Sentenze recenti Tribunale Trieste

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Sezione Specializzata in Materia di Impresa Il Tribunale, in composizione collegiale, nella persona dei giudici dott. Arturo Picciotto Presidente dott. Francesco Saverio Moscato Giudice dott. ssa Monica Pacilio Giudice Monica Pacilio Giudice relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di Grado iscritta al n. r.g. 850/2023 promossa da: (...) (C.F. C.F.(...))" con il patrocinio dell'avv (...) ATTORE contro (...) (C.F.(...)), con il patrocinio del (...)) CONVENUTA avente ad oggetto: cause in materia di trasferimento di partecipazioni sociali - Sez. Spec. Imprese -ci auso la compromissoria - opposizione al decreto ingiuntivo n. 78/2023 Trib. Trieste CONCLUSIONI: PER PARTE ATTRICE: come da foglio di (...) "Voglia l'Onorevole Tribunale di Trieste, Sez. Specializzata delle Imprese, respinta ogni avversa deduzione, eccezione, istanza o richiesta, nel merito così provvedere: IN VIA PRINCIPALE, rilevata la presenza di clausola compromissoria, dichiarare il difetto di giurisdizione in favore dell'arbitro unico e, per l'effetto, revocare e dichiarare nullo il decreto ingiuntivo opposto. IN VIA ISTRUTTORIA, con riserva di formulare occorrendo specifiche istanze in sede di memorie istruttorie autorizzate ex art. 183 6°comma, n. 1,2,3. IN TUTTI I CASI, con vittoria di compensi professionali". PER PARTE CONVENUTA: come da foglio di (...) "nel merito: a) accertato il credito di (...) nei confronti del dott. (...) confermare il decreto ingiuntivo n. 78/2023 del Tribunale di Trieste - Sezione Specializzata in materia di impresa e condannare il dott. (...) a pagare ad (...) in persona del suo legale rappresentante prò tempore, la (...) somma di euro 100.000,00, salva diversa, maggiore o minore liquidazione giudiziale, oltre interessi moratori ex art. 5 D.Lgs. n. 231/2002, sugli importi dovuti dalla scadenza del termine di pagamento previsto nella scrittura privata di data 10.04.2012, e cioè il 31.12.2013, al saldo, unitamente ai compensi, rimborso spese generali (15%) ed esborsi per la fase monitoria come liquidati nel decreto ingiuntivo opposto; b) in ogni caso, spese di causa interamente rifuse. In via istruttoria: riservata ogni istanza anche istruttoria necessitata dalle difese avversarie". Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione I fatti di causa. 1. (...) ha convenuto in giudizio (...) al fine di opporsi al decreto ingiuntivo n. 78/2023 del Tribunale di Trieste - provvisoriamente esecutivo - notificato unitamente all'atto di precetto in data 24.02.2023, con il quale gli veniva ordinato di pagare la somma di Euro 100.000,00, oltre a interessi legali e spese. 2. A base del ricorso per decreto ingiuntivo Adricom ha allegato che, con contratto dd. 10.04.2012, il padre (ora deceduto) dell'opponente aveva acquistato dalla società la partecipazione pari al 4,99% del capitale sociale della (...) s.r.l. per il prezzo di Euro 100.000,00. Ha quindi affermato che il prezzo non è stato pagato nel termine contrattuale (31.12.2013), nonostante i ripetuti solleciti. 3. A fondamento della sua opposizione (...) ha eccepito, in primo luogo che nel contratto di cessione è presente una clausola compromissoria, tale per cui il giudice ordinario sarebbe carente di giurisdizione; ha inoltre contestato anche l'effettiva debenza della somma monitoriamente azionata. 4. (...) si è costituita in giudizio, ribadendo la ricostruzione dei fatti effettuata nel ricorso per decreto ingiuntivo e contestando tutte le eccezioni avversarie. 5. Con ordinanza del 22.03.2023 è stata sospesa la provvisoria esecutorietà del decreto in considerazione della clausola compromissoria; la causa è stata quindi trattenuta in decisione con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. Decisione della causa. 1. L'eccezione di carenza di giurisdizione del giudice ordinario in favore del procedimento arbitrale è fondata e il decreto ingiuntivo opposto deve essere revocato. 2. Infatti, nel contratto di vendita della quota sociale è presente la seguente clausola compromissoria: "Qualsiasi controversia che avesse a insorgere tra le parti per qualunque ragione e titolo, comunque relativa alla interpretazione ed esecuzione del presente accordo, sarà risolta da un Arbitro Unico nominato dal presidente dell'ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili di Udine. L'arbitro giudicheranno (sic) secondo equità, senza formalità di procedura, con giudizio inappellabile, quale mandatario delle parti in contesa e quindi con arbitrato irrituale". Dal tenore della clausola, che fa riferimento a "qualsiasi controversia", deriva che anche una lite relativa al pagamento del prezzo debba essere ricompresa in detta ampia previsione pattizia, con la conseguenza che la giurisdizione del giudice ordinario deve essere esclusa in favore del procedimento arbitrale, da svolgersi secondo le modalità indicate nel contratto stesso. Quanto alla sorte del decreto ingiuntivo, si possono richiamare i precedenti della Suprema Corte già menzionati da parte opponente (Cass. SS. UU. 22433/2018 e Cass. Sez. VI 9035/2019) per concludere che il decreto ingiuntivo nel caso in esame poteva in effetti essere richiesto e concesso pur in presenza di una clausola compromissoria, ma deve ora essere revocato dal momento che l'ingiunto ha eccepito l'esistenza della clausola, facendo così venire meno la giurisdizione del giudice ordinario. 3. Le spese di lite seguono la soccombenza, secondo la regola generale dettata dall'art. 91 c.p.c. Nel caso in esame, dunque, dovranno essere messe a carico della parte (...) che ha azionato la pretesa davanti al giudice ordinario, vedendo però dichiarata la mancanza di giurisdizione di questo. Le spese sono quindi liquidate come da dispositivo secondo i parametri previsti dal D.M. 55/2014, in base allo scaglione della causa (da Euro 52.001 a Euro 260.000), attestandosi sui valori minimi in considerazione della semplicità delle questioni trattate e dell'istruttoria soltanto documentale. P.Q.M. ogni altra istanza, deduzione ed eccezione disattesa, definitivamente pronunziando, il Tribunale di Trieste così provvede: 1. dichiara la carenza di giurisdizione del giudice ordinario in favore del procedimento arbitrale; 2. revoca il decreto ingiuntivo n. 78/2023 del 02.02.2023 del Tribunale di Trieste; 3. condanna (...) pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 7.100,00 per competenze di avvocato, oltre a spese generali nella misura del 15%, IVA e CNAP come per legge. Manda alla cancelleria per gli adempimenti. Trieste, 16/05/2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI TRIESTE - SEZIONE CIVILE - in composizione monocratica, in persona del giudice dott. Edoardo Sirza, pronuncia la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n.r.g. 2583/2023, promossa DA (...), nata a (...), il (...), C.F. (...) con l'avv. (C.F. (...); - ATTRICE - CONTRO (...) C.F. (...), in persona del legale rappresentante pro tempore, con l'avv. (...)); (...), contumace; (...) , contumace; - CONVENUTE - Oggetto: risarcimento del danno derivante dalla circolazione RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELIA DECISIONE Con ricorso ex art. 281 decies c.p.c. depositato il 28/6/2023 (...), rappresentata dall'avv. (...) giusta procura alle liti depositata telematicamente in allegato al ricorso, ha convenuto in causa ... (...)(...), e (...) chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti in conseguenza di un sinistro stradale. Nella contumacia della proprietaria della vettura assicurata e della conducente, alla prima udienza di comparizione delle parti celebrata il 26/10/2023, la sola convenuta costituita (...) ha eccepito l'improcedibilità della domanda ex art. 3, D.L. n. 132 del 2014, per non essere stato trasmesso dall'attrice l'invito alla stipulazione della convenzione di negoziazione assistita. Il giudice, ai sensi del predetto art. 3, assegnava termine di quindici giorni per la comunicazione dell'invito e rinviava il processo all'udienza del 4/4/2024, poi differita all'11/4/2024. In questa sede, la convenuta(...) insisteva nell'eccezione di improcedibilità sostenendo che il trasmesso invito alla stipulazione della convenzione di negoziazione assistita era invalido in quanto sottoscritto dal solo avv., privo di una procura speciale ad hoc, laddove l'art. 4, comma 2, D.L. n. 132 del 2014, esìge che l'invito sia sottoscritto dalla parte personalmente con certificazione dell'autografia da parte dell'avvocato cui compete la trasmissione dell'invito alla controparte. Il giudice, inoltre, officiosamente indicava un ulteriore profilo di possibile improcedibilità della domanda dovuto al fatto che l'invito alla stipulazione della convenzione di negoziazione assistita era stato trasmesso al difensore col ministero del quale si era costituita in giudizio la convenuta (...) e non già alla parte personalmente, sicché fissava al 24/4/2024 l'udienza di precisazione delle conclusioni e discussione orale della causa ex art. 281 sexies c.p.c. Ivi le parti concludevano come in epigrafe richiamando a sostegno delle proprie contrapposte posizioni contrastanti precedenti giurisprudenziali di merito. La domanda è improcedibile ex art. 3 D.L. n. 132 del 2014. La negoziazione assistita da avvocati è un procedimento introdotto dal legislatore al capo II del D.L. n. 132 del 2014, con finalità deflattiva del contenzioso giurisdizionale, il cui avvio è stato reso obbligatorio, pena l'improcedìbilità della domanda giudiziale, in determinate materie tra cui quella che ci occupa. Fisiologicamente è un procedimento extraprocessuale ante causam che trova la propria disciplina formale negli artt. 2 e ss. del D.L. n. 132 del 2014. E' dunque logico che, nella fisiologia, l'atto di impulso al procedimento di negoziazione assistita debba provenire personalmente dalla parte che intende esercitare in giudizio un'azione, o da un suo procuratore speciale al compimento dell'atto. Quest'ultimo, infatti, non rientra tra gli atti che, ai sensi dell'art. 84 c.p.c. il difensore può porre in essere in forza della procura quella lite che il procedimento di negoziazione assistita mira invece ad evitare. D'altro canto, anche da un punto di vista letterale, si deve osservare che l'art. 84 c.p.c. attribuisce al difensore della parte il potere di compiere e ricevere tutti gli atti del processo che la legge non riserva espressamente alla parte, ma gli atti del procedimento di negoziazione assistita, che appunto precede e mira ad evitare il processo, ontologicamente non possono essere qualificati atti processuali Altrettanto logicamente, nella fisiologia, l'invito alla negoziazione assistita (al pari della domanda giudiziale) deve essere trasmesso personalmente alla (potenziale) controparte. Deve ora prendersi in considerazione il fatto che il legislatore, all'art. 3 del D.L. n. 132 del 2014, ha che l'attrice possa sanare l'omesso assolvimento della condizione di procedibilità, dovendo il giudice che abbia rilevato il difetto della condizione di procedibilità disporre il rinvio della prima udienza con concessione alla parte di un termine di quindici giorni per la comunicazione dell'invito a stipulare la convenzione di negoziazione assistita. V'è dunque da chiedersi se, a fronte della patologia dovuta all'omesso originario assolvimento della condizione, il fatto che il procedimento di negoziazione assistita sia avviato, a fini di emenda del vizio, solo dopo che il processo è già stato introdotto, determini un'attrazione del procedimento di negoziazione assistita, che fisiologicamente abbiamo visto è ante ed extra causam, all'interno del processo. La risposta è negativa. Infatti, è evidente che il legislatore, laddove ha disposto che il giudice rinvii l'udienza assegnando alla parte in difetto un termine per avviare il procedimento di negoziazione assistita e sanare il vizio, ha previsto che il processo, che non avrebbe dovuto essere (ancora) incominciato, entri in una fase di quiescenza durante la quale possa essere compiuta l'attività extraprocessuale con finalità deflattiva. La sola differente scansione cronologica tra l'invito alla negoziazione assistita e l'introduzione del processo, peraltro dovuta ad una patologia, non è dunque sufficiente a mutare la natura extraprocessuale e la finalità deflattiva del procedimento di negoziazione assistita. A ciò consegue che, anche nella fase di sanatoria, l'invito alla stipulazione della convenzione deve essere trasmesso alla parte convenuta personalmente e non già al procuratore con cui si è costituita in causa. Infatti, l'art. 170 c.p.c., ai sensi del quale "dopo la costituzione in giudizio tutte le notificazioni e le comunicazioni si fanno al procuratore costituito, salvo che la legge disponga altrimenti", va letto in combinato disposto con l'art. 84 c.p.c., ai sensi del quale il difensore col ministero del quale la parte è costituita in giudizio "può compiere e ricevere, nell'interesse della parte stessa, tutti gli atti del processo che dalla legge non sono ad essa espressamente riservati". Pertanto, l'obbligo di notificazione al procuratore costituito riguarda esclusivamente gli atti del processo che egli è abilitato a ricevere, non potendosi invece estendere l'obbligo agli atti extra processuali qual è l'invito alla stipulazione della convenzione di negoziazione assistita. Per tale ragione, poiché nel caso di specie l'invito alla stipulazione della convenzione di negoziazione assistita è stato trasmesso al difensore della convenuta costituto in giudizio e non già alla parte personalmente, la condizione di procedibilità non è stata assolta. Anche la ragione posta alla base dell'eccezione sollevata dalla difesa della convenuta, comunque, è fondata. Trattandosi di atto extra processuale, non efficacemente sorretto dalla procura alle liti, l'invito alla stipulazione della convenzione di negoziazione assistita deve provenire dalla parte personalmente o da un suo procuratore speciale al compimento dell'atto (sul piano letterale, peraltro, l'art. 4 comma 2, D.L. n. 132 del 2014 dispone che "La certificazione dell'autografia della firma apposta all'invito avviene ad opera dell'avvocato che formula l'invito"). Quanto a quest'ultimo profilo, va disattesa l'argomentazione della difesa dell'attrice per cui, nel caso di specie, sussisterebbe una procura speciale al compimento dell'atto essendo stata espressamente conferita la procura speciale "in base al combinato disposto di cui agli artt. 185, 82, 83 c.p.c". Infatti, anche ad ammettere - e se ne può dubitare - che tale formulazione soddisfi il requisito, prescritto dall'art. 185 c.p.c., dell'espresso conferimento al difensore che rappresenti la parte nell'udienza fissata per l'interrogatorio libero diretto a provocare la conciliazione delle parti del potere di conciliare o transigere la controversia, si tratta comunque di un potere di rappresentanza circoscritto ad una specifica attività processuale, costituita dall'udienza di comparizione personale delle parti per il libero interrogatorio a fini conciliativi che, a parte la comune finalità conciliativa, è strutturalmente distante dalla formulazione dell'invito alla stipulazione della convenzione di negoziazione assistita. Deve dunque escludersi che la procura a rappresentare la parte all'udienza per il tentativo di conciliazione includa anche il potere di promuovere la procedura di negoziazione assistita. Come anticipato, dunque, non è stato efficacemente avviato il procedimento di negoziazione assistita nel concesso termine, per cui la monda va dichiarata improcedibile. Le spese processuali seguono la soccombenza, ma l'assenza di precedenti di legittimità e la presenza di contrastanti orientamenti giurisprudenziali di merito richiamati dalle parti in sede di discussione giustifica, ex art. 92, secondo comma c.p.c., la parziale compensazione delle spese processuali, nell'equa quota di 2/3. Quelle poste a carico dell'attrice vengono liquidate in dispositivo, nella predetta quota di 1/3, con applicazione dei valori medi per le fasi di studio e introduttiva e minimi per quella decisionale che si è tenuta in forma semplificata. P.Q.M. Il TRIBUNALE DI TRIESTE SEZIONE CIVILE definitivamente pronunciando nel giudizio civile n.r.g. 2583/2023, disattesa ogni ulteriore istanza, eccezione e difesa, così provvede: 1. dichiara la domanda giudiziale attorea improcedibile; 2. condanna l'attrice a rifondere alla convenuta 1/3 delle spese processuali liquidate, nella quota, in 2.100 euro per compensi, oltre al 15% per spese generali, c.p.a. e i.v.a come per legge; compensa le spese per i restanti 2/3. Così deciso in Trieste il 2 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI TRIESTE SEZIONE PENALE Il Giudice dott. Giorgio Nicoli, alla pubblica udienza del 11 dicembre 2023, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel procedimento nei confronti di Ka.Ma. nato a T. il (...), e ivi residente in via S. M. n. 49, domicilio eletto presso il difensore di ufficio avv. Ma.FA. del foro di Trieste;, non comparso, assente IMPUTATO a) art. 4 L. n. 110 del 1975, perché, senza giustificato motivo, portava fuori dalla propria abitazione un'asta di ferro, di circa 1,50 m., con innestata all'estremità un coltello da cucina, con lama di 40 cm, che impugnava per strada, urlando. b) art. 341 bis c.p., perché, all'interno di una tabaccheria di via S. M. ed in presenza di più persone, offendeva l'onore ed il prestigio Agenti di P.S. Ma.Sa., Ti.An., De.Mi. e Sc.Fe. -intervenuti a seguito della commissione del reato sub A)- rivolgendo ai predetti PP.UU. le seguenti frasi offensive. "...POLIZIOTTI DI MERDA...SIETE DELLE MERDE...". In Trieste, il 30.7.2019 Con la recidiva reiterata e specifica FATTO E DIRITTO A seguito di citazione, diretta procedendosi nei confronti dell'imputato Ka.Ma. ritualmente citato presente, all'esito dell'istruttoria, all'odierna udienza, le Parti hanno concluso come in intestazione. Ai fini della ricostruzione del fatto vanno in primis considerate le annotazioni dell'UPGSP della Questura di Trieste acquisite sull'accordo delle Parti nel corso dell'escussione del teste Agt. Sc. De.Mi. all'udienza del 24/01/2022, dopo che il predetto era stato autorizzato a consultare tali atti per rispondere alle domande. In specie in data 30/07/2019 intorno alle ore 17:50 due Volanti dell'UPGSP venivano inviati in questa Via S. M. ove era stato segnalato aggirarsi di un soggetto armato di coltello. Il richiedente, poi identificato per Ch.Ma., ed escusso a S.I.T., riferiva di un soggetto in forte stato di agitazione che camminava lungo via S. M. brandendo un bastone con in cima una lama, gridando frasi senza senso e spaventando i passanti al punto da farli scappare. Su indicazione del Ch. il soggetto veniva in breve raggiunto emergendo che si trattava di un persona ben nota a quegli Uffici, Ma.Ka. residente al civico 49 di quella stessa via (...) Il Ka. si era appena introdotto all'interno di una tabaccheria dove stava armeggiando di spalle agli operanti con il marsupio che portava addosso; pertanto gli operanti invitavano il Ka. a mostrare le mani per verificare se fosse armato, al che l'imputato si voltava inveendo contro gli operanti e dirigendosi verso gli stessi in maniera aggressiva. Pertanto gli operanti dovevano contenerlo, utilizzando le manette di ordinanza, onde prevenire possibili comportamenti auto o etero-lesionistici in quello stato di agitazione. In quel frangente il Ka. (che si rammenta poco prima era stato notato urlare per strada frasi senza senso) proseguiva negli sproloqui diretto agli operanti con le solite frasi del tipo "siete delle merde, dei poliziotti di merda!". Ad un primo sommario controllo, il Ka., vestito con una canottiera e in mutande, non risultava avere con sé l'arma di grandi dimensioni che il richiedente aveva segnalato, o altri oggetti atti ad offendere. Gli operanti accompagnavano quindi il Ka. presso gli Uffici della Questura, per gli adempimenti di rito e peraltro, permanendo egli in preda ad un forte stato di agitazione dello stesso, veniva richiesto l'intervento di personale sanitario, che si portava presso la locale Questura e accompagnava il Ka. presso il Pronto Soccorso di Cattinara per accertamenti. Nel mentre altro personale perlustrava la zona alla ricerca dell'arma, la quale che veniva rinvenuta all'altezza del civico 49 di via S. M., appoggiata al muro dell'atrio condominiale dove lo stesso Ka. risiede (...) Trattandosi come già riferito dal Ch. di un ben singolare strumento atto ad offendere di manifattura artigianale. Dicesi un un bastone in ferro lungo circa 1 metro e mezzo, sulla cui estremità era issata una lama di circa 40 cm (vedi foto dello strumento in sequestro). E' da dire a questo punto che - come del resto già risalta dalla descrizione del fatto e delle condotte tenute dall'imputato - Ma.Ka. è una persona segnata da una storia più che ventennale di severa dipendenza dall'alcol e correlati disturbi psicotici. Come evidenziato nella nota dd. 23/6/2022 del Dipartimento di Salute Mentale S.C. C.S.M. Maddalena egli è conosciuto da quella Struttura sanitaria dal giugno 2003 con diagnosi di Disturbo psicotico e di Alcolismo cronico. In specie : "Il quadro clinico era dominato da una tendenza all'abuso incongruo di bevande alcoliche e relativi disturbi del comportamento, oltre che da una produzione di vissuti e di idee deliranti e di allucinazioni uditive. Per lunghi periodi è stato supportato dal nostro Servizio anche nell'assunzione regolare di una terapia neurolettica. In particolare, egli ha attraversato una fase di compenso che gli ha consentito la ripresa di un'attività lavorativa dal maggio 2006 al giugno 2008, presso la C.L.U. (C.).. Dopo questo periodo, è riemersa la problematica degli abusi alcolici che hanno ostacolato la continuità lavorativa con conseguente licenziamento. Dal 2008 non ha più svolto alcuna attività lavorativa e ha attraversato dei lunghi periodi con frequenti abusi alcolici. Nel 2010, la morte della madre e una grave malattia del padre hanno costituito degli eventi vissuti tragicamente per lui. Negli ultimi anni, abbiamo avuto modo di vedere ripetutamente il sig. Ka., sempre a seguito di prolungati periodi di abuso alcolico, valutando l'assenza di una problematica psichiatrica attiva e cercando di motivarlo a ridurre, se non proprio a interrompere l'uso di bevande alcoliche" La nota conclude che in tempi più recenti (in sostanza in corrispondenza con il periodo dei fatti) il Ka. non aveva inteso sottoporsi al trattamento alcologico propostogli dalla Struttura, affermando che preferiva ridurre l'uso delle bevande alcoliche per proprie conto. E' stata pure acquisita perizia psichiatrica del dott. L.D.G., svolta in altro procedimento relativo a fatti coevi, nonché la trascrizione dell'esame del perito svolto in un ancora diverso procedimento del pari pertinenti al medesimo periodo (il Ka. ha diverse pendenze tutte più o meno coeve determinate dal di lui alcolismo cronico acuitosi tra il 2019 ed il 2020). In specie il dott. D.G. confermava che il Ka. aveva una lunga storia segnata da severi problemi psichiatrici, ed esistenziali, e dall'abuso di alcool. Concludendo nel senso della capacità di volere grandemente scemata dell'imputato, addirittura chiosando che si trattava di una situazione molto vicina al vizio totale di mente, ie da condotte determinate da un impulso irresistibile. In particolare in quel caso - accertato come il presente nei pressi dell'abitazione del Ka. in questa via S. M. - era emerso che questi, al tempo totalmente dipendente dall'alcool, trovandosi in detenzione domiciliare e rimasto a casa senza alcolici, non era riuscito a trattenersi dall'uscire per procurarselo recandosi al vicino supermercato PAM per acquistarlo. Anche la dinamica del fatto di cui si verte in questo procedimento appare rivelatoria di una severa compromissione psichica, e dell'assenza di qualsiasi afferrabile disegno manifestatasi in quella condotta senza senso consistita nell'uscire le casa un pomeriggio di luglio in mutande e canottiera, portando con sé quella improbabile "lancia" raffazzonata attaccando una lama sopra un bastone, indi camminando per strada con in mano tale strumento con il quale peraltro non risulta che il Ka. avesse minacciato chicchessia, invece urlando cose senza senso e comprensibilmente facendo scappare i passanti. Del resto al momento dell'arrivo delle V.Ka. era entrato in una tabaccheria distante pochi metri, senza la lancia, invero lasciata appoggiata al muro dello stabile in cui egli risiede, nei pressi dell'entrata... Perché .... (ricorrendo ad un paradosso mirato a contestualizzare il fatto in modo realistico ed a riportarlo alle sue dimensioni che sono... quelle che sono) - evocando il tutto scenari letterari/teatrali in cui dei personaggi si muovono da copione sempre brandendo una lancia, quale simbolo di potere, ovvero per tenere lontano da sé... il nemico - è evidentemente.... sotto casa che si lascia parcheggiato un simile accessorio quando si deve entrare in un qualche esercizio commerciale senza ... dare troppo nell'occhio, ciò anche per ricordarsi al rientro di riprenderlo... Ka. venne dunque visto nella tabaccheria "disarmato", intento a cercare confusamente qualcosa nel marsupio (verosimilmente del denaro per comprare sigarette) quindi giratosi di scatto e notate le divise, aveva indirizzato di colpo gli sproloqui verso gli agenti, dai confusi ed agitati movimenti mostrando di voler andar loro incontro, non opponendo resistenza all'azione di contenimento da costoro attuata, ma rimanendo comunque in preda ai deliri tanto che dalla Questura venne trasportato in ambulanza al Pronto Soccorso.. Le considerazioni svolte negli due precedenti capoversi hanno come detto la ratio di inquadrare in modo realistico il fatto, quale espressione della difficile situazione d rilevanza sanitaria del Ka. piuttosto che indicativo che egli intendesse prefiggersi chissà quale effetto e/o disegno. Il che comporta senz'altro di ritenere provata la commissione del reato contravvenzionale, consistito nell'aver portato fuori casa l'ormai noto strumento, rispetto al quale emerge però anche la lieve entità in concreto, se si considera appunto che si verte di una "lancia" casalinga, portata fuori dall'abitazione per confusi e fumosi intenti dimostrativi piuttosto che per offendere chicchessia. Quanto al capo B) si ritiene che lo stesso non sussista, e ciò in primo luogo considerando realisticamente lo stato di agitazione del Ka. (che ne determinò il trasporto con ambulanza al pronto soccorso) che già prima dell'intervento delle Volanti si era espresso nell'urlare frasi senza senso per strada e che - come era fatale nello stato in cui Ka. versava - proseguì anche allorché egli vide i poliziotti. I quali del resto colsero immediatamente (per quanto specificato nell'annotazione) che si trattava di una persona che doveva essere "contenuta" per evitare che in quello stato facesse del male a sé stesso o ad altri. In altre parole di una persona che abbisognava di essere soccorsa dal servizio psichiatrico. In ogni modo, se già un tanto parrebbe quantomeno dover incidere sull'elemento soggettivo (si sta parlando di una persona che comunque versava in stato di capacità grandemente scemata ), vi è del pari incertezza in ordine all'essersi avverato uno degli elementi costitutivi del reato di cui all'art. 341 bis c.p. Come più volte rimarcato dalla SC (v. ex multis Sez VI n. 29406/18, n. 16527/17) Il reato di oltraggio a pubblico ufficiale previsto dall'art. 341-bis cod. pen. richiede per la sua integrazione che l'offesa all'onore e al prestigio del pubblico ufficiale mentre egli compie un atto d'ufficio ed a causa o nell'esercizio delle sue funzioni avvenga in luogo pubblico o aperto al pubblico ed in presenza di più persone, estremo quest'ultimo che deve essere provato non potendo essere affidato, quanto alla sua sussistenza, a valutazioni presuntive. L'art. 341-bis cod. pen. ha inteso invero disegnare una fattispecie di reato a contenuto plurimo alla cui definizione concorrono le circostanze del luogo pubblico o aperto al pubblico e della presenza di più persone. E la mera potenziale percezione, da parte delle persone presenti, dell'espressione oltraggiosa è destinato ad operare là dove la presenza di più persone risulti comunque provata. In ogni modo (v. da ultimo Cass. Sez. VI n.30136/2021 RV 281838 , Sez. VI n.6604/2022 RV 282999 ,) l'offesa all'onore ed al prestigio del pubblico ufficiale deve avvenire alla presenza di almeno due persone, tra le quali non possono computarsi quei soggetti che, pur non direttamente attinti dall'offesa, assistano alla stessa nello svolgimento delle loro funzioni. Orbene nelle annotazioni si fa riferimento al fatto che gli sproloqui offensivi del Ka. vennero uditi dal tabaccaio al cui interno l'imputato fu "contenuto", il che seppure detto esercente non sia stato identificato rende tale ipotesi assai verosimile. Difettano però elementi per ritenere provata anche la presenza di ulteriori persone che avrebbero assistito al fatto e soprattutto percepito gli insulti indirizzati dal Ka. agli operanti, trattandosi di una eventualità prospettata ma non accertata né ricavabile - diversamente dal caso del tabaccaio - dalla logistica dei fatti. Per i motivi che precedono l'imputato va assolto dal reato sub B) Quanto al capo A) riqualificato come fatto di lieve entità concessegli le circostanze attenuanti generiche e la diminuente dell'art. 89 c.p. pare congrua la pena di Euro 500 di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali Va infine ordinata la confisca e distruzione di quanto in sequestro P.Q.M. Visti gli artt. 533 - 535 c.p.p. DICHIARA Ka.Ma. colpevole del reato sub A) riqualificato come fatto di lieve entità concessegli le circostanze attenuanti generiche la diminuente dell'art. 89 c.p. lo CONDANNA alla pena di Euro 500 di ammenda oltre al pagamento delle spese processuali ORDINA la confisca e distruzione di quanto in sequestro Visto l'artt. 530 cpp ASSOLVE Ka.Ma., dal reato sub B) perché il fatto non sussiste Motivazione riservata in 90 giorni. Così deciso in Trieste l'11 dicembre 2023. Depositata in Cancelleria il 7 marzo 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI TRIESTE SEZIONE CIVILE In persona del giudice Sabrina Cicero Ha emesso la seguente SENTENZA Nella causa civile di appello iscritta al n. 335 del 2022 ritenuta in decisione su conclusioni precisate a mezzo note sostitutive dell'udienza del 7 novembre 2023 TRA Sa.Pe., con l'avv.to Da.Zi. APPELLANTE E CONDOMINIO DI VIA Pi. N. 3 IN T., nella persona dell'Amministratrice e legale rappresentante pro tempore, Dott.ssa P.V., con l'avv.to Marzia Broili; APPELLATA OGGETTO:appello avverso la sentenza del Giudice di Pace di Trieste n. 335/21 del 15.7.2021,depositata il 20.7.2021 in R.G. 1677/2018. RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO Premessa Con atto di citazione notificato in data 27 luglio 2018 Sa.Pe. conveniva, avanti al Giudice di Pace di Trieste, il CONDOMINIO DI VIA Pi. N. 3 IN T., per sentire dichiarare la nullità o disporsi l'annullamento ex art. 1137 c.c. della delibera adottata dall'assemblea del Condominio convenuto il 4 luglio 2018 al punto 6) all'ordine del giorno, nella parte in cui era stato deciso di eseguire dei lavori di rifacimento mediante mero innalzamento dei parapetti con l'aggiunta di un ulteriore corrimano come da allegato progetto dell'Arch. C.. Premetteva l'attrice di essere proprietaria di un appartamento sito al sesto ed ultimo piano del Condominio di Via Pi. n. 3, arretrato rispetto al prospetto di facciata e comprendente una terrazza di proprietà ed uso esclusivo, che funge da lastrico solare a copertura dei sottostanti immobili che, a seguito di C.T.U. resa in altro giudizio, era stata oggetto di lavori di rifacimento volti ad ovviare a delle infiltrazioni verificatesi nei piani sottostanti, realizzati dall'impresa edile S.C. S.r.l. in forza di delibera condominiale che recepiva le risultanze della citata C.T.U. Rappresentava la Pe. che, a seguito dell'esecuzione dei lavori suddetti, il piano di calpestio era risultato innalzato di tal guisa che i parapetti non avevano più l'altezza minima di un metro: tale fatto era stato accertato dalla Polizia Edilizia del Comune di Trieste in data 31 marzo 2018, chiamata ad intervenire dall'attrice stessa, che aveva imposto il "ripristino della situazione preesistente". Ritenendo imputabile al CONDOMINIO l'innalzamento del livello del pavimento della terrazza, l'attrice invitava lo stesso ad ottemperare alle disposizioni del Comune di Trieste, provvedendo al ripristino. Sosteneva l'attrice che l'Assemblea condominiale aveva deliberato, con astensione dal voto da parte sua, l'innalzamento a proprie spese dei parapetti, tramite aggiunta di un corrimano a quello esistente, piuttosto che provvedere dal basso, in un'ottica di risparmio; risultato che appariva sgradevole all'attrice. Deduceva quindi l'attrice che la delibera, disponente su beni di proprietà esclusiva del singolo condomino senza il suo assenso, sarebbe stata viziata ed invalida e, quindi, da annullarsi o dichiararsi nulla. Si costituiva in giudizio il CONDOMINIO chiedendo il rigetto della domanda attorea per inammissibilità e/o improcedibilità in carenza dei presupposti di legge e/o comunque per infondatezza in fatto ed in diritto. Contestava il convenuto, dichiaratosi mero committente, qualsiasi responsabilità in relazione alla modificata altezza delle ringhiere-parapetti, verificatasi in occasione dei lavori eseguiti dall'impresa S. sul pavimento della terrazza-lastrico. Rilevava come l'attrice avesse modificato la propria posizione in funzione della linea difensiva, poiché in atti precedenti aveva chiesto l'intervento del CONDOMINIO in quanto considerava le ringhiere-parapetti come beni comuni e non proprietà esclusiva, per poi contestare il tipo di intervento finalizzato all'adempimento delle disposizioni del Comune di Trieste, non di suo gradimento. Asseriva il CONDOMINIO la validità della delibera impugnata in quanto la ringhiera-parapetto era da qualificarsi come bene comune ex 1117 c.c., poiché la terrazza in questione ha la funzione di copertura degli appartamenti sottostanti, e chiedeva che la domanda attorea fosse dichiarata inammissibile. Il convenuto deduceva altresì, a prescindere dalla qualificazione dei parapetti come beni comuni o di proprietà del singolo comunista, la carenza dell'interesse ad agire in capo all'attrice in difetto dei presupposti di attualità, concretezza e personalità, e conseguentemente l'esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile all'esito dell'azione intrapresa. Parimenti, veniva dedotta la carenza di interesse ad agire anche allorché la stessa attrice, benché contestasse la tipologia dell'intervento, ne ammetteva la necessità e urgenza ai fini della messa in sicurezza, a seguito del provvedimento sindacale che il CONDOMINIO era tenuto ad adempiere per evitare pericoli per l'incolumità dei cittadini. Depositate le richieste note ex art. 320 c.p.c., assunto l'interrogatorio formale dell'Amministratore del Condominio e prodotte note conclusive, il Giudice di Pace, all'esito, rigettava la domanda e condannava l'attrice alla rifusione delle spese di giudizio. Successivamente, con atto di citazione ex art. 342 c.p.c., notificato in data 16 febbraio 2022, la Pe. presentava appello nei confronti della sentenza di primo grado, chiedendone la riforma sulla base di quattro motivi. Con il primo motivo, l'appellante deduceva l'erroneo rilievo della carenza di interesse ad agire, sulla cui sussistenza insisteva poiché l'assemblea condominiale avrebbe deliberato innovazioni su bene di proprietà esclusiva nonostante il suo espresso dissenso, non avendo inteso contestare l'an dell'intervento, che il CONDOMINIO convenuto doveva sostenere a sue spese, ma solo il quomodo, che le parti avrebbero dovuto concordare. Con il secondo ed il terzo motivo era posta evidenza sul dedotto mancato rilievo della violazione di legge e del regolamento, avendo la delibera avuto ad oggetto interventi su beni (i parapetti) di proprietà di singoli condomini e non condominiali; sull'errata valutazione della natura del provvedimento del Comune di Trieste, poiché questo prevedeva, secondo la ricostruzione operata da parte appellante, in via alternativa il ripristino allo status quo ante o l'adeguamento a conformità, quest'ultima ipotesi unilateralmente e autonomamente percorsa dall'appellato nel corso del procedimento amministrativo concluso con l'ordinanza del 25 luglio 2021; e sull'errata valutazione del contegno processuale dell'attrice, odierna appellante, che sosteneva che dalla mancata richiesta di sospensiva della delibera impugnata non potesse trarsi alcun argomento di prova sul merito della causa. Con il quarto motivo, l'appellante rilevava la mancata ammissione di C.T.U. accertativa della proprietà dei beni oggetto di causa. Si costituiva anche nel presente giudizio di gravame il CONDOMINIO il quale, confermando i fatti di causa come dedotti nel primo giudizio, chiedeva la conferma della sentenza appellata. In ordine ai motivi di appello, l'appellato insisteva sulla carenza di legittimazione attiva della Pe. per carenza dell'interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., da un lato in quanto un'ipotetica pronuncia di annullamento o di nullità doveva reputarsi inidonea a rimuovere l'opera eseguita e, dall'altro, parimenti inidonea a rimuovere l'ordinanza con cui il Comune di Trieste aveva imposto al CONDOMINIO di procedere all'intervento. Circa il secondo motivo di appello, l'appellato ne deduceva l'inammissibilità in quanto non ravvisava in esso alcuna censura alla sentenza oggetto di gravame; in riferimento all'ordinanza del Comune di Trieste, esponeva che un ripristino allo status quo ante del lastrico solare di proprietà della condomina odierna appellante non fosse stato possibile, poiché il lavoro edile eseguito dal CONDOMINIO sulla terrazza era stato necessitato dalla diversa e precedente azione promossa dalla Pe. con A.T.P. per lamentate infiltrazioni ed era stato realizzato sulla base dell'elaborato peritale redatto all'esito di tale procedimento sommario ante causam. Oltre a ciò, la delibera si sarebbe limitata a disporre che sarebbe stato dato adempimento a quanto il Comune avrebbe deciso. Sul terzo motivo di gravame, il CONDOMINIO deduceva che la domanda di accertamento della proprietà esclusiva dei parapetti, ringhiere e protezioni del lastrico solare fosse stata proposta tardivamente, solo in sede di precisazione delle conclusioni e discussione del primo grado di giudizio e, quindi, inammissibile; ad ogni buon conto, rilevava come tale questione non potesse trovare soluzione nel regolamento condominiale ma solo sulla base dell'elaborazione giurisprudenziale che considera tali manufatti quali elementi architettonici della facciata e quindi di proprietà comune. Parimenti inammissibile era ritenuto dall'appellato il quarto motivo, in quanto riteneva che non fosse indicato il punto della sentenza oggetto di censura e che, comunque, la verifica della proprietà che si basa su di un'interpretazione giuridica della fattispecie concreta non potesse essere demandata al C.T.U., rientrando nei poteri del giudice investito dalla questione. La causa è stata ritenuta sufficientemente istruita e, sulle conclusioni di cui in premessa, è stata quindi riservata in decisione all'udienza del 7 novembre 2023, sostituita ex art. 127 ter c.p.c. dal deposito di note scritte, con assegnazione dei termini per il deposito di scritti conclusivi. In via preliminare Deve essere in primo luogo accolta l'eccezione di inammissibilità della domanda incidentale di "accertamento della proprietà esclusiva di parte attrice di parapetti, ringhiere e protezioni dellastrico solare di sua proprietà", in quanto tardivamente proposta solo in sede di precisazione delle conclusioni del giudizio di primo grado. Sul punto, si rileva tuttavia come dalla documentazione versata in atti l'appellante abbia più volte (circostanza mai contestata) invitato il CONDOMINIO ad eseguire gli interventi sui parapetti, ritenendoli di proprietà condominiale, salvo poi asserirne nel presente giudizio la proprietà esclusiva in capo a sé stessa. Sempre in via preliminare, si ritiene sussistente l'interesse ad agire dell'odierna appellante, in quanto tale presupposto processuale sussiste sempre in capo ad un condomino laddove questo impugni una delibera assembleare che lo riguardi, come nel caso in esame. Nel merito Nel merito, l'appello è infondato e deve essere rigettato per i motivi di cui appresso si dirà. La sentenza del Giudice di pace fonda il rigetto della domanda spiegata dall'attrice sostenendo che, premesso che il sindacato dell'A.G. circa la validità di una delibera assembleare sia ammissibile solo qualora la stessa fosse stata adottata in violazione di legge o della normativa particolare contenuta nel regolamento di condominio, tale violazione non si ravvisa nel caso concreto, essendo irrilevante la titolarità del diritto di proprietà (del singolo condomino o comune alla compagine) sul bene oggetto di intervento, laddove vi sia un provvedimento urgente dell'Autorità amministrativa competente che ordini al Condominio di effettuare su tale bene i lavori necessari per evitare pericoli per l'incolumità dei cittadini. Ciò posto, pare utile ai fini della decisione evidenziare la scansione temporale dei fatti dedotti in giudizio, come emersa dalle deduzioni delle parti e dall'apparato probatorio fornito a loro sostegno. In data 31 marzo 2018, il Nucleo di Polizia Edilizia della Polizia Locale del Comune di Trieste eseguiva un sopralluogo sul lastrico solare di proprietà esclusiva della P., odierna appellante, su sollecitazione di questa e, ravvisando che i parapetti avevano un'altezza inferiore al minimo consentito dalla legge vigente in materia (pari ad un metro), invitavano il CONDOMINIO a provvedere alla messa in sicurezza tramite l'innalzamento dei parapetti al limite di legge. Alla luce e in ragione di ciò, in data 17 aprile 2018 l'Assemblea condominiale deliberava (con voto favorevole di tutti i presenti, compresa la P.) di dare incarico all'Arch. C. per la presentazione di un progetto finalizzato all'innalzamento dei parapetti e rimetteva al tecnico nominato, congiuntamente all'impresa appaltatrice dell'intervento, di valutare "la migliore soluzione altezza finale parapetto/costi in modo da salvaguardare la sicurezza e l'estetica condominiale". Successivamente, in data 8 maggio 2018, il Comune di Trieste emetteva un provvedimento con cui assegnava il termine di giorni sessanta per il ripristino della situazione preesistente o, in alternativa, per presentare istanza di riduzione a conformità dell'intervento realizzato. In adempimento di quanto contenuto nel provvedimento comunale, il tecnico del CONDOMINIO presentava, in data 15 giugno 2018, il progetto di riduzione a conformità dell'intervento realizzato mediante innalzamento del parapetto. Nelle more della delibera di benestare esecutivo da parte dell'Ente Pubblico, l'Assemblea condominiale, in data 4 luglio 2018, deliberava "di dar esecuzione a quanto il Comune di Trieste disporrà, sostenendone le spese". Finalmente, il 25 luglio 2018, l'Autorità comunale emetteva ordinanza di accoglimento dell'istanza presentata dal CONDOMINIO, con concessione del termine di novanta giorni all'esecuzione delle opere autorizzate, il cui avvenuto compimento veniva comunicato al Comune di Trieste in data 19 ottobre 2018. Tanto premesso, i motivi di gravame dedotti dall'appellante sono da doversi rigettare integralmente, e conseguentemente la sentenza di Prime Cure confermata, per le ragioni che seguono. Quanto al primo motivo di appello, correttamente l'appellante sostiene che la propria censura all'attività del CONDOMINIO riguardi il quomodo dell'intervento. Tuttavia, tale motivo non può trovare accoglimento. Laddove infatti la Pe. avesse voluto contestare tale aspetto, avrebbe dovuto eventualmente impugnare, ove ve ne fossero stati gli estremi, la delibera adottata dall'assemblea condominiale il 17 aprile 2018, con cui il CONDOMINIO conferiva l'incarico all'Arch. C. per la presentazione di un progetto finalizzato all'innalzamento dei parapetti e rimetteva al tecnico nominato, congiuntamente all'impresa appaltatrice dell'intervento, di valutare "la migliore soluzione altezza finale parapetto/costi in modo da salvaguardare la sicurezza e l'estetica condominiale". Ovvero, nell'ipotesi in cui la censura dell'odierna appellante avesse riguardato l'aspetto dell'estetica dell'opera realizzata, ben avrebbe potuto procedere con altra diversa azione contro il CONDOMINIO in contestazione dell'esito dei lavori sotto tale profilo. Quanto al secondo e al terzo motivo di gravame, che si analizzano congiuntamente, fermo quanto sopra disposto in via preliminare, non risultano entrambi meritevoli di accoglimento. Difatti, la proprietà del manufatto oggetto di intervento del CONDOMINIO (se sia essa comune o esclusiva di un condomino) non rileva ai fini del presente giudizio, come correttamente argomentato nel provvedimento gravato, poiché il CONDOMINIO si è visto costretto ad attivarsi al fine di dare adempimento a quanto intimato dal Comune di Trieste per eliminare uno stato di pericolo per l'incolumità pubblica, di cui il Sindaco è il garante (ed il cui intervento è stato richiesto peraltro dall'attrice stessa). Lo scenario su cui ha operato l'Ente di gestione era costituito da un lastrico solare ristrutturato sulla base di una C.T.U. resa in contraddittorio tra le parti (circostanza dalle stesse pacificamente ammessa), opera edile che ha comportato un innalzamento del piano di calpestio per la necessità di ovviare i problemi infiltrativi lamentati dall'odierna appellante, da cui è derivata una riduzione dell'altezza del parapetto. Altezza che, su ordine del Sindaco, doveva essere ripristinata dal CONDOMINIO, il quale optava, in accordo con la proprietaria esclusiva della terrazza a copertura stessa (che esprimeva voto favorevole all'adozione della citata Delib. del 17 aprile 2018), per la realizzazione della "migliore soluzione altezza finale parapetto/costi in modo da salvaguardare la sicurezza e l'estetica condominiale". Pertanto, il CONDOMINIO si è attenuto a quanto disposto dall'Autorità comunale e nessuna censura pare doversi muovere nei confronti dell'operato dell'Ente di gestione. In relazione al quarto motivo di gravame, fermo quanto rilevato in via preliminare sulla tardività della domanda incidentale di accertamento della proprietà, esso è parimenti infondato in quanto si ritiene che non sia possibile demandare all'accertamento di un C.T.U. l'individuazione del titolare del diritto di proprietà se ciò non è desumibile dal titolo o dalla legge, ma necessiti di una interpretazione giuridica della fattispecie concreta, interpretazione che è rimessa al prudente apprezzamento del giudice sulla base dell'apparato probatorio prodotto a sostegno di domande tempestivamente presentate. In definitiva, si condivide appieno quanto contenuto nella motivazione della pronuncia della Suprema Corte citata nella sentenza appellata (Cass. Civ., Sez. II, ord. 14140 del 24/05/2021), secondo cui "il compimento di atti conservativi per la salvaguardia dei diritti concernenti l'edificio condominiale, legittimava l'intervento dell'amministratore anche senza la previa autorizzazione dell'assemblea. L'approvazione dei lavori di messa in sicurezza indicata all'ordinanza del sindaco non richiedeva il consenso dell'attrice né di alcun altro condomino, trattandosi di intervento implicante il compimento di atti diretti alla conservazione dell'intero edificio condominiale e ad ovviare ad una situazione di pericolo per la pubblica e privata incolumità nel cortile interno, a nulla rilevando che il balcone interessato dai lavori fosse di proprietà esclusiva". Correttamente, quindi, il Giudice di Prime Cure ha ritenuto, sulla stregua della giurisprudenza della Suprema Corte citata in sentenza, che il CONDOMINIO ha operato correttamente e legittimamente, adottando una delibera assembleare finalizzata all'ottemperanza di ciò che l'ordinanza comunale ha imposto. Ogni altra questione è da ritenersi assorbita. Sulle spese di lite Il rigetto dell'impugnazione impone, in virtù del criterio della soccombenza, di porre le spese di lite del presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo in base ai valori medi di cui alle tabelle allegate al D.M. n. 55 del 10 marzo 2014, a carico di parte appellante. Si dà atto, ai fini del versamento del contributo unificato, della sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13 comma 1quater D.P.R. n. 115 del 2002. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa, così provvede: - rigetta l'appello e conferma la sentenza del Giudice di Pace di Trieste n. 335/21 depositata il 20 luglio 2021; - condanna Sa.Pe. alla rifusione delle spese di lite in favore dell'appellato CONDOMINIO, spese che liquida in Euro 5.810,00 per compenso professionale, oltre rimborso spese forfettarie al 15%, Iva e Cpa come per legge. Così deciso in Trieste il 4 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 7 marzo 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tribunale Ordinario di Trieste Sezione Specializzata in materia di impresa Il Tribunale, in composizione collegiale, in persona dei seguenti magistrati: - dott. Arturo Picciotto - Presidente - dott. Francesco Saverio Moscato - Giudice - dott.ssa Monica Pacilio - Giudice ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 102/2022 promossa da: (OMISSIS), con l'avv. (omissis), domiciliatario ATTORE contro (OMISSIS), con l'avv. Ma.Ca., domiciliatario; CONVENUTO avente ad oggetto: Impugnazione delle delibere di assemblea - clausola drag along o trascinamento; introduzione a maggioranza CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE I. La presente controversia concerne la possibilità per l'assemblea dei soci di una società di introdurre, a maggioranza dei consensi, nello statuto la clausola cosiddetta drag-along o di trascinamento, quella cioè che attribuisce a determinati soci (tipicamente quelli di maggioranza) il diritto di vendere unitamente alle loro azioni anche quelle dei soci di minoranza. Infatti, l'attore, (omissis), impugna la deliberazione assunta dalla società (omissis), di cui è socio al 10%, in data 16 novembre 2021 a maggioranza dei soci, con la quale è stata introdotta la seguente clausola: ""ARTICOLO 10 - DIRITTO DI TRASCINAMENTO. 10.1. Qualora il socio o i soci che dispongono della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria (c.d. soci di maggioranza) intendano vendere a terzi estranei alla compagine sociale la totalità delle loro partecipazioni è attribuito agli stessi soci di maggioranza il diritto, c.d. "drag along", di offrire in vendita allo stesso acquirente, e alle medesime condizioni stabilite per sé medesimi, la totalità delle partecipazioni appartenenti a tutti gli altri soci di minoranza; il risultato finale delle vendite dovrà pertanto essere la cessione ai terzi della totalità delle partecipazioni sociali. Le partecipazioni dei soci di minoranza saranno, pertanto, incluse nell'unica proposta di vendita, agli stessi termini e condizioni concordate dai soci di maggioranza con il terzo o i terzi acquirenti. 10.2. - I soci di maggioranza che intendono avvalersi del diritto di trascinamento come sopra attribuito dovranno, pertanto, darne comunicazione ai soci di minoranza e all'organo amministrativo, indicando le condizioni della proposta di cessione, e, in particolare, il prezzo di cessione, le modalità di corresponsione, le generalità del soggetto o dei soggetti acquirenti e del professionista (notaio o commercialista) incaricato alla stipula dell'atto di trasferimento, il termine, non inferiore a trenta giorni, entro cui si dovrà procedere alla stipula dell'atto di cessione, il valore di liquidazione delle quote ai sensi dell'art. 2473 cod. civ., e ogni altra informazione utile al perfezionamento dell'atto di trasferimento delle partecipazioni, a mezzo di lettera raccomandata A.R. ovvero posta elettronica certificata (P.E.C.) ove sia stato comunicato dai soci il relativo indirizzo P.E.C.. La comunicazione di cui sopra varrà anche al fine dell'esercizio del diritto di prelazione di cui al precedente articolo 9 per l'intera partecipazione posta in vendita dai soci di maggioranza. 10.3. - I soci di minoranza dovranno porre in essere i comportamenti necessari a consentire il perfezionamento dell'atto di cessione a favore del terzo o dei terzi acquirenti nel rispetto del termine indicato nella comunicazione di cui al comma precedente. Decorso inutilmente il termine indicato nella comunicazione inviata ai soci di minoranza, i soci di maggioranza daranno comunicazione del mancato adempimento all'organo amministrativo della società, che procederà entro e non oltre cinque giorni dal ricevimento della comunicazione da parte dei soci di maggioranza, ad inviare ai soci di minoranza inadempienti una formale diffida ad adempiere entro un termine non inferiore a quindici giorni. Decorso inutilmente questo termine, l'organo amministrativo potrà procedere direttamente alla vendita delle quote di partecipazione dei soci di minoranza inadempienti a favore del terzo o dei terzi acquirenti, indicati nella comunicazione di cui al precedente punto 10.2. e alle condizioni ivi indicate, secondo la procedura prevista dall'art. 2466 comma 2 del codice civile nei confronti del socio moroso. 10.4. - In ogni caso, le partecipazioni dei soci di minoranza non potranno essere alienate a un prezzo inferiore al valore di liquidazione delle partecipazioni ai sensi dell'art. 2473 cod. civ.-. Nel caso in cui il prezzo di vendita proposto dal terzo acquirente sia inferiore al suddetto valore, spetta al socio di minoranza il diritto di ricevere il differenziale di valore relativamente alla quota ceduta da parte dei soci di maggioranza cedenti che hanno esercitato il presente diritto di trascinamento, a gravare sul prezzo delle quote da loro cedute. 10.5. - I soci di maggioranza che intendono avvalersi del diritto di trascinamento potranno richiedere ad un esperto la predisposizione di una perizia di stima al fine di far accertare che il prezzo offerto non sia inferiore al valore di liquidazione delle partecipazioni, ai sensi dell'art. 2473 c.c., e in tal caso, dovranno indicare nella comunicazione di cui al precedente comma 10.2 le generalità del professionista o della società che lo ha stimato, con indicazione della possibilità per i soci di minoranza di poter visionare la relativa perizia presso la sede sociale. 10.6. - In caso di contestazione in merito alla congruità del prezzo offerto, indicato nella comunicazione di cui al precedente comma 10.2., rispetto al valore minimo di liquidazione della partecipazione, da effettuarsi mediante opposizione da parte del socio di minoranza che subisce la vendita della propria partecipazione notificata a mezzo posta elettronica certificata o a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno al socio o ai soci di maggioranza che hanno esercitato il presente diritto di trascinamento entro il termine perentorio di 30 (trenta) giorni dal ricevimento della comunicazione di cui sopra, il valore di liquidazione ai sensi dell'art. 2473 cod. civ. sarà determinato dall'esperto nominato dal Tribunale su istanza della parte più diligente, entro 60 (sessanta) giorni dall'inoltro dell'istanza al Tribunale. Nel caso in cui sia stata attivata la suddetta procedura, fino alla determinazione del valore dell'esperto, rimangono sospesi gli effetti della decisione di vendita. Le spese della procedura saranno a carico del socio di maggioranza laddove la contestazione sul valore sia fondata, altrimenti saranno a carico del socio di minoranza che ha attivato la procedura, che sarà tenuto altresì all'integrale rimborso delle spese sostenute dal socio di maggioranza laddove lo stesso avesse fatto preventivamente stimare il valore di liquidazione delle partecipazioni ai sensi del precedente comma 10.5. 10.7. I soci di maggioranza, laddove il valore di liquidazione delle partecipazioni determinato dall'esperto a conclusione della procedura di cui al precedente comma 10.6. fosse superiore al prezzo offerto per l'acquisto e al valore di liquidazione indicato nella comunicazione, potranno revocare l'esercizio del diritto di trascinamento, dandone comunicazione scritta ai soci di minoranza, che avranno in tal caso comunque diritto di poter recedere dalla società ai sensi dell'art. 2473 cod. civ., secondo le modalità e i tempi di cui al successivo art. 13. 10.8. - I trasferimenti delle partecipazioni sociali sono efficaci nei confronti della società e possono essere iscritti presso il competente Registro delle Imprese soltanto se risulta osservato il procedimento descritto nel presente articolo.-". Sulla validità della clausola di trascinamento che sia inserita sin dall'inizio nello statuto sociale o calata all'interno di patti parasociali vi è uniformità di opinioni sia in dottrina che in giurisprudenza. In questo caso, infatti, non c'è dubbio che chi costituisce la società o acquista le sue quote si autolimita nell'esercizio della sua libertà negoziale. I contrasti, soprattutto in dottrina, concernono la possibilità di introdurla manente societate con deliberazione presa a maggioranza. Entrambe le parti hanno ben presente che le pronunce più significative sul tema e che hanno suscitato il dibattito sono state quelle del Tribunale di Milano, che in un primo momento, nel 2008, ha ritenuto necessaria l'unanimità dei consensi dei soci, mentre con due pronunce successive, una del 2011 e un'altra del 2014, ha mutato orientamento, ritenendo sufficiente la maggioranza sulla sussistenza di determinate condizioni. Ciò ha fatto sulla scorta della decisiva considerazione che la situazione in cui vengono a trovarsi i soci di minoranza in caso di vendita della loro quota per effetto del trascinamento è la stessa in cui si troverebbero ove la maggioranza decidesse di porre termine alla società ai sensi dell'articolo dell'art. 2484 c.c. c.c., che non richiede l'unanimità, prescrivendo invece il quorum della maggioranza. Le decisioni del Tribunale di Milano sono state condivise dal Consiglio Notarile delle Tre Venezie, che con la massima H.I.19, anch'essa costantemente citata nei vari scritti che se ne occupano, ha espressamente affermato - ponendosi nel solco del Tribunale di Milano - che le clausole statutarie di drag-along possono essere introdotte con la semplice maggioranza quando soddisfano tre condizioni, prevedendo: a) la cessione contestuale di tutte le azioni; b) che sia garantito ad ogni socio il diritto ad essere liquidato con una somma non inferiore a quella che si determinerebbe all'esito della liquidazione formale della società (dunque con una somma almeno pari a quella determinata ai sensi dell'art. 2437 ter c.c.); c) che sia garantita la parità di trattamento tra soci. Al di fuori di tali condizioni la clausola di trascinamento, si afferma, può essere inserita solo col consenso di tutti i soci, configurandosi quale limitazione dell'autonomia negoziale e del diritto di proprietà. Con le garanzie di cui ai punti a), b), e c), invece, la clausola statutaria si limita a configurare una particolare modalità di liquidazione dei soci in sostanza già contemplata dal sistema. II. Questo Tribunale intende allinearsi all'orientamento maggioritario, condividendone le argomentazioni e non rinvenendo sufficienti ragioni in senso contrario. E' infatti riconosciuto dall'articolo 2484 comma 1 n. 6 c.c. ai soci di maggioranza il diritto di determinare lo scioglimento della società anteriormente all'eventuale data stabilita all'origine per la cessazione della società. E' altrettanto previsto dall'articolo 2487 comma 1 c.c. che lo statuto possa predeterminare le modalità di liquidazione della società. Infine, si osserva, la vendita delle partecipazioni è espressamente contemplata dagli articoli 2437 quater, 2437 sexies, 2473, 2473 bis c.c. come modalità di liquidazione del singolo socio che decide o che è obbligato a disinvestire. Dunque, è corretto affermare che clausole di questo tipo sostanzialmente introducono delle modalità di risoluzione del vincolo sociale in linea con quelle previste già dal codice civile. Esse rispondono in maniera legittima all'esigenza di rapidità degli attuali rapporti commerciali, allo scopo di evitare situazioni di stallo nella gestione della società quando i rapporti tra i soci si incrinano. Le argomentazioni svolte dall'attore per contrastare l'orientamento più attuale e decisamente maggioritario riguardano la circostanza che le clausole di trascinamento presenterebbero una forte analogia con le azioni che consentono alla società o ai soci l'esercizio di un'opzione di acquisizione forzosa delle partecipazioni di altri soci (art. 2437 sexies c.c.) con l'effetto di determinare l'uscita forzosa del socio dalla società e quindi una spoliazione forzata della qualità di socio. Perciò, come per le azioni con diritto di riscatto, anche le clausole di trascinamento esigerebbero - in tesi dell'attore - che i presupposti integrativi della fattispecie siano adeguatamente determinati o determinabili e che siano conosciuti e condivisi ex ante dal socio che subisce il diritto di riscatto. Richiama a supporto una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass. 12498/2023) con la quale è stato stabilito che "In tema di società per azioni, il riscatto di azioni ex art. 2437-sexies c.c. costituisce un istituto a causa neutra che consente alla società o ai soci l'esercizio di un'opzione di acquisizione forzosa delle partecipazioni sociali di uno dei soci stessi, con l'effetto di comportarne l'uscita dall'ente; detto istituto, assimilabile all'esclusione sul piano degli effetti, se ne differenzia in quanto ammette, in mancanza di altre concrete possibilità, la riduzione del capitale sociale o lo scioglimento della società, esigendo, in ogni caso, al pari dell'esclusione stessa, che i presupposti integrativi della fattispecie siano essere adeguatamente determinati o determinabili, ai sensi dell'art. 1346 c.c." (Cass. Sez. 1 - , Ordinanza n. 12498 del 10/05/2023, Rv. 667754 - 01). Aggiunge che, attesa l'assimilazione tra azioni con diritto di riscatto e clausola di trascinamento, l'art. 82 della Direttiva (UE) del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 giugno 2017 n. 1132, in base al quale "Qualora la legislazione di uno Stato membro autorizzi le società ad emettere delle azioni riscattabili, essa stabilisce per il riscatto di tali azioni almeno il rispetto delle condizioni seguenti: a) il riscatto deve essere autorizzato dallo statuto o l'atto costitutivo prima della sottoscrizione delle azioni riscattabili; .... (omissis)...." esclude in radice la possibilità di introdurre a maggioranza la clausola di trascinamento. Tuttavia, come correttamente replica la parte convenuta, citando a supporto attenta dottrina, le azioni riscattabili e le azioni soggette al drag-along non sono propriamente assimilabili: le azioni riscattabili costituiscono una categoria azionaria speciale, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2348 c.c.; inoltre, il diritto di riscatto è operato in favore della società o di altri soci, mentre nel caso del drag-along la privazione della proprietà è subita di norma in favore di un terzo acquirente, estraneo fin a quel momento alla compagine sociale; infine, a differenza di ciò che accade nelle ipotesi di riscatto, il presupposto operativo del trascinamento coincide con la formulazione di una proposta di acquisto proveniente da un terzo e non è dunque rimesso all'arbitrio ovvero al capriccio dell'azionista. Ciò che più conta è poi la constatazione che la legittimità della delibera assembleare a maggioranza di introduzione del trascinamento è subordinata alla realizzazione della parità di trattamento tra i soci, che invece non è garantita dalle azioni con diritto di riscatto. Ancora, i rischi di un abuso della maggioranza ai danni dei soci di minoranza, i quali vedono in definitiva fissare il prezzo della di vendita dal socio trascinante trova il giusto contrappeso nell'equa valorizzazione della loro quota con il riferimento ai valori di liquidazione legale per il caso di recesso (2437 ter c.c.). In conclusione, l'impugnazione della delibera assembleare deve essere rigettata. - Spese di lite - Le spese di lite seguono la soccombenza, secondo la regola generale dettata dall'art. 91 c.p.c., e sono liquidate come da dispositivo secondo i parametri previsti dal D.M. n. 55 del 2014, in base allo scaglione della causa (indeterminabile), con applicazione dei compensi minimi per la fase istruttoria, attesa la mancata introduzione di prove orali. P.Q.M. ogni altra istanza, deduzione ed eccezione disattesa, definitivamente pronunziando, il Tribunale di Trieste così provvede: 1. RIGETTA l'impugnazione della delibera assembleare del 16 novembre 2021 della società (omissis) proposta da (omissis); 2. CONDANNA (omissis) al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 9.000,00 per competenze di avvocato ed Euro 183,63 per esborsi, oltre a spese generali nella misura del 15%, IVA e CNAP come per legge. Manda alla cancelleria per gli adempimenti. Così deciso in Trieste il 23 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 6 marzo 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI TRIESTE (artt. 538 c.p.p. ) Il G.O.T. dott. Barbara Camerin, all'udienza pubblica del 11 dicembre 2023 ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo in udienza la seguente SENTENZA nel procedimento a carico di: Go.Al., nato a T. il (...) e residente a T. in Strada del F. n. 309 dove elegge il proprio domicilio (nomina con procura speciale depositata in data 20.11.2023) Difeso di Fiducia dall'avv. St.Sa. del Foro di Trieste ASSENTE IMPUTATO della contravvenzione prevista e punita dall'art. 186 comma 2, lettera c) comma 2 sexies C. d. S.: "perché circolava alla guida del autoveicolo PIAGGIO Vespa Primavera tg. (...)in stato di ebbrezza per abuso di sostanze alcoliche, caso in cui veniva accertato un tasso alcolemico di 1,55 g/l. risultante da esame alcolemia di data 11.07.2022 effettuato presso l'ospedale di Cantinara". Con l'aggravante di aver provocato un incidente stradale. Con l'aggravante di avere commesso il fatto tra le 22.00 e le ore 7.00. MOTIVI DELLA DECISIONE A seguito della notifica del decreto di citazione diretta a giudizio per l'udienza predibattimentale del 20 novembre 2023, l'odierno imputato come in atti meglio generalizzato, veniva tratto al giudizio di questo Tribunale in composizione monocratico per rispondere del delitto a lui contestato nel capo d'imputazione che precede. Nel corso della prima udienza, il difensore, dichiarata l'assenza dell'imputato, chiedeva che si procedesse con giudizio abbreviato condizionato all'acquisizione di n. 2 documenti: 1) cartella clinica dell'imputato, 2) perizia clinica del dott. Se.Om., depositando procura speciale per il richiesto rito. Il Pubblico Ministero nulla osservava e quindi si procedeva con l'ammissione al rito e successivamente con la sua discussione in data odierna quando veniva pronunciata sentenza con lettura del dispositivo in udienza e riserva dei motivi. Il fatto. L'odierno imputato in data 11 luglio 2022, alle 01.40, come emerge dalla CNR della Polizia Stradale di Trieste (cfr. documento dd. 15.10.2022) nel mentre percorreva la strada del Friuli all'altezza del civico 171, centro abitato del comune di Trieste, faceva un incidente autonomo con lesioni. L'imputato, infatti, circolava alla guida dell'autoveicolo PIAGGIO Vespa Primavera tg. (...), in stato di ebbrezza per abuso di sostanze alcoliche, come emergeva dagli accertamenti svolti presso l'ospedale di Cattinara (referto 1,55 g/l.) dove veniva condotto a seguito di "...rif. caduta autonoma. Tali esami ematochimici, che hanno interessato l'imputato venivano svolti dopo le 2.15 e cioè dopo che l'imputato veniva caricato nell'Ambulanza del 118 e condotto presso il suddetto nosocomio. Il difensore, attraverso la produzione documentale richiesta per la celebrazione del giudizio abbreviato, introduceva il parere medico legale del dott. Se.Om., nel quale si faceva espresso riferimento agli approdi cui si è giunti in dottrina, in punto "accertamento del grado di alcolemia attraverso il prelievo ematico coinvolgendo questo Giudice sia in punto modalità dell'accertamento del fatto sia in punto veridicità e/o attendibilità del prelievo eseguito dopo un lungo lasso di tempo. Sui temi sopra riportati la Giurisprudenza ha precisato che i risultati del prelievo ematico effettuati per le terapie di pronto soccorso successive all'incidente stradale e non preordinate ai fini di prova della responsabilità penale sono utilizzabili per l'accertamento della guida in stato di ebrezza senza che rilevi la mancanza di consenso prestato (ex multis, Cass., pen., Sez. Fer., 25 agosto 2016, n. 52877). Quindi il mancato consenso, nel caso che ci occupa, poco rileva perché l'esame ematico non aveva alcuna finalità di accertamento del fatto reato ma fungeva da elemento a sostegno terapeutico per il successivo intervento medico sul paziente. Quanto poi al lasso di tempo tra il prelievo ematico e il fatto reato, va precisato che la Giurisprudenza che si è occupata della questione, ha sempre evidenziato la necessità che tra il fatto reato e il prelievo sia trascorso " un apprezzabile lasso di tempo per poter ritenere non valido tale accertamento ma tale parametro non può essere utilizzato per invalidare questo accertamento perché nel caso di specie è trascorso meno di un'ora. Per tali ragioni si ritiene che sia stata raggiunta la certezza delle prova della responsabilità dell'imputato per il fatto reato a lui contestato perché, secondo l'orientamento prevalente in Giurisprudenza: " per l'accertamento del reato contravvenzionale di guida in stato di ebbrezza sono utilizzabili i risultati del prelievo ematico che sia stato effettuato, secondo i criteri e gli ordinali protocolli sanitari di pronto soccorso, durante il ricovero presso una struttura ospedaliera pubblica a seguito di incidente stradale, trattandosi, in tal caso, di elementi di prova acquisiti attraverso la documentazione medica, con conseguente irrilevanza, a questi fini, della eventuale mancanza di consenso"(Cass, pen., Sez. IV, 16 maggio 2012, n. 26108). In punto pena. Si ritiene che la stessa, vada commisurata partendo da una pena nei minimi di legge nonostante la gravità della condotta. Non vi sono ragioni per riconoscere all'imputato le circostanze attenuanti generiche perché lo stesso si trovava in ora notturna a circolare con un elevato tasso alcolemico, incapace di guidare il mezzo che conduceva al punto da cadere autonomamente arrecando a sé stesso lesioni gravi che si rinvengono nei referti in atti e nella cartella clinica dimessa. La pena viene così calcolata: pena base mesi 6 di arresto ed Euro 2.000,00 di ammenda, raddoppiata per il fatto di aver provocato un incidente stradale, anni 1 di arresto ed Euro 4.000,00 di ammenda, aumentata per 1'aggravante dell'ora notturna a Euro 6.000,00 di ammenda, ridotta per il rito a mesi 8 di arresto ed Euro 3.000,00 di ammenda. All'accertamento della responsabilità segue l'applicazione della sanzione accessoria della revoca delle patente di guida. Letti gli artt. 438 e 533 e 535 c.p.p. P.Q.M. DICHIARA l'imputato responsabile del reato a lui ascritto e applicata la riduzione per il rito, lo condanna alla pena finale di mesi 8 di arresto ed Euro 3.000,00 di ammenda. Pena sospesa. Condanna alle spese. Dispone la sanzione accessoria della revoca della patente di guida. Manda alla Prefettura per quanto di competenza. Giorni 90 per il deposito dei motivi. Così deciso in Trieste l'11 dicembre 2023. Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI TRIESTE - SEZIONE CIVILE Il Tribunale di Trieste, Sezione civile, in composizione collegiale ex art. 50 bis n. 7) c.p.c. in persona di Dott.ssa Anna Lucia Fanelli - Presidente Dott.ssa Gloria Carlesso - Giudice relatore Dott.ssa Sabrina Cicero - Giudice ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 438/2019 R.G. promossa con atto di citazione notificato il 7 febbraio 2019 DA Vi.Ri. - nato a P. il (...), (C.F. (...) ), residente in P. - Via A. S. n. 5, rappresentato e difeso dall'avv. Cl.Ve. (C.F. (...) - (...) - fax (...)) del Foro di Trento unitamente e disgiuntamente all'avv. Gi.Sb. (C.F. (...) - pec [email protected] - fax (...)) del Foro di Trieste, elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv. Cl.Ve. in Trento, via (...) cap 38121 - attore - CONTRO STATO ITALIANO - PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (C.F. (...)) in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Trieste (C.F. (...)), ed elettivamente domiciliata in Piazza (...), fax (...)-(...) - convenuto - avente ad oggetto: responsabilità magistrati ex L. n. 117 del 1988 RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Con atto di citazione del 7 febbraio 2019, ritualmente notificato, il rag. Vi.Ri., lamentando la sussistenza di una responsabilità civile in capo a tutti i magistrati che si erano occupati, nei rispettivi ruoli, del procedimento iscritto al n. 5284/2006 RGNR che lo aveva visto indagato e poi imputato di reati da cui era stato assolto in via definitiva e in sede di giudizio di rinvio (Corte d'Appello di Trento sez. dist. di Bolzano), chiedeva il risarcimento dei danni patrimoniali (per spese sostenute e mancato guadagno) e non patrimoniali (per la lesione all'immagine e alla reputazione a causa del clamore mediatico della condanna e del procedimento disciplinare aperto a suo carico dal competente ordine professionale) quantificati in Euro 300.000,00o in altra maggiore o minore somma ritenuta di giustizia, nei confronti dei magistrati che avevano svolto le funzioni di pubblico ministero (Pa.Pr.), di GUP (Ca.An.), di giudice del dibattimento (Ar.Bu.), e dei giudici della Corte d'Appello di Trento (Ca.Pa., An.Cr. e An.Te.), per avere gli stessi rispettivamente svolto le indagini, chiesto e disposto il rinvio a giudizio e pronunciato sentenza di condanna nei suoi confronti per il reato di cui all'art. 3 D.Lgs. n. 74 del 2000 senza avere gli essenziali elementi di prova; evidenziava, in particolare, che il P.M. dott. Pa.Pr. aveva richiesto il rinvio a giudizio del signor Vi.Ri. in ordine a reati fiscali (art. 2 e 3 D.Lgs. n. 74 del 2000) senza aver mai acquisito e verificato le dichiarazioni IVA e dei redditi nonostante il chiaro dettato legislativo di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000 e che, pertanto, risultava per tabulas che gli stessi giudici di merito - dal Giudice per le indagini preliminari che aveva disposto il decreto di rinvio a giudizio ai magistrati del primo e secondo grado di giudizio- erano pervenuti a una sentenza di condanna per reati fiscali omettendo di verificare l'acquisizione agli atti del documento nel quale si sarebbe dovuta materializzare la fattispecie di reato oggetto di imputazione ossia la dichiarazione dei redditi presentata il 30 novembre 2006 e relativa all'esercizio 2005-2006; rimproverava in sostanza ai magistrati una colpa grave per inescusabile negligenza ai sensi dell'art. 2 commi 3 e 3bis della L. n. 117 del 1988 e succ mod. 2. Costituitasi in giudizio con il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, con memoria depositata l'8 giugno 2019, la Presidenza del Consiglio dei Ministri contestava la domanda eccependo la decadenza di parte attrice dall'esercizio dell'azione per scadenza del termine triennale di cui all'art. 4 comma 2 L. n. 117 del 1988; la inapplicabilità delle disposizioni introdotte dalla L. n. 18 del 2015 che avevano ampliato le ipotesi di responsabilità del magistrato in quanto le condotte censurate si erano svolte prima della entrata in vigore della legge di modifica n. 18 del 2015; la inapplicabilità della disciplina ai magistrati della Procura che avevano formulato l'imputazione sulla base del processo verbale della Guardia di Finanza e dell'avviso di accertamento dell'Agenzia delle Entrate; l'inammissibilità dell'azione di risarcimento nei confronti del GUP presso il Tribunale di Trento atteso che all'udienza preliminare non era stata formulata alcuna richiesta di indagine da parte della difesa e gli elementi a disposizione del GUP avevano giustificato il decreto di rinvio a giudizio; l'inammissibilità dell'azione di risarcimento in relazione all'operato dei giudici del Tribunale e della Corte d'Appello in quanto la decisione si era basata su una interpretazione delle norme e la Corte d'Appello di Bolzano in sede di rinvio, dopo l'annullamento da parte della Corte di cassazione, aveva deciso senza valorizzare il fatto che il quadro RS-prospetti vari e in particolare la voce RS09 che avrebbe messo in chiaro l'operazione contestata non era stato compilato, limitandosi a constatare il mancato inserimento dell'elemento fittizio nella dichiarazione dei redditi per l'annualità 2005, sottovalutando invece la complessa ricostruzione della condotta che avrebbe imposto di confrontare i dati contabili e di bilancio con quelli fiscali, onde far emergere i reali profili dell'operazione; in conclusione l'Avvocatura sottolineava che il quadro della vicenda era completamente estraneo al perimetro di responsabilità per colpa grave disegnato dall'art. 2 della L. n. 117 del 1988; contestava comunque la quantificazione del danno patrimoniale e non patrimoniale proposta dall'Attore e chiedeva il rigetto della domanda con il favore delle spese. 3.Effettuata la comunicazione del giudizio a tutti i magistrati coinvolti ai sensi dell'art. 6 L. n. 117 del 1988, e disposta l'acquisizione dei fascicoli del procedimento iscritto al n. 5284/2006 RGNR, RG 823/09 Trib Trento, RG53/2012 Corte d'Appello di Trento e RG 13/2015 Corte d'appello di Bolzano, ammesse le prove per testi (vds ordinanza 9 agosto 2021- dott.ssa P.), assunte le prove testimoniali a cura del Giudice onorario delegato (dott.ssa C. verbale udienza 22.12.2021), e ciò dopo una successione di rinvii correlati ora alle esigenze organizzative determinate dall'emergenza epidemiologica da COVID 19 (vds decreti 8/4/2020 e 15.3.2021) ora dal congedo per maternità (vds decreto 30 maggio 2020), il giudice neo-assegnatario del procedimento (dott.ssa Carlesso), fissava l'udienza di precisazione delle conclusioni (ordinanza del 26.8.2022). La causa è stata dunque trattenuta in decisione sulle conclusioni delle parti precisate all'udienza del 7 giugno 2023 e riportate in epigrafe, alla scadenza dei termini di deposito di comparse conclusionali e repliche (26 settembre 2023). 4. La domanda è infondata. 4.1 Va ritenuta inammissibile perché tardiva l'eccezione preliminare di rito (altrimenti fondata) opposta dalla Convenuta - che si è costituita oltre il termine di venti giorni precedenti l'udienza (20 giugno 2019) - riguardante la decadenza dell'azione di risarcimento che è stata proposta il 7 febbraio 2019 ben oltre il termine di tre anni previsto dall'art. 4 L. n. 117 del 1988 come modificata dall'art. 3 della L. n. 18 del 2015, termine decorrente dal momento in cui siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti, ossia decorrente - nel caso in esame - dal 20 maggio 2014 data della pronuncia della sentenza di legittimità (e comunque tardivo anche rispetto alla pronuncia della sentenza di assoluzione emessa il 9 novembre 2015). 4.2 Va invece accolta l'osservazione rilevata dalla Convenuta, ma rientrante nell'ambito delle questioni esaminabili d'ufficio, della impossibilità di applicare il novellato art. 2 della L. 13 aprile 1988, n. 117 ai sensi dell'art. 1 della L. n. 18 del 2015 (che manca di una norma transitoria) anche a fatti illeciti commessi prima dell'entrata in vigore di detta legge (vds da ultimo Cass 31270 del 2023 che richiama Cass Sez U. n. 11747 del 2019; Cass n. 31321 del 2021, Cass n. 6818 del 2016, Cass 25216 del 2015). 4.3 La valutazione della responsabilità civile dei magistrati si inserisce nel perimetro delineato dall'art. 2 della L. 13 aprile 1988, n. 117 che consente (primo comma) a colui che abbia subito un danno per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia di agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. 2. Nell'esercizio delle funzioni giudiziarie N. può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove. 3. Costituiscono colpa grave: a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d) l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione. Questo collegio ritiene che non possano ravvisarsi nel caso in esame i presupposti dell'azione di risarcimento del danno che, pertanto, a prescindere dalla prova della sua quantificazione, non può in radice considerarsi ingiusto. 4.4. Per spiegare questa decisione occorre ripercorrere la vicenda. 4.4.1 A seguito di una informativa della Guardia di Finanza del 15 giugno 2007, il pubblico ministero (dott. Pa.Pr.) contestava al rag Vi.Ri. nel procedimento penale iscritto al n R.G.N.R. 5284/06-21 (originariamente aperto per il reato di cui all'art. 615ter cp su querela della moglie dell'Attore) i seguenti reati: a) al reato di cui all'art. 2 D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 "perché, amministratore della società Le. s.r.l. con sede in P., al fine di evadere l'IVA e/o conseguire il riconoscimento di un credito inesistente (anche ai fini di compensazione con imposte a debito) od un indebito rimborso della medesima imposta, avvalendosi della fattura per operazioni totalmente inesistente nr. (...) dd. 30.11.02, emessa dalla P. s.r.l., indicava nella dichiarazione annuale obbligatoria ai fini IVA per l'anno 2002, elementi passivi fittizi. Fatti commessi in P., il 24.10.03"; b) al reato di cui all'art. 3 D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 "perché, al fine di evadere le imposte sul reddito, rappresentante legale della società Le. s.r.l. con sede in P., al fine di evadere le imposte sui redditi gravanti sulla predetta società, sulla base di una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie della predetta società ed avvalendosi di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento, inseriva nella dichiarazione annuale obbligatoria ai fini delle imposte sui redditi della Le. s.r.l. relativa all'esercizio 22.05.05 - 21.05.06, elementi passivi fittizi da cui derivava una evasione d'imposta superiore ad Euro 77.468,52 (Euro 197.325). L'elemento passivo fittizio era costituito dal costo "altre voci costituenti rimanenze" fittiziamente incrementato per Euro 600.000. Tale aumento poggiava su una pregressa movimentazione finanziaria, riportata nelle scritture contabili, a titolo di fittizio anticipo per l'acquisto di un bene immobile (di cui alla fattura nr. (...) dd. 30.11.02, emessa dalla P. s.r.l.). L'anticipo veniva successivamente girato nelle scritture contabili, sempre in maniera fraudolenta, quale aumento del valore di un immobile già posseduto dalla Le. s.r.l.. La vendita successiva dell'immobile, avvenuta nell'esercizio 22.05.05 - 21.05.06, non determinava, pertanto, la reale plusvalenza/ricavo a seguito di tale fittizio aumento del valore dell'immobile quale rimanenza. Fatti commessi in P. il 30.11.06"; c)al reato di cui all'art. 646 c.p., 61 nr. 11 c.p. "perché amministratore prima e poi liquidatore della Le. s.r.l. si appropriava della somma di Euro 813.843,17 che prelevava dalle disponibilità bancarie della società in data 31.05.05. Fatti commessi in P. il 31.05.05" 4.4.2. Con decreto del 23 luglio 2009 il GUP presso il Tribunale di Trento (Ca.An.), accogliendo la richiesta del Pubblico Ministero (dopo che il Tribunale del riesame aveva rigettato con ordinanza del 16 ottobre 2007 la richiesta di annullamento dei decreti di perquisizione e sequestro disposti dal pubblico ministero il 27 settembre 2007), disponeva il rinvio a giudizio del signor Vi.Ri. in ordine ai reati trascritti supra 4.4.1; 4.4.3. Nel giudizio avanti al Tribunale di Trento, si costituiva parte civile l'Agenzia delle Entrate di Trento, rappresentata dall'Avvocatura dello Stato, chiedendo la condanna dell'imputato al risarcimento dei danni materiali e morali. Con sentenza 24 novembre 2011 il Tribunale di Trento (dott.ssa Ar.Bu.), valutando la documentazione oggetto di sequestro, le testimonianze assunte e le valutazioni del CTU dott. Boschini, riqualificava il reato di cui al capo a) in quello di cui all'art. 4 D.Lgs. n. 74 del 2000 e dichiarava non doversi procedere per essere il medesimo estinto per prescrizione; assolveva l'imputato dal reato di cui al capo c) ex art. 530 comma 2 cpp perché il fatto non costituisce reato e, dichiarata la penale responsabilità di Vi.Ri. per il reato di cui al capo b), lo condannava alla pena di anni due e mesi sei di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali, nonché al risarcimento del danno patito dalla parte civile liquidato in Euro 223.840 (corrispondenti alle imposte IRES e IRAP evase, desunte dall'accertamento dell'agenzia delle Entrate) oltre interessi e rivalutazione dal 31.12.2005, oltre alle spese di costituzione e difesa. Il tribunale riteneva provato che l'operazione di cui alla fattura (...) apparentemente emessa dalla P., in relazione alla vendita di un immobile alla società Le. srl di cui Vidi era legale rappresentante, si riferisse a una operazione inesistente che aveva avuto l'unico scopo di ottenere per la società Le. srl un risparmio fiscale e un credito per IVA, portato in compensazione con un debito IVA relativo alla vendita di altro immobile: il Tribunale evidenziava che la fattura n. (...) e il contratto preliminare di vendita di immobili non esaurissero i mezzi fraudolenti di cui Vidi si era avvalso per ostacolare l'accertamento della falsità contabile. Egli, infatti - scrive il Tribunale - ha posto in essere un'articolata condotta consistente in false registrazioni contabili, indicazioni false inserite nella nota integrativa di bilancio, inserimento della quinta pagina nel registro multi azienda registrazione in bilancio di un credito ed estinzionedello stesso con indicazione di un anticipo soci, indicazione della rivalutazione di un immobile. Può dirsi tale condotta fraudolenta idonea, in base a un giudizio ex ante, a ostacolare l'accertamento della falsità contabile. A riprova di tale idoneità va evidenziato che per l'accertamento della stessa sono state necessarie indagini complesse e un'istruttoria dibattimentale ancor più lunga, complessa e laboriosa con la necessità di disporre addirittura di una articolata perizia?.va ribadito che non sono stati utilizzati solo dei documenti ideologicamente falsi, ma è stata posta in essere una articolata condotta fraudolenta, condotta che ha comportato diverse registrazioni, aggiustamenti, scritture errate?risulta sussistente anche l'elemento soggettivo del dolo specifico, rilevato che risulta che l'imputato abbia agito al fine di evadere le imposte ed anzi può ritenersi che questa sia stata l'unica ragione per l'emissione della fattura, la redazione del preliminare e la scrittura di annotazioni e registrazioni. Il giudizio del Tribunale si basava anche sulla relazione del CTU che, dopo ampio esame delle scritture contabili e delle dichiarazioni dei redditi, e disattendendo puntualmente le controdeduzioni del CT della Difesa, aveva rilevato che l'acconto versato a P. per un "asserito" preliminare era stato utilizzato per incrementare il valore degli immobili aziendali per l'importo equivalente di Euro 600.000; aveva dato atto che le scritture contabili avevano descritto una "transazione del tutto priva di fondamento economico e di nesso logico tra le partite movimentate che aveva prodotto una rappresentazione non veritiera degli elementi patrimoniali" e precisamente: lo stralcio di un credito che avrebbe dovuto invece permanere nell'attivo sociale e l'incremento di valore di un immobile che non aveva alcun collegamento con l'operazione in contropartita. Anche il Consulente del PM aveva sottolineato che la società Le. srl aveva operato in via di fatto una rivalutazione illegittima di beni immobili esistenti attraverso un artifizio contabile; ciò rileva per i bilanci degli anni 2002-2003, 2003-2004, 2004-2005; all'atto della cessione dei beni immobili di proprietà (nel 2005) ha rilevato una plusvalenza inferiore a quella effettiva sia a fini civilistici che tributari. Le scritture contabili imputate dalla società Le. con riferimento alle operazioni a valle della rilevazione del preliminare P. non sono conformi alle norme civili e ai corretti principi contabili. Inoltre le stesse operazioni hanno comportato la erronea (inferiore) quantificazione dellaplusvalenza sulla cessione degli immobili anche ai fini tributari (vds in relazione del 25.7.2011); in sostanza Le. srl, dopo la cessione a terzi dei propri immobili (originariamente iscritti a bilancio per Euro 77.468,53 e ceduti al prezzo di Euro 700.000 + iva, ossia Euro 839.800) aveva omesso di rilevare la plusvalenza di Euro 622.531,47 poiché considerava "acquisito al costo" l'indebito giroconto dell'acconto relativo al preliminare P. (vds pag. 12 relazione del CTU). Le conclusioni del CTU ribadivano in sostanza quanto già accertato dalla Guardia di Finanza - nucleo di polizia tributaria nella comunicazione di notizia di reato del 31.1.2008 prodotta all'udienza del 6 ottobre 2010 vale a dire che per il periodo di imposta in trattazione (esercizio 22-5-2005-21.5.2006) le registrazioni contabili di seguito esposte hanno avuto effetti ai fini delle imposte dirette. Infatti, a seguito della cessione dell'immobile strumentale - acquistato nel 1993 -, il cui valore contabile è stato illegittimamente "rivalutato" per mezzo di una alchimia contabile (la sottolineatura è dell'estensore) posta in essere utilizzando un inesistente anticipo a fornitori, la società sottoposta a controllo ha omesso di esporre in bilancio e nella dichiarazione annuale dei redditi la reale plusvalenza realizzata a seguito di tale cessione (pag. 8) ...la parte ha omesso, per l'esercizio 2005/2006 di dichiarare una plusvalenza patrimoniale ammontante ad Euro 600.000 dichiarando, invece, una plusvalenza di Euro 20.031,47 (pag.18 della N.R. 31.1.2008) data dalla differenza tra il valore di vendita 700.000 e il valore storico contabile del bene (679.968,53) illegittimamente rivalutato a seguito della registrazione della fattura emessa da P. (la n. (...)), relativa a una operazione inesistente. 4.4.4. Con sentenza n. 156/2013 del 24.5.2013 la Corte d'Appello di Trento, in composizione collegiale (giudici P., C., T.), accogliendo parzialmente l'appello proposto da Vi.Ri. che aveva sostenuto l'errata valutazione dell'inesistenza dell'operazione del 2002 (si noti che l'imputato si era speso ampiamente per dimostrare l'esistenza di detta operazione assumendo persino la consegna del prezzo in contanti) - fattura n. (...) del 2002 e preliminare di vendita dd. 29.11.2002 - confermava la condanna penale, sol eliminando la statuizione relativa alla liquidazione del danno in favore della parte civile costituita. In motivazione la Corte dava atto dell'impegno con cui l'imputato aveva cercato di dimostrare che l'emissione della fattura (...) (versamento dell'acconto di 600.000 Euro quale acconto -versato in contanti -sul prezzo finale di acquisto stabilito in Euro 800.000) corrispondesse a una operazione reale, che le modalità di registrazione erano state regolari e conformi ai principi e alle prescrizioni in materia le conseguenti determinazioni circa l'ammontare delle imposte, per cui in giudizio si era dibattuto a lungo in ordine alla regolarità o meno della contabilizzazione della fattura in esame e, ancor prima, della effettività dell'operazione che la stessa voleva rappresentare, ritenendo la Corte provata, sulla base di quello che la stessa descriveva come un imponente quadro probatorio, la fittizietà dell'operazione, divenuta strumento fraudolento per conseguire indebiti risparmi fiscali (abbattimento della plusvalenza relativa alla vendita dell'immobile alla società I.Vi.Ri. e del relativo debito per IVA) 4.4.5 Con sentenza n. 52752/2014 la Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso della difesa che, con il primo motivo, aveva censurato la "violazione dell'art. 606 comma 1 lett. B) c.p.p. per inosservanza e/o erronea applicazione della norma penale di cui all'art. 3 D.Lgs. n. 74 del 2000 sotto il profilo sia della condotta tipica che dell'individuazione del momento consumativo del reato: violazione del principio del ne bis in idem" - annullava la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d'Appello di Trento. Il giudice di legittimità, dopo aver esordito rilevando che dalle sentenze di merito non si comprendeva bene la vicenda in fatto, riteneva che la Corte d'appello avesse omesso di controllare la dichiarazione dei redditi del 2006 e in particolare se fossero stati inseriti - come descritto nel capo d'imputazione nella dichiarazione annuale obbligatoria ai fini delle imposte sui redditi della Le. srl relativa all'esercizio 22.05.05 - 21.05.06 elementi passivi fittizi da cui derivava un evasione d'imposta superiore ad Euro 77.468,53 (Euro 197.325)"; il dato avrebbe dovuto essere considerato costitutivo del reato contestato, non essendo invece rilevante l'eventuale condotta preparatoria, ritenuta provata dalla pregressa fittizia movimentazione contabile relativa al fittizio acquisto di un immobile e al fittizio giro contabile per l'aumento di valore, mentre la Corte non aveva verificato come questi elementi fossero poi stati inseriti e utilizzati nella dichiarazione dei redditi presentata nel 2006. In sostanza - si legge nella sentenza della cassazione - la corte d'appello appare aver adottato una interpretazione (analoga a quella poi seguita da sez fer. 1/8/2013 n. 35729?) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un coinvolgimento diretto e consapevole dalla creazione del meccanismo fraudolento che ha consentito di avvalersi della documentazione fiscale fittizia al sottoscrittore della dichiarazione (?.). Unicamente in forza di questa opinione, infatti, può spiegarsi il motivo per il quale, nella specie, la corte d'appello ha omesso di esaminare e valutare (ritenendola evidentemente superflua) la dichiarazione dei redditi presentata nel 2006 ed anzi ha omesso anche di accertare se la stessa fosse o meno presente nel fascicolo del dibattimento. Si tratta però di una tesi che non può essere qui condivisa e confermata perché è contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte ed al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari introdotto dal legislatore con il D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74. Difatti, sia il reato di cui all'art. 2 sia quello di cui all'art. 3 hanno una struttura bifasica, comprendente due momenti diversi. Vi è una prima fase preparatoria, in cui la condotta ha natura propedeutica e strumentale e che è caratterizzata, nell'art. 2 dalla registrazione nelle scritture contabili obbligatorie e dalla detenzione a fini di prova di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e, nell'art. 3 dalla falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie dalla circostanza che il soggetto di avvalga di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento di tale falsità. Vi è una seconda e successiva fase in cui si richiede che le fatture o documenti per operazioni inesistenti ovvero che il falso contabile e la condotta fraudolenta che lo ha accompagnato si traducano, per avere rilevanza penale, nella indicazione in una delle dichiarazioni dei redditi o dell'iva, di elementi attivi inferiori o elementi passivi fittizi. L'indicazione mendace nella dichiarazione costituisce il momento di perfezionamento e di consumazione del reato, che ha natura istantanea. Richiamata a quel punto ampia giurisprudenza, la Corte statuiva che la motivazione della sentenza della Corte di appello di Trento fosse erronea e comunque carente, perché si era soffermata esclusivamente sulla fase prodromica e preliminare (di per sé penalmente irrilevante) omettendo totalmente di esaminare e valutare l'elemento costitutivo del reato,ossia il contenuto della dichiarazione dei redditi relativa all'esercizio 22.5.2005-21.5.2006, dichiarazione che - secondo la Corte - non sarebbe stata nemmeno acquisita al processo. 4.4.6 Con sentenza del 9 novembre 2015 la Corte d'Appello di Trento - Sezione distaccata di Bolzano assolveva l'imputato Vi.Ri. dal reato di cui all'art. 3 D.Lgs. n. 74 del 2000 (capo b) perché il fatto non sussiste, e revocava le statuizioni civili: il giudice di rinvio riteneva dirimente il mancato inserimento dell'elemento fittizio nella dichiarazione che sarebbe stata prodotta solo in quel giudizio e solo dalla parte civile ossia dalla Agenzia delle Entrate. Rilevava, in particolare, il mancato inserimento dell'elemento fittizio nella dichiarazione dei redditi per l'annualità 2005 e, ritenendo rilevante l'inserimento dell'elemento fittizio nella dichiarazione riferita al medesimo periodo di imposta di utilizzo in contabilità, rilevava che una cifra corrispondente alla fattura (...) era comparsa per la prima volta in contabilità nella dichiarazione correttiva ai fini IVA presentata il 24.10.2003, condotta contestata al capo 1) dell'imputazione da cui l'imputato era stato prosciolto per prescrizione, ed era poi comparsa nelle dichiarazioni relative agli esercizi 2003-2004 e 2004-2005 per le quali, pur in presenza dell'elemento passivo fittizio, non era stato però contestato alcun reato. L'attore fonda la richiesta di risarcimento nel fatto, a suo giudizio genetico, per cui il rag Vi.Ri. sarebbe stato indagato, rinviato a giudizio, processato e condannato sebbene mancasse l'unico documento rilevante - che sarebbe stato acquisito solo nel giudizio di rinvio davanti alla Corte d'Appello di Bolzano - vale a dire la dichiarazione dei redditi del 17 novembre 2006 che mancava del quadro in cui avrebbero dovuto essere riportati i dati di bilancio: perciò la Sezione distaccata di Bolzano, constatando "il mancato inserimento dell'elemento fittizio nella dichiarazione dei redditi per l'annualità 2005, aveva assolto l'imputato dal reato per il quale era stato condannato con la formula perché il fatto non sussiste. L'attore inserisce così nel giudizio di risarcimento persino un'ombra di mala fede del pubblico ministero, laddove evidenzia che la data di commissione del reato di cui al capo b) (30 novembre 2006) sarebbe stata indicata dal PM in mancanza della necessaria documentazione fiscale. Tace invece - esaltando poi singoli frammenti delle dichiarazioni testimoniali dei verbalizzanti della GdF, ben lungi dal riportare l'intera complessità delle indagini riferite - del corposo bagaglio istruttorio acquisito dal PM prima di chiedere il rinvio a giudizio e prodotto in dibattimento; detto bagaglio peraltro era stato richiamato dal PM anche nella lunga memoria depositata all'esito del dibattimento unitamente ad ampi stralci delle testimonianze assunte dai verbalizzanti le cui indagini erano state arricchite con l'esame e le valutazioni di un CTU (dott. Boschini) cui era stato dato il potere di esaminare a propria volta tutta la documentazione contabile e fiscale utile a rispondere ai quesiti assegnati. Il PM aveva evidenziato, in particolare, con riferimento alla dichiarazione annuale ai fini delle imposte sui redditi per l'annualità 2005/2006 (proprio quella di cui si discute) che non era stato riportato un dato emergente invece dalle scritture contabili e consistente nell'aumento passivo fittizio poggiante su una pregressa movimentazione finanziaria e costituita da un fittizio anticipo per l'acquisto di un bene immobile di cui alla fattura (...) emessa dalla P. srl; tale "anticipo" era stato girato nelle scritture contabile in maniera fraudolenta e aveva finito col costituire l'aumento del valore di un immobile (diverso) già posseduto dalla società Le. srl venduto nel 2005 con "il carico" di una plusvalenza ottenuta dall'aumento delle rimanenza (con riferimento al credito di cui al contratto preliminare), cosi spiegando proprio l'elemento descritto nel capo d'imputazione (L'elemento passivo fittizio era costituito dal costo "altre voci costituenti rimanenze" fittiziamente incrementato per Euro 600.000), considerazioni queste che giammai avrebbe potuto fare in mancanza della relativa documentazione; il PM aveva considerato quindi, a supporto della tesi accusatoria, che l'imposta evasa era quella che il Vidi avrebbe dovuto pagare a seguito della plusvalenza originatasi dalla cessione di un immobile alla I.Vi.Ri. per Euro 700.000 oltre IVA, bene il cui prezzo era stato postato in bilancio "incrementandolo" con un credito apparente derivante da una operazione inesistente (il contratto preliminare di compravendita con P.), operazione mai avvenuta ma documentata da una fattura fittizia (la n. (...) emessa in acconto su preliminare di cessione immobili ed area edificabile) a copertura, appunto, di una operazione inesistente (vds anche verbale della GdF del 27 marzo 2008 aff.ne 802); ai fini IVA, evidenzia il PM, ripercorrendo la notizia di reato, il Vidi, inserendo in contabilità un acquisto mai avvenuto, aveva ottenuto 1) un credito IVA che avrebbe poi utilizzato per compensare l'IVA a debito (correlata alla vendita del proprio immobile); 2) un aumento del conto "Immobili" che consente di innalzare il costo storico del vecchio acquisito nel 1992 e 3) di utilizzare la plusvalenza fittizia per annullare il ricavo della vendita: attraverso una serie di operazioni contabili irregolari, insomma, Vidi aveva fraudolentemente inserito nella propria dichiarazione dei redditi un credito IVA inesistente ammontante a Euro 120.000 (derivante dalla fattura emessa dalla P.) e aveva sottratto all'imposta sui redditi un ricavo di 600.000,00. Dal verbale della GdF del 27 marzo 2008 (allegato al verbale di udienza - Tribunale 6.10.2008) si legge che la società ha trasmesso il modello unico - Società di capitali ?indicando nel quadro RS - Prospetti vari - il valore dell'immobile di proprietà quale "altre voci costituenti rimanenze" considerandolo, quindi, bene merce, anziché, come risulta nei bilanci, "immobile strumentale (vds aff.ne 818 p.v. G.d.F del 27.3.2008). In altri termini - come si esprime con felice sintesi la Convenuta nella propria comparsa di costituzione - l'operazione contestata era stata rilevata a seguito di indagini preliminari e specifico verbale di constatazione redatto della Guardia di Finanza dd.27.3.2008 nei confronti della società "Le. S.R.L. in liquidazione" (in persona del legale rappresentante Vi.Ri.), e aveva avuto per oggetto l'esposizione di costifittizi, mai realmente sostenuti, attraverso una fattura registrata in contabilità e non corrispondente ad alcuna reale operazione commerciale, con la quale era stato fatto risultare un credito della società "Le. S.R.L." per acconto di Euro 600.000,00 oltre iva, verso la società "P. S.R.L.", in relazione ad un preliminare di compravendita di immobili a cui non aveva fatto seguito alcun contratto definitivo.". Tale fattura, per la quale nessun esborso era mai stato realmente sostenuto, era stata registrata e mantenuta nella contabilità sociale in attesa di essere utilizzata quale costo in occasione propizia per abbattere l'imponibile fiscale. E la GdF non si era fermata alla fase "prodromica", ma aveva esaminato anche l'indicazione nella dichiarazione annuale IVA relativa all'anno 2002 di elementi passivi fittizi per l'importo di Euro 600.000,00 al fine di conseguire un'indebita detrazione e quindi un indebito risparmio d'imposta (IVA) dell'importo di Euro 120.000,00; e aveva rilevato poi anche nella dichiarazione dei redditi relativa all'esercizio 22.05.2005 - 21.05.2006 che erano stati riportati elementi passivi fittizi per l'importo di Euro 600.000,00 al fine di conseguire un indebito risparmio di imposte (IRES e IRAP) dell'importo complessivo di Euro 197.325,00. I verbalizzanti avevano dunque concluso il P.V.C. contestando violazioni sostanziali in materia di imposte sui redditi (IRES) e di imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) a fronte di componenti positivi di reddito non dichiarati per l'importo di Euro 600.000,00 (seicentomila/00), trasmettendo inoltre copia del verbale alla Direzione Provinciale di Trento dell'Agenzia delle Entrate ed all'Agenzia delle Entrate di Tione (TN) per la determinazione delle imposte dovute e delle relative sanzioni. A propria volta l'Agenzia delle Entrate aveva emesso un avviso di accertamento (documento sempre allegato agli atti del procedimento penale) con la descrizione analitica di tutti i dati contabili portati nelle dichiarazioni dei redditi. Sebbene nel verbale dell'udienza celebrata davanti alla Corte d'Appello di Trento sezione distaccata di Bolzano venga disposta l'acquisizione della dichiarazione dei redditi relativa all'esercizio 2005-2006 e dei verbali di accertamento della GdF e dell'A. a cura della stessa Avvocatura dello Stato, l'esame degli atti consente di ritenere che detta documentazione fosse già stata analiticamente esaminata e valutata dal nucleo di polizia tributaria e allegata ai propri verbali sin dalla fase delle indagini così da qualificare come una operazione di complessa "alchimia contabile" l'illecito commesso. In sintesi, l'elemento costitutivo del reato e cioè l'inserimento di un elemento fittizio in contabilità era stato tale da far risultare nella dichiarazione dei redditi dd 17.11.2006 importi decisamente inferiori a quelli effettivi e perciò fittizi: plusvalenze per Euro 2.106 anziché Euro 602.106, reddito Euro 16.840 anziché Euro 616.840 e componenti positivi di reddito Euro 20.414 in luogo di Euro 620.415; ovviamente i giudici di merito di primo e secondo grado si erano spesi per ricostruire la successione di operazioni e di annotazioni contabili che rivelano il carattere fittizio dei dati poi riportati nella dichiarazione dei redditi e ciò all'evidente fine di portare in compensazione un credito per IVA con il debito relativo alla vendita (reale) di un bene immobile (diverso) realizzata dalla società Le., e di "coprire" con un credito apparente (verso la P.) l'incremento di valore di un immobile ceduto al fine di sottrarre il ricavato (che, perciò, risultava sensibilmente modesto e diverso dalla somma realmente incassata) al pagamento dell'imposta dovuta. Dunque, dalla dichiarazione dei redditi (che l'attore non ha allegato tra i propri documenti, mancando proprio la dichiarazione relativa al periodo 2005-2006 sebbene citata come allegato sub (...)) ma che è stata rinvenuta in atti, erano stati desunti i dati fiscali riportati, con analitica esposizione di quanto dichiarato e di quanto accertato dall'Agenzia delle Entrate, relativamente al quadro RF - redditi d'impresa; in particolare dal quadro "RF-Determinazione del reddito d'impresa" del mod. SC-2006 relativo al periodo 22.05.2005 - 21.05.2006 si evinceva che la società N. aveva proceduto ad alcuna variazione in aumento del proprio reddito in relazione all'avvenuta patrimonializzazione dell'acconto di Euro 600.000,00 che infatti N. risultava indicato fra le voci di cui ai righi da RF10 a RF 35. E anche questa omissione avrebbe dovuto rilevare al fine di ritenere completato l'iter delittuoso. Da tutti questi documenti aveva tratto origine l'imputazione del PM che aveva descritto con trasparenza e completezza lo svolgersi della vicenda contabile e fiscale sin dal capo d'imputazione sub b). Orbene, alla luce dei dati esposti e delle considerazioni svolte pare francamente arduo, se non addirittura temerario, far rientrare nel perimetro della responsabilità civile dei magistrati di cui all'art. 2, comma 3 L. n. 117 del 1988 sotto il profilo invocato dall'attore della negligenza inesplicabile le decisioni via via assunte dal PM, dal GUP, dal Tribunale di Trento e dalla Corte d'Appello di Trento. E anche volendosi fermare a quella che è stata giudicata una "interpretazione" superata dei giudici di merito (che, lo si ripete, necessariamente hanno dovuto ricostruire il prodromo per svelare la falsità dei dati riportati nella dichiarazione dei redditi d'impresa), interpretazione disattesa dalla Corte di Cassazione, dovrebbe valere il principio chiaramente e più volte enunciato dalla stessa Suprema Corte e da ultimo ribadito in una pronuncia recente, secondo il quale l'interpretazione ragionevole anche se isolata è decisamente estranea al perimetro della responsabilità civile ai sensi della L. n. 117 del 1988: In tema di azione contro lo Stato per il risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, le modifiche apportate dalla L. n. 18 del 2015 all'art. 2 della L. n. 117 del 1988 non hanno mutato in modo significativo la portata della norma, in relazione all'impossibilità di configurare una responsabilità civile del magistrato per l'attività diinterpretazione delle norme di diritto e per quella di valutazione del fatto e delle prove, essendo i due testi, sul punto, identici, con la conseguenza che, anche a seguito della riforma, la grave violazione di legge, fonte di responsabilità, va individuata nelle ipotesi in cui la decisione appaia non essere frutto di un consapevole processo interpretativo, ma contenga affermazioni ad esso non riconducibili perché sconfinanti nel provvedimento abnorme o nel diritto libero, e pertanto caratterizzate da una negligenza inesplicabile, prima ancora che inescusabile. (Nella specie la S.C., confermando la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda risarcitoria, ha precisato che decidere una controversia in difformità dall'orientamento della giurisprudenza di legittimità più recente e rifacendosi ad un orientamento precedente e meno rigoroso, non costituisce di per sé ipotesi di colpa grave, poiché la decisione, restando nel perimetro dell'attività interpretativa, forniva una interpretazione che, pur non essendo in astratto l'unica possibile, era tuttavia ragionevole). Cass 31837 del 15 novembre 2023; Cass 25454 del 29 agosto 2022; Cass Sez Un. 11747 del 3 maggio 2019). La domanda proposta da Vi.Ri. va dunque rigettata. Secondo il principio della soccombenza, le spese del giudizio sono poste a carico dell'Attore nella misura liquidata in dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, nella causa civile iscritta al n. 438/2019 promossa da Vi.Ri. contro STATO ITALIANO - PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI ogni altra istanza ed eccezione disattese, così provvede: Rigetta la domanda. Condanna l'Attore a rifondere le spese del giudizio che liquida in Euro 15.000, oltre spese generali, iva e cna se dovuti Così deciso in Trieste il 26 settembre 2023. Depositata in Cancelleria il 4 marzo 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI TRIESTE, Sezione Civile Il Giudice, dott.ssa Anna L. Fanelli, ha pronunziato la seguente SENTENZA nel procedimento civile di I grado iscritto al n. 3290/22 R.G. ed iniziato con atto di citazione dd. 8/07/22 da Br.Te., Lu.Te., Lu.Te., Ra.Te. con avv. Pe.Mo.; - attori - contro Va. (anche Va.) Gi. ved. Se. e suoi eventuali successori - convenuti contumaci - avente ad oggetto: usucapione immobile. RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Br.Te., Lu.Te., Lu.Te. e Ra.Te. hanno citato in giudizio le parti convenute indicate in epigrafe, per sentir accogliere le conclusioni pure ivi indicate, esponendo in particolare, in fatto, quanto segue: - di essere "proprietari intavolati dei fondi censiti con p.c.n. (...) in P.T. (...) e p.c.n. (...) parte in P.T. (...) del c.c. di Santa Croce, ciascuno per 1/4 p.i. (doc. 3). Le suddette p.c.n. circondano da due lati i fondi di cui alla presente causa. E tutti e quattro i suddetti fondi formano parte integrante del complesso immobiliare costituente in natura la casa con corte sita in T., località S.C. n. civico 284...Trattasi di edificio con corte e pertinenze chiuse, recintato e munito di cancello, che costituisce l'unico accesso per tutto il compendio fondiario....Osservando la prima foto doc. 6 assieme alla mappa doc. 4 si nota che la casa visibile alla destra della foto stessa, con il triangolo di corte antistante, forma la p.c.n. (...), mentre i gradini di accesso a tale edificio con il wc-magazzino e la parte di corte antistante visibili nella quarta foto doc. 6 sono parte integrante della p.c.n. 507...Oggetto della presente causa è quindi la parte di cortile centrale tra le suddette particelle con il wc esterno... Entrambe le suddette planimetrie riportano una mappa catastale diversa da quella oggi esistente, a causa delle modifiche intercorse negli anni rispetto agli immobili circostanti, numerazioni e frazionamenti compresi. Tutte le modifiche intervenute tra il 1888 ed il 1994 rispetto all'area di cui si discute sono state puntualmente riprese nel Piano del geom. D.M. doc. 7. In esso vi è pure la descrizione di quanto accaduto e degli errori in cui si è incorsi nel frazionamento del cat. (...), che nasce come strada consortiva tra edifici del borgo di Santa Croce presso Trieste, per cui bene mai censito ed iscritto nelle Pubbliche Tavole, strada consortiva oggi non più esistente.... Analogo problema si era posto per la p.c.n. 507 nel lontano1969, allorché il dante causa e padre degli odierni attori e suoi eredi ... T. (o T.) G., ha dato corso alla causa di usucapione del suddetto bene, ottenendo sentenza favorevole e chiedendone l'intavolazione sulla base della stessa. Ma il Giudice Tavolare ha dovuto dar corso alla procedura di completamento del L.F., proprio perché i fondi presenti in quella zona non erano mai stati censiti nelle Pubbliche Tavole (doc. 11 - GN 4144/69).... Da ultimo si precisa che la p.c.n. (...) è frutto del frazionamento della p.c.n. (...), per regolarizzare la situazione tavolare con quella catastale, come da Piano del geom. D.M. dd. 20/10/2020... Gli odierni attori sono pertanto nel possesso pacifico, pubblico, continuo ed ininterrotto da molti decenni, assieme al proprio predecessore e dante causa sopra indicato sub (...). della seguente realità: C.C. di Santa Croce porzione di fondo già cat. (...) non censita nelle Pubbliche Tavole in quanto strada consortiva, corrispondente alle p.c.n. (...) edificio di mq 73 (in natura però corte) e (...) ente urbano di mq 8 (scala e wc esterno-magazzino), mai censite nelle Pubbliche Tavole, identificate nella mappa doc. 4 in giallo, rispettivamente nei piani di frazionamento del 20/10/2020 (doc. 12) e di corrispondenza catastale tavolare del 07/09/2020 (doc. 7) del geom. D.M., facenti parte del complesso immobiliare sito a T. in località S.C. n. 284. 7. I fondi di causa non hanno un proprietario intavolato, ma solo un possessore accatastato, deceduta molti anni fa, senza traccia di altri possessori ad essa succeduti". Il G.I., in contumacia dei convenuti, ha ammesso ed assunto prove testimoniali ed infine, sulle definitive conclusioni della (sola) parte attrice ed assegnato termine abbreviato per il deposito di conclusionale, si è riservato la decisione. La domanda in esame è fondata e va accolta, per le ragioni che seguono. Gli attori vantano possesso ad usucapionem in relazione al fondo già cat. (...) del C.C. di Santa Croce, non censito nelle Pubbliche Tavole in quanto strada consortiva privata, corrispondente alle p.c.n. (...) edificio di mq 73 e (...) ente urbano di mq 8. Il bene risulta costituito da un fondo costituito da due parti, una adibita a cortile e l'altra a wc esterno, e si trova racchiuso tra due fondi già di proprietà attorea (per ¼ p.i. ciascuno), formando parte integrante di un unico complesso immobiliare, in natura casa con corte sita in T., località S.C. n. civ. 284, edificio con corte chiusa, recintato e munito di cancello che ne costituisce l'unico accesso. Può ritenersi in effetti dimostrato, alla luce dell'istruttoria svolta come pure delle risultanze documentali, che gli attori, anche unitamente ai familiari e danti causa, hanno esercitato, per oltre 20 anni e in modo esclusivo, il possesso pacifico, pubblico e continuato sugli immobili in questione. In particolare, vengono in rilievo le deposizioni dei testi Se. e Z., della cui attendibilità non vi è ragione di dubitare, in quanto da anni conoscenti degli attori e dei luoghi (anche per aver abitato nelle vicinanze), oltre che sostanzialmente disinteressati. Ne emerge invero la piena conferma dell'uso esclusivo e ultraventennale, come tale pubblico e pacifico, da parte degli istanti dei beni oggetto di causa, costituenti una porzione di corte da sempre oggetto di attività di utilizzo e cura ad opera dei predetti e familiari, nell'ambito di un unico compendio immobiliare, comunque nel loro esclusivo godimento e disponibilità (compreso il possesso delle chiavi del portone o cancello); ciò, senza mai chiedere il permesso ad alcuno, e senza che mai alcuno sollevasse una qualche contestazione, ovvero ponesse in essere atti di godimento od esercizio incompatibili. Con ciò, nonché tenuto conto della totale inerzia difensiva delle parti convenute (ritualmente notiziate per pubblici proclami), possono ritenersi senz'altro dimostrati i requisiti del valido possesso ad usucapionem in capo agli attori, sia sotto il profilo obiettivo della continuità, pacificità ed ultraventennalità del godimento di un potere di fatto corrispondente all'esercizio di un diritto di proprietà in via esclusiva, sia con riferimento al profilo psicologico. Infine, le spese vanno compensate, stante la mancata opposizione e come pure richiesto. P.Q.M. ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, definitivamente pronunciando, accerta e dichiara che gli attori Br.Te., Lu.Te., Lu.Te. e Ra.Te. sono divenuti proprietari per usucapione ultraventennale dei fondi in c.c. di Santa Croce identificati con p.c.n. (...) edificio di mq 73 e (...) ente urbano di mq 8, mai censiti nelle Pubbliche Tavole, già facenti parte del cat. (...) strada consortiva, ciascuno per 1/4 p.i., il tutto appar piani di frazionamento del 20/10/2020 e di corrispondenza catastale tavolare del 07/09/2020 del geom. D.M., in atti (docc. 7 e 12 att.); autorizza la conseguente intavolazione a nome degli attori del diritto di proprietà dei beni così identificati, ciascuno per 1/4 p.i.. Spese compensate. Così deciso in Trieste il 27 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 4 marzo 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI TRIESTE in composizione monocratica, in persona del dott. Francesco Saverio Moscato, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in primo grado, iscritta in data 31.07.2020 al n. 2463/2020 di Ruolo Generale, vertente tra Ar.Zo. (C.F. (...) ), residente a T., via N. D. R. n. 17, rappresentata e difesa dall'avv. Ma.Co. (C.F. (...) ), ed elettivamente domiciliata presso il suo studio sito in Trieste, via (...), con (...) e fax (...) ATTRICE e La.Da. (C.F. (...) ), residente in R., via S. F. a R. n. 49, rappresentata e difesa dall'avv. Al.Lo. (C.F. (...)), ed elettivamente domiciliata presso il suo studio sito in Trieste, Via (...) con pec: (...) fax (...) CONVENUTA MOTIVI DELLA DECISIONE Con ricorso ex art. 702-bis c.p.c. del 29.07.2020, Ar.Zo. evocava in giudizio La.Da. chiedendo il risarcimento di tutti i danni patiti a causa dell'inadempimento contrattuale di quest'ultima per averle venduto un immobile privo delle caratteristiche necessarie per ottenere la certificazione d'abitabilità. Parte attrice esponeva, infatti, che il proprio padre, Da.Zo., aveva stipulato con la convenuta un contratto preliminare di compravendita per l'acquisto delle due unità abitative che sarebbero state ottenute a seguito della suddivisione dell'immobile ubicato a T., via D. R. n. 17, al prezzo complessivo di 350.000,00 Euro (cfr. doc. 1), da destinare, ciascuna unità così ricavata, alle figlie Ar. e Fa.. Nel suddetto contratto preliminare le parti prevedevano che gli adempimenti necessari alla divisione e al relativo frazionamento tavolare e catastale sarebbero stati eseguiti dalla parte venditrice prima della stipula del contratto definitivo di compravendita, pena la risoluzione di diritto del contratto preliminare (cfr. doc. 1, art. 2). La.Da., quindi, in data 22.08.2015 presentava all'Ufficio Catastale di Trieste le planimetrie delle unità abitative che si sarebbero venute a creare al terzo e quarto piano dell'immobile a seguito degli interventi necessari per la divisione dell'alloggio su due piani in due unità abitative distinte e, successivamente, in data 21.10.2015 presentava presso il Comune di Trieste una comunicazione di attività di edilizia libera in sanatoria per gli interventi di manutenzione straordinaria eseguiti per il frazionamento dell' alloggio in due unità condominiali. In data 29.12.2015, Ar.Zo. acquistava da La.Da. "l'alloggio sito al quarto piano (mansarda) con due terrazze e ripostiglio esterno della casa in Trieste civico nr.17 di Via N.D.R. censito nel c.t. 1 della P.T. 89865 di Trieste, marcato 15 in rosso ..." al prezzo di 80.000,00 Euro, mentre la sorella e il compagno di lei acquistavano l'alloggio sito al terzo piano dello stesso immobile (PT 89864 del c.c. di Trieste, marcato "14") al prezzo di 270.000,00 Euro (cfr. doc. 3). Nel contratto di compravendita, Ar.Zo. si impegnava "a propria cura e spese al completamento dei lavori e alla richiesta dell'agibilità relativa agli immobili suddetti". (cfr. doc. 3, art. 21) e, in esecuzione a tale impegno, in data 24.3.2016 depositava al Comune di Trieste la domanda per il rilascio del certificato di agibilità dell'unità abitativa da lei acquistata, allegando le planimetrie dd. 22.8.2015, già presentate dalla venditrice al Catasto per il frazionamento (cfr. doc. 4). A tale richiesta, il Comune di Trieste, con la comunicazione del 5.5.2016 negava l'agibilità con la seguente motivazione "l'intervento così come evidenziato nella visura catastale di data 22.8.2015 non risulta conforme alla normativa igienico sanitaria (D.M. 5 luglio 1975 e vigente Regolamento Edilizio) in quanto i vani sono stati destinati ad abitazione non avendo i requisiti minimi previsti dalla L.R. n. 44 del 1985. Si informa, infatti, che pur essendo ammissibile il frazionamento dell'immobile come proposto con la comunicazione indicata in oggetto, la nuova unità immobiliare venutasi a formare non poteva essere abitabile ma doveva mantenere la destinazione di accessorio come indicato nel certificato di agibilità rilasciato per l'intero edificio in data 9.6.1978". (cfr. doc. 5) e, quindi, il Comune richiedeva la messa in pristino dello status quo ante. L'attrice, venuta a conoscenza di ciò, provvedeva ad avviare le pratiche amministrative al fine di eseguire gli interventi edili necessari per superare le violazioni urbanistiche dell'immobile riscontrate dal Comune di Trieste e quindi, in data 7.10.2016, per il tramite del padre ing. Da.Zo., presentava una denuncia di inizio attività alternativa al permesso a costruire per l'ampliamento volumetrico dell'unità abitativa sita al quarto piano mediante la modifica della copertura e la creazione di due abbaini a servizio del vano abitabile e del bagno già esistente e la conseguente ristrutturazione di quest'ultimo. Eseguite tali opere edili, la stessa attrice presentava, infine, in data 30.5.2019 al Comune di Trieste una segnalazione certificata di agibilità asseverata da professionista abilitato (cfr. doc. 6), sulla quale si formava il silenzio-assenso da parte del Comune. Dopo aver inutilmente richiesto il risarcimento del danno in sede stragiudiziale (cfr. doc. 7), Ar.Zo. ha adito questo Tribunale, deducendo l'inadempimento contrattuale della convenuta La.Da., al fine di ottenere il risarcimento di tutti i danni patiti per le spese sostenute al fine di rendere abitabile l'alloggio, nonché per il mancato guadagno e il deprezzamento del bene acquistato, pari a complessivi 57.805,17 Euro, nonché per la rifusione delle spese erogate a favore dell'ing. G., pari a 3.172,00 Euro, professionista a cui aveva conferito l'incarico di valutare gli oneri economici sostenuti (cfr. doc. 8). La.Da., ritualmente costituitasi in giudizio, chiedeva in via preliminare il mutamento del rito e nel merito, il rigetto delle domande avanzate da Ar.Zo., poiché assolutamente infondate e non provate, posto che l'attrice ben avrebbe saputo che la mansarda che stava acquistando era sprovvista dell'agibilità. Chiedeva, altresì, il risarcimento dei danni ai sensi e per gli effetti dell'art. 96 c.p.c. Con Provv. del 03 dicembre 2020, il Giudice, ritenuto che la causa non potesse, per via dei temi proposti e delle richieste probatorie, essere trattata con il rito sommario di cognizione, disponeva la conversione nel rito ordinario e rinviava il processo all'udienza del 18.02021, all'esito della quale assegnava alle parti i termini di cui all'art. 183, sesto comma, c.p.c. Avvenuto lo scambio delle memorie, si procedeva all'assunzione delle prove orali ammesse, nonché all'espletamento di una consulenza tecnica d'ufficio volta a stabilire l'agibilità dell'alloggio in discussione al momento della stipula del contratto di compravendita (29.12.2015), l'inerenza e la congruità delle situazioni di spesa analiticamente rappresentate dall'attrice Z. in relazione all'obiettivo dell'ottenimento dell'agibilità dell'immobile predetto nonché il valore di mercato dello stesso (inteso come agibile) all'epoca della compravendita. Sulle conclusioni trascritte in epigrafe, rassegnate dalle parti all'udienza del 22.06.2023, la causa è passata in decisione dopo la scadenza dei termini relativi al deposito degli ultimi scritti. La domanda di Ar.Zo. è fondata e va accolta per quanto di ragione. Preliminarmente va evidenziato che il C.T.U., ing. Marzi, dopo aver visionato la documentazione prodotta da parte attrice, rilevava che "?i vani al 4 piano, come tali e come nel grafico rappresentati, non avevano le caratteristiche di vani "autonomamente abitabili", per assenza dei minimi requisiti igienico-sanitari e di Regolamento edilizio, per quanto concerne in particolare l'altezza interna dei vani e le dimensioni delle finestrature. Va da sé che il mero frazionamento catastale non avrebbe potuto conferire ai vani del 4 piano le caratteristiche di "alloggio", dotato di autonomo certificato di agibilità, se non a seguito di modifiche edilizie da apportare ai vani stessi. (cfr. pag. 3 Relazione del C.T.U.). Quindi, la documentazione prodotta da parte attrice, esaminata dal C.T.U., ha confermato che, alla data del rogito notarile (29.12.2015) l'unità immobiliare ubicata al quarto piano dell'immobile di via D.R. n. 17 non aveva la destinazione d'uso di abitazione per la quale è stata dichiaratamente venduta, non rispettando i requisiti previsti dalla L.R. n. 44 del 1985 relativi alle altezze minime dei vani abitabili, ma costituiva un locale accessorio dell'alloggio al piano sottostante. La nuova planimetria catastale per il 4 piano, presentata in data 22.08.2015 dalla parte venditrice ed inerente il frazionamento dell'originario alloggio, e gli interventi programmati, quali l'eliminazione di una scala interna a chiocciola di collegamento dei due livelli, la chiusura di una botola nel solaio, più ulteriori modifiche alle tramezzature non possono considerarsi sufficienti ed idonei a far ottenere all'alloggio il certificato di agibilità/abitabilità. Nonostante tale situazione, e nonostante il chiaro oggetto del contratto preliminare, cioè la compravendita di "unità abitativa dalle caratteristiche rispondenti all'ottenimento del certificato di abitabilità" (cfr. doc. 1), La.Da. in data 29.12.2015 vendeva a Ar.Zo. "l'alloggio sito al quarto piano (mansarda) con due terrazze e ripostiglio esterno della casa in Trieste civico nr.17 di Via N.D.R. censito nel c.t. 1 della P.T. 89865 di Trieste, marcato 15 in rosso?" al prezzo di 80.000,00 Euro (doc. 3). È palese, quindi, che con il rogito del (...) si è realizzata la compravendita di un bene diverso da quello pattuito, a causa dell'inadempimento della parte venditrice, che non ha ottemperato all'impegno preso con il contratto preliminare. Ne discende il diritto di Ar.Zo. di ottenere il risarcimento del danno subito, nei limiti di cui si dirà infra. A tal proposito, è bene sottolineare che ricorre la vendita di aliud pro alio non solo quando il bene compravenduto sia totalmente diverso da quello promesso, ma anche quando lo stesso appartenga a un genere del tutto diverso o si presenti privo delle caratteristiche funzionali necessarie a soddisfare i bisogni dell'acquirente. Con specifico riferimento alla vendita di immobili, la giurisprudenza è concorde nel riconoscere la vendita di aliud pro alio con riferimento all'immobile destinato ad abitazione, allorché manchi la licenza di abitabilità, oppure quando non sussistano le condizioni per ottenerla a causa di insanabili violazioni della legge urbanistica: il certificato di abitabilità, infatti, costituisce requisito giuridico essenziale del bene compravenduto, in quanto la cosa, pur essendo identica a quella pattuita, è priva di quei caratteri che consentono di identificarla come appartenente alla categoria. Nella recente sentenza n. 10665 del 05.06.2020, la Corte di Cassazione ha ribadito che "In tema di contratto preliminare di compravendita immobiliare, la mancata consegna o il mancato rilascio del certificato di abitabilità (o agibilità) ovvero l'insussistenza delle condizioni perché tale certificato venga rilasciato, non incidono sul piano della validità del contratto, ma integrano un inadempimento del venditore per consegna di "aliud pro alio", adducibile da parte del compratore in via di eccezione, ai sensi dell'art. 1460 c.c., o come fonte di pretesa risarcitoria per la ridotta commerciabilità del bene, salvo che quest'ultimo non abbia espressamente rinunciato al requisito dell'abitabilità o comunque esonerato il venditore dall'obbligo di ottenere la relativa licenza". E ancora, sempre sullo stesso tema la Suprema Corte si è espressa affermando che "Nella vendita di immobile destinato ad abitazione, il certificato di abitabilità costituisce requisito giuridico essenziale del bene compravenduto, poiché vale a incidere sull'attitudine del bene stesso ad assolvere la sua funzione economico - sociale, assicurandone il legittimo godimento e la commerciabilità. Il mancato rilascio della licenza di abitabilità, pertanto, integra un inadempimento del venditore per consegna di "aliud pro alio", adducibile da parte del compratore in via di eccezione, ai sensi dell'art. 1460 c.c., o come fonte di pretesa risarcitoria per la ridotta commerciabilità del bene, a meno che egli non abbia espressamente rinunciato al requisito dell'abitabilità' o esonerato comunque il venditore dall'obbligo di ottenere la relativa licenza. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva ritenuto che ai promissari acquirenti non fosse dovuto alcun risarcimento del danno, in quanto la trasformazione del vano garage in tavernetta, da cui dipendeva il mancato rilascio del certificato di abitabilità per difformità dell'immobile dalla concessione edilizia, era stata eseguita a loro cura e spese)" (cfr. sentenza n.23265 del 19.09.2019). La giurisprudenza, quindi, è costante nel ritenere che il mancato rilascio della licenza di abitabilità integra inadempimento del venditore per consegna di aliud pro alio, a meno che il compratore non abbia espressamente rinunciato al requisito dell'abitabilità o esonerato comunque il venditore dall'obbligo di ottenere la relativa licenza, circostanza, quest'ultima, che non appare essere integrata nel caso in esame. Risulta, al contrario che Ar.Zo. si sia impegnata solo a provvedere al completamento dei lavori di divisione e a richiedere l'agibilità (cfr. doc. 3, art. 21), ma senza per questo avere mai esonerato espressamente la parte venditrice dal relativo obbligo. Sul punto, deve aggiungersi che il caso in esame integra una vendita di aliud pro alio, non per la mera mancanza del certificato di abitabilità e/o agibilità dell'immobile, ma perché l'immobile risultava, all'atto del rogito, intrinsecamente inidoneo a soddisfare i requisiti richiesti dalla L.R. n. 44 del 1985 relativi alle altezze minime dei vani abitabili. Lo sforzo economico, quindi, di parte attrice è stato di notevole spessore, posto che la stessa, per ottenere l'abitabilità dell'ente, ha dovuto eliminare le violazioni urbanistiche ed eseguire consistenti interventi sull'immobile, sopportando un danno ingiusto, laddove, pur essendosi impegnata a completare i lavori di divisione fisica dell'alloggio su due piani in due unità condominiali e a richiedere in autonomia l'agibilità dell'immobile (cfr. art. 21 doc. 3), ha dovuto affrontare ulteriori e gravose spese (non previste) per superare le violazioni urbanistiche dell'immobile evidenziate dal Comune, al fine di rendere (finalmente) abitabile l'alloggio acquistato. Precisato un tanto, ai fini del corretto inquadramento del caso in esame, va anche detto che non tutte le voci di danno richieste da Ar.Zo. possono essere riconosciute. Prima di tutto, in relazione alla richiesta della componente di danno inteso come lucro cessante, si evidenzia che non risulta documentato e provato il danno subito per il mancato godimento dell'alloggio acquistato. Il lucro cessante, ossia il mancato guadagno patito dal soggetto che subisce il danno, non può essere riconosciuto in via automatica, bensì serve una prova rigorosa, e ancor prima la allegazione di specifiche occasioni, di vendita o locazione, perdute, in quanto il giudice deve procedere alla liquidazione di tale voce di danno sulla base di una valutazione della sua esistenza da apprezzare in termini di certezza o elevata probabilità e giammai in termini di mera possibilità. In altri termini, il lucro cessante comprende le somme che la parte che subisce l'inadempimento, avrebbe ragionevolmente conseguito in assenza dello stesso e non il guadagno meramente potenziale e ipotetico. Nella specie, l'attrice si è limitata a quantificare una somma (7.590,00 Euro) attingendo ai valori delle locazioni immobiliari nel secondo semestre del 2016, per un alloggio di pari superficie sito nella zona in cui è ubicato l'immobile in questione, ma non ha descritto, né provato, alcun elemento, neppure di natura indiziaria, volto a sostanziare l'evidenza di una certezza, o elevata probabilità, di avere perduto specifiche e concrete occasioni di lucrare un guadagno con lo sfruttamento (indiretto) della propria abitazione. Non merita riconoscimento neppure l'ulteriore somma richiesta, di 5.000,00 Euro, non ravvisando il Tribunale alcun incidenza negativa sul valore dell'alloggio in dipendenza dalla realizzazione degli abbaini e agli oneri di correlativa manutenzione. Per quanto riguarda, poi, il danno emergente lo stesso deve essere riconosciuto nei limiti indicati dal C.T.U. nella sua relazione. Si ritengono, quindi congrue ed inerenti le seguenti voci di spesa, per un totale di 44.934,66 euro: - 28.083,81 Euro per i lavori edili, importo ritenuto dal C.T.U. "congruo al lavoro descritto" e da ritenersi "comunque inerente allo scopo di rendere abitabile l'ente del 4 piano."; - 7.803,12 Euro per spese professionali; - 8.059,23 Euro per oneri pagati al Comune; - 988,50 Euro per compensi geom. Z.. Costituisce altresì, e infine, una posta di danno risarcibile la spesa, di 3.172,00 Euro, sopportata dall'attrice in relazione alla perizia stragiudiziale fatta espletare dall'ing. G.G.: si tratta di una spesa, congrua, che è risultata necessaria, e comunque utile, al fine di illuminare i termini della vicenda oggetto di controversia e perciò orientare l'attrice nell'esercizio, più consapevole possibile, del diritto di azione. Le spese di lite seguono la soccombenza, e sono liquidate come da dispositivo, a norma del D.M. n. 55 del 2014 (così come aggiornato dal D.M. n. 147 del 13 agosto 2022), con applicazione dei parametri medi per lo scaglione di riferimento, mentre gli oneri relativi alla c.t.u. effettuata dall'ing. Ro.Ma. sono posti in via definitiva a carico integrale della convenuta La.Da.. P.Q.M. il Tribunale di Trieste, in composizione monocratica, in persona del dott. Francesco Saverio Moscato, disattesa ogni contraria domanda, eccezione o istanza, definitivamente pronunciando, così provvede: 1) condanna La.Da. a pagare ad Ar.Zo., a titolo di risarcimento del danno, la somma omnicomprensiva di Euro 48.106,66 (= 44.934,66 + 3.172,00); 2) condanna La.Da. a rifondere ad Ar.Zo. le spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 8.075,53 (di cui Euro 7.616,00 per compenso professionale ed Euro 459,53 per spese esenti), oltre a spese generali al 15%, CPA e IVA (se dovuta); 3) pone a carico definitivo ed integrale della convenuta La.Da. gli oneri relativi alla consulenza tecnica d'ufficio espletata dall'ing. Ro.Ma., come da decreto di liquidazione del 31.10.2022, facendo obbligo della convenuta di tenere indenne l'attrice delle somme eventualmente dalla stessa già versate in relazione al predetto titolo. Così deciso in Trieste il 23 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 28 febbraio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI TRIESTE Il Tribunale di Trieste, in composizione monocratica, nella persona del giudice dott.ssa Anna Battaglia ha pronunciato all'udienza del 24 novembre 2023 la seguente SENTENZA nel procedimento a carico di: Pe.Vi., nato a U. il (...), residente a T. in via S. S. n. 188/02 - assente - assistito e difeso di fiducia dagli avvocati Ro.Sc. e Mi.Fe. del Foro di Udine omissis (giudicato separatamente) IMPUTATI Per i seguenti reati: artt. 113, 590 commi 1, 2, 3 c.p., perché, cooperando colposamente tra loro, nelle rispettive qualità: Pe.Vi., quale presidente del Consiglio di Amministrazione della società Ic. S.P.A. datore di lavoro ai fini della salute e sicurezza sul lavoro., avente ad oggetto sociale l'esercizio dell'attività di costruzioni edili e stradali in genere (società affidataria ed esecutrice dei lavori finalizzati alla realizzazione di una piattaforna logistica tramite creazione di una banchina in un'area sita in via degli Aj. a T., lavori commissionari dall'Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale); Ma.Ma., quale dirigente con delega alla sicurezza della società Ic. S.P.A.; per colpa generica consistente in negligenza, imprudenza ed imperizia e per colpa specifica consistito nelle violazioni delle disposizioni perfezionistiche appresso indicate: Pe.Vi., in violazione dell'art. 96, comma 1, letta. g) del D.Lgs. n. 81 del 2008, per non aver valutato i rischi relativi alle operazioni di disarmo dei pali interrati, tra le quali le operazioni da svolgere per l'estrazione dal suolo dei rivestimenti metallici cilindrici a servizio dello scavo ("camicie") mediante morsa idraulica; Ma.Ma., in violazione di quanto previsto dall'art. 71, comma 1, del D.Lgs. n. 81 del 2008, per non aver messo a disposizione dei lavoratori attrezzature di lavoro conformi ai requisiti previsti dall'art. 70, comma 2, D.Lgs. n. 81 del 2008 rispondenti ai requisiti di sicurezza di cui all'allegato V del D.Lgs. n. 81 del 2008 e, nello specifico, per non aver provveduto a che gli elementi mobili dell'attrezzatura di lavoro (morsa idraulica) non presentassero rischi di contatto meccanico che potessero causare incidenti (D.Lgs. n. 81 del 2008, All. V, prima parte, punto 6.1); concorrevano a cagionare o comunque non impedivano che gli arti inferiori dei lavoratori venissero in contatto con la morsa idraulica utilizzata nel cantiere e, conseguentemente, cagionavano (0 comunque non ne impedivano il verificarsi) lesioni personali al lavoratore Aj.Ag., dipendente della stessa Ic. S.P.A., il quale, mentre era impiegato nei lavori di rimozione dei rivestimenti metallici cilindrati denominati "camicie", appoggiava il piede sinistro sopra il pistone idraulico della morsa che, una volta azionata dal manovratore dell'escavatore, schiacciava l'arto dell'Aj.Ag., riportando così lesioni consistite in un "trauma da schiacciamento 1 raggio piede sinistro con fr. 1, fic e perdita anatomica alluce". Fatto aggravato perché commesso con violazione di disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e per aver provocato alla persona offesa lesioni da cui derivava una malattia ovvero un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per gg. 223. In Trieste, il 18.04.2018. Persone offese: Aj.Ag., nato il (...) a D. (A.), rappresentato e difeso dall'avv. Roberto Russi del Foro di Pordenone SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con decreto di citazione a giudizio emesso il 19.12.2019, Pe.Vi. e Ma.Ma. venivano chiamati a rispondere, in concorso tra loro, del reato di cui alla rubrica. All'udienza del 15.5.2020, celebrata dinnanzi ad altro magistrato, il Giudice ordinava procedersi in assenza degli imputati e, visto il protocollo operativo concordato con l'Ordine degli avvocati, integrativo dell'ordine di servizio n. 7/2020, disponeva un rinvio. All'udienza del 25.9.2020, celebrata dinnanzi ad altro magistrato, veniva disposto un ulteriore rinvio stante il mancato rinvenimento del fascicolo del dibattimento. Ali 'udienza del 8.1.2021, celebrata dinnanzi ad altro magistrato, la difesa. chiedeva la definizione del procedimento nelle forme del patteggiamento per l'imputato Ma., rispetto al quale veniva disposto io stralcio della posizione processuale; veniva invece dichiarato aperto il dibattimento rispetto alla posizione dell'imputato Pe. per il quale veniva disposto un rinvio. All'udienza del 21.5.2021, dato atto del mutamento della persona del giudicante, venivano ammesse le prove come richieste dalle parti e acquisiti i documenti prodotti; in particolare, con riguardo all'istanza della difesa di escussione del coimputato Ma., in qualità di testimone ai sensi dell'art. 197 bis c.p.p., stante la mancata indicazione dello stesso in lista testi, la richiesta veniva valutata ai sensi dell'art. 507 c.p.p. rispetto alla quale il Giudice si riservava all'esito dell'istruttoria. Si dava, dunque, corso all'escussione del testimone D.G., in servizio presso il Dipartimento di Prevenzione dell'ASUGI, mentre non comparivano gli altri testimoni citati. Il T.m. anticipava istanza di perizia sul tema della valutazione dei rischi di cui alla relazione tecnica depositata al doc. 2 della difesa. All'udienza del 26.11.2021 venivano escussi i testimoni F.G. e B.A.; si dava, invece, atto della mancata comparizione senza giustificazione della persona offesa Aj.Ag., citata in veste di testimone, e pertanto veniva disposto l'accompagnamento coattivo dello stesso per la successiva udienza e condanna al pagamento della somma pari a Euro 200 in favore della cassa delle ammende. All'udienza del 27.5.2022 veniva escussa in qualità di testimone la persona offesa, Aj.Ag. e veniva disposto un rinvio per l'esame dei testimoni e consulenti a discarico. All'udienza del 20.1.2023 veniva escusso il consulente della difesa Ing. B.A.; esame all'esito del quale la difesa dichiarava di rinunciare a quello dell'Ing. G.R. e, nulla osservando il P.m., il Giudice ne revocava l'ammissione. La difesa, sulla scorta delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, avanzava istanza ai sensi dell'art. 507 c.p.p. di escussione dei testimoni G.A. e F.M.. Insisteva, inoltre, per l'escussione nelle forme di cui all'art. 197 bis c.p.p. del coimputato Ma.. Rispetto a tali istanze il Giudice si riservava ogni valutazione all'esito dell'istruttoria. All'udienza del 7.4.2023 veniva escusso il Geom. M.L.. Specificate, a richiesta del Giudice, le circostanze sulle quali il Ma. (la cui sentenza era divenuta definitiva) sarebbe chiamato a depone, ritenuta l'assoluta necessità ai fini del decidere veniva ammessa esclusivamente l'istanza di escussione di G.A.. All'udienza del 16.6.2023 si dava corso all'esame testimoniale di G.A.. La difesa rinnovava nuovamente l'istanza ai sensi dell'art. 507 c.p.p. di escussione di Ma., la quale veniva rigettata dal Giudice poiché non ritenuta assolutamente indispensabile ai fini del decidere. All'udienza 13.10.2023, dichiarata chiusa l'istruttoria dibattimentale, il Giudice invitava le parti alla discussione. Le parti concludevano come da verbale, la difesa depositava memoria esplicativa delle conclusioni e il Giudice disponeva un rinvio per eventuali repliche. All'udienza del 24.11.20.23 (fissata previo differimento dell'udienza del 10.11.2023 in ragione dell'impedimento del Giudice) il P.m. dichiarava di non formulare repliche e il Giudice, all'esito della camera di consiglio, decideva dando lettura del dispositivo in udienza e riservando il termine di giorni novanta per il deposito della motivazione. MOTIVI DELLA DECISIONE Alla luce dell'istruttoria svolta, ritiene il Tribunale che l'imputato debba essere assolto dal reato a lui ascritto per insussistenza del fatto, non essendovi elementi sufficienti per affermare, con certezza oltre ogni ragionevole dubbio, la sua penale responsabilità. 1. Gli elementi di prova raccolti nel corso dell'istruttoria e la dinamica del sinistro L'infortunio oggetto dell'imputazione si verificava in data 18.4.2018 presso il cantiere piattaforma logistica dell'impresa Ic. in via degli Aj. F. a T.. L'operazione, che veniva di norma (e nel caso di specie) realizzata da una squadra di tre operai (due operatori di terra e uno di macchina), consisteva nella trivellazione del terreno, nel posizionamento delle camicie, nel getto e costruzione del palo. Si procedeva, dunque, alla successiva rimozione delle camicie che non costituivano parte strutturale dell'opera: gli operatori di terra provvedevano a rimuovere nove delle dieci viti di fissaggio così che la camicia - grazie all'ultimo bullone - non potesse cadere all'interno dello scavo divenendo irrecuperabile; mediante segnalazione manuale (ossia con il necessario impiego di un gesto della mano, non potendo essere altrimenti certo che si potesse udire un comando vocale in quel contesto lavorativo rumoroso) l'operatore di terra, che nel frattempo doveva necessariamente allontanarsi dal macchinario, dava ordine all'operatore addetto alla macchina perforatrice di procedere alla chiusura della morsa (che era già presente ma che rimaneva aperta fintanto che non veniva azionata); a morsa chiusa era, dunque, possibile per gli operatori di terra svitare l'ultimo bullone e rimuovere la camicia. Proprio nella realizzazione di quest'ultima fase dell'operazione si verificava l'infortunio che aveva coinvolto Aj.Ag., il quale era impiegato (poiché operaio addetto alle lavorazioni mediante perforazioni per fondazione sottoterra) quale operatore di terra nella squadra di lavoro composta da B.A. (a sua volta operatore di terra) e F.G. (operatore addetto alla macchina perforatrice); gruppo di lavoro che, così composto, operava da mesi e aveva realizzato un centinaio di pali con le medesime modalità operative. La persona offesa, escussa nel corso del dibattimento, riferiva di non essere in grado di ricordare con precisione come fosse avvenuto il sinistro. L'Aj. era certo di aver provveduto egli stesso a rimuovere i nove bulloni e di aver poi sentito un forte dolore al piede, accorgendosi così che l'arto si trovava all'interno della morsa che si stava chiudendo. A quel punto, la persona offesa, rimasta incastrata, urlava in direzione dell'operatore addetto alla macchina perforatrice chiedendo di fermarsi, ma solo grazie all'intervento dei colleghi, che provvedevano a smontare i tubi idraulici del macchinario, si riusciva ad aprire manualmente la morsa e a liberarlo. L'Aj. escludeva categoricamente di aver dato l'ordine di chiudere la morsa e, a domanda del P.m., spiegava di non essersi poi mai confrontato con i colleghi della propria squadra per comprendere come l'infortunio fosse avvenuto, né aveva chiesto al F. perché (ed eventualmente su indicazione di chi) avesse attivato la chiusura della morsa. Con riguardo alle conseguenze dell'infortunio, la persona offesa spiegava di aver subito l'amputazione di un dito del piede (cfr. documentazione medica prodotta in atti aff. 220 e ss. dalla quale si evince che l'Aj. veniva ricoverato per "esiti trauma da schiacciamento primo raggio del piede sinistro" e dimesso il 25.5.2018); lesioni per le quali aveva ricevuto risarcimento sia tramite INAIL che direttamente dalla ditta I.. La dinamica del sinistro, così come riportata dalla persona offesa, veniva riferita in modo parzialmente difforme dai testimoni F. e B., entrambi all'epoca dei fatti dipendenti della Ic. e componenti della squadra di lavoro della quale faceva parte l'Aj.. In particolare, F., che il 18.4.2018 si occupava di manovrare il macchinario, riferiva di aver provveduto ad azionare il meccanismo di chiusura della morsa avendo ricevuto il relativo segnale dall'Aj. stesso. Tale circostanza, secondo quanto spiegato dal testimone, era stata peraltro confermata dalla stessa persona offesa nell'immediatezza dei fatti quando era sopraggiunta la Polizia ("l'ha detto anche che c'è arrivata lì la Polizia, lì. L'ha detto lui stesso, diceva: "Ho dato io il comando di chiudere" vds. verbale udienza dd. 26.11.2021 pag. 6). F. dichiarava di essersi reso conto che il collega aveva il piede incastrato solamente dopo aver notato che questo cercava di liberarsi e urlava chiedendo di aprire la morsa; dalla sua posizione, infatti, non era possibile vedere cosa accadesse in prossimità del palo. Diversamente da quanto riferito dalla persona offesa - ma coerentemente con quanto deposto dal F. - il testimone B. spiegava che il 18.4.2018 si trovava a terra e si stava occupando della rimozione delle viti di fissaggio mediante l'utilizzo del trapano mentre l'Aj. si trovava accanto a lui e reggeva un secchio nel quale venivano raccolti i bulloni (anche detti "grani") rimossi. Giunti all'ultimo bullone, il testimone riferiva di essersi tirato indietro mentre l'Aj. aveva dato indicazione di chiudere la morsa ("Cosa è successo? Siamo arrivati all'ultimo bullone, io mi sono tirato indietro, Aj. gli fa: "Chiudi, chiudi''. Però io non ho guardato se lui aveva il piede suo o no. Io mi sono spostato un passo indietro, che avevo il trapano in mano. E ho aspettato che chiudesse la morsa l'operatore" vds. verbale udienza dd. 26.11.2021 pag. 14). Con riguardo al comando di chiusura, precisando di non essere in grado di ricordare quale fosse il segnale previsto poiché non lavorava frequentemente a terra ma la sua attività consisteva nel tenere pulito tutto il materiale di scavo ed eventualmente scendere a dare una mano, B. negava di avervi provveduto in prima persona e per questo deduceva vi avesse provveduto il collega a terra ("penso A." vds. verbale udienza dd. 26.11.2021 pag. 14); il testimone, in ogni caso, non ricordava se in quell'occasione l'Aj., oltre a dire "chiudi, chiudi", avesse fatto anche un gesto con la mano. D.G., U.P.G. in servizio presso il Dipartimento di Prevenzione dell'Azienda S., spiegava di essere intervenuto il 18.4.2018 presso il cantiere in questione a seguito del segnalato infortunio. Il teste arrivò sul luogo circa un'ora dopo il fatto, quando la persona offesa era già stata trasportata all'ospedale, constatando che l'infortunio aveva visto come agente causale una c.d. morsa reggi colonna che aveva lo scopo di serrare le strutture denominate camicie utilizzate come armatura per i pali interrati che venivano eretti. Sulla base di quanto riferito in dibattimento, il testimone D. aveva accertato, innanzitutto, che l'Aj. indossava certamente scarpe antiscivolo e antinfortunistica con la punta rinforzata in ferro (una di queste veniva rinvenuta sul luogo dell'infortunio; vds. aff. 13 acquisita all'udienza dd. 21.5.2021) e che era presente il manuale di utilizzo della morsa, con allegata dichiarazione di conformità ai requisiti di sicurezza; non veniva invece rinvenuta la targhetta di identificazione dell'attrezzatura sicché, essendo presente sul cantiere anche altro macchinario, non vi era certezza che si trattasse proprio di quello per il quale era stata redatta la dichiarazione di conformità. Dalle prove effettuate sul posto, il D. riferiva, inoltre, di aver verificato che: a) la morsa in questione era "auto costruita dalla ditta I." (vds. verbale udienza dd. 21.5.2021 pag. 4) ma, ciononostante, questa poteva essere utilizzata tramite connessione a circuito idraulico all'escavatore B. (modello BG 24 W n. 1664) impiegato dalla ditta nell'attività di trivellazione senza che ne venissero compromesse o pregiudicate le condizioni di utilizzo in sicurezza; b) la morsa risultava correttamente funzionante. "L'unico, aspetto anomalo" (vds. verbale udienza dd. 21.5.2021 pag. 5) rilevato dal D. era dato dall'impossibilità di apertura diretta della morsa: al verificarsi dell'infortunio, infatti, non essendo possibile interrompere l'operazione di chiusura sino al suo completamento, si era reso necessario l'intervento di due lavoratori per disinserire il circuito idraulico e poter poi aprire manualmente la morsa. All'esito dell'ispezione, essendo stato riscontrato che la morsa presentava una parte non protetta (ossia quella attorno al pistone) che comportava il rischio "che una persona vi potesse anche accidentalmente apporre un piede, una mano, come un arto in genere" (vds. verbale udienza dd. 21.5.2021 pag. 6) con conseguente schiacciamento (cfr. anche documentazione fotografica allegata alla nota informativa dd. 20.4.2018 aff. da 10 a 15), gli operanti del Dipartimento di Prevenzione e Sicurezza avevano prescritto la necessità di dotare il macchinario di un carter (ossia una protezione forata simile a una griglia) sul punto di esposizione quale strumento utile e necessario ad escludere il rischio di stritolamento o cesoiamento degli arti. Su richiesta dell'Azienda S. (cfr. elenco aff. 40), Ic. consegnava, inoltre, il Piano Operativo di Sicurezza nella sua versione n. 4 e il D. precisava che l'impresa aveva "un sistema di elaborazione di questo documento molto dinamico" che prevedeva il suo aggiornamento "ogni qualvolta vi fosse una nuova operazione in cantiere" (vds. verbale udienza dd. 21.5.2021 pag. 8). Non essendo ivi prevista l'attività di rimozione delle camicie metalliche (che invece risultava riportata a pagina 21 del manuale d'istruzione, con anche indicazione di alcune regole di precauzione per ragioni di sicurezza), il testimone spiegava che veniva prescritto alla Ic. di integrare il P.O.S. con la descrizione dell'operazione in questione. Entrambi i rilievi mossi dall'Azienda S. venivano fermamente contestati dal consulente di parte, Ing. V.B., con la propria "memoria" tecnica acquisita agli atti e cui ci si riporta. Il consulente evidenziava, in primo luogo, come la soluzione imposta di apporre un carter di protezione (che peraltro nella sua lunga esperienza non gli era mai capitato di vedere per macchinari analoghi a quelli impiegati dalla I.) non potesse ritenersi nel caso di specie minimamente attuabile né risolutiva poiché, pur implementando da un lato la sicurezza, non era in grado di elidere totalmente il rischio che si intendeva fronteggiare ma, anzi, comportava di converso l'aumento di ulteriori e diversi rischi durante la lavorazione, connessi al particolare contesto lavorativo ("in un ambiente - perché io non riesco a rendervelo con precisione - in un ambiente come quello di costruzioni di questi pali del diametro di 1 metro, scavati per 20, con una benna che fuoriesce e buttafuori acqua e buttafuori materiale, il C. avrebbe generato problemi nella chiusura generando altre insicurezze" vds. verbale udienza dd. 20.1.2023 pag. 8/9; "Il carterraggio avrebbe creato altri rischi", quali? - tutto ciò che è inerente al fatto che, del fango, del calcestruzzo, si vadano a intasare all'interno di parti costrette. Quindi implicherebbe andare con bastoni, ferri, a pulire, a cercare di sbloccare sassi che si incastrano, ma perché ovviamente viene fuori di tutto: sassi piccoli, sassi grandi, sassi che si inca... Mentre così, così com "è" vds. verbale udienza dd. 20.1.2023 pag. 13). Secondo quanto sostenuto dal consulente, dunque, "il C. non risolveva tutto il problema, risolveva una parte del problema e invece la soluzione adottata da Ic. risolveva tutto il problema" vds. verbale udienza dd. 20.1.2023 pag. 10). Il consulente, infatti, evidenziava come la I., in ossequio alla previsione dell'art. 6.5 di cui all'allegato V del D.Lgs. n. 20 del 2008 (che introduce una deroga alla disciplina generale prevista dall'art. 6.1 del medesimo allegato), non ritenendo efficace nel caso di specie la predisposizione di protezioni, aveva impartito al lavoratore la prescrizione di allontanarsi dal macchinario nel momento di maggior rischio (''Quindi quello che ha fatto Icop, ha detto: "Togliti, perché se ti togli hai risolto il problema, non sostare nel raggio d'azione... " Mi è rimasta impressa perché recentemente ho dovuto affrontare un problema di questo tipo, però, da noi si dice: "Non sostare nel raggio d'azione delle macchine - Cioè, io ho passato del tempo su quella morsa a vederla, ragionarci e a pensare a quali potevano essere le soluzioni, anche perché poi quella morsa doveva tornare ad operare e quindi prima dovevano valutarla. Comunque, il rischio zero non sarebbe mai stato raggiunto; il rischio zero si raggiunge spostando di un metro il lavoratore, punto"; vds. verbale udienza dd. 20.1.2023 pag. 10). Con riguardo, invece, alle censure elevate in relazione alla completezza del P.O.S., l'Ing. B. rilevava come non solo la I., coerentemente con le disposizioni di legge, si fosse dotata del predetto documento già nel lontano 2014 (con la sua prima versione denominata "revisione 0") ma lo aveva poi progressivamente aggiornato con ben quattordici revisioni, distinguendosi così nettamente rispetto alla prassi, invalsa nella maggior parte delle aziende italiane, di redigere un P.O.S. statico e di rapida obsolescenza rispetto all'attività svolta. Tale circostanza, ad avviso del consulente, "è un sintomo di una certa attenzione nei confronti dell'evolversi dei lavori; l'edilizia è un settore nel quale la mutevolezza delle situazioni è all'ordine del giorno; quindi, non ho molti cantieri in cui il piano operativo di sicurezza viene aggiornato con questa frequenza'' (vds. verbale udienza dd. 20.1.2023 pag. 5). Tanto premesso, il consulente metteva in luce come, già nella prima versione del P.O.S., la Ic. avesse provveduto a compiere una completa valutazione dei rischi, la quale era stata elaborata in "maniera corretta" (vds. verbale udienza dd. 20.1.2023 pag. 5; "nel senso in cui, un rischio si misura, si calcola, ci diamo dei numeri per poterlo calcolare, attraverso il prodotto di due fattori: uno è la frequenza e l'altro è la gravità, la magnitudine"), ossia mediante l'impiego dei criteri elaborati dal Comitato Paritetico di Torino, generalmente riconosciuti a livello nazionale quale parametro di riferimento in mancanza di specifiche direttive normative ("E un lavoro questo che viene preso, è stato preso a riferimento della stragrande maggioranza dei coloro i quali redigevano P.O.S.. Perché quando nel 99 la legge, la soia legge italiana, perché non è un recepimento... La norma europea non prevedeva il P.O.S., no, e tuttora al di fuori dall'Italia non viene redatto il P.O.S., la norma italiana invece prevedeva il P.O.S.. Non c'erano elementi per dare una corretta valutazione diversi rischi, se non appunto rifacendosi a questo studio, insomma, è riconosciuto a livello nazionale, e così è stato fatto nel caso specifico" vds. verbale udienza dd. 20.1.2023 pag. 7). In particolare, alle pagine 48/49 della "revisione 0" del P.O.S., tra le altre, "vengono prese in considerazione due mansioni fondamentali: la prima è quella dell'operatore di macchina; la seconda è quella dell'addetto alla macchina che appunto, la mansione eseguita del signor Aj. (fonetico); l'altra era quella del signor F. o F." (vds. verbale udienza dd. 20.1.2023 pag. 6) e vengono esaminate, per ciascuna mansione, le varie azioni e i relativi tempi. Già nel 2014, inoltre, la Ic. aveva previsto il rischio di cesoiamento e lo aveva valutato come eventualità assolutamente bassa, attribuendo allo stesso un valore di 2 su una scala di 5. Nello stesso senso riferiva il Geom. Ma., secondo il quale, nel caso di specie, la I., anziché adottare un P.O.S. statico, aveva previsto "un piano operativo che rispondeva a tutti i requisiti, ma sono stati fatti anche quattordici integrazioni a questo piano, perché poi c'erano delle lavorazioni o delle particolarità di cui in qualche modo quando è stato redatto, diciamo prima dell'inizio dei lavori, non si era a conoscenza, e quindi prima di esibire i lavori sono state fatte ulteriori valutazioni" (vds. verbale udienza dd. 7.4.2023 pag. 7). L'infortunio occorso all'Aj., che aveva comportato il cesoiamento e lo stritolamento dell'arto, concerneva un "rischio che era stato valutato" ma che "non è stato ritenuto diciamo con una probabilità di accadimento tale da porre o da pensare che potesse diciamo in qualche modo accadere, è sicuramente una cosa che può accadere, ma non era considerata anche a livello delle statistiche nazionali, perché poi, quando dicevo delle valutazioni dei rischi, vengono prese ad esempio, perché poi se la casistica non riguarda la propria azienda bisogna fare riferimento a quello che capita nel mondo del lavoro, e normalmente nel campo dell'edilizia viene preso quello che diciamo è studiato dal Comitato Paritecnico di Torino, quindi tutta una valutazione dei rischi, e anche in quello non era un rischio che viene considerato elevato" (vds. verbale udienza dd. 7.4.2023 pag. 8). Analizzato il sinistro oggetto del procedimento ai fini delle successive determinazione, la Ic. lo aveva ricondotto ad un "problema di comunicazione fra l'infortunato e il sondatore, perché l'ordine diciamo di stringere la morsa lo dà quello che sta a terra, perché ovviamente il sondatore deve aspettare l'ordine di chi sta a terra. Il problema è che l'infortunato in questo caso, per superficialità, per, adesso non so, disattenzione, ha dato un ordine tenendo il piede in un punto che non doveva esserci, e questo poi diciamo alla fine ha causato l'incidente" (vds. verbale udienza dd. 7.4.2023 pag. 8). Parimenti, era stato ritenuto in errore il sondatore (ossia il F.), il quale, pur avendo ricevuto l'ordine di chiudere la morsa, avrebbe dovuto "verificare che la persona non doveva stare vicina a dove è accaduto l'accadimento, perché avrebbe dovuto allontanarsi, essere in una posizione, sì, visibile, ma non attaccato diciamo alla camicia del palo, perché poi luì era sicuramente in una posizione tale che lui era sicuramente in una posizione tale che lui era coperto una parte, e il sondatore non può aver visto se lui aveva i piedi o non aveva i piedi in una posizione pericolosa" (vds. verbale udienza dd. 7.4.2023 pag. 8). Sulla base di queste conclusioni, nelle attività successive, la Ic. aveva ritenuto di dover ulteriormente ribadire ai lavoratori che "queste operazioni devono esser fatte la persona deve essere messa in una posizione visibile e non attaccato, o dietro, in un punto dove c 'è una zona ceca, che lui non può vedere" (vds. verbale udienza dd. 7.4.2023 pag. 9); tale concetto di basilare sicurezza e sulle modalità di comunicazione era già stato evidenziato in precedenza benché non si rilevasse espressamente nei verbali delle riunioni ("Sul fatto che ad esempio non bisogna tenere o stare attaccati alla morsa, voglio dire, non credo sia scritto in un toolbox di specifico, è come dire a uno che non deve mettere la mano sotto il martello quando lo batte. Sì, sono delle cose, alcune volte sembrano scontate, poi purtroppo non lo sono più" vds. verbale udienza dd. 7.4.2023 pag. 10). Ultimo aspetto sul quale riferiva il D. riguardava la formazione. Il testimone precisava che tutti i dipendenti coinvolti nell'operazione dalla quale era scaturito l'infortunio erano stati formati per quell'operazione e sulla procedura da eseguire; la ditta, inoltre, era solita effettuare "frequenti momenti formativi con i lavoratori, alla luce appunto delle operazioni da effettuare. Quindi, ad esempio, abbiamo trovato anche dei riferimenti, sì, sulle operazioni di lievo delle camicie" (vds. verbale udienza dd. 21.5.2021 pag. 8). Il tema della formazione era oggetto anche della deposizione della persona offesa, la quale, visionati gli attestati inerenti l'attività di formazione in atti, dapprima confermava di aver sostenuto dei corsi per quel tipo di attività, precisando poi: di aver partecipato solamente a corsi in materia di sicurezza "sull'edilizia, carpenteria" (vds. verbale udienza dd. 27.5.2022 pag. 24), di essere stato anche in Sicilia per un corso e, diversamente da quanto documentato dalla difesa, di non aver ottenuto il patentino di abilitazione professionale quale addetto alla conduzione di pompe e calcestruzzo né di aver partecipato a corsi sull'operazione specifica svolta in occasione dell'infortunio. Secondo quanto riferito dalla persona offesa, la Ic. provvedeva ad effettuare attività formative in materia di sicurezza tramite Ma. ma, ciononostante, l'attività di erezione dei pali non era stata loro spiegata e che gli operai l'avevano imparata autonomamente ("dalla nostra capacità''; vds. verbale udienza dd. 27.5.2022 pag. 24). L'Aj. negava che si svolgessero riunioni in materia di sicurezza, ciononostante riconosceva la propria firma apposta sul verbale della riunione del 22.3.2018 avente ad oggetto "sicurezza e attività: pali a terra", sostenendo di non ricordare e che in molte occasioni gli era stato chiesto di firmare delle carte senza che lui si interessasse del contenuto di queste poiché sapeva essere inerenti la sicurezza e andava sulla fiducia. Diversamente, invece, il testimone F. - che spiegava di aver lavorato in qualità di operatore con quel macchinario da circa vent'anni - sul tema della formazione confermava di aver ricevuto indicazioni specifiche su come operare, benché non ve ne fosse bisogno trattandosi di un'attività semplice ("è un pistoncino che aprì e chiudi, non serve che devono spiegare" vds. verbale udienza dd. 26.11.2021 pag. 7; "DIFESA, AVV. SCOLZ: Al di là che non servisse, ma lei ha ricevuto istruzioni sulla sicurezza? TESTIMONE FARRUGIA: Sì, certo. Certo, sempre quelle le facevamo" vds. verbale udienza dd. 26.11.2021 pag. 9). Il F. confermava lo svolgimento di riunioni in materia di sicurezza anche inerenti le modalità di esecuzione delle diverse manovre e, visionati nel corso del dibattimento i verbali delle riunioni dd. 17-18 aprile 2018, riconosceva la propria firma pur non ricordando quel giorno - essendo passati quattro anni - quale fosse il contenuto specifico della riunione ("Ma di tante cose parlavamo lì, sempre sulla sicurezza del lavoro la..."; "Non mi ricordo del documento io, perché lì facevamo la riunione e firmavamo, non è che mi ricordo.." vds. verbale udienza dd. 26.11.2021 pag. 10). Ciononostante, il testimone spiegava di non aver mai partecipato ad un corso formativo specifico per l'utilizzo della morsa, né di aver mai ricevuto il manuale d'istruzioni della stessa, salvo poi precisare che si trattava di quello riposto dentro la cabina del mezzo da lui condotto. B. dichiarava, invece, che il giorno dei fatti la squadra si era trovata per bere il caffè e che era presente anche Ma. che lo aveva designato come preposto; oltre a questo non erano state date indicazioni ulteriori, né vi era stata alcuna riunione. Ciononostante, il testimone riconosceva la propria firma apposta sul verbale di riunione dd. 17-18 aprile 2018 e, alla domanda del difensore se avessero discusso di sicurezza sul lavoro, rispondeva: "Può darsi di sì, non me lo ricordo. Io non me lo ricordo questo" (vds. verbale udienza dd. 26.11.2021 pag. 16) evidenziando che di quel giorno gli era rimasto impresso solamente l'infortunio e che le riunioni erano "cose quasi di routine" ("E quello mi è rimasto impresso, però di altre riunioni o cose, non me le ricordo, perché sono cose quasi di routine che si fanno, queste cose qua. Non... Tutti i cantieri fanno la loro riunione della sicurezza, ti spiegano il lavoro e queste e quell'altro, però dirti di preciso il giorno e cosa, boh, non me lo ricordo. L'avrò anche fatta... Quando entri in un cantiere di solito ti fanno queste cose qua, prima di prendere... sì, di cominciare a lavorare, ti fanno tutto il corso di formazione, però dirti di preciso il giorno, boh... Sì, l'avrò fatta, ma non me lo ricordo" vds. verbale udienza dd. 26.11.2021 pag. 17). Sulle riunioni svolte prima dell'esecuzione dei lavori, che erano tenute dall'Ing. Ma. nelle aree degli uffici o direttamente sul luogo di lavoro e suddivisi per squadre, riferiva anche il testimone G.A., il quale spiegava che "il tema era della sicurezza, dei lavori che si andavano svolti in quell'ambiente lì, in quell'area e praticamente nei gruppi che c 'erano anche più rischio di queste cose qua..." (vds. verbale udienza dd. 16.6.2023 pag. 4) e precisava: "non è che si faceva ogni giorno, ma nei posti dove c'era più pericolo, si faceva. Anzi, lui veniva anche sopra il luogo dove si faceva il lavoro, lui veniva lì, ci diceva: "R., per tutto il lavoro..." che andava svolto, il materiale che era inquinata, tutto degli operai che devono stare nell'area della macchina, devono stare attenti. Poi sotto macchina c'è gente che ha una buona informazione, perché sotto macchina per me cioè è mezzo operatore, che deve avere tutto... perché la macchina è grande, quindi l'operatore non riesce a gestire tutta la visione dell'area che copre la macchina, quindi sotto macchina è più di un... Io la chiamerei più di un operatore, deve essere più in gamba di un operatore." (vds. verbale udienza dd. 16.6.2023 pag. 6). All'esito degli incontri veniva compilato un documento (che era unico per tutte le squadre benché le riunioni fossero state svolte separatamente) nel quale veniva indicato l'oggetto della riunione, il nominativo dei partecipanti e la loro firma. G. riconosceva, nel corso della sua deposizione, il verbale relativo alla riunione del 17.4.2018 ma non era in grado di spiegare perché, in un unico documento, fossero attestati contestualmente gli incontri avvenuti il 17.4.2018 e il 18.4.2018 precisando: "Questa cosa qua, cioè, dico la verità non mi sono mai accorto. Però posso dire solo una cosa; che sono sicuro di questa cosa qua, che c 'erano informazioni anche ogni giorno" (vds. verbale udienza dd. 16.6.2023 pag. 7). Il testimone specificava, inoltre, che il giorno dell'incidente dell'Aj. non aveva partecipato insieme a lui alla riunione poiché il suo turno - a differenza di quello della persona offesa che faceva parte di un'altra squadra - iniziava il pomeriggio. Le frequenti riunioni (meglio denominate "toolbox" o "mini-formazioni"), secondo quanto spiegato tanto dal consulente di parte Ing. B. quanto dal Geom. Ma., erano state ideate in modo del tutto innovativo (cfr. dichiarazioni B. verbale udienza dd. 20.1.2023 pag. 9) dall'Ing. Ma.Ma., impiegato nell'ufficio di prevenzione e protezione, al quale il Pe. aveva conferito delega affinché si occupasse degli aspetti legati alla sicurezza. Lo scopo era quello di creare, ogni mattina o al cambio turno, non solo un momento informativo "su quelle che sono le precauzioni, le misure preventive da porre in atto e i rischi che ci sono per le lavorazioni che vanno fatte venivano ribadite tutte queste misure che dovevano essere poste in atto" (vds. verbale udienza dd. 7.4.2023 pag. 4/5) ma anche un luogo di confronto tra i lavoratori che potevano prendere la parola sulle loro attività (cfr. dichiarazioni B. verbale udienza dd. 20.1.2023 pag. 9). 2. La violazione della norma cautelare contestata all'imputato. Ripercorsa la dinamica dell'infortunio, si deve quindi procedere alla valutazione delle condotte contestate all'imputato, verificando se vi sia stata o meno la violazione delle regole cautelari cui si fa riferimento nel capo d'imputazione. In particolare, al Pe., in qualità di presidente del Consiglio di amministrazione della Ic. e datore di lavoro ai fini della salute e sicurezza sul lavoro (cfr. visura camerale aff. 183 e ss.), viene contestata la violazione dell'art. 96 comma 1 lettera g) D.Lgs. n. 81 del 2008, per non aver valutato i rischi relativi alle operazioni dei pali interrati, tra le quali le operazioni da svolgere per l'estrazione dal suolo dei rivestimenti metallici cilindrici a servizio dello scavo ("camicie") mediante morsa idraulica. Ebbene, in punto di diritto, occorre preliminarmente rammentare che la norma incriminatrice che la Pubblica Accusa assume essere stata violata censura la condotta del datore di lavoro che non abbia provveduto ad adottare un Piano Operativo di Sicurezza (anche detto P.O.S.), ovverosia, secondo quanto disposto dall'art. 89 comma 1 lett. h) D.Lgs. n. 81 del 2008, "il documento che il datore di lavoro dell'impresa esecutrice redige, in riferimento al singolo cantiere interessato, ai sensi dell'articolo 17 comma 1, lettera a), i cui contenuti sono riportati nell'allegato XV". Il P.O.S., secondo consolidata interpretazione di legittimità, "costituisce uno strumento di prevenzione dei rischi connessi allo svolgimento dell'attività e, pertanto, deve contenere disposizioni specifiche in relazione alle diverse attività che vengono svolte nel luogo di lavoro, tali da rendere attuabili gli obiettivi del piano di sicurezza e coordinamento, non potendo costituire la mera riproduzione di quest'ultimo" (Cass. Pen., Sez. 3,13 luglio 2012, n. 28136). Fatta tale premessa, le prove orali e documentali assunte nel corso del dibattimento non hanno consentito di corroborare la tesi accusatoria e di ritenere provata la penale responsabilità dell'imputato in relazione al reato contestato. È, innanzitutto, pacificamente emerso che la I., già nel 2014 con la "revisione 0", avesse redatto un P.O.S. e che questo - così come spiegato dai testimoni qualificati, primo tra tutti il D. - avesse natura dinamica, ossia fosse suscettibile di continue integrazioni e/o revisioni. In merito a questo primo aspetto, nel corso della requisitoria conclusiva, la Pubblica Accusa ha sostenuto che, da un punto di vista testuale e sistematico, ciascuna revisione del P.O.S. elaborata dalla Ic. dovesse essere letta quale documento autonomo rispetto alle precedenti versioni e che, pertanto, dovendo considerare esclusivamente la "revisione n. 4" (l'unica presente in cantiere il 18.4.2018) che era vigente al momento dell'infortunio, questa dovesse ritenersi certamente manchevole (o comunque generica e incompleta) delle necessarie informazioni inerenti la lavorazione in questione e la previsione dei relativi rischi. Ebbene, esaminata la documentazione in atti, simile linea interpretativa non può ritenersi condivisibile con riferimento al caso di specie. La scelta (invero pregevole) di elaborare un P.O.S. "dinamico", e quindi suscettibile di continui "aggiustamenti" e aggiornamenti a fronte delle diverse lavorazioni, impone di procedere con una lettura imprescindibilmente coordinata delle diverse revisioni, che costituiscono a tutti gli effetti una continua integrazione della primigenia versione del P.O.S. Un tanto, si trae chiaramente dalla lettura di tutte le versioni depositate in atti, dalle quali si evince la loro concatenazione e reciproca funzione complementare; un esempio lampante si ricava dall'analisi dell'integrazione n. 3 dd. 23.3.2016 la quale, fermi tutti gli aspetti della lavorazione oggetto dell'attività della I., si prefiggeva lo scopo di implementare la gestione di uno specifico rischio, ossia quello di annegamento. Deve, dunque, ritenersi condivisibile l'argomentazione difensiva secondo la quale il P.O.S. della I., dovendo essere esaminato integralmente e non anche in modo parziale come fatto dall'Azienda sanitaria (che visionava solo la "revisione n. 4"), risultasse completo in ogni parte e idoneo all'esecuzione delle lavorazioni previste. La difesa, infatti, in particolare tramite il suo consulente e la documentazione prodotta, ha consentito di far emergere le seguenti circostanze: a) la "revisione 0" del P.O.S. dd. 3.11.2014 descriveva (seppur genericamente) l'opera da realizzare (cfr. pag. 13 e 32), esponendo le diverse fasi della lavorazione e differenziando le diverse mansioni (quindi esaminando il differente ruolo dei tre componenti della squadra di lavoro), le azioni e le tempistiche dell'attività (cfr. pag. 48 e ss.); la stessa prevedeva, inoltre, il rischio di cesoiamento e di schiacciamento al 10.1.4 (pag. 53); b) l'intera operazione, di armo e disarmo dei pali interrati veniva adeguatamente descritta (ivi compreso l'impiego di "gesti convenzionali" di comunicazione/segnalazione) nella successiva integrazione n. 2 dd. 14.3.2016 (pag. 9/11), la quale prevedeva espressamente tra i rischi previsti anche quello di cesoiamento e di stritolamento (paragrafo 3.3, pag. 12); c) l'integrazione n. 4 dd. 6.6.2016, a sua volta, descriveva le operazioni in questione (pag. 7 e ss.) con esplicita indicazione delle necessarie precauzioni da adottare nella fase di disarmo (quale, ad esempio, il continuo contatto visivo tra operatore e manovratore; cfr. pag. 9) e previsione dei rischi di cesoiamento e stritolamento (pag. 8/9) come quello verificatosi nell'infortunio oggetto del presente procedimento. Alla luce di quanto detto, ritiene il Tribunale di poter integralmente condividere le conclusioni formulate dal consulente di parte poiché risultano immuni da vizi logici ed errori materiali nonché frutto di attenta analisi e correttamente motivate: trattandosi di persona qualificata (ingegnere), non v'è motivo alcuno di dubitare della attendibilità e validità delle considerazioni e valutazioni tecniche dallo stesso effettuate, tenuto conto peraltro che le stesse non sono state oggetto di alcun specifico e scientificamente documentato rilievo critico da parte della Pubblica Accusa. Del resto, l'interpretazione giurisprudenziale sopra richiamata (cfr. Cass. Pen., Sez. 3, 13 luglio 2012, n. 28136), secondo la quale le disposizioni del P.O.S. devono essere caratterizzate dal requisito di specificità, non può essere dilata sino ad esigere la descrizione di ciascuna singola e minima azione (anche la più semplice e banale) da svolgere all'interno del cantiere. Un simile approccio condurrebbe non solo ad effetti di paradossale e irragionevole irrigidimento del documento in esame (come correttamente suggerito dal Geom. Ma. in dibattimento sarebbe "come dire a uno che non deve mettere la mano sotto il martello quando lo batte) ma non permetterebbe neppure di soddisfare la reale ratio sottesa all'esigenza di non genericità, ossia quella di garantire una concreta e pratica attuazione del P.O.S. In conclusione, dovendo essere considerato il P.O.S. sufficientemente specifico e completo nella descrizione delle lavorazioni svolte - ivi compresa quella nello svolgimento della quale si verificava l'infortunio dell'Aj. - deve ritenersi non provata la violazione dell'art. 96, comma 1 lett. g) D.Lgs. n. 81 del 2008. Se ciò non bastasse, per dovere di completezza, appare in ogni caso utile rammentare che, secondo quanto sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità, l'aver previsto il rischio e aver individuato un preposto responsabile della sicurezza non risulta di per sé sufficiente ad escludere la penale responsabilità del datore di lavoro, dovendo essere altresì accertato che quest'ultimo abbia provveduto in concreto a prevenire il verificarsi del rischio (in questo senso vds. Cass. Sez. 4 - , Sentenza n. 22256 del 03/03/2021 secondo la quale: "In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la designazione di un preposto al rispetto delle misure di prevenzione non esonera il datore di lavoro da responsabilità ove risulti l'inidoneità di una misura prevista nel documento di valutazione dei rischi. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva riconosciuto la penale responsabilità del datore di lavoro per le lesioni che un suo dipendente, alla guida di un muletto, aveva cagionato ad altro lavoratore, in quanto, pur avendo nominato un preposto, non aveva organizzato i luoghi di lavoro in modo tale da garantire una viabilità sicura, regolamentando la circolazione con cartellonistica e segnaletica orizzontale)."). Nel solco di tale principio si inserisce il rilievo rivolto dall'Azienda sanitaria alla Ic. di predisporre un carter a protezione della parte esposta del macchinario utilizzato dai dipendenti nella lavorazione. Ebbene, anche sotto questo aspetto si richiama quanto esposto dall'Ing. B., il quale ha diffusamente spiegato, argomentando sul piano tecnico, le ragioni per le quali l'utilizzo del carter così come suggerito dall'ASUGI - invero comunemente non previsto in relazione a macchinari della medesima specie - non sarebbe stato in alcun modo risolutivo ma, anzi, avrebbe comportato il verificarsi di rischi ulteriori per il lavoratore. Anche sotto questo profilo, oltre alla deposizione del testimone D., la Pubblica Accusa non ha adeguatamente dimostrato la penale responsabilità dell'imputato e, dunque, che questo non avesse provveduto in concreto ad attuare tutte le misure necessarie ad impedire la verificazione del rischio previsto. Per tutte queste ragioni, ritenuto che non sia emersa la prova dell'elemento oggettivo del reato in contestazione, il Pe. deve andare assolto con la conseguente formula perché il fatto non sussiste. Ogni ulteriore valutazione in ordine all'incidenza della condotta della persona offesa sul nesso causale deve ritenersi, di conseguenza, assorbita. Per quanto riguarda, infine, l'obbligo di fornire adeguata formazione al lavoratore circa le operazioni di erezione dei pali, si deve ricordare che, benché non sia stata formulata una specifica contestazione sul punto da parte del P.m., per pacifica giurisprudenza, "In tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa"; v., ad es., Cass., sez. IV, n. 35943/2014). A tal proposito non si ritiene di poter condividere l'assunto difensivo secondo il quale, la tematica della formazione esulasse l'ambito di responsabilità del datore di lavoro Pe. rientrando, in virtù della delega di funzioni in atti, nelle competenze dell'Ing. Ma., nei confronti del quale sarebbe già intervenuta pronuncia ai sensi dell'art. 444 c.p.p. Occorre, infatti, evidenziare che su questo profilo la Suprema Corte di Cassazione si è recentemente pronunciata affermando che: "i compiti di formazione ed informazione del lavoratore in ordine ai rischi connessi alle mansioni svolte fanno capo al datore di lavoro e non sono da quest'ultimo delegabili" (Cassazione penale , sez. IV, 25/02/2020, n. 10161); a mente di tale principio, dunque, a prescindere dalla delega rilasciata dal Pe., l'ottemperanza degli obblighi formativi rientra certamente nel necessario vaglio della presente posizione processuale. Ciò premesso, le risultanze dibattimentali sopra ripercorse inducono a ritenere che la formazione fornita dalla Ic. ai propri dipendenti fosse adeguata. In questo senso hanno, innanzitutto, deposto il testimone D., l'Ing. B. e il Geom. Ma. i quali hanno rappresentato il particolare e innovativo sistema di formazione adottato dall'impresa del Pe., che, attraverso frequenti e ristrette riunioni dette "toolbox", si prefiggeva l'obiettivo di formare "sul campo" (in tutti i sensi) i lavoratori rispetto alle specifiche attività che questi dovevano svolgere. L'effettiva attuazione del sistema descritto dai menzionati testimoni e dal consulente di parte è stato, invero, messo in discussione dalle dichiarazioni della persona offesa che ha negato di essere stato formato sull'operazione svolta in occasione dell'infortunio e che la Ic. svolgesse riunioni in materia di sicurezza. Tali dichiarazioni, invero, non possono essere valutate senza tener conto, da un lato, che l'Aj. forniva una versione dei fatti (in relazione alla dinamica del sinistro) non coincidente con le altre prove orali assunte, e dall'altro che lo stesso ha subito plurime contestazioni da entrambe le parti ed è incorso in contraddizioni (egli stesso confermava, infatti, a domanda del difensore, di aver partecipato a riunioni indette dall'Ing. Ma. sulla sicurezza). Non va, peraltro, omesso di considerare che, oltre a G.A., anche il testimone F. - che, si precisa, non risulta più alle dipendenze della Ic. e, in quanto tale, deve ritenersi testimone attendibile e degno di fede poiché certamente privo da qualsivoglia intrinseco condizionamento o timore di ritorsione da parte del datore di lavoro - confermava di essere stato formato in merito alle specifiche operazioni da svolgere e che venivano svolti i "toolbox" in materia di sicurezza. Nello stesso senso deponeva il testimone B., il quale spiegava che le riunioni erano la routine; non appare, invece, rilevante il fatto che il testimone non fosse in grado di ricordare di aver partecipato ad una riunione il 18.4.2018 poiché egli stesso spiegava che di quel giorno gli era rimasto impresso solamente l'infortunio. Tutto ciò considerato, non ricorrono nel caso di specie i presupposti per affermare la penale responsabilità del Pe. per le lesioni occorse all'Aj. neppure a titolo di colpa generica. Stante la complessità delle questioni di fatto e di diritto trattate, si stima congruo indicare, ai sensi dell'art. 544, co. 3, c.p.p., il termine di giorni novanta per il deposito della motivazione della sentenza. P.Q.M. Il Tribunale di Trieste, in composizione monocratica, visto l'art. 530 c.p.p. ASSOLVE Pe.Vi. dal reato a lui ascritto perché il fatto non sussiste. Motivazione riservata in giorni 90 ex art. 544, co. 3, c.p.p. Così deciso in Trieste il 24 novembre 2023. Depositata in Cancelleria il 16 febbraio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tribunale Ordinario di Trieste Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Monica Pacilio ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 124/2023 promossa da: Ri.Ri. (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. ZU.FA.; attore opponente contro En. S.P.A. (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. FO.AN. e dell'avv. PA.LE.; convenuto opposto avente ad oggetto: Somministrazione; opposizione a decreto ingiuntivo n. 766/2022 del Tribunale di Trieste. CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE I fatti di causa. 1. Con atto di citazione ritualmente notificato Ri.Ri. ha proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 766/2022 emesso dal Tribunale di Trieste il 29.11.2022, con il quale gli è stato ingiunto di pagare in favore di En. S.P.A. la somma di Euro 6.748,40, oltre interessi di mora al tasso legale, decorrenti dal pagamento e applicati sugli importi relativi ai singoli periodi di somministrazione indicati nel ricorso e alle spese relative al procedimento monitorio. L'opposizione si fonda sul rilievo che il ricorso per decreto ingiuntivo sarebbe assolutamente generico, non specificando nulla sulle ragioni per cui l'odierno opponente dovrebbe pagare le somme richieste. Afferma poi l'attore che la denominazione "Ri.Ri. M.S.H.", cui la somministrazione sarebbe stata effettuata, gli è sconosciuta e che anzi la disconosce, con la conseguenza che le obbligazioni di cui si discute non gli sarebbero attribuibili. 2. En. S.P.A. (di seguito, per brevità, E.) si è costituita in giudizio ed ha inteso resistere all'opposizione deducendo che l'opposizione avversaria è del tutto infondata e pretestuosa, dal momento che la fornitura era stata effettuata sulla base di un contratto stipulato dal sig. Ri. (allegato alla comparsa di costituzione) e che egli non ha dato prova di alcun fatto estintivo della pretesa di En.. Ha, inoltre, chiesto la condanna ex art. 96 c.p.c. dell'opponente, sulla base della condotta processuale a suo parere caratterizzata da mala fede e funzione esclusivamente dilatoria. 3. Con ordinanza del 31.05.2023 il Giudice ha concesso la provvisoria esecutorietà al decreto ingiuntivo opposto e, ritenendo la causa matura per la decisione, ha rigettato la domanda attorea di concessioni dei termini ex art. 183, comma 6 c.p.c. e disposto che le parti rassegnassero le loro conclusioni con il deposito di note scritte ai sensi dell'art. 127-ter c.p.c. A seguito dello scambio di note sono stati assegnati i termini ex art. 190 c.p.c. Decisione della causa. 1. L'opposizione è manifestamente infondata e deve essere rigettata. 1.1 Infatti, come è noto e assolutamente pacifico in dottrina e giurisprudenza (v., ex multis, Cass. 13685/2019), il creditore che agisce per l'adempimento della propria obbligazione ha l'onere di provare la fonte dell'obbligazione e semplicemente allegare l'inadempimento; il debitore, invece, deve provare il proprio adempimento o un fatto estintivo del rapporto obbligatorio per resistere efficacemente alla pretesa creditoria. Ora, nel caso di specie, En. ha provato la fonte dell'obbligazione (il contratto) e allegato l'inadempimento; il sig. R., invece, non ha allegato nessun fatto estintivo della pretesa, limitandosi a proporre difese defatigatorie, come disconoscere la "denominazione" dell'intestatario delle bollette. 1.2 Le argomentazioni attoree circa la non riferibilità al sig. Ri. del contratto appaiono del tutto generiche e pretestuose. E' agli atti il contratto per la fornitura di energia elettrica concluso dall'attore (vedi allegato privo di numerazione della comparsa di costituzione), in cui è perfettamente leggibile il nome "Ri.Ri.", indicato come "Imp. Ind." nella casella del modulo contrattuale "Figura Giuridica", sigla che all'evidenza sta ad indicare che si tratta di un imprenditore individuale. Il contratto è anche firmato da Ri.Ri.. Così individuato il nome del contraente, è del tutto evidente che l'aggiunta al nome "M.S.H." contenuta nelle fatture indica semplicemente la ditta dell'imprenditore, che non è altro che il nome commerciale dell'imprenditore. D'altra parte la fornitura ha riguardato un locale per uso diverso dall'abitazione, come scritto - anche questo dato - nel contratto. La visura camerale prodotta dalla convenuta, che dà atto che Ri.Ri. è un piccolo imprenditore avente un negozio proprio all'indirizzo cui afferisce il contratto, conferma ulteriormente che non può esserci errore nell'individuazione del contraente e destinatario delle fatture. Non è insomma ragionevolmente revocabile in dubbio che il contratto di fornitura di energia elettrica sia stato sottoscritto proprio dall'attore. 2. La pretestuosità dell'opposizione, contraria ad ogni sensata logica e principio giuridico giustifica pienamente l'esercizio da parte del Tribunale del potere d'ufficio riconosciutogli dall'art. 96 co. 3 c.p.c. di condannare la parte soccombente al pagamento a favore della parte vittoriosa di una somma equitativamente determinata. Infatti, la condotta dell'attore opponente, considerata l'evidenza delle prove e - appunto - il tenore delle difese svolte, è contraria a buona fede e comunque è oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo". La condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c., volta alla repressione dell'abuso dello strumento processuale. La sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, la prova di un danno (Cass. Sez. U - , Sentenza n. 22405 del 13/09/2018, Sez. U - , Sentenza n. 9912 del 20/04/2018, Rv. 648130 - 02). Normalmente la somma viene determinata dalla giurisprudenza di legittimità nella medesima misura delle spese processuale (vedi tutte le applicazioni fatte dalla Corte di Cassazione); nel caso di specie viene determinata in un importo pari solo alla metà (cfr. ed in particolare Cass. 26435/2020), in considerazione della scarsa importanza della controversia. Quanto alla domanda del convenuto-opposto di condanna dell'attore-opponente al pagamento, ai sensi dell'art. 96 c.p.c. di una somma equitativamente determinata a titolo di risarcimento dei danni, deve rilevarsi che, nonostante la possibilità di liquidazione equitativa prevista dall'art. 96 co. 1 c.p.c., l'allegazione e prova di un danno è pur sempre necessaria; nel caso di specie non è stata fornita. Per questi motivi la domanda viene rigettata. 3. Le spese di lite seguono la soccombenza, secondo la regola generale dettata dall'art. 91 c.p.c., e sono liquidate come da dispositivo secondo i parametri previsti dal D.M. n. 55 del 2014 per lo scaglione di valore della causa al di sotto dei valori medi in considerazione della semplicità della causa e dell'istruzione soltanto documentale. P.Q.M. ogni altra istanza, deduzione ed eccezione disattesa, definitivamente pronunziando, il Tribunale di Trieste così provvede: 1. RIGETTA l'opposizione al decreto ingiuntivo del Tribunale di Trieste n. 766/2022 proposta da parte attrice; 2. DICHIARA la definitiva esecutorietà del decreto ingiuntivo di cui al capo precedente; 3. CONDANNA Ri.Ri. al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 3.800,00 per competenze di avvocato, oltre a spese generali nella misura del 15%, IVA e CNAP come per legge; 4. CONDANNA Ri.Ri. al pagamento a favore di En. S.P.A. alla somma equitativamente determinata di un mezzo delle spese processuali di cui sopra, comprensive delle spese generali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti. Così deciso in Trieste il 29 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 15 febbraio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI TRIESTE SEZIONE CIVILE Il Tribunale in persona del giudice Dott. Arturo Picciotto ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 2285/2021 R.G. TRA Un. S.p.A., in persona del suo procuratore ad negotia ing. Se.Gi., attrice con l'avv. An.Ce. (c.f. (...) ) suo procuratore, e con domicilio eletto presso lo studio dell'avv. Lu.Sp. in Trieste; ATTORE CONTRO Ge. S.p.A. (c.f. (...)), in persona del suo legale rappresentante pro tempore, corrente in T.V.M. 4 (indirizzo PEC (...)) CONVENUTO CONTUMACE Avente ad oggetto: pagamento di indennizzo assicurativo in rivalsa. RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Un. S.p.A. espone che in data 17.01.2020 ad ore 5.50 circa si verificava in Catania un incendio nell'area di pertinenza dell'officina della società Ka. S.r.l., assicurata con l'attrice per la responsabilità civile con polizza n. (...) a copertura del rischio incendio per i danni patiti al proprio immobile ed ai veicoli in esso presenti. Tra tali veicoli, vi era anche l'auto J.R. targata (...)di proprietà del sig. Ga.Co. ed assicurata - anche per il rischio incendio - da Ge. S.p.A. con polizza n. (...). (toglierei:La stessa) che veniva irrimediabilmente danneggiata. L'attrice provvedeva ad indennizzare Ka. della somma complessiva di Euro 86.400,00 comprendente i danni subiti all'immobile dell'assicurata, nonché quelli delle auto ivi presenti e danneggiate dall'incendio. In particolare, in tale importo rientrava anche quello di Euro 15.000,00, relativo al valore del veicolo di proprietà del C., come da perizia dello studio tecnico associato M.. Inoltre, con atto di transazione e quietanza del 22.07.2020, il sig. Co. accettava la liquidazione della somma di Euro 15.000,00 a ristoro del danno patito per la perdita della propria auto. Fermo quindi il valore dell'autoveicolo, opererebbe la fattispecie di cui all'art. 1910 c.c. e quindi, sussisterebbe il diritto di regresso verso gli altri assicuratori per la ripartizione proporzionale di quanto indennizzato al danneggiato. Parte attrice, pertanto, agisce nei confronti di Ge. S.p.A. per ottenere dalla stessa il versamento della somma di Euro 7.500,00 pari al 50% dell'importo indennizzato per il danneggiamento del mezzo di proprietà del C., concludendo come in premessa. 1.1. È rimasta contumace Ge. S.p.A, nella regolarità della notificazione. 1.2. Ammesse le prove raccolte, sulle conclusioni di cui in premessa, la causa viene quindi a decisione. 2. Dalla documentazione dimessa, emerge sia la titolarità dell'obbligazione passiva indennitaria a carico dell'attrice nei confronti di Ka. S.r.l. (doc. 1), sia il versamento della somma di Euro 86.000,00 corrisposta al proprio assicurato per l'incendio di cui hanno del pari testimoniato i testi assunti innanzi all'Autorità Giudiziaria delegata. L'auto del C., ossia una J.R., targata (...), godeva, quale garanzia accessoria della R. rilasciata da G., di copertura assicurativa anche per l'incendio, per una somma assicurata di Euro 15.900,00. Il doc. 4) è l'atto di transazione e quietanza sottoscritto dal teste Co. il quale ha confermato di essere assicurato presso la convenuta come da polizza doc. 9, notificata al convenuto contumace che non l'ha disconosciuta. Si tratta di importo inferiore al valore assicurato, ed attestato come congruo in una perizia di parte sulla quale ha deposto il suo stesso autore: le circostanze di fatto accertate dal consulente, se confermate dal medesimo in veste di testimone, acquisiscono dignità e valore di prova (Sez. 2, Sentenza n. 4437 del 19/05/1997), prova sulla quale il giudice ritiene di pronunciarsi positivamente, attesa la gravità dell'incendio, il valore assicurato, il presumibile valore del veicolo e l'accettazione dell'importo da parte del danneggiato. Su queste basi probatorie viene esercitato il diritto di regresso verso Ge. S.p.A. per la ripartizione proporzionale di quanto indennizzato al danneggiato, essendo stata stipulata una pluralità di assicurazione e non essendo il risarcimento superiore all'entità effettiva del danno patito. Posto che, il massimale per il rischio incendio previsto nella polizza di Ge. S.p.A. era sufficiente a risarcire integralmente il danno patito dall'assicurato Ga.Co., il diritto di regresso dell'attrice va proporzionato in misura della indennità spettante all'assicurato in forza dei contratti in essere. 3. In conclusione, Ge. S.p.A. va condannata al pagamento a favore di Un. S.p.A. della somma di Euro 7.500,00 pari al 50% dell'importo indennizzato al Co. dall'attrice, oltre interessi di legge dal pagamento dell'indennizzo fino alla notifica della citazione, ed oltre interessi ex art. 1282, co. 4, cod. civ. da questo momento al saldo. Consegue la condanna al pagamento delle spese di lite che sono liquidate tenuto conto del valore della domanda come riconosciuto e dell'attività disimpegnata nella fase di studio, introduttiva, istruttoria e decisoria, nonché del fatto che l'opera prestata è comunque di ordinario pregio, e che i risultati ed i vantaggi conseguiti sono positivi. Sentenza esecutiva. P.Q.M. ogni altra istanza, deduzione ed eccezione disattesa, definitivamente pronunziando, il Tribunale di Trieste così provvede: in accoglimento della domanda, condanna Ge. S.p.A. al pagamento a favore di Un. S.p.A. la somma di Euro 7.500,00, oltre interessi di legge dal pagamento dell'indennizzo fino alla notifica della citazione, oltre interessi ex art. 1282, co. 4, cod. civ. da questo momento al saldo; condanna Ge. S.p.A. al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 5.007,00 per competenze ed Euro 250,10 per esborsi, oltre spese generali, I.V.A. e CNAP come per legge. Sentenza esecutiva. Così deciso in Trieste il 5 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria l'8 febbraio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI TRIESTE in composizione monocratica, in persona del dott. F.S.M., ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in primo grado, iscritta in data 21.05.2021 al n. 1418/2021 di Ruolo Generale, vertente tra Se.Ch. (C.F. (...) ), nato a T. il (...), rappresentato e difeso dall'avv. St.Al. (C.F. (...) ) ed elettivamente domiciliato presso il Suo Studio in Trieste, Piazza (...), con pec: (...), fax (...) ammesso al gratuito patrocinio con provvedimento del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Trieste in data 10.07.2020. ATTORE e AVV. Fu.Vi. (C.F. (...) ) e AVV. Se.Vi. (C.F. (...)), con studio in Trieste, via (...), rappresentati e difesi dall'avv. Maurizio Consoli (C.F (...)) ed elettivamente domiciliati presso il suo studio in Trieste, via (...), con pec: (...) e fax (...) CONVENUTI e G.I. S.p.a., (C.F. (...) - P. IVA (...)) con sede in M. Vi. (T.), via M. n. 14, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa dall'avv. Ca.Pi. (C.F.: (...)) con p.e.c.: (...) e fax: (...); TERZO CHIAMATO MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto di citazione del 10.05.2021, Se.Ch. evocava in giudizio gli avv.ti Se. e Fu.Vi. chiedendone, previo accertamento della loro responsabilità, la condanna al risarcimento dei danni subiti a causa dell'inadempimento all'incarico professionale ad essi conferito per aver depositato fuori termine l'atto di appello avverso la sentenza n. 64/2016 del Tribunale di Trieste, che accertava la legittimità del licenziamento intimatogli per giusta causa da Al. Spa. Parte attrice esponeva, infatti, di esser stato dipendente a tempo indeterminato di Al. S.p.A. occupandosi, nell'ultimo periodo di lavoro, esclusivamente delle polizze assicurative stipulate tra la Società ed i singoli dipendenti e che in data 29.11.2012 veniva licenziato per giusta causa a seguito di alcune verifiche svolte a campione da parte dal proprio datore di lavoro, il quale gli contestava la falsità di ben cinque sinistri da lui denunciati. L'odierno attore, quindi, rappresentato e difeso dagli avv.ti Vi., impugnava il licenziamento intimatogli da Al. S.p.A. e all'esito del procedimento così instaurato sub R.G. 372/2013, il Giudice del Lavoro di Trieste, con ordinanza del 7.10.2013 (cfr. doc. 2 fascicolo attore), annullava il licenziamento e disponeva l'immediata reintegra del dipendente Ch. sul posto di lavoro. Tale provvedimento veniva però reclamato da parte di Al. e nel procedimento così radicato sub R.G. 942/2013, il Giudice del Lavoro, con la sentenza n. 64/2016, pubblicata in data 29.3.2016 (cfr. doc. 7 fascicolo attore) revocava l'ordinanza di reintegra pronunciata in data 7.10.2013, confermando al contempo la legittimità del licenziamento. Avverso tale sentenza, l'odierno attore conferiva incarico ai convenuti di presentare l'appello, ma gli avv.ti Fu. e Se.Vi. depositavano l'atto oltre il termine decadenziale di trenta giorni di cui all'art. 1, comma 58, della L. n. 92 del 2012 (c.d. rito Fornero) e non appena, accortisi dell'errore, al fine di evitare al loro cliente una eventuale condanna alle spese, rinunciavano agli atti del giudizio d'appello, determinandosi perciò il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado e la definitività del licenziamento (cfr. doc. 9 fascicolo attore). Sulla base di queste circostanze, Se.Ch. ha agito in questa sede lamentando di aver subito un danno quantificabile in 2.577.525,00 Euro a causa del negligente operato dei propri legali. Gli avv.ti Se. e Fu.Vi., costituitisi in giudizio, hanno preliminarmente chiesto di essere autorizzati a chiamare in causa la propria compagnia assicurativa, G.I. S.p.A., con la quale avevano stipulato la polizza n. (...) e hanno poi effettuato numerose osservazioni e deduzioni alle censure mosse nei loro confronti, chiedendo il rigetto richiesta risarcitoria avanzata dall'attore. In particolare, hanno rilevato l'insussistenza del necessario nesso causale tra l'inadempimento e il danno asseritamente subito dall'attore, stante la correttezza della sentenza di primo grado impugnata, nonché l'inesistenza del danno stesso. Con Provv. del 4 novembre 2021, il Giudice, ritenendo ammissibile la richiesta dei convenuti, differiva la data dell'udienza di prima comparizione per consentire la chiamata in causa della compagnia G.I. S.p.A., che si costituiva in giudizio con comparsa di risposta del 25.2.2022, contestando la fondatezza della domanda principale ed insistendo per l'insussistenza di responsabilità dei convenuti. Alla prima udienza del 17.03.2022 il Giudice assegnava i termini di cui all'art. 183, 6 comma, c.p.c. e all'esito del deposito delle memorie istruttorie, ritenendo la causa matura per la decisione, fissava udienza di precisazione delle conclusioni. Sulle conclusioni trascritte in epigrafe, rassegnate dalle parti all'udienza del 20.07.2023, la causa è passata in decisione dopo la scadenza dei termini relativi al deposito degli ultimi scritti. La domanda di Se.Ch. è infondata e va, pertanto, rigettata. Pur risultando documentalmente provato, e comunque non contestato dai convenuti, l'errore professionale commesso dagli avv.ti Vi. per non aver tempestivamente depositato l'atto d'appello nei termini di trenta giorni di cui all'art. 1, comma 58, della L. n. 92 del 2012, ciò non è un elemento sufficiente per l'affermazione della loro responsabilità professionale. L'esistenza della condotta omissiva da parte dei legali, odierni convenuti, non basta ai fini dell'insorgere della responsabilità professionale, per la cui integrazione occorre che dalla omissione sia causalmente derivato un danno risarcibile in capo al cliente. Infatti, secondo il recente insegnamento espresso dalla Corte di Cassazione in materia di responsabilità dell'avvocato, l'inadempimento non assume rilievo di per sé assorbente, occorrendo dare rilevanza anche al nesso eziologico tra condotta negligente/imperita e danno, tramite una valutazione positiva, compiuta ex ante (alla luce della regola causale "di funzione" del "più probabile che non"), per cui, a fronte del comportamento dovuto, il cliente avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni o, comunque, effetti più vantaggiosi (tra le altre, Cass., 7 agosto 2002, n. 11901; Cass., 5 febbraio 2013, n. 2638). Recentemente tale indirizzo è stato confermato anche nell'ordinanza della Suprema Corte n. 15032 del 28.5.2021, secondo la quale "la responsabilità dell'avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone". Chiarito un tanto, è pacifico che, con particolare riguardo alla fattispecie della responsabilità per condotta omissiva, il giudice è tenuto ad accertare, quindi, se l'attività mancata, ove fosse stata svolta dal difensore, avrebbe evitato l'evento dannoso o assicurato un vantaggio al cliente. Al fine, quindi, di accertare la responsabilità professionale degli avv.ti Vi., oltre a dichiarare l'omesso deposito dell'atto d'appello nei termini previsti dalla Legge Fornero, circostanza - si ripete - comunque pacifica e non contestata dai convenuti, serve accertare, con un giudizio prognostico basato sulla regola della preponderanza o del "più probabile che non", se, a fronte del corretto comportamento da parte dei due avvocati, l'odierno attore, alla stregua dei criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni. In ogni caso, la prova del danno e della ricollegabilità dello stesso all'omessa condotta, grava sul cliente asseritamente danneggiato. A tal riguardo, infatti, la Cassazione, sulla scorta di un consolidato orientamento, ha precisato che "Allorché il cliente deduca la responsabilità civile del professionista, egli è tenuto a provare non solo di aver sofferto un danno, ma anche che questo è stato causato dall'insufficiente o inadeguata attività del professionista. (...)" (cfr. Cass. Civ., sez. II, sent. n. 25895 del 15.12.2016). Nel caso in esame, deve innanzitutto rilevarsi, che l'attore non ha in alcun modo assolto all'onere della prova su di egli incombente non avendo né provato, né prima ancora allegato, il nesso causale tra la condotta negligente degli avv.ti Vi. e il danno asseritamente patito: in altre parole, non ha spiegato in quale modo il corretto comportamento da parte dei legali avrebbe potuto evitargli i danni asseritamente lamentati, ma si è limitato a dedurre che l'appello era "pacificamente fondato e meritava certamente di essere accolto" (cfr. pag. 4 atto di citazione Ch.), con delle argomentazioni che, benché evidentemente sviluppate dagli stessi avv.ti Vi. nell'atto di impugnazione tardivamente depositato, risultano essere state già ampiamente affrontate e risolte in modo analitico e dunque convincente dalla sentenza di primo grado. Infatti, le censure mosse alla sentenza di primo grado contenute nell'atto d'appello, ripetute dalla difesa dell'attore Ch., posso essere così sintetizzate: - Erroneità della sentenza per avere il Tribunale ritenuto attendibile l'investigatore Ancora, le cui dichiarazioni de relato non sarebbero state confermate da altri elementi oggettivi e concordanti; - Erroneità della sentenza per avere il Tribunale ricostruito erroneamente la dinamica dei sinistri n. (...) (n.1) e n. (...) (n.4); - Erroneità della sentenza per aver il Tribunale valutato come attendibili le dichiarazioni rese dalla teste Es.Sa., ex moglie dell'attore, omettendo di considerare i sentimenti di inimicizia verso l'ex marito; - Erroneità della sentenza per aver il Tribunale ritenuto non attendibile la testimonianza dei testi Ma.Se. e Ma.Be.; - Erroneità della sentenza per aver il Tribunale ritenuto valida la perizia grafologica che, invero, doveva dichiararsi nulla in quanto svoltasi su fotocopie. Orbene, consta che la sentenza n. 64/2016 del Tribunale di Trieste, oltre ad essere giuridicamente corretta, precisa e ben motivata, abbia affrontato uno per uno tutti i motivi di gravame sollevati dall'odierno attore, con la conseguenza che l'appello, anche se fosse stata tempestivamente depositato, avrebbe avuto una bassissima, quasi nulla, probabilità di accoglimento. Il Giudice del Lavoro, infatti, ritenendo che l'ordinanza del 07.10.2013 si fondava soprattutto sulla deposizione del teste Ma.Be., ha svolto una complessa ed approfondita istruttoria (escussione testi, produzione documentale e CTU grafologica) al fine di approfondire le dinamiche - e quindi la veridicità stessa - dei sinistri, ritenendo, alla fine "?dimostrato che tre dei sinistri contestati nell'ambito disciplinare non si sono verificati così come indicato dal Ch. e come emergente dalla documentazione dallo stesso allegata a giustificazione, mentre in ordine agli altri due non vi sono elementi precisi per poter affermare altrettanto." (cfr. doc. 9, pag. 7, fascicolo attore). In particolare, per quanto riguarda i sinistri n. 1 ((...)) e n. 4 ((...)) il Giudice del Lavoro ha ritenuto non attendibile la testimonianza dell'unica persona presente ai sinistri, Ma.Be., in quanto resa in modo generico e contrastante con le dichiarazioni degli altri testi e difforme da quella resa nella dichiarazione stragiudiziale, al punto da confermare che lo stesso non aveva assistito ai sinistri. Al contrario il Tribunale ha correttamente valutato la testimonianza dei testi U.O. e R.S., rispettivamente proprietari delle autovetture coinvolte nei sinistri sub n. (...) e (...), che fin da subito li avevano disconosciuti. Il Giudice del lavoro ha quindi esaminato il sinistro n. 3 ((...)), in relazione al quale l'odierno attore aveva consegnato ad Al. due dichiarazioni testimoniali dello stesso, identico contenuto, asseritamente attribuite a Ma.Se. e ad Es.Sa.K.. Anche in questo caso il nipote dell'asserito proprietario dell'autovettura responsabile del sinistro aveva disconosciuto l'evento, e all'esito di un'approfondita indagine, era emerso, da un lato, che la teste Es.Sa. non ricordava di aver assistito all'incidente e, dall'altro, che il teste Ma.Se., tra l'altro coimputato con l'attore per reati commessi a danno della sig.ra Es.Sa., aveva reso una testimonianza imprecisa e comunque difforme dalla dichiarazione scritta resa in sede stragiudiziale, al punto che, se anche fosse stata ritenuta attendibile, non avrebbe confermato il sinistro come descritto dall'attore. In merito alla testimonianza della ex moglie Es.Sa., il Giudice, nonostante i sentimenti di inimicizia tra i due, l'ha ritenuta attendibile in quanto la teste ha confermato tutte le circostanze che all'epoca aveva riferito all'investigatore, non ricordando l'incidente, né la sottoscrizione di una dichiarazione. Infine, il Tribunale del Lavoro ha ritenuto assolutamente attendibili anche le dichiarazioni dell'investigatore Ancora, in quanto il teste, contrariamente a quanto sostenuto dal lavoratore Ch. nell'atto di appello, non aveva riportato una testimonianza de relato, bensì riferito in udienza quanto compiuto personalmente nella sua attività investigativa e quanto a lui era stato detto dalle persone sentite. Invece, in merito alla perizia grafologica, la stessa, sebbene eseguita su fotocopie, è stata ritenuta utilizzabile, e sono state ritenute valide le motivate conclusioni a cui era pervenuta, ossia appunto l'apocrifia delle firme di Es.Sa. e del Benato8. Dopo avere vagliato quanto sopra, constatando dunque che le contestazioni mosse da Al. S.p.A. su tre degli incidenti si erano rivelate fondate, il Giudice del Lavoro passava ad analizzare se tali condotte potevano integrare la giusta causa del licenziamento intimato. Orbene, molto correttamente la sentenza si concludeva evidenziando che i comportamenti, tenuti dallo Ch. "?oltre ad integrare i profili di illeciti penali, si pongono certamente in contrasto con i più elementari doveri di correttezza e lealtà chedevono essere osservati nei confronti della parte datoriale" (cfr. doc. 9, p. 15 fascicolo attore). Alla luce di quanto precede, è palese che la sentenza n. 64/2016 del Tribunale di Trieste, contrariamente a quanto sostenuto dall'odierno attore, ha esaminato approfonditamente le dinamiche dei sinistri, ha opportunamente preso in considerazione le testimonianze rese, valutando anche gli esiti della perizia grafologica: la stessa deve, pertanto, ritenersi giuridicamente corretta e ben motivata. Fermo dunque il non corretto adempimento dell'incarico professionale, si ritiene che la rivalutazione in grado d'appello delle ragioni dello Ch. non avrebbe portato, con elevato margine di probabilità, ad un loro accoglimento, stante la assoluta compiutezza della sentenza sfavorevole emessa in primo grado. Le spese di lite seguono la soccombenza, e sono liquidate come da dispositivo, a norma del D.M. n. 55 del 2014 (così come aggiornato dal D.M. n. 147 del 13 agosto 2022) sia a favore della convenuta che a favore della terza chiamata, con l'applicazione dei valori medi per le fasi 1 e 2 e con la riduzione del 50% per le fasi 3 e 4 (non essendovi stata attività istruttoria con la conseguente linearità della fase decisionale, ferma sui temi originari), individuandosi nella prudente percentuale del 10% gli aumenti previsti dall'art. 6 del richiamato decreto ministeriale. P.Q.M. il Tribunale di Trieste, in composizione monocratica, in persona del dott. Fa.Sa., disattesa ogni contraria domanda, eccezione o istanza, definitivamente pronunciando, così provvede: 1) rigetta la domanda dell'attore Se.Ch. nei confronti degli avv.ti Se.Vi. e Fu.Vi.; 2) condanna Se.Ch. al pagamento delle spese di lite a favore degli avv.ti Se.Vi. e Fu.Vi., che unitariamente liquida, in 18.861,00 Euro per compensi, oltre rimborso forfetario per spese generali al 15%, C.P.A. ed I.V.A. come per legge; 3) condanna lo Ch. a rifondere a G.I. S.p.A. le spese processuali, che liquida in 18.861,00 Euro per compensi, oltre rimborso forfetario per spese generali al 15%, C.P.A. ed I.V.A. come per legge Così deciso in Trieste il 2 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria l'8 febbraio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tribunale Ordinario di Trieste Sezione Civile in composizione monocratica, nella persona del giudice dott.ssa Monica Pacilio, sulle conclusioni delle parti come precisate nel verbale della odierna udienza; ha pronunciato la seguente SENTENZA ai sensi dell'art. 429 c.p.c. nella causa di primo grado iscritta al n. R.G. 55/2023 TRA Gr.An. S.N.C., con gli avv. CL.MA. e MA.RO.; ricorrente E St. S.R.L.S., con l'avv. PI.SA.; resistente Avente ad oggetto: Risoluzione del contratto di locazione per inadempimento morosità; domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni. RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE I fatti di causa. Con intimazione di sfratto per morosità e contestuale citazione per la convalida la società Gr.An. s.n.c. proprietaria del locale commerciale sito in T. in via M. 6, concesso in locazione a St. s.r.l.s., l'ha citata a comparire all'udienza del 19.12.2022 (rinviata d'ufficio al 20.12.2022) per ottenerne la convalida. In data 16.12.2022 si è costituita in giudizio l'intimata, intendendo opporsi all'intimazione e proponendo domanda riconvenzionale. In particolare, ha allegato che vi sarebbe un grave inadempimento del locatore, il quale avrebbe consegnato il bene in cattivo stato di manutenzione; per questo, chiede la riduzione del corrispettivo e il risarcimento dei danni subiti a causa dei vizi della cosa locata. Più nello specifico, l'intimata ha esposto che in una serie di ispezioni dell'A. - disposte in seguito all'infortunio sul lavoro di una dipendente - sono state constatate gravi carenze nelle condizioni strutturali e nelle attrezzature del locale: piastrelle del pavimento rotte (in particolare nel bagno del piano terra e nello spogliatoio), presenza di dislivelli non idoneamente segnalati, sporgenze nella pedana del bar e non conformità alla normativa vigente dell'impianto elettrico. Inoltre, ha riferito che anche i frigoriferi e l'impianto di condizionamento sono stati sostituito perché in cattivo stato. Secondo la prospettazione dell'intimata, il locale era stato locato ad un certo (elevato) canone, proprio perché funzionante e già arredato; per queste ragioni ha invocato la violazione degli artt. 1575, 1576 e 1577 c.c. da parte del locatore e ha chiesto la risoluzione del contratto per grave inadempimento. L'intimante ha risposo evidenziando come, secondo il contratto di locazione (depositato come doc. 5 da parte dell'intimato in allegato alle note scritte dell'11.04.2013), il conduttore dichiara di aver visionato i locali e averli trovati confacenti alle proprie necessità (art. 12). Inoltre, ha chiesto che le richieste formulate dalla controparte nella comparsa di costituzione siano dichiarate inammissibili, rilevando che detta comparsa sarebbe generica e pertanto non valida come opposizione. Il Giudice onorario presso cui si è svolta la prima fase del procedimento, con ordinanza emessa in data 10.01.2013, ha ordinato il rilascio dell'immobile, osservando come l'intimato non aveva prodotto alcun documento dal quale si potesse evincere il pagamento dei canoni contestati. In data 07.03.2023 è avvenuto il rilascio spontaneo dell'immobile. È stato quindi instaurato il presente procedimento a cognizione piena, nel quale le parti hanno sostanzialmente riproposto le medesime domande ed eccezioni; l'intimato ha quantificato il risarcimento richiesto in Euro 110.000 per spese sostenute e Euro 324.000 per lucro cessante, determinato dall'aver dovuto chiudere prematuramente il locale. Decisione della causa. Si dà preliminarmente atto che le parti hanno documentato l'esperimento della mediazione obbligatoria, che non ha raggiunto il risultato sperato (il verbale di mediazione è stato depositato dall'intimante in data 23.10.2023). È quindi soddisfatta la condizione di procedibilità prescritta dalla dall'art. 5 del D.Lgs. n. 28 del 2005. Bisogna poi rilevare come per la validità dell'opposizione non siano previsti dalla legge (art. 665 c.p.c.) dei requisiti di contenuto; pertanto, la richiesta di Gr.An. di dichiarare invalida come opposizione la comparsa di costituzione di St. non può essere accolta. Passando ora all'esame del merito, la domanda di Gr.An. merita accoglimento; devono essere rigettate, invece, le domande di S.. Infatti, di fronte all'allegazione dell'inadempimento da parte dell'intimante (corredata dalla prova della fonte dell'obbligazione, il contratto di locazione nel caso di specie), l'intimata non ha dato prova del pagamento dei canoni di locazione - né ha provato che essi non fossero dovuti - come era invece era onerata a fare per ottenere il rigetto della domanda di controparte (v. ad es. Cass. Sez. 2, n. 9351 del 19/04/2007). Quanto alle allegazioni circa l'inadempimento contrattuale di Gr.An., asseritamente dovuto ai vizi della cosa locata, esse si dimostrano prive di fondamento alla lettura del contratto di locazione (non di affitto di azienda) sottoscritto dalle parti. All'art. 7, infatti, si legge che "Sono a carico della conduttrice tutte le opere, gli adeguamenti degli impianti e/o l'acquisto di attrezzature che fossero richieste da Autorità amministrative, quale che sia la loro natura, al fine di consentire alla conduttrice l'esercizio della propria attività economica"; è chiaro che gli adeguamenti imposti dall'A. facciano parte proprio di quel genere di richieste cui il citato articolo contrattuale fa riferimento. Al successivo art. 12, poi, è presente la seguente pattuizione: "La conduttrice dichiara di aver preso visione dei locali e di accettarli nello stato di fatto in cui essi si trovano al momento della sottoscrizione del contratto. Sottoscrivendo il presente contratto la conduttrice esonera la locatrice da qualsiasi responsabilità in merito"; pertanto, della necessità di svolgere interventi di manutenzione e ammodernamento il conduttore doveva essere a conoscenza. Se ne deduce che non vi è inadempimento contrattuale da parte di Gr.An., dal momento che lo stato di fatto dei locali è stato esplicitamente accettato dalla controparte nel contratto (art. 12), che non può quindi avanzare pretese circa degli adeguamenti che erano messi esplicitamente a suo carico dalle previsioni pattizie (art. 7). Dall'insussistenza di un inadempimento contrattuale di Gr.An. consegue l'infondatezza della domanda di risarcimento del danno avanzata in via riconvenzionale da St. s.r.l.s. L'art. 4 del contratto di locazione prevede, al quinto capoverso, che "Il mancato pagamento anche di una sola mensilità, protratto per oltre 30 (trenta) giorni dalla scadenza, costituisce grave inadempimento della conduttrice e causa di risoluzione espressa del presente contratto ai sensi dell'art. 1456 c.c.". A fronte di questa previsione pattizia va dichiarata, quindi, la risoluzione del contratto per inadempimento dell'intimata, la quale, a fronte dell'allegazione di mancato pagamento dei canoni di locazione di controparte, non ha fornito prova dell'adempimento e, di conseguenza, deve essere confermata l'ordinanza di rilascio emessa in data 10.01.2023. Spese di lite Le spese di lite seguono la soccombenza, secondo la regola generale dettata dall'art. 91 c.p.c., e sono liquidate come da dispositivo secondo i parametri previsti dal D.M. n. 140 del 2012, secondo lo scaglione della causa. P.Q.M. ogni altra istanza, deduzione ed eccezione disattesa, definitivamente pronunziando, il Tribunale di Trieste così provvede: - dichiara la risoluzione del contratto di locazione in essere fra Gr.An. s.n.c. e St. s.r.l.s., avente ad oggetto l'immobile ad uso commerciale sito a T., in via M. 6, stipulato il 26.01.2021; - conferma la condanna al rilascio dell'immobile già disposto con ordinanza del 10.01.2023; - rigetta la domanda riconvenzionale proposta da St. s.r.l.s.; - condanna St. s.r.l.s. al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 6.023,00 per compensi di avvocato ed Euro per spese, oltre a spese generali nella misura del 15%, IVA e CNAP come per legge. Così deciso in Trieste il 7 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 7 febbraio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI TRIESTE nella persona del Giudice, dott. Alessio Tassan, all'udienza dell;1 dicembre 2023 ha pronunciato la seguente SENTENZA nel procedimento a carico di: Di.Mo., nato a D. (S.) il (...), con domicilio eletto presso lo studio del precedente difensore fiduciario, Avv. St.Bo. del Foro di Treviso, difeso d'ufficio dall'Avv. An.Di. del Foro di Trieste; - assente - IMPUTATO del reato di cui all'art. 259 D.Lgs. n. 152 del 2006 perché effettuava una spedizione di rifiuti verso il S., di dichiarati "frigoriferi ed elettrodomestici usati", privi però di documentazione attestante la funzionalità, ed in pessimo stato, tali quindi da costituire rifiuti; quantitativo imprecisato poiché privi di imballo e di alcuna documentazione tecnica di riferimento. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con decreto di citazione diretta emesso in data 23/02/2023, Di.Mo. veniva tratto a giudizio avanti all'intestato Tribunale per rispondere del reato di traffico illecito di rifiuti, come meglio descritto in rubrica. All'udienza di comparizione predibattimentale del 10/07/2023 l'imputato non comparso veniva dichiarato assente in quanto la conoscenza del processo da parte dello stesso era attestata dall'assistenza del difensore di fiducia (solo successivamente rinunciante al mandato) e dal perfezionamento della notifica nel domicilio eletto. Alla stessa udienza, in assenza di questioni preliminari, il Tribunale provvedeva alla fissazione dell'udienza dibattimentale. All'udienza del 06/10/2023 il Tribunale dichiarava aperto il dibattimento e ammetteva le prove richieste dalle parti. All'udienza dell'01/12/2023 si procedeva all'esame dei testimoni Do.Sa., Al.Ca. e Gi.Di.. Veniva, inoltre, acquisita la documentazione dimessa dal pubblico ministero. Il Tribunale dichiarava quindi chiusa l'istruttoria dibattimentale; le parti discutevano la causa concludendo come riportato in epigrafe e il Tribunale pronunciava sentenza come da dispositivo. MOTIVI DELLA DECISIONE Deve essere pronunciata sentenza di condanna nei confronti dell'imputato in ordine al reato contravvenzionale contestato. 1. FATTO Come riferito in dibattimento dal dott. Do.Sa., funzionario dell'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, in data 22/03/2021 Ma.Me. aveva presentato presso il "Porto Franco Nuovo" di Trieste per contro di Di.Mo. una dichiarazione doganale di esportazione di 26 colli di merce usata, tra cui frigoriferi, elettrodomestici usati, prodotti alimentari, vestiario, lavabi, sanitari e detersivi, tutta merce diretta in Senegal (vedasi anche delega doc, aff. 14 P.M. e dichiarazione doganale doc. aff. 10 e ss. P.M.) Alla dichiarazione era stata allegato un elenco della merce contenuta nel container (doc. aff. 13 P.M.) nonché una dichiarazione, a firma sempre del DIA, attestante il legittimo acquisto dei predetti beni (doc, aff. 17 P.M.). In data 08/04/3021 i funzionari doganali insieme ai militari della Guardia di Finanza e a personale della Capitaneria di Porto avevano proceduto all'esame fisico della merce contenuta nel container, rinvenendo all'interno un quantitativo di merce di gran lunga superiore a quanto dichiarato, tutto ammassato alla rinfusa, tra cui frigoriferi, monitor e televisori, come da documentazione fotografica in atti (doc. aff. 22 P.M.). Come precisato dal sovraintendente Al.Ca. della Guardia di Finanza e dal luogotenente della Capitaneria di Porto Gi.Di., gli elettrodomestici e il materiale elettrico si presentava in pessime condizioni: gli apparecchi erano arrugginiti, visivamente obsoleti, ammaccati e danneggiati. Solo i monitor apparivano in buone condizioni. La merce, inoltre, era totalmente priva di imballaggio idoneo a preservarne l'integrità durante il trasporto. Successivi accertamenti volti a verificare il rispetto della normativa in materia di rifiuti sancita dal Regolamento CE 1013/2006 e dal D.Lgs. n. 152 del 2006 nonché, con specifico riferimento alle apparecchiature elettriche ed elettroniche, stabilita dalla Direttiva 2012/19/UE e dal D.Lgs. 14 marzo 2014, n. 49, avevano consentito all'Agenzia delle Dogane di appurare che: - non vi era documentazione attestante il fatto che i predetti oggetti (frigoriferi, componenti elettronici, televisori e monitor) fossero stati bonificati; - alla spedizione della merce non era allegata la necessaria documentazione di cui all'allegato VI del D.Lgs. 14 marzo 2014, n. 49. 2. QUALIFICAZIONE GIURIDICA E GIUDIZIO DI RESPONSABILITÀ Così ricostruiti gli elementi di prova raccolti nel corso del giudizio, ricorrono tutti gli elementi costitutivi del reato contestato. L'integrazione della fattispecie contravvenzionale di cui all' art. 259 D.Lgs. n. 152 del 2006 presuppone necessariamente la circostanza che la merce oggetto di spedizione sia da qualificare come rifiuto ai sensi e per gli effetti della normativa europea e nazionale. Com'è noto l'art. 183 co. 1 lett. a) del D.Lgs. n. 152 del 2006, recependo la Direttiva CE 2008/98 definisce "rifiuto'' "qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione 0 abbia l'obbligo di disfarsi". Il medesimo D.Lgs. n. 152 del 2006 contiene all'Allegato D un lungo elenco di sostanze od oggetti classificati come rifiuti (c.d. CER) e contrassegnati da apposito codice. L'inclusione di una sostanza od oggetto nel predetto elenco ha valore indiziario circa la natura di rifiuto (art. 184, co. 5, D.Lgs. n. 152 del 2006), che comunque deve essere verificata nel caso concreto, valutandone l'effettiva destinazione oggettiva all'abbandono o allo smaltimento, tenuto anche conto dell'intenzione o dell'obbligo del detentore di disfarsene. Infatti, secondo l'orientamento oramai consolidato della giurisprudenza di legittimità "deve intendersi per rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il produttore o il detentore si disfi, o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi, senza che assuma rilievo la circostanza che ciò avvenga attraverso lo smaltimento del prodotto o tramite il suo recupero". "E ciò sia per l'interpretazione della nozione legislativa nazionale, sia per la giurisprudenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea, le cui decisioni sono immediatamente e direttamente applicabili in ambito nazionale, secondo cui la nozione di rifiuto non deve essere intesa nel senso di escludere le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, atteso che la protezione della salute umana e dell'ambiente verrebbe ad essere compromessa qualora l'applicazione delle direttive comunitarie in materia fosse fatta dipendere dall'intenzione del detentore di escludere o meno una riutilizzazione economica da parte di altri delle sostanza o degli oggetti di cui ci si disfa (o si sia deciso o si abbia l'obbligo di disfarsi)" (Cass., Sez. 3, n, 50309 del 15/10/2014 - dep. 02/12/2014). L'intenzione dimostrata dal detentore di trattare una determinata cosa come rifiuto assume tuttavia rilievo determinate ai fini della sua qualificazione nei casi in cui la destinazione oggettiva sia quantomeno dubbia (Cass.. Sez. 3, n. 32207 del 11/07/2007 - dep, 07/08/2007, M., Rv. 23713601). A delimitare la nozione di rifiuto vi sono le nozioni di "sottoprodotto" (art. 184-bis D.Lgs. n. 152 del 2006) e di "cessazione della qualifica di rifiuto" (184-ter D.Lgs. n. 152 del 2006) che interviene allorquando il rifiuto sia stato oggetto di un'operazione di recupero (riciclaggio, riutilizzo) e ricorrano determinate condizioni: 1) la sostanza o l'oggetto sia comunemente utilizzato per scopi specifici; 2) esista un mercato o una domanda di tale sostanza od oggetto; 3) la sostanza o l'oggetto soddisfi i requisiti tecnici e normativi; 4) il loro utilizzo non comporti impatti negativi sull'ambiente e sulla salute umana. In virtù del principio di precauzione, che permea l'intera normativa europea sui rifiuti e sulla tutela dell'ambiente, la nozione di rifiuto deve interpretarsi in modo estensivo e la natura di rifiuto deve presumersi, incombendo sull'imputato l'onere di allegare e provare la natura di sottoprodotto o la cessazione della qualifica di rifiuto a seguito di recupero (Cass., Sez, 3, n. 3202 del 02/10/2014 - dep, 23/01/2015, G., Rv, 26212901: Cass., Sez. 3, n, 25206 del 16/05/2012 - dep. 26/06/2012, V.). Ciò premesso in via generale, per effetto del rinvio operato dall'art. 4, co. 2, lett. e) del D.Lgs. n. 49 del 2014, la nozione di rifiuto trova piena applicazione anche in materia di apparecchiature elettriche ed elettroniche (cc.dd. "RAE"), vale a dire le apparecchiature elettriche o elettroniche che sono rifiuti ai sensi dell'art. 183 co. 1 lett. a) del D.Lgs. n. 152 del 2006 inclusi tutti i componenti, sottoinsiemi e materiali di consumo che sono parte integrante del prodotto al momento in cui il detentore si disfi, abbia l'intenzione o l'obbligo disfarsene. Secondo quanto previsto dall'allegato VI del D.Lgs. 14 marzo 2014, n. 49, al fine di distinguere le apparecchiature elettriche ed elettroniche funzionanti (cc.dd. AEE) dai rifiuti (cc.dd. RAEE), qualora il detentore dell'articolo dichiari di voler spedire AEE usate e non RAEE, lo stesso è tenuto alla presentazione di una serie di documenti e adottare particolari accorgimenti; in particolare, deve: a) fornire copia della fattura e del contratto relativi alla vendita e/o al trasferimento della proprietà dell'AEE, che attestano che l'apparecchiatura è pienamente funzionante e destinata direttamente al riutilizzo; b) essere in possesso di prove circa la valutazione o i test condotti (certificato di prova, prova di funzionalità) su ogni articolo della spedizione; c) fornire una dichiarazione del detentore che organizza il trasporto dell'AEE, dalla quale risulti che nessun materiale e nessuna apparecchiatura della spedizione è classificabile come "rifiuto" ai sensi dell'articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2008/98/CE, e d) garantire un'adeguata protezione contro i danni durante il trasporto, il carico e lo scarico, in particolare attraverso un imballaggio adeguato e un congruo accatastamento del carico. Nel caso in esame nessuno dei suddetto obblighi è stato rispettato: oltre alla totale assenza della predetta documentazione, i funzionari hanno altresì riscontrato la mancanza di qualsivoglia accorgimento volto alla salvaguardia dell'integrità della merce. Ad escludere tale loro qualità, peraltro, non può in alcun modo essere avanzata la circostanza della loro ipotetica e astratta riutilizzabilità tecnica, tanto più in totale assenza di chiari indici di una destinazione oggettiva al riutilizzo impressa loro dallo spedizioniere, il quale invece ha depositato i predetti oggetti del tutto casualmente e alla rinfusa, senza alcuna classificazione o imballaggio (sul valore sintomatico delle modalità di deposito vedasi Cass., Sez. 3, 20/01/2015. n- 29069). Va da sé che neppure l'asserita ed eventuale acquisto a titolo oneroso della merce in oggetto vale ad escludere la loro classificazione come rifiuti: "in materia di gestione di rifiuti, la natura di "rifiuto", acquisita da un bene in base ad elementi positivi (ovvero il fatto che si tratti di residuo di produzione di cui il detentore vuole disfarsi) e negativi (ovvero che non abbia i requisiti del sottoprodotto), non viene meno in ragione di un accordo di cessione dello stesso a terzi, senza che possa rilevare il valore economico ivi riconosciuto al medesimo, occorrendo fare riferimento alla condotta e alla volontà del cedente di disfarsi del bene e non all'utilità che potrebbe trarne il cessionario" (Cass., Sez, 3, n. 46586 del 03/10/2010 - dep. 18/11/2019, Ma.Me., Rv. 27728001). In definitiva, quindi, il materiale contenuto nel container oggetto del presente procedimento costituisce a pieno titolo un rifiuto. Pertanto, la spedizione delle predette casse contenenti rifiuti in violazione della dettagliata disciplina vigente in materia, ed in particolare in assenza della documentazione prevista dall'allegato VI del D.Lgs. 14 marzo 2014, n. 49, è da considerarsi "illegale" e tale da integrare la fattispecie di cui all'art. 259 D.Lgs. n. 152 del 2006. 11 gran numero e l'eterogeneità dei rifiuti spediti non consente di valutare il fatto in termini di particolare tenuità ai sensi dell'art. 131-bis c.p. 3. TRATTAMENTO S. Valutati i criteri stabiliti dall'art. 133 c.p., risulta pena congrua quella pari a mesi 6 di arresto ed Euro 10.000,00 di ammenda. Nel corso del giudizio, cui l'imputato ha scelto di rimanere estraneo, non sono emersi elementi a lui favorevoli che giustifichino il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Viceversa, lo stato di incensuratezza del prevenuto consente di formulare una prognosi positiva in ordine alla futura astensione da ulteriori reati, con conseguente concedibilità dei benefici di legge. I rifiuti oggetto del reato devono essere confiscati e smaltiti. Alla condanna consegue ai sensi dell'art. 535 c.p.p. il pagamento delle spese processuali. Data la natura della vicenda processuale e il carico del ruolo risulta termine congruo per la redazione della motivazione quello pari a giorni 60. P.Q.M. il Tribunale di Trieste, in composizione monocratica, visti gli artt. 533 e 535 c.p.p., DICHIARA Di.Mo. colpevole del reato a lui ascritto in rubrica e lo CONDANNA alla pena di Euro 10.000,00 di ammenda e mesi 6 di arresto, oltre al pagamento delle spese processuali. Visti gli artt. 533 co. 3 c.p.p., 163 e 175 c.p., CONCEDE all'imputato i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. Visti gli artt. 240 c.p.e 86 att. c.p.p., O. la confisca e lo smaltimento dei rifiuti oggetto di sequestro. Visto l'art. 544, co. 3, c.p.p., INDICA il termine di giorni 60 per il deposito della motivazione. Così deciso in Trieste l'1 dicembre 2023. Depositata in Cancelleria il 30 gennaio 2024.

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