilità del danno cagionato dalla condotta dell'animale selvatico, essendosi esclusivamente limitata a contestare il titolo della responsabilità e a addurre la condotta negligente del sig. (...). Ciò non risulta sufficiente a dichiarare la Regione Marche indenne da qualunque obbligo risarcitorio. Altresì da rigettare la richiesta attorea di riconoscere la condotta negligente dell'automobilista e la responsabilità esclusiva nella causazione dei danni lamentati. A riprova del fatto che il sig. (...) avesse condotto il veicolo ad una velocità consona al tratto di strada in cui si è verificato il sinistro de quo è quanto dichiarato dagli agenti della Polizia Municipale i quali non hanno elevato alcuna sanzione nei confronti del conducente del veicolo. Difatti, sebbene - secondo quanto sostenuto da parte convenuta - l'improvvisa "uscita" dell'ungulato dalla parte sinistra non gli abbia consentito di impedire l'urto, la non presenza della carcassa dell'animale può essere presuntivamente considerata quale prova della conduzione del veicolo ad una velocità consona al tratto di strada sul quale si è verificato il sinistro de quo. Difatti, una velocità più elevata avrebbe presumibilmente comportato un urto più incisivo con l'animale selvatico con conseguente morte dello stesso e conseguenze fisiche sullo stesso conducente. Tanto basta. Sulla base di quanto finora sostenuto, si conclude per il rigetto dell'appello. Le spese processuali nella misura liquidata in dispositivo seguono la soccombenza di parte appellante che dovrà essere altresì condannata al versamento di un ulteriore importo equivalente a quello corrisposto per il contributo unificato ex art.13 comma 1 quater D.P.R. n. 115 del 2002. P.Q.M. Il Tribunale definitivamente pronunciando nella causa iscritta al nr. 2600/2019 di R.G., così dispone: - respinge l'appello proposto confermando per l'effetto la sentenza n. 59/2019; - condanna la Regione Marche al pagamento nei confronti di Giunta Paolo delle spese processuali che liquida in Euro 1.378,00 oltre iva cpa e rimb forf. come previsto per legge per compensi professionali nonché al pagamento dell'importo equivalente all'importo versato a titolo di contributo unificato ai sensi dell'art.13 comma 1 quater D.P.R. n. 115 del 2002. Così deciso in Pesaro l'11 agosto 2021. Depositata in Cancelleria il 12 agosto 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI PESARO SEZIONE LAVORO Il Tribunale di Pesaro, in persona della dott.ssa Maria Rosaria Pietropaolo, in funzione del giudice del lavoro, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al numero di ruolo generale 517/2020 promossa DA Ce.Lu., (...) res. in 64018 Tortoreto (TE) Via (...) rappresentato e difeso dall'avvocato Vi.Qu. (...) ed elettivamente domiciliato nel suo studio in Pesaro, Largo (...) (avv. Pa.Pa.) in virtù di mandato in calce al ricorso; RICORRENTE NEI CONFRONTI DI Au. S.n.c., in persona del legale rapp.te p.t. Pi.Ro., corrente in Tavullia (PU), Via (...), C.F./P.IVA (...), difesa e rappresentata per delega in calce alla memoria difensiva dall'Avv. Si.Ca. presso e nello studio del quale in Fano (PU), Via (...), è elettivamente domiciliata; RESISTENTE OGGETTO: Licenziamento. MOTIVI DELLA DECISIONE Con ricorso depositato in data 28.7.2020, Ce.Lu. ha evocato in giudizio la società "Au.Mp. s.n.c., impugnando il licenziamento intimatogli in data 12.6.2020, chiedendo l'accoglimento delle conclusioni in epigrafe riportate. A sostegno della domanda ha allegato: - di aver prestato attività lavorativa alle dipendenze della convenuta a decorrere dal 25 maggio 2013 in qualità di autista, con inquadramento al livello 3J CCNL Trasporto merci (Filt Cgil); - che in data 12 giugno 2020 era stato licenziato per superamento del periodo di comporto, con la seguente motivazione: "...con la presente Le comunichiamo che, in data 10/6/2020 Lei ha completato il periodo di comporto previsto dall'art. 63 del CCNL Trasporto e spedizione merci pari a 365 giorni di malattia negli ultimi 30 mesi. Siamo quindi pervenuti nella determinazione di risolvere il rapporto di lavoro con Lei in atto per aver superato il periodo di comporto suddetto previsto dal ccnl applicato ... In luogo del preavviso Le sarà riconosciuta la relativa indennità sostitutiva ..."; - di avere impugnato il recesso con lettera comunicata via pec da parte dell'organizzazione Sindacale di appartenenza (Cgil Pesaro) in data 23 giugno 2020; - che all'impugnazione erano seguiti contatti tra il consulente aziendale, dott. Ma.Ti., e Gi.Ge., dell'Ufficio vertenze della Camera del Lavoro CGIL di Pesaro, all'esito dei quali, a fronte della interpretazione fornita dall'organizzazione sindacale, secondo cui nel periodo di comporto non potevano essere conteggiate le assenze per malattia rientranti nel periodo di cassa integrazione a zero ore, il consulente della società aveva ribadito la correttezza del calcolo. Tanto esposto in fatto, il ricorrente ha eccepito, in diritto, il difetto di motivazione del licenziamento, per omessa specificazione delle giornate di assenza calcolate ai fini del comporto, in violazione del disposto di cui all'art. 2, comma 2, L. 604/66, nonché l'erroneo computo del periodo di comporto, in quanto il datore di lavoro aveva indebitamente conteggiato, ai fini del superamento del comporto, le assenze, pur "coperte da certificazioni mediche", intervenute durante il periodo di Cassa Integrazione a zero ore. Ha, infine, invocato la tutela dell'affidamento ingenerato dall'azienda, la quale, nelle buste paga, aveva indicato l'assenza come ascrivibile alla Cassa Integrazione. Ritualmente costituitasi in giudizio, la società resistente ha contestato la domanda, ribadendo la piena legittimità del licenziamento. Espletato senza esito il tentativo di conciliazione, la causa, istruita solo documentalmente, è stata discussa e decisa all'odierna udienza come da dispositivo in calce, previo deposito di note conclusive. Preliminarmente, va disattesa l'eccezione (peraltro, formulata dalla resistente solo in sede di note conclusive) di decadenza dall'impugnativa di licenziamento. In particolare, la difesa della società resistente, sull'assunto che si tratti di nullità assoluta rilevabile d'ufficio, ha evidenziato che il Ce. ha impugnato il licenziamento in via stragiudiziale con atto analogico firmato e poi scansionato ed allegato a pec inoltrata dalla CGIL di Pesaro in data 23.6.2020 (v. doc. 3 fasc. ric.), documenti tutti privi di firma digitale, invece necessaria per attribuire l'atto alla paternità del predisponente, essendo la pec solo idonea a provare da chi viene spedito l'atto, ma non chi lo firma; conseguentemente, secondo la resistente, la lettera sarebbe inidonea a far salvo il termine di decadenza di 60 giorni (art. 6 L. 604/96), perché priva dei requisiti di forma di cui all'art. 2702 c.c. e, in subordine, perché priva della sottoscrizione del lavoratore, con evidente decadenza dal diritto di agire in giudizio, a causa della carenza dell'impugnativa di licenziamento ed inammissibilità del ricorso, rilevabile d'ufficio. L'eccezione non è fondata. La legge n. 604 del 1966, all'art. 6, stabilisce che "il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta ovvero dalla comunicazione, anch'essa in forma scritta,, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento scritto". In più occasioni (da ultimo, v. Cass. 4.6.2018, n. 14212), la Suprema Corte ha osservato che l'espressa previsione che il diritto di impugnativa, anche extragiudiziale, possa essere esercitato "anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale" non ha altro significato che quello di conferire alle associazioni sindacali (qualunque, e non solo quella cui il lavoratore abbia in precedenza aderito) il potere di rappresentare ex lege il lavoratore, quanto al regime di impugnativa dei licenziamenti, equiparando l'impugnazione effettuata dall'organizzazione sindacale, indipendentemente da un mandato o una ratifica successiva, a quella compiuta direttamente dall'interessato (cfr. Cass. nr. 26514 del 2013). In particolare, è stato osservato che "diversamente interpretando, la norma quando aggiunge "anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale" non avrebbe alcun significato pratico in quanto l'impugnazione del sindacalista sarebbe disciplinata come una normale impugnazione da parte di un rappresentante del lavoratore necessitando entrambe di una procura specifica,. La ratio della disposizione è, invece, chiaramente quella di attribuire al sindacato direttamente (senza procura ex ante e senza necessità di ratifica del lavoratore) il potere di impugnazione del recesso sulla base della presunzione che l'associazione sindacale, in quanto a conoscenza della situazione aziendale, sia in grado di valutare al meglio gli interessi del lavoratore, almeno impedendo che si verifichi il termine decadenziale e si possa, poi, valutare con l'interessato l'opportunità di una prosecuzione dell'impugnazione in sede giudiziaria" (Cass. nr. 26514/2013 cit.). Posto che l'impugnativa di licenziamento è stata proposta con atto scritto, qualificato nell'intestazione come "impugnazione licenziamento", da parte di associazione sindacale che poteva validamente impugnare il licenziamento, anche in assenza di sottoscrizione da parte del lavoratore, appaiono infondati i rilievi di parte resistente secondo cui l'assenza di sottoscrizione del lavoratore renderebbe privo di valore giuridico l'atto di impugnativa. In realtà, l'impugnativa è stata proposta con atto scritto (la norma richiede esclusivamente la forma scritta, con ciò escludendo la possibilità di provare per testimoni l'avvenuta impugnazione del recesso, e rendendo irrilevante la veste formale dell'atto, vale a dire pec, mail, raccomandata a/r), da soggetto che poteva validamente impugnare il recesso (associazione sindacale) e con un oggetto che non lasciava adito a dubbi circa la volontà di impugnare il licenziamento intimato al lavoratore. Tali elementi soddisfano pienamente l'esigenza sottesa alla disposizione, che è quella di individuare uno strumento idoneo a portare a conoscenza del datore di lavoro l'intenzione del lavoratore di contestare il licenziamento, onde consentire allo stesso datore di lavoro di adottare tempestivamente gli opportuni provvedimenti. Del resto, la società non ha mai negato di aver ricevuto la pec in questione, limitandosi ad eccepirne solo l'invalidità formale. Ad abundantiam, deve essere richiamato l'orientamento della Suprema Corte di Cassazione (espresso in riferimento alla lettera di licenziamento, ma senza dubbio estensibile anche alla impugnativa di licenziamento), secondo cui "La produzione in giudizio d'una lettera di licenziamento priva di sottoscrizione alcuna o munita di sottoscrizione proveniente da persona diversa dalla parte che avrebbe dovuto sottoscriverla equivale a sottoscrizione, purché tale produzione avvenga ad opera della parte stessa nel giudizio pendente nei confronti del destinatario della lettera di licenziamento medesima" (Cass. 16 maggio 2017, n. 12106). In particolare, ritiene la Corte che in tale ipotesi "deve trovare applicazione il costante insegnamento giurisprudenziale secondo cui la produzione in giudizio di una scrittura privata (richiesta ad substantiam, come avviene per la lettera di licenziamento), priva di firma da parte di chi avrebbe dovuto sottoscriverla, equivale a sottoscrizione, a condizione che tale produzione avvenga appunto ad opera della parte stessa (cfr., ex aliis, Cass. 13548/06; Cass. n. 3810/04; Cass. n. 2826/2000) nel giudizio pendente nei confronti dell'altro contraente o, deve ritenersi in caso di atto unilaterale inter vivos e a contenuto patrimoniale (la cui disciplina è equiparata ex art. 1324 c.c., in quanto compatibile, a quella dei contratti), nei confronti del relativo destinatario se si tratta di atto recettizio (e tale è il licenziamento)" (Cass. 16.5.2016, n. 12106, cit., in motivazione). Orbene, dal momento che la lettera di impugnativa del licenziamento è stata prodotta in giudizio dal ricorrente nei confronti della resistente, destinataria dell'impugnativa, deve ritenersi che tale produzione documentale equivalga alla sottoscrizione dell'atto. Ciò premesso e passando ad esaminare i motivi di impugnazione del licenziamento, deve ritenersi infondata l'eccezione di difetto di motivazione, ex art. 2 L. n. 604/66. Sul punto, deve essere richiamato il principio di diritto stabilito dalla Suprema Corte secondo cui "In tema di licenziamento per superamento del comporto, il datore di lavoro non deve specificare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive, anche sulla base del novellato art. 2 della L. n. 604/66, che impone la comunicazione contestuale dei motivi, fermo restando l'onere di allegare e provare compiutamente in giudizio i fatti costitutivi del potere esercitato; tale principio, tuttavia, trova applicazione nel comporto cd. "secco" (unico ininterrotto periodo di malattia), ove i giorni di assenza sono facilmente calcolabili anche dal lavoratore, mentre, nel comporto cd. per sommatoria (plurime e frammentate assenze) occorrerà una indicazione specifica delle assenze computate, in modo da consentire la difesa al lavoratore (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione del giudice di merito che, in una ipotesi di comporto per sommatoria, aveva ritenuto irrilevante la mancata risposta del datore alla richiesta del lavoratore di specificazione del numero di assenze)" (Cass. sez. lav. 27.2.2019, n. 5752). Orbene, nel caso di specie, trattasi di comporto cd. secco e non per sommatoria, in quanto il lavoratore è rimasto assente, senza soluzione di continuità, dal 12.6.2019 al 30.6.2020. In particolare, dal doc. n. 5 (fasc. res.) risulta che il periodo dal 12.6.2019 al 16.7.2019 è stato considerato di competenza I.N.P.S. e, quindi, periodo di malattia. Dai certificati di malattia e dall'estratto I.N.P.S. (docc. n. 3 e 4 fasc. res.) risulta che il lavoratore è stato poi assente per malattia, ininterrottamente, dal 16.7.2019 al 30.6.2020. Pertanto, alla data del 12.6.2020, risultava decorso il termine di 365 giorni, che l'art. 63 del CCNL Trasporto merci considera sufficiente a legittimare il recesso del datore di lavoro. Alla luce di tali elementi, deve, quindi, escludersi la sussistenza di un vizio di motivazione del licenziamento per asserita genericità, avendo il datore di lavoro indicato i giorni di assenza in maniera specifica nella lettera di licenziamento, oltre ad averli allegati e provati nel corso del presente giudizio. Passando ora all'esame dell'ulteriore motivo di impugnativa, va precisato che esso è incentrato sul dedotto mancato superamento del periodo di comporto per effetto del sopravvenuto collocamento del ricorrente in CIG straordinaria a zero ore, previsto dalla normativa d'emergenza COVID, periodo che, avendo interessato tutti i dipendenti, non potrebbe, secondo parte ricorrente, essere computato come malattia ai fini del comporto. La tesi sostenuta da parte ricorrente si fonda, in particolare, su un messaggio I.N.P.S. del 30.4.2020, il quale, nell'interpretare la disposizione di cui all'art. 3, comma 7, D. Lgs. 148/2015 (secondo cui "il trattamento di integrazione salariale sostituisce in caso di malattia l'indennità giornaliera di malattia, nonché la eventuale integrazione contrattualmente prevista"), ha ritenuto che, qualora lo stato di malattia sia precedente l'inizio della sospensione dell'attività lavorativa, si avranno due casi: se la totalità del personale in forza all'ufficio, reparto, squadra o simili cui il lavoratore appartiene ha sospeso l'attività, anche il lavoratore in malattia entrerà in CIG dalla data di inizio della stessa; qualora, invece, non venga sospesa dal lavoro la totalità del personale in forza all'ufficio, reparto, squadra o simili cui il lavoratore appartiene, il lavoratore in malattia continuerà a beneficiare dell'indennità di malattia, se prevista dalla vigente legislazione. Da tale interpretazione parte ricorrente ha desunto che, se durante una malattia l'azienda pone in Cassa Integrazione a zero ore il lavoratore interessato (insieme al reparto di appartenenza, se non la totalità della forza-lavoro), si avrebbe una modificazione della natura giuridica dell'assenza e del motivo del mancato svolgimento dell'attività lavorativa, la quale comporta che l'assenza dal lavoro non è più ascrivibile o imputabile al lavoratore, anche in presenza di una certificazione medica preesistente, con la conseguenza ulteriore che l'assenza, essendo imputabile alla chiusura aziendale sopravvenuta, non potrebbe essere computata ai fini del comporto. La tesi non pare condivisibile. Ritiene il giudicante che, con l'articolo 3 comma 7 del d. lgs. 148/2015, il legislatore abbia inteso esclusivamente prevedere una diversa "imputazione" della prestazione economica, che resta, comunque, di competenza dell'I.N.P.S. (sia nel caso di malattia, sia nel caso di CIG) e che nulla ha a che vedere con il comporto, non incidendo in alcun modo sul titolo dell'assenza e sulla sua rilevanza all'interno del rapporto tra lavoratore e datore di lavoro. E', infatti, da escludere, in linea di principio, che il datore di lavoro possa determinare il mutamento del titolo dell'assenza quando il lavoratore è in malattia, perché ciò significherebbe attribuire al datore di lavoro un potere extra ordinem, che si porrebbe addirittura in contrasto con un diritto di rilevanza costituzionale, quale il diritto al salute. Parimenti è da escludere che una normativa speciale, emessa al fine di imprimere una particolare connotazione alla prestazione economica erogata dall'INPS in caso di CIG che sopravviene durante la malattia, possa determinare il mutamento del titolo dell'assenza anche per finalità diverse da quelle espressamente previste dalla legge. Il mutamento del titolo dell'assenza è, sì, ammesso, ma solo se sia il lavoratore a richiederlo, mediante la presentazione di richiesta di ferie, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie. Secondo il più recente indirizzo di legittimità, dovendo ritenersi prevalente l'interesse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto (Cass. 11.5.2000, n. 6043, Cass. 15.12.2008, n. 29317, Cass. 3.3.2009, n. 5078), questi ha la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, gravando poi sul datore di lavoro, cui è generalmente riservato il diritto di scelta del tempo delle ferie, dimostrare - ove sia stato investito di tale richiesta - di aver tenuto conto, nell'assumere la relativa decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare in tal modo la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza dei periodo di comporto. L'orientamento risulta confermato dai successivi arresti di legittimità (cfr. Cass. 7.6.2013, n. 14471), ove sono valorizzati i canoni di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto (Cass. sez. lav., 14/09/2020, n. 19062). Tali principi sono stati ribaditi da Cass. n. 27392/2018, secondo cui il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie, senza che a tale facoltà corrisponda comunque un obbligo del datore di lavoro di accedere alla richiesta, ove ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa; in un'ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è necessario, tuttavia, che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione impugnata, che aveva ritenuto privo di giustificazione, in quanto fondato su ragioni vaghe ed inconsistenti, il rifiuto di concessione delle ferie motivato dalla società datrice con un generico riferimento a non meglio precisate esigenze organizzative dell'ufficio). La possibilità, quindi, di mutare il titolo dell'assenza per malattia spetta solo al lavoratore, al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto, nel cui calcolo vanno inclusi, come noto, oltre ai giorni festivi, anche quelli di fatto non lavorati, che cadano durante il periodo di malattia indicato dal certificato medico, operando, in difetto di prova contraria (che è onere del lavoratore fornire), una presunzione di continuità, in quei giorni, dell'episodio morboso addotto dal lavoratore quale causa dell'assenza dal lavoro e del mancato adempimento della prestazione dovuta, con la precisazione che la prova idonea a smentire tale presunzione di continuità può essere costituita solo dalla dimostrazione dell'avvenuta ripresa dell'attività lavorativa (Cassazione civile sez. lav., 13/09/2019, n. 22928). Nel caso in esame, il Ce. ha inviato i certificati di malattia senza soluzione di continuità e senza chiedere il mutamento del titolo dell'assenza, dimostrando, con comportamento concludente, di voler proseguire lo stato di malattia. Avendo, quindi, il lavoratore continuativamente "coperto" il periodo dal 12.6.2019 al 30.6.2020 con certificati di malattia, non vi è dubbio che un eventuale mutamento del titolo dell'assenza avrebbe richiesto un'istanza in tal senso rivolta al datore di lavoro, prima della scadenza del periodo di comporto e al fine di sospenderne il decorso, come precisato da Cass. n. 8834/2017 in un caso di mutamento del titolo dell'assenza da malattia a ferie (per l'ipotesi inversa, si veda quanto affermato da Cass. sez. lav., 10/01/2017, n. 284, secondo cui, in caso di malattia del lavoratore insorta durante il periodo feriale, la trasmissione della relativa certificazione vale come richiesta di modificazione del titolo dell'assenza, pur in assenza di un'espressa comunicazione, scritta od orale, trattandosi di un atto che esprime in modo inequivocabile la volontà del soggetto di determinare l'effetto giuridico della conversione). Per quanto attiene, infine, al profilo di illegittimità del licenziamento per violazione del principio di affidamento, con riferimento, in particolare, a quanto riportato dal datore di lavoro in busta paga (dall'8.3.2020 al 30.4.2020, nella colonna a destra della busta paga non compare più la descrizione della assenza con la sigla ML, ma la sigla CG), occorre rilevare che il generale dovere di buona fede nell'esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) può effettivamente comportare l'insorgenza di ulteriori obblighi in capo alle parti, anche se non previsti espressamente dalla legge o dal contratto, tra i quali rientra anche il dovere di avvisare o informare la controparte di particolari circostanze che possono influire sull'esercizio del diritto, da valutarsi caso per caso. Nella fattispecie in esame, premesso che secondo il costante insegnamento della Suprema Corte (cfr., ex aliis, Cass. n. 17334/04) la malattia sospende il rapporto lavorativo e che tale sospensione consegue, ipso iure, allo stato di malattia e per tutto il suo protrarsi, a prescindere dal contegno del datore di lavoro e da eventuali diverse qualificazioni che il datore possa dare all'assenza del lavoratore, è necessario precisare che la diversa "imputazione" della prestazione economica riportata in busta paga discende, in via immediata e diretta, dall'art. 3 comma 7 del d. lgs. 148/2015. Poiché trattasi di effetti che derivano direttamente dalla legge, non può ritenersi lesivo degli obblighi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. il fatto che il datore di lavoro riporti in busta paga la retribuzione spettante per la collocazione in CIG, non essendo egli obbligato ad informare il lavoratore dei possibili effetti stabiliti dalla legge. E', del resto, principio pacifico in giurisprudenza che sul datore di lavoro non gravi neppure l'obbligo di informare tempestivamente il lavoratore di tutti i possibili effetti giuridici delle assenze per malattia. Con specifico riferimento alla questione del comporto, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che "in assenza di qualsiasi obbligo previsto dalla contrattazione collettiva, il datore di lavoro non ha l'onere di avvertire preventivamente il lavoratore della imminente scadenza del periodo di comporto per malattia al fine di permettere al lavoratore di esercitare eventualmente la facoltà di chiedere tempestivamente un periodo di aspettativa, come previsto dal contratto collettivo stesso" (cfr., in tal senso Cass. sez. lav. 28.3.2011, n. 7037; Cass. sez. lav. 4.6.2014, n. 12563). E' pur vero che correttezza e buona fede costituiscono un metro di comportamento per i soggetti del rapporto il cui contenuto, lungi dall'essere predeterminato, va di volta in volta adattato agli interessi in gioco e alle caratteristiche del caso specifico e che concorrono alla conformazione, in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente del patto negoziale, dei diritti, e degli obblighi da esso derivanti, affinché l'ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso l'inderogabile dovere di solidarietà presidiato dall'art. 2 Cost., dovere che, operando con criterio di reciprocità, esplica la propria rilevanza nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dagli specifici obblighi contrattuali o legali (cfr., ex aliis, Cass. S.U. n. 22819/10; Cass. S.U. n. 28056/08). Nondimeno, i principi di correttezza e buona fede, in tanto possono creare nuovi obblighi di informazione, in quanto ad essa non sia possibile (o sia molto difficile) attingere senza la collaborazione dell'altra parte, il che va escluso quando l'informazione abbia ad oggetto effetti giuridici previsti direttamente dalla legge, come accaduto nella concreta fattispecie in esame. In ogni caso, anche a voler ipotizzare l'omessa comunicazione al ricorrente delle informazioni relative ai giorni di comporto o alla possibilità di sospenderne il decorso, si osserva come una simile omissione costituirebbe, al più, un inadempimento all'obbligo di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto ai sensi dell'art. 1375 c.c., la cui violazione può, in ipotesi, comportare solamente conseguenze di tipo risarcitorio, non potendo invece incidere sulla validità del recesso, in base alla tradizionale distinzione tra regole di validità e regole di comportamento (cfr. Cass. sez. un. 19.12.2007, n. 26724). Alla stregua di tali considerazioni, il licenziamento deve ritenersi legittimo. La domanda va, pertanto, rigettata. In considerazione della peculiarità della fattispecie e dell'assenza di precedenti, ricorrono gravi ragioni per la integrazione compensazione tra le parti delle spese di lite. P.Q.M. definitivamente pronunciando, ogni diversa domanda, eccezione e deduzione disattesa o altrimenti assorbita, così provvede: - rigetta il ricorso; - dichiara interamente compensate tra le parti le spese di lite. Così deciso in Pesaro il 20 gennaio 2021. Depositata in Cancelleria il 20 gennaio 2021.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Pesaro, nella persona del dr. Fabrizio Melucci, in funzione di GIUDICE UNICO MONOCRATICO ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di prima istanza iscritta al n. 590 del ruolo generale degli affari contenziosi civili dell'anno 2014 posta in decisione all'udienza del 20.12.2018, promossa DA (...), rappresentata e difesa dall'avv. (...), presso il cui studio sito a Sant'Angelo di Lizzola via (...) ha eletto domicilio in virtù di delega posta a margine dell'atto di citazione - attrice - CONTRO (...), rappresentato e difeso dall'avv. (...) presso il cui studio sito a Pesaro via (...) ha eletto domicilio in virtù di delega posta a margine della comparsa di risposta - convenuto - In punto a: risarcimento danni. Conclusioni Per l'attrice: "voglia l'Ill.mo Tribunale adito, disattesa ogni contraria istanza ed eccezione, considerata la Ctu depositata così provvedere: 1. Dichiarare la responsabilità del finimmo per i danni subiti dall'attrice e per l'effetto 2. Condannare il Sig. (...) al risarcimento di tutti i danni subiti dalla Sig.ra (...) da quantificarsi in via equitativa dall'Ill.mo Giudice procedente o sulla base delle perizie che verranno svolte in sede, quale risultante della somma di cui ai punti 1 A - B - 2, 3, 4, 5, 3. Condannare alle spese onorari e diritti di causa" Per il convenuto: "voglia l'On.le Tribunale adito in via principale respingere le domande svolte dalla signor (...) siccome infondate in fatto e in diritto, oltre che non minimamente provate, anche per i motivi di cui alla narrativa del presente atto. Con condanna dell'attrice alla refusione, in favore del (...), di spese ed onorari del presente giudizio. In via subordinata, in denegata ipotesi di accoglimento, anche parziale, delle parte attoree, determinare il danno subito dall'attrice ed oggetto di eventuale condanna risarcitoria nei confronti dell'attore nella misura del giusto e dovuto, limitandolo unicamente a quello effettivamente subito come conseguenza immediata e diretta del comportamento tenuto dal Sig. (...) con esclusione di eventuali danni conseguenza di comportamenti nocivi subiti dalla parte attrice per fatto di terzi e precedenti agli eventi per cui è causa. In tal caso, con compensazione, anche parziale, delle spese e competenze di causa." MOTIVAZIONE 1 - Con atto di citazione notificato il 28.3.2014 (...) conveniva in giudizio (...) per sentirlo condannare al risarcimento dei danni patiti in conseguenza di violenza sessuale perpetrata il 27.9.2012. In citazione li deduceva che, mentre stava lavorando all'interno della (...) il (...) cliente dell'impresa datrice di lavoro, l'aveva con violenza palpeggiata nelle parti intime, strisciando il proprio organo genitale sul corpo della stessa attrice; che, in conseguenza del fatto, quest'ultima aveva subito pregiudizi consistenti in danno biologico, per lesioni personali e psichiche, nonché danno morale, danno esistenziale, danno estetico, danno patrimoniale per spese mediche. Si costituiva (...) il quale contestava la domanda, negando la propria responsabilità; contestava anche i danni perché non provati ed eccessivi. In istruttoria avevano corso l'interrogatorio formale dell'attrice, nonché alcune prove per testi ed una consulenza tecnica. La causa, quindi, sulle opposte conclusioni delle parti, come in epigrafe trascritte, passava in decisione all'udienza del 20.12.2018. 2 - Il teste (...), datore di lavoro dell'attrice, ha dichiarato che il giorno del fatto (26.9.2012) il convenuto venne accompagnato nel reparto dove la stessa attrice stava lavorando, in una postazione non visibile dalle altre zone del laboratorio; appena uscito il convenuto, l'attrice si avvicinò al (...) dicendogli di essere stata infastidita e importunata dallo stesso convenuto; si sentì quindi male al punto da far ritorno a casa. Il testimone ha, altresì, riferito d'essersi incontrato, nei giorni successivi, con il convenuto ed il suo legale per discutere del fatto per cui è causa, e nell'occasione lo stesso convenuto si dichiarò disponibile a versare una somma di danaro all'attrice perché non presentasse denuncia contro di lui per lesioni sessuali. Il teste (...) ha confermato che lo stesso giorno l'attrice, in lacrime, gli disse di essere stata oggetto di violenza sessuale. Il verbale di pronto soccorso, attestante la presenza di ecchimosi sulla coscia sinistra, è ulteriore elemento di conferma dell'accadimento di fatto descritto in citazione, ossia l'avvenuto palpeggiamento delle parti intime e lo strofinamento dell'organo genitale. La sussistenza del fatto è stata, peraltro, accertata in sede penale con sentenza di condanna resa all'esito di giudizio abbreviato (v. allegato memoria 10.9.2014 attrice), avente efficacia nel giudizio civile di risarcimento (cfr. Cass. sez. un. 2010 n. 674). Sulla base di tali elementi, è provato il fatto illecito del convenuto, il quale è pertanto obbligato (art. 2043 c.c.) al risarcimento del danno nei confronti dell'attrice. 3 - In merito al quantum vanno esaminate le singole voci di danno dedotte, al fine di verificarne la fondatezza e procedere alla relativa liquidazione. 3.1 - Per quanto concerne il danno biologico, chiarito che si tratta di componente del danno non patrimoniale (cfr. Cass. sez. un. 2008 n. 26972), si rileva che il consulente d'ufficio ha accertato la sussistenza di nesso di causalità tra l'evento e le lesioni psico-fisiche accertate, ossia lesioni cutanee e disturbo psichico reattivo. Da dette lesioni sono derivanti all'attrice postumi permanenti consistenti in "disturbo dell'adattamento con ansia di tipo cronico qualificabile di grado lieve", incidente sull'integrità psicofisica nella misura del 4 %, nonché un'inabilità temporanea - su basi non specificamente contestate neppure in sede di osservazioni alla relazione tecnica - di 30 giorni al 50%, di 30 giorni al 25%. A fini liquidativi, si applicano i valori della tabella del tribunale di Milano (aggiornata al 2018), in quanto assunti come valore equo in grado di garantire la parità di trattamento in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l'entità, e ciò anche in considerazione della revisione della tabella medesima alla luce dei principi enunciati dalla sezioni unite del 2008, con particolare riguardo all'inclusione nel danno biologico "di ogni conseguenza fisica e psichica per sua natura intrinseca" (cfr. in motivazione Cass. 2015 n. 13982), nonché in ragione del carattere tendenzialmente onnicomprensivo delle previsioni delle predette tabelle di liquidazione del danno non patrimoniale (cfr. Cass. sez. un. 2008 n. 26972; Cass. 2014 n. 20111). Considerata, pertanto, l'età della danneggiata al momento del fatto (27 anni), il risarcimento per inabilità permanente va liquidato nella somma di Euro.6.108,00, senza personalizzazione, in quanto l'incidenza delle lesioni sotto il profilo dinamico-relazionale è considerata nella valutazione del danno biologico (v. relazione c.t.u. pg. 9), non sussistendo prova di conseguenze lesive - anche in termini di danno "esistenziale" o "estetico" - anomale, eccezionali o peculiari rispetto a quelle normali ed indefettibili delle lesioni (cfr. sul punto Cass. 2018 n. 23469). A detta somma va aggiunto il risarcimento del danno biologico da invalidità temporanea pari ad Euro.2.205,00 (Euro.49,00 x 30 + Euro.24,50 x 30). Il danno biologico complessivo è, dunque, liquidato in Euro.8.313,00. La somma è espressa ai valori attuali, cosicché non è suscettibile di ulteriore rivalutazione monetaria (cfr. Cass. 2000 n. 14930). 3.2 - Parte attrice domanda, altresì, il risarcimento del "danno morale". Il risarcimento del cd. danno morale, ossia della sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute - pregiudizio distinto e diverso dalla quello derivante dall'incidenza del danno alla salute sulle dinamiche relazionali della persona - postula che la parte deduca e dimostri la sussistenza di pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale quali, ad esempio, il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione (cfr. Cass. 2018 n. 7513). Qualora il danno morale sia provato, "non costituisce duplicazione la congiunta attribuzione del "danno biologico" e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado di percentuale di invalidità permanente. Ne deriva che, ove sia dedotta e provata l'esistenza di uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione" (Cass. 2018 n. 7513; conformi Cass. 901 n. 2018; Cass. 2018 n. 20795). Nel caso di specie, è provato che l'attrice, subito dopo il fatto illecito configurante reato (artt. 609 bis, 582, 585 c.p.), si sentì male, tanto da dover abbandonare il posto di lavoro (v. dep. (...)), ebbe crisi frequenti di pianto (v. dep. (...)) ed interruppe anche una relazione a causa della difficoltà ad avere rapporti intimi (v. dep. (...)). Si tratta di elementi altamente indicativi dello stato di grave dolore d'animo, senso di vergogna e paura, peraltro del tutto usuali nelle vittime di abusi sessuali. Il danno e, dunque, provato, mentre per quanto concerne la sua liquidazione, il giudicante si attiene - in difetto di parametri nell'indicata tabella - al criterio che applica, con valutazione parimenti tabellare, la percentuale del 20% di quanto liquidato a titolo di danno biologico (v. tabella tribunale di Roma 2018 par. 118). Il danno morale va dunque liquidato in Euro.1.662,60, somma già espressa ai valori attuali. 3.3 - Inammissibile è la deduzione dell'attrice relativa al "danno da discriminazione", tardivamente formulata in comparsa conclusionale. 3.4 - L'attrice ha, infine, diritto al risarcimento per le spese mediche documentate e riferibili al fatto nella misura di Euro.250,00 (v. doc. 4 attrice). Non vi è riscontro di altre spese collegate al fatto. Detta somma, quale oggetto di debito di valore, deve essere rivalutata in base agli indici ISTAT (per famiglie di operai ed impiegati) con decorrenza dal dicembre 2013 (v. doc. 4 attrice) sino alla presente decisione. La somma ascende, pertanto, ad Euro.255,75 3.5 - In definitiva, il risarcimento è liquidato in Euro.10.231,35 (Euro.8.313,00 + Euro.1.662,60 + Euro.255,75). Sulla somma indicata, in difetto di specifiche allegazioni circa l'insufficienza della rivalutazione ai fini del ristoro del danno da ritardo (cfr. Cass. 2007 n. 22347; Cass. 2010 n. 3355), si riconoscono gli interessi legali solo dalla data della presente sentenza coincidente con la trasformazione del debito di valore in debito di valuta. 4 - Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Tribunale di Pesaro, definitivamente pronunciando sulla causa promossa da (...) contro (...), così provvede: 1) dichiara che i danni patiti da (...) in conseguenza dei fatti di cui è causa sono imputabili a (...) e, pertanto, condanna lo stesso (...) a risarcire a (...) i danni medesimi mediante pagamento in suo favore di Euro.10.231,35, oltre interessi legali dalla presente sentenza al saldo; 2) condanna, altresì, (...) a rifondere a (...) le spese di lite che si liquidano in Euro. 4.835,00 per compenso professionale, oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA come per legge; 3) pone le spese di consulenza tecnica, liquidate con decreto del 26.8.2016, definitivamente a carico di (...). Così deciso a Pesaro in data 8 aprile 2019. Depositata in Cancelleria il 12 aprile 2019.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI PESARO Il Tribunale, nella persona del giudice unico Dott. Sabrina Garbini ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. 1030/2016 R.G. promossa da: (...) con il patrocinio degli avv. (...), con domicilio presso avv. PA.AN.; ATTORE contro: (...) con il patrocinio dell'avv. (...) e con elezione di domicilio in (...), presso e nello studio dell'avv. (...) CONVENUTO Oggetto: Contratti bancari. MOTIVI DELLA DECISIONE (...) convenivano Banca (...) per ottenere la dichiarazione di nullità del contratto di mutuo nella parte in cui si determina la corresponsione degli interessi, attesa la usurarietà ab origine; chiedeva che venisse derubricato il contratto a prestito a titolo gratuito ex art. 1815 c.c. e di rideterminare il credito in considerazione del compensato controcredito assunto in capo all'attrice per il pagamento di interessi non dovuti; chiedeva di considerare che gli attori dovevano essere rimessi in termini e adempiere ratealmente al pagamento. Si costituiva l'Istituto di Credito chiedendo che venisse dichiarato il difetto di legittimazione passiva e il rigetto della domanda nel merito. Il G.I. rilevava l'improcedibilità e concedeva termine per la mediazione. All'udienza del 2.11.17 parte attrice depositava sentenza 676/2017 di questo Ufficio sul medesimo credito e tra le stese parti e chiedeva che parte attrice venisse rimessa in termini per poter pagare ratealmente il debito residuo di solo capitale pari a 61.000 curo circa, secondo la rateizzazione stabilita dal giudice e comunque entro 500 Euro mensili. All'udienza successiva la parte attrice dichiarava che la sentenza di cui sopra era passata in giudicato. Le parti precisavano come segue: parte attrice si riportava alle conclusioni in atti e parte convenuta insisteva nella eccezione di difetto di legittimazione passiva e nel rigetto nel merito. L'eccezione di difetto di legittimazione è infondata quantomeno perché la convenuta eccepisce che se del caso doveva essere convenuta "anche" la (...) della quale l'istituto di credito è procuratrice, con ciò implicitamente ammettendo che legittimata è anche la banca convenuta. La sentenza depositata in atti e passata in giudicato ha accertato che, sulla scorta di ctu, non è dovuta alcuna somma a titolo di interessi in relazione al contratto di mutuo stipulato tra le parti il 20.11.12 e che gli attori erano tenuti a versare alla banca la somma di 61.131,23 Euro oltre interessi legali dalla data di notifica al saldo. Il Giudice accoglieva invero l'opposizione ex art. 615 c.p.c. al precetto, in parte, in relazione alla lamentata applicazione di interessi usurari. Dai contratti stipulati emergeva che il tasso di mora si andava a sommare agli interessi corrispettivi in caso di inadempimento; la pattuizione di un tasso sopra i limiti del tasso soglia determinava l'impossibilità di riconoscere all'istituto di credito alcun tipo di interesse. Nel caso de quo dunque si prende atto che gli attori sono ancora debitori della somma di 61.131,23 Euro oltre interessi legali a decorrere dalla data di notifica del precetto al saldo. Non spetta al Giudice disporre rateizzazioni del debito; non può essere poi accolta la domanda di restituzione nei termini per il pagamento del mutuo, come già accertato e motivato nella sentenza suddetta. Si prende dunque atto del fatto che non e dovuta alcuna somma a titolo di interessi in relazione al contratto di mutuo stipulato il 20.11.12. Le spese di lite seguono la soccombenza. P.Q.M. Definitivamente pronunciando nel contraddittorio tra le parti così provvede: dichiara che non ò dovuta alcuna somma a titolo di interessi in relazione al contratto di mutuo stipulato il 20.11.12; determina il debito di (...) 61.131,23 Euro oltre interessi legali a decorrere dalla data di notifica del precetto al saldo. Condanna l'Istituto di credito a rifondere spese di lite favore di (...) pari a Euro 2.200,00 di cui 900 per la fase di studio Euro 300 per la fase introduttiva, Euro 200,00 per la fase di trattazione e Euro 800,00 per la fase decisoria, oltre iva, cap e rimb. sp. gen. Così deciso in Pesaro l'11 dicembre 2018. Depositata in Cancelleria il 14 dicembre 2018.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO visto l'art. 281 sexies cpc; preso atto delle conclusioni rassegnate dalle parti al termine della discussione orale; Il Giudice, dott. (...) ha pronunciato la seguente SENTENZA L'attrice ha promosso opposizione ex art. 615 c.p.c. avverso il precetto notificato il 24.3.2016. La banca convenuta agiva in forza del mutuo ipotecario stipulato con gli attori in data 20.11.2012, garantito con ipoteca rilasciata da (...). L'opposizione appare in parte fondata. L'opposizione va infatti accolta in relazione alla lamentata applicazione di interessi usurari. Insegna la Suprema Corte che " ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p., e dell'art. 1815 c.c., comma 2, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori (vedere in questo senso Cass. civ. n. 350/2013). Analoghe sono risultate le conclusioni cui è giunta la Corte Costituzionale, secondo la quale " il riferimento contenuto nell'art. 1, comma 1, del D.L. n 394/2000, convertito con la legge n 24/2001, agli interessi a qualunque titolo convenuti rende plausibile - senza necessità di specifica motivazione - l'assunto secondo cui il tasso di soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori (sentenza n 29/2002). Il calcolo infine va fatto ex ante e sulla base di quanto pattuito al momento della stipulazione del contratto, come sopra affermato dalla sentenza della Cassazione n 350 del 2013. Le argomentazioni della convenuta circa la diversa natura degli interessi corrispettivi e di quelli moratori non possono essere condivise ai fini della determinazione della natura usuraria degli stessi. Depone in senso contrario la disposizione di interpretazione autentica, introdotta dal già citato articolo 1 del D.L.n 394/2000, convertito con la legge n 24/2001. Il tasso di mora d'altra parte va comunque ad incidere sul costo del mutuo, costo che la legge contro l'usura vuole invece contenere in limiti che non consentano che la parte mutuante si possa approfittare della sua posizione dominante e limitare l'autonomia negoziale del debitore, il quale, a prescindere che versi o meno in uno stato di bisogno, verrebbe costretto, in ragione della sua posizione di sudditanza, quantomeno patrimoniale, ad accettare interessi moratori eccessivi. Il ritardo nell'adempimento infatti non è certamente un avvenimento imprevedibile ed eccezionale del rapporto di mutuo, ma la mora configura uno dei possibili, anche se solo eventuali, svolgimenti del contratto, tanto che viene espressamente disciplinata dalle parti c pertanto "il ritardo colpevole non giustifica di per sé il permanere della validità di un'obbligazione (ossia la pattuizione di interessi usurari) contraria al principio generale posto dalla legge" (Cass civ. n. 5286/2000). La distinzione tra oneri economici fisiologici del contratto, quali sono gli interessi corrispettivi, e quelli patologici, quali sono invece gli interessi moratori, non è dunque di per sé decisiva ai fini della loro inclusione nella determinazione del tasso di soglia, m quanto altrimenti ai fini del calcolo non si dovrebbe tenere conto delle commissioni di massimo scoperto, che invece sono espressamente incluse nel calcolo in forza dell'art. 2 bis del D.L. n. 186/2008,convcrtito con la legge n 2/2009 (vedere sul punto anche Cass. pen. n 12028/2010). Il sistema d'altra parte prevede già che gli interessi moratori e corrispettivi, pur nella diversità di funzione, possano avere una disciplina omogenea. In quest'ottica va letta, per esempio, la disposizione di cui all'art. 1224, comma 2, cc, nella parte in cui "prevede che, se prima della mora erano dovuti interessi superiori a quelli legali, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura" (vedere In senso conforme Cass. civ. n. 5286/2000). Devono considerarsi non decisive, ai fini del calcolo del tasso soglia, la disciplina prevista dall'art. 19 della Direttiva Comunitaria 2008/48 CR del 23.4.2008 e quella prevista dalla direttiva Comunitaria n 2000/357 CE, trafusa nel D.L.vo n. 231/2002. Le due disposizione in oggetto hanno finalità diverse da quelle previste in tema di lotta all'usura, la prima quella di rendere chiare e trasparenti per i consumatori i contratti bancari, la seconda quella di limitare i ritardi nei pagamenti nella transazioni commerciali Ira imprenditori. Le due normative quindi non possono essere utilizzate per l'interpretazione di una diversa materia, per la quale è prevista una apposita disciplina, che espressamente regolamenta i criteri di calcolo della soglia di usura, ricomprendevi gli interessi a qualunque titolo convenuti (art. 1 .comma 1, del D.L. n 394/2000, convertito con la legge n 24/2001). Né possono ritenersi sul punto vincolanti le istruzioni e le circolari emesse dalla Banca d'Italia circa le modalità di determinazione del TAEG e del tasso soglia, in quanto costituiscono comunque disposizione normative secondarie che vanno disapplicate se in contrasto con la norma primaria (vedere in questo senso Cass. pen. n. 46669/2011). Al tasso di interessi moratori non corrisponde d'altra parte una diversa categoria di credito. La mora è infatti solamente una componente eventuale del medesimo credito. Il legislatore di conseguenza, nel ricomprendere entro la soglio di usura gli interessi, commissioni e spese comunque collegate alle erogazione del credito ed a qualunque titolo pattuiti ha voluto porre un limite superiore perentorio entro quale ricomprertdere tutti i costi del credito, inclusi quelli correlati alle criticità e patologie eventuali del rapporto. Ciò premesso, dai contratti stipulati emerge chiaramente che il tasso di mora si andava a sommare agli interessi corrispettivi in caso di inadempimento. Dai calcoli del CTU inoltre emerge chiaramente che il complessivo tasso pattuito, sommando nei termini predetti anche il tasso di mora al tosso corrispettivo, superava il limite del tasso soglia. La pattuizione di un tasso sopra i limiti del tasso soglia determina ex art. 1815 c.c. l'impossibilità di riconoscere all'istituto di credito alcun tipo di interesse. La disposizione di cui all'art. 1815,comma 2, c.c. risulta chiara ed ha certamente natura 1 sanzionatoria, per cui va applicata come conseguenza del superamento, per qualsiasi causa o motivo, del tasso di soglia legale, a prescindere dalla liceità del tasso degli interessi corrispettivi promessi. Conforme risulta anche la decisione presa dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 350/2013 (vedere parte motiva della citata sentenza). Non può essere accolta la domanda di restituzione nei termini per il pagamento del mutuo. L'applicazione di interessi usurati determina infatti, ex art. 1419, comma 2, cc, la nullità delle relative clausole contrattuali che la disciplinano, ma non la nullità dell'intero contratto. Né può ritenersi che l'inadempimento degli attori sta imputabile all'applicazione di interessi illegittimi in quanto: a) le rate versate al momento della messa in mora erano ben inferiori a quanto ricevuto in. linea capitale; b) il mancato pagamento non può essere certamente imputabile all'applicazione del tasso di mora, che prima dell'inadempimento non doveva essere corrisposto. L'attrice è tenuta quindi al pagamento delle somma Euro 61.132,14, data dalla differenza tra quanto ricevuto a titolo di mutuo (Euro 83.965,42) e quanto versato fino alla data del precetto e pari - circostanza non contestata - ad 22.834,19. Su tale somma andranno calcolati gli interessi legali a decorrere dalla data di notifica del precetto al saldo. Le altre questioni devono ritenersi assorbite. Le spese vengono integralmente compensate, stante la parziale soccombenza reciproca e comunque il reiterato e non contestato inadempimento degli attori anche nella restituzione della somma ricevuta in linea capitale. La sentenza è provvisoriamente esecutiva ex art. 282 c.p.c. PER QUESTI MOTIVI Il Tribunale di Pesaro, definitivamente pronunciando: accerta c dichiara non dovuta alcuna somma a titolo di interessi in relazione al contratto di mutuo stipulato in data 20.11.2012; condanna gli attori in solido a versare alla banca convenuta la somma di Euro 61.131,23, oltre gli interessi legali con decorrenza dalla data di notifica del precetto al saldo; rigetta per il resto l'opposizione; compensa le spese di lite e pone le spese di CTU a carico di ciascuna parte per il 50%; dichiara lo sentenza provvisoriamente esecutiva. Così deciso in Pesaro il 5 ottobre 2017. Depositata in Cancelleria il 5 ottobre 2017.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tribunale di Pesaro Sezione lavoro Il Tribunale di Pesaro, in persona del dott. Vincenzo Pio Baldi, quale giudice del lavoro, alla pubblica udienza del 4.06.2012 ha pronunziato mediante lettura del dispositivo e della contestuale motivazione la seguente sentenza nella controversia in materia di previdenza od assistenza contrassegnata dal n. 954 Ruolo generale anno 2010 avente ad oggetto: indennità ex lege 210/92; tra le seguenti parti: (...) in nome e per conto di (...) rappresentali e difesi dall'avv. Lu.Ve. in virtù di procura speciale posta a margine del ricorso, ricorrente e MINISTERO della SALUTE in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura dello Stato, distretto di Ancona, resistente Conclusioni: come da atti di parte e verbali di causa. In fatto ed in diritto Con ricorso del 20.07.2010 i ricorrenti di cui in epigrafe, nella loro qualità di genitori e rappresentanti legali della figlia (...) hanno agito nei confronti del Ministero della Salute per veder riconosciuto il diritto della minore a percepire l'indennizzo di cui alla L. 210/92 alla luce del nesso causale sussistente fra la malattia contratta, ritardo psicomotorio, e la prima e seconda vaccinazione alla quale era stata sottoposta, rispettivamente, il 12.02.1998 ed il 10.04.1998. Fissata l'udienza di discussione, si è costituito l'ente convenuto eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva e nel merito, l'infondatezza della domanda. Espletata una consulenza tecnica d'ufficio, all'odierna udienza, esaurita la discussione, la causa è stata decisa come da separato dispositivo. Così sinteticamente riassumi i fatti di causa, preliminarmente va rigettata l'eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dal Ministero della Salute. L'art. 8 della L. n. 210/92 stabilisce che gli indennizzi previsti dalla legge stessa e tra questi non vi è dubbio che rientrino i benefici spettanti a coloro che, a norma del precedente art. 1 comma 1 abbiano riportato menomazioni a causa di vaccinazioni sono corrisposti dal Ministero della Sanità. In proposito l'art. 5 della legge citata chiarisce che, avverso il giudizio-sanitario espresso dalla competente Commissione medico ospedaliera sul nesso causale tra la vaccinazione e la malattia e sulla classificazione di quest'ultima, l'interessato può propone ricorso al Ministro della Sanità che decide su di esso e che è altresì in facoltà del ricorrente esperire l'azione innanzi al giudice ordinario competente entro un anno dalla comunicazione di tale decisione o in difetto, dalla scadenza del termine previsto per la comunicazione. Si può, dunque, ritenere senz'altro che, nei giudizi da instaurarsi innanzi all'autorità giurisdizionale ordinaria por l'accertamento di sussistenza delle infermità denunciate e della loro diretta derivazione dalla trasfusione, la legittimazione passiva spettasse al Ministero della Sanità in base all'originario impianto normativo. La situazione è in parte cambiata con l'emanazione del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 riguardarne il conferimento alle Regioni di alcuni compiti statali in materia sanitaria, L'art. 114 di detto corpo normativo ha stabilito che "sono conferiti alle regioni ... tutte le funzioni e i compiti amministrativi in tema di salute umana e sanità veterinaria, salvo quelli espressamente mantenuti allo Stato". Il successivo art. 123, in tema di contenzioso, ha, invece, previsto che "sono conservate allo Stato le funzioni in materia di ricorsi per la corresponsione degli indennizzi a favore di soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni "somministrazione di emoderivati". Successivamente con l'art. 1 del DPCM del 26 maggio 2000 sono stare individuate le risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative da trasferire alle Regioni per l'esercizio delle funzioni e dei compiti amministrativi in tema di salute umana di cui alla tabella A allegata, e tra queste figurano, alla lett. a) della tabella menzionata, per l'appunto le funzioni in materia di indennizzi a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati di cui alla legge 25 febbraio 1992 n. 210 e successive modificazioni... l'art. 2, comma quarto, del DPCM citato precisa che Restano a carico dello Stato gli eventuali oneri derivanti dal contenzioso riferito a fatti precedenti il trasferimento. In riferimento a tale clausola all'art. 3 del DPCM del 24 luglio 2005 è stato precisato che restano a carico dello Stato, ai sensi dell'art. 2, comma 4, del DPCM 26 maggio 7.000, gli oneri a qualsiasi titolo derivanti dal contenzioso riferito a qualsiasi ricorso giurisdizionale concernenti le istanze di indennizzo trasmesse sino al 21 febbraio 2001 al Ministero della sanità dalle aziende sanitarie locali. Al riguardo è opportuno precisare che a norma dell'art. 3 L. 210/92 le domande di indennizzo vanno presentate alla USL competente ma sono indirizzate al Ministero della Sanità; la USL provvede all'istruttoria delle domande ed all'acquisizione del giudizio da parte della Commissione medico-ospedaliera, sulla base delle direttive impartite dal Ministero. La Suprema Corte di Cassazione con varie pronunce fra le quali va ricordata la n. 10431 del 2007, che ha ripreso quanto già statuito da cass. n. 24889 del 2006 aveva affermato che alla luce della normativa appena citata, la legittimazione passiva spettasse al Ministero della Salute soltanto per le domande trasmesse fino al 21 febbraio 2001. Più recentemente il giudice di legittimità è tornato sui suoi passi e con sentenza n. 21703 del 2009 ha dichiarato, testualmente, che "in tema di indennizzo ai sensi della L. n. 210 del 1092 la titolarità passiva del rapporto per la generalità delle controversie amministrative e giudiziali spetta al Miinistero della Salute, indipendentemente dal momento di presentazione della domanda amministrativa per il riconoscimento del beneficio ovvero dalla data di trasmissione della medesima dalle Usl al Ministero della salute, dovendosi ritenere che l'art. 123 D.Lgs. n. 112 del 1998, nel conservare "allo Stato le funzioni in materia di ricorsi per la corresponsione degli indennizzi" in questione, abbia stabilito la perdurante legittimazione a contraddire del Ministero della salute sia in sede amministrativa che giudiziale, così da assicurare al medesimo una visione generale delle problematiche espressamente riservate allo Stato dall'art. 112, comma 2, lett. f, D.Lgs. n. 112 del 1998 prevedendo il trasferimento alle regioni - mediante diversi d.P.C.M. susseguitisi nel tempo e come tali, non suscettibili di derogare alla disposizione di legge - dei soli oneri economici, ricadenti nell'ambito delle competenze amministrative attribuite alle regioni ai sensi dell'art. 114 d.lgs. n. 112 del 1998. "Il revirement è stato confermato anche dalla successiva sentenza n. 23588 del 2009. In ogni caso, da ultimo, la parola fine sulla questione è stata pronunciata dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 12538 del 9.06.2011 che ha confermato la sussistenza della legittimazione passiva del Ministero. Ritiene questo giudice di condividere e, conseguentemente, adeguarsi all'orientamento da ultimo espresso dalla Suprema Corte in quanto maggiormente aderente al sistema normativo così come concepito e voluto dal legislatore. Passando, ora, al merito, nel corso del processo è stato nominato un consulente tecnico al fine, di verificare l'esistenza del nesso causale fra la malattia della piccola e la vaccinazione alla quale è stata sottoposta in tenera età. Ebbene nel caso concreto il CTU, dott. Se., ha ritenuto che le patologie da cui è affetta, la minore sono causalmente riconducibili alle vaccinazioni effettuate. Le conclusioni del CTU vengono fatte, proprie dal giudicante in quanto esse sono frutto di esaurienti ed accurate indagini, immuni da vizi logici o da errori di metodo e, comunque, non specificamente contestate dalle parti; la domanda attorea va pertanto, accolta nei confronti del Ministero della Salute il quale va condannato al pagamento dell'indennizzo di cui agli artt. 1 e 2 L. 210/1992, con gli interessi maturati fino alla data del pagamento. Le spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Tribunale di Pesaro, in persona del dott. Vincenzo Pio Baldi, quale giudice del lavoro, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da (...) e (...) in nome e per conto di (...) nei confronti del Ministero della Salute, con ricorso depositato in data 20.07.2010, rigettata ogni diversa istanza, deduzione ed eccezione, così provvede: A) accoglie la domanda e dichiara il diritto di (...) ad ottenere l'indennizzo di cui agli artt. 1 e 2 L. 210/1992; B) condanna il Ministero al pagamento dell'emolumento di cui al capo A), con gli interessi fino alla data del pagamento C) condanna il Ministero al pagamento delle spese processuali in favore dei ricorrenti liquidate in euro 780,00 per diritti, Euro. 2,000.00 per onorario, oltre spese forfetarie iva e cap. Così deciso in Pesaro il 4 giugno 2012. Depositata in Cancelleria il 4 giugno 2012.

  • TRIBUNALE DI PESARO REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI PESARO, composto dai sigg.ri: dr. Mario Perfetti PRESIDENTE dr.ssa Carla Fazzini GIUDICE dr. Lorenzo Pini GIUDICE rel. ha pronunciato dopo rituale delibera la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al 673/2012 R.G. e promossa da Con l'avv. LO.VA. - RICORRENTE - contro Con l'avv. BA.AN. - RESISTENTE - e PUBBLICO MINISTERO, in persona del Dott. Ma.Pa., Procuratore della Repubblica; - INTERVENUTO - FATTO E DIRITTO Con ricorso depositato in data 13/03/2012, si rivolgeva a questo Tribunale affinché pronunciasse la separazione personale dal coniuge con il quale aveva contratto matrimonio in data 25/07/1998 e dalla cui unione era nata, il 02/09/1995, la figlia. La ricorrente affermava che le cause della frattura coniugale risiedevano nelle condotte "palesemente contrarie a tutti i doveri nascenti dal matrimonio" tenute dal marito. In particolare riferiva che quest'ultimo - dopo un primo periodo (concomitante con i buoni proventi della pescheria di famiglia in cui il resistente lavorava con la propria madre) nel quale gli sposi avevano condotto una vita agiata - aveva completamente mancato, complice i gravi problemi finanziari derivanti anche da problemi dall'attività, di provvedere alle esigenze materiali e morali della famiglia sperperando gran parte delle risorse (in particolare il ricavato della vendita della attività di sua proprietà che, secondo la moglie, egli stesso aveva fatto fallire e della cessione della casa coniugale) nel gioco d'azzardo, nel consumo di sostanze stupefacenti, nella frequentazione di altre donne. Chiedeva pertanto l'affido esclusivo ed il collocamento presso di sé della figlia (minore all'epoca del ricorso) ed inoltre la corresponsione a carico del (...) della somma mensile di Euro 450,00, quale contributo di mantenimento per la figlia (...) (oltre il 50% delle spese straordinarie) e della somma mensile di Euro 250,00 a titolo di mantenimento per sé. Si costituiva in giudizio il Sig. (...) il quale, respingendo ogni richiesta ex adverso formulata, rilevava che la ricorrente, a suo avviso abituale consumatrice di psicofarmaci, lo aveva ingannato in quanto, falsamente prospettandogli la possibilità di un ritorno insieme, si era fatta attribuire una cospicua somma derivante dalla vendita della casa familiare. Rilevava inoltre come la stessa dovesse considerarsi anche inadeguata a provvedere alle esigenze della figlia. Pertanto, confermando l'impossibilità della prosecuzione della vita matrimoniale, il Pe. chiedeva a questo proposito che venisse disposta una CTU sulla persona della moglie al fine di accertarne la responsabilità genitoriale (così da disporre, per il caso di esito positivo della perizia, l'affido condiviso della figlia) e diversamente disporne l'affido esclusivo in capo al padre; nel merito, si rendeva disponibile ad una corresponsione a proprio carico di un contributo mensile per il mantenimento della figlia pari ad Euro 200,00, oltre il 50% delle spese straordinarie, mentre nulla riteneva fosse da versare a favore della ricorrente, ritenuta economicamente autosufficiente. Fallito il tentativo di conciliazione esperito all'udienza del 30/07/2012 fissata per la comparizione dei coniugi, il Presidente con ordinanza del 01/08/2012 autorizzava i coniugi a vivere separati, affidava la figlia minore in modo condiviso ad entrambi i genitori, collocandola presso la madre, poneva a carico del (...) l'obbligo di corrispondere per il mantenimento della figlia la somma di Euro 300,00 e per il mantenimento della coniuge la somma di Euro 200,00. Avverso tale ordinanza presidenziale, il (...) proponeva reclamo alla Corte di Appello di Ancona, contestando in particolare la parte della decisione relativa al mantenimento. La Corte rigettava il reclamo, rimandando così le parti alla sede istruttoria per la valutazione di eventuali nuove circostanze. La causa procedeva quindi avanti il Giudice Istruttore, il quale, concessi di termini di cui all'art. 183 co. 6, all'udienza del 19 giugno 2014 ammetteva le prove richieste dalle parti nelle rispettive memorie. A seguito di istanza di modifica dell'ordinanza presidenziale, proposta da parte resistente a fronte delle mutate capacità reddituali del (...) (il cui reddito, a causa della fine del rapporto di lavoro e della cessazione dell'indennità di infortunio/disoccupazione, non raggiungeva più le cifre considerate nella fase presidenziale del procedimento, in base alle quali era stata emanata l'ordinanza del 01/08/2012) nonché della sopravvenuta documentazione inerente il profilo (...) della (...) (nel quale quest'ultima, durante una conversazione on line dichiarava di ricevere un compenso di Euro 1.000,00 per ogni serata passata in un locale fanese), veniva quindi ridotto della metà il contributo a titolo di mantenimento a favore di (...) fissandolo ad Euro 100,00. Esaurita l'istruttoria, la causa veniva rimessa al Collegio per la decisione. Precisando ciascuna parte le proprie conclusioni, più nulla veniva da entrambe richiesto in merito all'affidamento della figlia (...) che, nelle more del giudizio, era diventata maggiorenne. Il PM concludeva per la separazione dei coniugi. Sulla base degli atti, delle memorie e della documentazione prodotta dalle parti, nonché dall'espletamento della prova testimoniale, deve ritenersi accertata l'insanabile frattura tra i coniugi e l'intollerabilità della prosecuzione della loro convivenza. Giova anzitutto precisare che la parte ricorrente (...), nelle conclusioni indicate col proprio ricorso introduttivo, non avanzava formale richiesta di addebito. È noto che, in linea di massima, "Nel giudizio di separazione personale, il ricorso introduttivo rappresenta l'atto di riscontro, "quoad tempus", della tempestività delle domande avanzate dal ricorrente, cosicché la domanda di addebito, proposta da quest'ultimo, non contenuta nel ricorso medesimo, ma avanzata o nella fase dinanzi al presidente del tribunale o in un momento ancora successivo ad essa, soggiace alla sanzione dell'inammissibilità" (cass. n. 11305/07). Appare tuttavia condivisibile l'orientamento secondo cui la domanda di addebito non occorre che (..) sia espressamente ripetuta nella parte relativa alle conclusioni del ricorso introduttivo, essendo sufficiente che l'intenzione di uno dei coniugi di addebitare la separazione all'altro risulti univocamente dalla lettura dell'atto nel suo complesso" (cass. n. 1278/14). Nel caso di specie, come visto, non v'è dubbio che - anche da una rapida scorsa del ricorso introduttivo - emerga indiscutibile l'intento della (...) di addebitare alla controparte la responsabilità del naufragio del consorzio coniugale. Prova ne sia che anche il (...), pur essendo la carenza di una richiesta di addebito rilevabile d'ufficio, non solo non abbia sollevato la relativa eccezione ma nemmeno abbia posto in dubbio l'impostazione dell'azione giudiziaria della controparte volta a richiedere l'addebito a suo carico. Tanto chiarito, è possibile accogliere la richiesta di addebito della separazione in capo al (...). Dalle deposizioni rese - in particolare dagli stessi familiari del (...) è emerso come il resistente, pur gravato da rilevanti debiti derivanti dalla propria attività imprenditoriale, avesse operato una gestione delle risorse finanziarie (anche da destinare alla famiglia) certamente poco accorta. In particolare meritano di essere menzionate la deposizione - acquisita agli atti senza opposizione del (...) resa dalla figlia nell'ambito del (...) procedimento per inabilitazione Rg. n. 2294/14. In essa, quest'ultima confermava che la parte (in contanti) del più rilevante importo complessivamente percepito per la caparra in occasione dell'atto del preliminare di vendita della casa familiare e conservato in una scatola era inspiegabilmente venuta meno. Aggiungeva, più precisamente, che "mia madre diceva che lei non li aveva spesi ed era arrabbiata con mio padre perché li aveva spesi tutti lui. Ho visto la scatola vuota. Ho sentito mio padre sul punto e ha detto che non era stato lui. Mio padre disse che con una parte di quei soldi aveva pagato le bollette ma ciò non era vero perché non erano state pagate le bollette. Non era affatto stupito che i soldi nella scatola non ci fossero". Riferiva quindi che "mia madre ha mai preso soldi da lì. Era l'unica scatola che avevamo a casa con i soldi. I miei genitori in quel periodo non lavoravano". La sorella del resistente (...), raccontava come il fratello le chiedesse sempre soldi, che telefonava continuamente per domandare denaro (alle volte anche ricorrendo a minacce) e allo stesso modo si comportava con i genitori "che glieli hanno dati fino a che non li hanno finiti". Tali ininterrotte e pressanti richieste, inoltre, non erano motivate unicamente - secondo quanto dalla stessa ricordato - da debiti di lavoro. Confermava anche "che mia zia (...) è andata a vivere con lui, contro il mio volere, e so che mia zia aveva le spalle ben coperte e quando è morta non avevo più una lira e gli abbiamo pagato io e mio padre il funerale". Tali dichiarazioni coincidono con quelle dalla stessa rese anche nel procedimento per inabilitazione all'udienza del 14.10.2015 ed acquisite - come detto - col consenso della parte resistente. In particolare ribadiva di aver prestato denaro al fratello consegnandolo all'avvocato di quest'ultimo "perché non mi fiderei mai di darli nelle mani di mio fratello, so che ha sperperato tutto il denaro di famiglia e ciò so senza poter quantificare ma posso dire che ha sperperato tutto il patrimonio di che lui ha accolto in casa ma in cambio le ha preso tutti i soldi. Ciò è comunque è una mia valutazione perché so che mia zia è entrata in casa che aveva grossi risparmi ed è uscita senza avere più nulla in banca (..) ha sperperato poi tutti i soldi dei miei genitori e ciò ho saputo quando la Ba.Ma. mi ha telefonato per dirmi che c'era un conto in passivo di 25.000,00 Euro (..) credo che sul conto dei miei ci fossero circa 400 milioni di Lire che poi come ho detto sono spariti e addirittura arrivando ad un passivo di circa 25.000,00 Euro, sono tutti andati per mio fratello che aveva paura gii portassero via la casa (..) gii amici di lui mi dicevano che era sempre là a San Marino a giocare e a sprecare i soldi". Anche la madre della ricorrente (...) - ricordava di aver prestato in varie occasioni circa 10.000,00 Euro complessivamente e che tali somme non erano più state restituite. Nella consulenza tecnica disposta nel suddetto procedimento per inabilitazione - anch'essa acquisita agli atti senza opposizione - è scritto che "Il "transito" di cospicue quantità di denari (di cui solo in parte si riesce a capire il percorso, dato che anche in questo caso vengono fornite versioni decisamente diverse) lascia dubbi (stante la condizione personologica di base sulla quale precedentemente ci si è soffermati) sulla capacità di "gestire" ingenti somme" (pag. 9). La teste (...), cugina della ricorrente e frequentatrice della famiglia confermava che dall'anno 2011 il resistente avesse cessato di contribuire al mantenimento della famiglia (spese alimentari, bollette, ecc.) e, in particolare, che la (...) (con la figlia) fosse stata costretta ad andarsene da casa perché "a casa non avevano più niente se non il prosciutto coi vermi e piadina ammuffita nel frigo". Inoltre, sottolineava come il (...) ancorché richiesto più volte dalla moglie di documentare le spese che diceva di sostenere - eludesse sistematicamente tali legittime pretese. Il quadro che emerge dall'analisi complessiva delle deposizioni assunte quindi rivela, da un lato, la presenza di obiettive ed indiscutibili difficoltà economiche e quindi - di riflesso - familiari e, dall'altro, una gestione delle risorse della famiglia da parte del resistente certamente non oculata e - pur non essendo dimostrato l'impiego di ingenti risorse nel gioco - pacificamente non connotata da quella minima prudenza in grado di assicurare alla coniuge (e alla famiglia) la necessaria assistenza materiale prevista dall'art. 143 c.c. da intendersi come quale obbligo di conferire in famiglia le risorse economiche indispensabili al mantenimento di un adeguato (alle possibilità) tenore di vita. Nel caso in esame, nonostante la presenza di alcune testimonianze contrapposte, è comunque emerso che il (...) avesse certamente potuto gestire ingenti risorse economiche. L'amministrazione, come detto non sempre trasparente, di tali risorse unita alla - dimostrata - costante necessità di procurarsi denaro presso numerosi familiari senza che ne venisse chiaramente indicato e documentato (sul punto le dichiarazioni testimoniali presentano all'evidenza una scarsa affidabilità) il motivo e/o la destinazione di esso unitamente ad una sua possibile (come rilevato dal ctu) scarsa avvedutezza nel governare rilevanti disponibilità paiono indizi concordanti e sufficienti ad integrare la presunzione - stante anche l'accertata contestuale presenza delle difficoltà economiche familiari - di una sua mancata o comunque non adeguata ottemperanza al dovere di assistenza materiale indicato. Un simile comportamento - posto che non sono emerse condotte della parte ricorrente in grado di rappresentare significative violazioni anche da parte sua ai doveri che incombono sui coniugi - pare effettivamente possedere l'attitudine non solo a rendere intollerabile la prosecuzione del matrimonio ma - costituendo violazione dei doveri matrimoniali - anche a giustificare l'addebito della separazione in capo al resistente. Ciò posto, si è detto che la figlia (...), nata nel 1995, risulta ad oggi già divenuta maggiorenne. Ne discende la conseguenza che nulla deve essere disposto con riguardo al suo affidamento e collocazione né alle modalità di visita e di incontro con i genitori (in particolare con quello non convivente). Ella, tuttavia, allo stato vive con la madre presso l'abitazione della nonna (materna) e non possiede una autosufficienza economica. Ella, peraltro, da tempo risulta sottoposta, come dalla stessa confermato, a cure psicologiche/psichiatriche iniziate durante il periodo della separazione dei genitori. La circostanza non è in contestazione, tanto che il padre si offre di versare un contributo di mantenimento pari ad Euro 200,00. Tenuto conto dell'art. 337 septies c.c., rilevato che - con riguardo ai figli - il dovere di contribuire al loro mantenimento non viene meno in capo al genitore anche se disoccupato e che, in particolare, in favore della stessa è, sin dall'emissione dei provvedimento presidenziale, previsto il versamento della somma di Euro 300,00 appare possibile confermare in questa sede tale importo. Si ricorda, al riguardo, stante la specifica richiesta della ricorrente a che il mantenimento decorresse dalla domanda, che "l'assegno perequativo disposto dal giudice nella sentenza di separazione decorre dalla data della decisione e non dalla data della proposizione della domanda, trattandosi di una pronuncia determinativa che non può operare per il passato, per il quale continuano a valere le determinazioni provvisorie di cui agii artt. 708 e 709 cod. proc. civ." (cass. n. 18538/13). Nel caso di specie, tuttavia, attesa la conferma del provvedimento presidenziale sul punto, la questione pare priva di rilevanza concreta. Per quanto concerne il mantenimento richiesto dalla ricorrente per sè, ritiene il Collegio di non poter trascurare quanto emerso in corso di giudizio relativamente all'attività dalla stessa presuntivamente svolta. In particolare, va rilevato come la stessa Ma. abbia - in una visibile conversazione intrattenuta sul social network (...) con altro soggetto - espressamente dichiarato di percepire 1.000,00 Euro a serata per l'attività svolta nel locale raffigurato nelle foto pubblicate sul medesimo profilo. Come già illustrato nell'ordinanza 15.07.2015 - cui integralmente si rimanda - tali dichiarazioni posseggono una indubbia valenza confessoria (ancorché liberamente valutabili in quanto non rese alla controparte) che risulta avallata dal corredo fotografico del profilo (...) (che effettivamente ritrae la in svariate occasioni di svago notturno presso tale locale). Anche volendo considerare il contesto in cui tali dichiarazioni sono state rese, è tuttavia chiaro che - pure laddove non si trattasse di entrate fisse ma solo occasionali - ciò basterebbe ugualmente ad escludere l'obbligo di mantenimento gravante sul (allo stato ridotto ad Euro 100,00) se si considera che simili entrate sarebbero comunque molto maggiori di quelle su cui - allo stato - può contare il che si trova in condizioni di disoccupazione. Trascurare questo dato significa non ottemperare alla prescrizioni codicistica dell'art. 156 c.c. che precisa come tale obbligo (di mantenimento) vada pur sempre rapportato sia alla carenza di adeguati redditi propri da parte dell'assistito sia alla consistenza dei redditi dell'obbligato - come visto - estremamente modesti. Peraltro, per via testimoniale, l'investigatore privato _ riferiva di aver seguito per un po' di tempo la ricorrente e di averla vista frequentemente lavorare presso il chiosco di fiori della cugina. Inoltre - come confermava tanto la madre della quanto la cugina nonché la figlia (...) la stessa sosteneva i costi di psicoterapia di quest'ultima. Tali circostanze - lette complessivamente - conducono alla conclusione che la (...), ancorché afflitta da patologie che ne provocavano il riconoscimento di un'invalidità civile, sia ugualmente in grado di contare su una capacità lavorativa e quindi su entrate economiche. Da tutto questo consegue altresì l'impossibilità di ritenere sussistenti i presupposti necessitati per l'imposizione - a carico del - di un obbligo di contribuzione al mantenimento della moglie in grado di beneficiare, come dalla stessa pubblicamente dichiarato sulla propria pagina (...), di entrate superiori a quelle del marito. Considerata la causa complessivamente, le spese di lite sono da quantificarsi, con riferimento al D.M. n. 55/2014, nella misura di - quanto al giudizio di merito - Euro 6.600.00 per compensi (oltre iva e cpa come per legge) - tenendo a mente un valore pari ad Euro 1.200,00 per la fase di studio, ad Euro 800,00 per quella di introduzione, ad Euro 2.800.00 per quella istruttoria e ad Euro 1.800,00 per quella decisoria - oltre rimborso spese forfetarie nella misura del 15% del compenso appena citato ex art. 2 D.M. n. 55/2014 e, quanto al giudizio cautelare intervenuto in corso di causa, nella misura di Euro 1.100.00 per compensi (oltre iva e cpa come per legge) - tenendo a mente un valore pari ad Euro 500,00 per la fase di studio, ad Euro 300,00 per quella di introduzione e ad Euro 300.00 per quella decisoria - oltre rimborso spese forfetarie. La parziale soccombenza della parte ricorrente giustifica tuttavia la compensazione delle spese di giudizio per la quota di 1/3 con condanna del resistente Pe. (la cui ammissione al gratuito patrocinio non osta al personale versamento - ove soccombente - delle spese di lite come da cass. n. 10053/12) al pagamento della frazione residua. P.Q.M. Il Tribunale: - dichiara la separazione personale dei coniugi (...), nata (...), (...) e, nato (...), che hanno contratto matrimonio a Pesaro il 25/07/1998, con addebito della stessa a carico di (...); - dispone la trasmissione della presente sentenza, quando sia passata in giudicato, all'Ufficiale di Stato Civile del Comune di Pesaro, perché provveda alla annotazione della stessa a margine dell'atto di matrimonio (atto n. 54, parte I, anno 1998); - pone a carico di (...) l'obbligo di corrispondere un contributo mensile a titolo di mantenimento per la figlia (...) dell'importo Euro 300,00 rivalutabili annualmente Istat da versarsi alla ricorrente (...) entro il giorno 05 del mese; - pone a carico di entrambi i coniugi nella misura del 50% l'obbligo di contribuire alle spese straordinarie (mediche, sportive, di istruzione) concordate e documentate relative alla figlia (...); - rigetta la domanda di condanna del (...) avanzata dalla ricorrente al pagamento di un contributo di mantenimento; - condanna il resistente (...) a rifondere alla controparte le spese di lite nella misura di 2/3 dell'importo di Euro 6.600,00 liquidato per compensi (oltre iva e cpa come per legge) - secondo i valori di fase meglio dettagliati in motivazione - oltre rimborso spese forfetarie per quanto concerne il giudizio di merito nonché di 2/3 dell'importo di Euro 1.100,00 per quanto concerne il procedimento cautelare dichiarando compensata tra le parti la residua porzione di 1/3. Così deciso in Pesaro l'8 novembre 2016. Depositata in Cancelleria il 20 dicembre 2016.

  • Trib. Pesaro, 19/01/2016, n. 42 IN FATTO ED IN DIRITTO La opposizione proposta da parte esecutata non è fondata. Quanto al primo e terzo motivo di opposizione, si osserva che i medesimi hanno ad oggetto la legittimità della formazione del titolo sulla base del quale si procede così che la loro proposizione deve ritenersi, in questa sede, inammissibile (conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 6893 del 18/06/1991: nel giudizio di opposizione alla esecuzione, l'indagine del giudice è limitata all'accertamento della esistenza e validità del titolo esecutivo e delle eventuali cause che ne abbiano successivamente determinato l'invalidità o l'inefficacia. Pertanto, nel giudizio di opposizione alla esecuzione promossa in forza di decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, il debitore esecutato non può contestare la legittimità del provvedimento di provvisoria esecuzione del titolo negando il fondamento, nell'"an" o nel "quantum", del diritto fatto valere nei suoi confronti per motivi che avrebbe potuto fare valere nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, spettando soltanto al giudice di tale procedimento di provvedere con la sentenza definitiva in ordine alla revoca o meno di quel provvedimento). Né, peraltro, la statuizione di cui alla sentenza n. 569/2014 del Tribunale di Pesaro -poiché riguardante la sola risoluzione del contratto di locazione - è idonea a spiegare effetti sulla domanda di pagamento dei canoni maturati sino al rilascio. Quanto al secondo motivo di opposizione, si osserva quanto segue. A seguito della notifica dell'atto di pignoramento presso terzi in data 18 novembre 2014, con citazione a comparire alla udienza del 14 gennaio 2015 (rinviata di ufficio al 4/2/2015) sono comparsi sia la parte procedente che quella esecutata, nonché è stata depositata la dichiarazione di debito resa dal terzo pignorato. L'atto di pignoramento, di conseguenza, deve ritenersi aver raggiunto lo scopo al quale era diretto così che legittima deve ritenersi la contestuale istanza di assegnazione delle somme pignorate. Tale conclusione è conforme all'orientamento giurisprudenziale formatosi nella interpretazione dell'art. 1 LEGGE 7 giugno 1993, n. 183 (vedi Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6237 del 15/03/2010) secondo la quale il difetto di conformità all'originale della copia teletrasmessa, idonea a tradursi nella nullità dell'atto, resta tuttavia sanato, ai sensi dell'art. 156, secondo comma, cod. proc. civ., ove il ricorrente abbia comunque potuto replicare al contenuto degli stessi, dovendosi ritenere che, nonostante le irregolarità della trasmissione, l'atto abbia raggiunto lo scopo cui era destinato. Inammissibile, infine, è la eccezione secondo la quale il pignoramento avrebbe perso efficacia (ai sensi dell'art. 543 IV comma cpc) poiché detta eccezione è stata formulata (atto di opposizione depositato in data 30 gennaio 2015) nei trenta giorni decorrenti dalla data di restituzione dei titoli al procedente (9 gennaio 2015) quando, cioè, ancora era possibile il deposito dell'originale di notifica o della sua copia conforme. Resta assorbita, pertanto, la questione circa la sanzione applicabile in caso di deposito di copia dell'originale dell'atto di citazione priva della dichiarazione di conformità. Stante la novità delle questioni ricorrono giusti motivi per compensare le spese di lite tra le parti. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza disattesa o assorbita, così dispone: Rigetta la opposizione proposta da omissis. Spese interamente compensate tra le parti. Sentenza resa ex articolo 281 sexies c.p.c., resa alle ore 13.00 del 19 gennaio 2016.

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