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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI PESARO Il Giudice del Lavoro, dott.ssa Arianna Sbano, ha pronunciato la seguente SENTENZA ex art. 281 sexies c.p.c. nella causa iscritta al no 1019/04 Ruolo Contenzioso Lavoro avente ad oggetto: riconoscimento del diritto di precedenza ex L. 104/92 tra Gi. Se. residente in Fa., rappresentato e difeso dagli avvocati Lu. Ga. e Ro. Ca. ed elettivamente domiciliato presso lo studio in Pe., Via Gi. 6 ricorrente e Ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca - Centro Servizi Amministrativi di Pesaro Urbino - Ufficio Scolastico Regionale, in persona del direttore Generale dell'USR, rappresentati e difesi ex art. 417 bis c.p.c. dalla dott.ssa Ma. Lu. Fi. e dal dott. Al. Pi. Resistente Conclusioni: come da verbale di udienza ed in atti MOTIVAZIONE Il ricorso appare fondato e va, pertanto, accolto. Parte ricorrente lamenta il mancato riconoscimento del diritto di precedenza previsto al punto V dell'art. 7 del contratto collettivo nazionale integrativo concernente la mobilità del personale docente, educativo e A.T.A. per l'anno scolastico 2004/2005, dolendosi della nullità di tale disposizione, laddove tra i soggetti beneficiari, viene escluso il dipendente che abbia un fratello in condizioni di handicap grave. All'art. 7 tale C.C.N.L. prevede il sistema delle precedenze così riportate in ordine decrescente: I) personale portatore di handicap gravi e gravi motivi di salute, ossia personale non vedente emodializzato; II) personale trasferito di ufficio nell'ultimo quinquennio richiedente il rientro nella scuola o istituto di precedente titolarità; III) personale portatore di handicap e personale che ha bisogno di cure continuative; IV) personale trasferito di ufficio nell'ultimo quinquennio richiedente il rientro nel comune di precedente titolarità; V) assistenza al coniuge ed al figlio in situazione di handicap, ovvero assistenza del figlio unico al genitore in situazione di handicap. Orbene il ricorrente risulta essere unico fratello convivente di Ma. Se., portatore di handicap in situazione di gravità con carattere permanente, come documentato dalla Commissione ASL competente in materia di certificazioni ex L. 104192. La madre del ricorrente, dal canto suo, non sembra in grado di prestare assistenza al figlio handicappato a causa, a sua volta, delle precarie condizioni di salute e dell'età avanzata (82 anni). Pacifico, dunque, deve ritenersi che il ricorrente rientri nell'ambito di applicazione dell'art. 33 c. 5 L. n. 104/92 il quale prevede che "il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o affine entro il terzo grado handicappato, ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede". Infatti, la Suprema Corte ha di recente affermato che "l'accoglimento della richiesta di trasferimento presso la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio formulata ai sensi dell'art. 33 c. 5 L. n. 104/1992 dal genitore o dal familiare lavoratore che assista con continuità un parente o affine entro il terzo grado handicappato con lui convivente presuppone un assistenza continuativa in atto, non rilevando la circostanza che vi siano altri familiari in grado di assistere l'handicappato" (Cass. 481/2003). La stessa Corte, sempre in merito al citato art. 33, ha poi affermato con sentenza n. 12692/2002, che "tale disposizione fa parte di una normativa, quella della legge quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale ed i diritti delle persone handicappate, il cui complessivo disegno è fondato sull'esigenza di perseguire un evidenze interesse nazionale, stringente ed in frazionabile, quale è quello di garantire in tutto il territorio nazionale un livello uniforme di realizzazione di diritti costituzionalmente fondamentali dei soggetti portatori di handicaps". Dunque, in questo quadro, proseguendo nell'analisi della citata pronuncia, il diritto del lavorative di scegliere la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, che trova la sua "ratio" nell'esigenza, di evitare l'interruzione nell'assistenza all'handicappato, "non risulta, però, illimitato ed, invero come dimostrato dall'inciso "ove possibile" di cui al citato comma 5 dell'art. 33, il diritto all'effettiva tutela dell'handicappato al cui perseguimento devono partecipare anche lo Stato, gli enti locali e le Regioni nel quadro dei principi posti dalla legge (...) potrebbe non essere fatto valere, alla stregua del generale principio del bilanciamento degli interessi, allorquando l'esercizio del diritto stesso venga a ledere le esigenze economiche ed organizzative del datore di lavoro perché tutto ciò - segnatamente per quanto attiene ai rapporti di pubblico impiego - può tradursi in un danno per la collettività". Il diritto al trasferimento non si configura, pertanto, come un diritto soggettivo assoluto ma va contemperato con le esigenze di organizzazione del lavoro e, in caso di lavoro pubblico, anche, deve ritenersi, con le esigenze di buon andamento dell'amministrazione ex art. 97 Cost.. In questo contesto, è naturale, peraltro, che il diritto in questione possa farsi valere solo su posti che siano effettivamente vacanti. Per quanto concerne il comparto scuola, l'art. 601 del D.Lgv. 297/1994 espressamente prevede che gli artt. 21 e 33 della legge quadro n. 104/1992 si applichino anche al personale docente e non docente. È, infatti, proprio un'affermata applicazione di tale disposto normativo, che l'art. 7 punto V del C.C.N.L. citato prevede, in caso di mobilità, il diritto di precedenza per i familiari di portatore di handicap, limitando, tuttavia, la cerchia dei beneficiari ai soli soggetti che prestano assistenza al coniuge, al figlio o al genitore da parte del figlio unico. Tale limitazione non appare, tuttavia, in linea con il complesso normativo sopra citato e contraddice l'ampia tutela assicurata dalla legge ai familiari di soggetti inabili entro il terzo grado. Deve pertanto, ritenersi irragionevole l'esclusione dalla cerchia dei titolari del diritto di precedenza (si badi, comunque, non assoluta) di chi come, il ricorrente, presti assistenza al fratello, privo altrimenti di adeguato sostegno per mancanza di altri soggetti capaci di prendersi cura di lui. l'art. 33 c. 5, quale norma nazionale quadro di riferimento in materia di tutela dell'handicap non giustifica, infatti, alcuna esclusione o gerarchia, essendo irragionevole applicare, tale disposto solo parzialmente, scegliendo arbitrariamente i soggetti beneficiari, laddove si osservi che oggetto di tutela non è il lavoratore che chiede il trasferimento ma il soggetto portatore di handicap che ha diritto di essere facilitata nel ricevere assistenza, sia che questa provenga dal coniuge, genitore, figlia e fratello. In sostanza, nel bilanciamento dei diversi interessi, il sistema di preferenze stabilito dalle citate C.C.N.L. non appare osservare il disposte normativo di cui all'art. 33 ce. 5 L. 104/92 non apparendo la deroga al diritto ivi previsto giustificato da alcuna stringente esigenza organizzativa del datore di lavoro. Deve ritenersi, infatti, che l'autonomia contrattuale delle parti stipulanti il contratte collettivo non possa porsi in contrasto con norme imperative di legge, poste a tutela di valori costituzionalmente protetti. Di conseguenza, ai sensi dell'art. 1418 c.c. deve dichiararsi la nullità parziale del contratto collettivo nazionale integrativo sulla mobilità del personale docente, educativo e A.T.A. per l'a.s. 2004/2005 (identica a quella per l'anno in corso) per contrasto con norma imperativa di legge, laddove all'art. 7 punto V limita il diritto di precedenza al personale che presta assistenza al coniuge ed al figlio in situazione di handicap, ovvero in caso di assistenza del figlio unico al genitore in situazione di handicap, senza prevedere analogo diritto in favore di chi presta assistenza al germano in analoga situazione di handicap. Quanto all'applicazione della procedura prevista dall'art. 68 bis D.Lgv. 29/1993 invocata da parte convenuta, questo giudice non ritiene vi siano i presupposti per l'accertamento pregiudiziale da ritenersi, peraltro, discrezionalmente attivabile dal Giudice. Considerata la novità della questione sussistono giusti motivi per compensare le spese tra le parti. P.Q.M. Il Giudice del Lavoro, definitivamente decidendo nel procedimento n. 1019/04 R.C.L., in accoglimento del ricorso proposta da Gi. Se.: - dichiara la nullità parziale del contratto collettivo nazionale integrativa sulla mobilità del personale docente, educativo e A.T.A. per l' a.s. 2004/2005 per contrasto con norma imperativa di legge, laddove all'art. 7 punto V limita il diritto di precedenza al personale che presta assistenza al coniuge ed al figlio (...) di handicap, ovvero in caso di assistenza del figlio unico al genitore in situazione di handicap, senza prevedere analogo diritto in favore di chi presta assistenza al germano in analoga situazione di handicap; - dichiara che il ricorrente ha diritto di usufruire della precedenza di cui al citato punto V. - compensa le spese tra le parti.

  • SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con distinti ricorsi depositati il 3 agosto 2001, C. G., c.c., C. A., hanno convenuto in giudizio l'A. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, deducendo che: - erano stati assunti alle dipendenze della predetta società per lo svolgimento di mansioni di conducenti di linea, con contratto a termine che prevedeva un rapporto di lavoro della durata di 90 giorni (precisamente, il G. e il C. con decorrenza dal 5 luglio 1999 al 2 ottobre 1999, l'A. con decorrenza dal 12 luglio 1999 al 9 ottobre 1999). - i rapporti in parola erano stati instaurati (con contratti di lavoro stipulati il 3 luglio 1999 per il G. e per il C. e il 12 luglio 1999 per l'A.) con espresso richiamo all'art. 7 par. a) dell'Accordo Nazionale dell'11 aprile 1995, il quale consentiva (Punto 1) l'effettuazione di assunzioni a tempo determinato nell'ipotesi di concomitanti assenze per ferie dei dipendenti in forza; - successivamente alla scadenza dei contratti in questione, e dopo che i rapporti erano stati prorogati per altri 90 giorni (per il G. e C. dal 3 ottobre 1999 al 31 dicembre 1999; per l'A. dal 10 ottobre 1999 al 7 gennaio 2000), essi erano stati assunti con un nuovo contratto a termine, che prevedeva un nuovo rapporto della durata di cinque mesi con decorrenza dal 10 febbraio 2000 al 9 luglio 2000. - anche questo secondo contratto richiamava l'art. 7, par. a) Punto 1, del citato Accordo Nazionale, giustificando, in particolare, l'assunzione a termine in relazione alla norma collettiva che consentiva tale assunzione nell'ipotesi di concomitanti assenze per ferie, malattia, maternità, aspettativa dei dipendenti in forza; - successivamente, e dopo che anche il secondo contratto era stato prorogato (per una durata uguale a quella di assunzione), essi avevano instaurato un nuovo rapporto con l'Agenzia di lavoro interinale A., per il tramite della quale avevano continuato a svolgere le mansioni di autista presso la società convenuta (il rapporto con l'A. era iniziato il 13 dicembre 2000). Con ricorsi depositati in pari data anche R. G. e L. P. hanno convenuto in giudizio l'A. s.p.a. deducendo che: - anche essi erano stati assunti dalla predetta società per lo svolgimento di mansioni di conducente di linea con un primo contratto a termine, con cui era stato instaurato un rapporto di lavoro della durata di 2 mesi, con decorrenza dal 12 aprile 2000 all'11 giugno 2000; - anche i rapporti in parola erano stati instaurati con espresso richiamo all'art. 7, par. a) dell'Accordo Nazionale dell'11 aprile 1995, nella parte (Punto 2) in cui consentiva assunzioni a tempo determinato "per punte di più intensa attività derivanti dall'effettuazione di servizi che non sia possibile eseguire in base al normale organico ed ai normali programmi di servizio"; - dopo la scadenza dei predetti contratti, essi erano stati nuovamente assunti a tempo determinato ed avevano instaurato un nuovo rapporto della durata di 2 mesi, con decorrenza dal 15 luglio 2000 al 14 settembre 2000; - tale secondo contratto richiamava sia il Punto 1 che il Punto 2 dell'art. 7, pag. a), del citato Accordo Nazionale giustificando, in particolare, l'assunzione a termine sia in relazione alla possibilità della stessa nell'ipotesi di concomitanti assenze per ferie, malattia, maternità, aspettativa dei dipendenti in forza, sia in relazione alle c. d. "punte di più intensa attività"; - successivamente, e dopo che questo secondo rapporto era stato prorogato per due mesi sino al 14 novembre 2000, essi avevano instaurato un nuovo rapporto con l'Agenzia di lavoro interinale A., per il tramite della quale avevano continuato a svolgere le mansioni di autista presso la società convenuta (il rapporto con l'A. era iniziato il 27 novembre 2000 per la G. e il successivo 11 dicembre 2000 per il P.). Con ricorso depositato in pari data, infine, anche V. S. ha convenuto in giudizio l'A. s.p.a. deducendo che: - anche egli era stato assunto dalla predetta società per lo svolgimento di mansioni di conducente di linea con un contratto a termine della durata di 2 mesi, con decorrenza dal 15 luglio 2000 al 14 settembre 2000; - tale contratto richiamava sia il Punto 1 che il Punto 2 dell'art. 7, par. a), dell'Accordo Nazionale dell'11 aprile 1995, giustificando, in particolare, l'assunzione a termine sia in relazione alla possibilità della stessa nell'ipotesi di concomitanti assenze per ferie, malattia, maternità, aspettativa dei dipendenti in forza, sia in relazione alle c. d. "punte di più intensa attività"; - successivamente, e dopo che questo rapporto era stato prorogato per due mesi sino al 14 novembre 2000, egli aveva instaurato un nuovo rapporto con l'Agenzia di lavoro interinale A., per il tramite della quale aveva continuato a svolgere le mansioni di autista presso la società convenuta (il rapporto con l'A. era iniziato il 13 dicembre 2000). Sulla base di queste deduzioni -ed assumendo in diritto l'illegittimità dei termini apposti ai loro contratti di lavoro sotto diversi profili- tutti i ricorrenti hanno domandato che, accertata la nullità parziale del primo e/o del secondo contratto da loro stipulato (dell'unico contratto per quanto concerne il S.), fosse dichiarata (a far data dalla prima o, in subordine, dalla seconda assunzione) la sussistenza inter partes di un unico contratto di lavoro a tempo indeterminato (o, in alternativa che fosse convertito il primo o il secondo contratto a termine in contratto a tempo indeterminato), e che la convenuta fosse condannata a reintegrarli nelle mansioni loro già affidate di conducenti di linea con inquadramento nel 6° livello C.C.N.L. Autoferrotramvieri. In via subordinata, i ricorrenti, hanno inoltre chiesto la declaratoria di nullità (e la conseguente disapplicazione) dell'art. 7 C.C.N.L. dell'11 aprile 1995 per contrasto con la norma imperativa di cui all'art. 1 L. n. 230/1962. Si è costituita in giudizio l'A. s.p.a., la quale, dopo aver sostenuto la validità dei termini apposti ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con i ricorrenti (resistendo a tutti i motivi di impugnativa da questi dedotti), ha invocato il rigetto delle domande. La convenuta ha altresì osservato, in subordine, che le predette domande avrebbero dovuto essere rigettate anche in relazione al fatto che i ricorrenti non avevano provato la preventiva impugnativa, ai sensi dell'art. 6, L. n. 604/1966, delle comunicazioni di avvenuta cessazione del rapporto di lavoro (assimilabili, alla stregua della prospettiva assunta dai ricorrenti, a dei veri e propri atti di licenziamento), nonché in relazione all'ulteriore circostanza che, successivamente alla scadenza del rapporto in questione, gli attori avevano tutti stipulato un diverso contratto di lavoro con la A. (ed alcuni di essi avevano anche percepito il TFR per il precedente rapporto), manifestando, in tal modo, l'inequivoca volontà incompatibile con l'azione giudiziaria successivamente intrapresa, di porre definitivamente fine al rapporto medesimo. Con riguardo alle pretese avanzate da R. G., L. P. e V. S., infine, la convenuta ha altresì domandato in via riconvenzionale subordinata (e cioè in riferimento alla sola ipotesi che ne fossero state accolte le domande formulate nei ricorsi introduttivi) che costoro fossero condannati alla restituzione, in suo favore, delle somme da essi incassate a titolo di TFR, in seguito alla cessazione dei contratti a temine impugnati. Riuniti i procedimenti ai sensi dell'art. 151 disp. att. c.p.c., ed istruita attraverso l'acquisizione della documentazione in atti e attraverso l'escussione di testimoni, la causa è stata discussa e decisa nei termini di cui al dispositivo, del quale si è data lettura in udienza. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Occorre anzitutto esaminare le eccezioni proposte dalla società convenuta pin relazione alla mancata prova dell'impugnativa degli atti di cessazione del rapporto e alla presunta risoluzione del rapporto per comportamento concludente incompatibile con la sua prosecuzione, le quali, sebbene sollevate soltanto in via subordinata, condizionano la stessa possibilità di esaminare nel merito i motivi di nullità parziale dei contratti dedotti dai ricorrenti. Queste eccezioni sono infondate. Quanto alla prima, è sufficiente ricordare l'orientamento giurisprudenziale, assolutamente pacifico, secondo cui nel caso di nullità del termine apposto al contratto di lavoro non sussiste per il lavoratore cessato dal servizio l'onere di impugnazione nel termine di 60 giorni fissato a pena di decadenza dall'art. 6 L. n. 604/1966 (che presuppone un licenziamento), atteso che il rapporto cessa per l'apparente operatività del termine stesso in regione dell'esecuzione che le parti danno alla clausola nulla. Si applica pertanto la disciplina della nullità, sicché in qualsiasi tempo il lavoratore può far valere l'illegittimità del termine e chiedere conseguentemente l'accertamento della perdurante sussistenza del rapporto e la condanna del datore a riattivarlo riammettendolo al lavoro (cfr. tra le più recenti Cass. 13 marzo 1998, n. 2755 e Cass. 15 dicembre 1997, n. 12665). Quanto alla seconda eccezione, va osservato che nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento di un contratto a tempo indeterminato (sul presupposto dell'illegittima apposizione del termine scaduto), per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso ricavabile da comportamento concludente, è necessario accertare -sulla base del lasso di tempo lasciato trascorrere dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del disinteresse complessivamente manifestato dalle parti alla prosecuzione del rapporto e di eventuali altre significative circostanze- che sia presente una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di volere, d'accordo tra loro, porre definitivamente fine al rapporto lavorativo (cfr. da ultimo, Cass. 11 dicembre 2001, n. 15628; v. anche Cass. 16 giugno 2001, n. 8106; Cass. 2 dicembre 2000, n. 15403; Cass. 29 marzo 1999, n. 3753). Nel caso di specie la volontà dei lavoratori di porre fine al rapporto non può desumersi, contrariamente a quanto osservato dalla convenuta, né dal lasso di tempo intercorso tra la conclusione di fatto dei rapporti e la successiva azione per il riconoscimento della nullità dell'apposizione dei termini (il tentativo preventivo di conciliazione è stato espletato il 27 giugno 2001 sulla base di una richiesta del 12 marzo precedente, successiva solo di qualche mese alla scadenza dei termini ritenuti illegittimi), né dalla circostanza che i ricorrenti abbiano successivamente stipulato un contratto con un diverso datore di lavoro (il contratto con Agenzia di lavoro interinale, anzi lungi dal tradire il loro disinteresse alla prosecuzione del rapporto di lavoro con l'A. s.p.a., depone piuttosto in senso contrario, poiché manifesta la volontà dei lavoratori di continuare a svolgere le mansioni già affidategli dal precedente datore di lavoro), né, infine, dal fatto che taluni di essi abbiano percepito il TFR per la cessazione del precedente rapporto (in quanto l'intervenuta accettazione del trattamento di fine rapporto, anche se accompagnata dalla mancata offerta della prestazione, non assume alcun rilievo, in mancanza delle altre condizioni sopra descritte, in ordine all'eventuale risoluzione del rapporto per mutuo consenso: (cfr. sul punto, Cass. 11 dicembre 2001, n. 15628 cit.). 2. Tanto premesso, è allora necessario esaminare il merito dei diversi motivi di nullità delle clausole di apposizione dei termini sollevati dai ricorrenti in ordine ai diversi contratti, onde pronunciare sulla fondatezza o meno delle domande proposte con i ricorsi introduttivi. La prima censura da esaminare è stata sollevata dai ricorrenti C. G., G. C., e C. A., e concerne il primo contratto a termine da loro stipulato. Secondo i ricorrenti, l'apposizione del termine a tale contratto (stipulato il 3 luglio 1999 dal G. e dal C. e il 12 luglio 1999 dall'A., dovrebbe ritenersi illegittima, in quanto, premesso che essi erano stati assunti per sostituire un collega in ferie (tale motivo risultava espressamente dal contenuto del contratto, ove si faceva riferimento all'art. 7, par. a) Punto 1, Accordo Nazionale dell'11 aprile 1995, che consente le assunzioni a tempo determinato nel caso di concomitanti assenze per ferie dei dipendenti in forza), il contratto avrebbe dovuto altresì indicare il nome del lavoratore sostituito. Una seconda censura è stata poi sollevata dagli stessi ricorrenti in ordine al secondo contratto a tempo determinato, da loro stipulato in data 10 febbraio 2000, in relazione al quale la clausola di apposizione del termine dovrebbe ritenersi doppiamente illegittima. Premesso infatti che il contratto in parola giustificava l'assunzione a tempo determinato sulla base di un generico riferimento alla norma collettiva che consente tali assunzioni nel caso di concomitanti assenze per ferie, malattia, maternità ed aspettativa dei lavoratori in forza (art. 7, par. a) Punto 1, Accordo del 11 aprile 1995), in esso non soltanto, come nel precedente, era stato omesso di indicare il nome del lavoratore sostituito, ma non era stata neppure indicata la ragione specifica della sostituzione. Analoghe censure sono state sollevate da R. G., L. P. e V. S. in ordine ai contratti a tempo determinato da loro stipulati. In particolare, i primi due hanno dedotto l'illegittimità del termine apposto al secondo contratto (stipulato il 15 luglio 2000), mentre il terzo ha dedotto l'illegittimità del termine apposto all'unico contratto da lui concluso (stipulato anche questo il 15 luglio 2000). Poiché, infatti, in tali contratti la loro assunzione a termine veniva giustificata non solo, come era avvenuto per il primo contratto concluso il 12 aprile precedente da R. G. e L. P., in relazione alla possibilità di ricorrere alla stessa "per punte di più intensa attività derivanti dall'effettuazione di servizi che non sia possibile eseguire in base al normale organico ed ai normali programmi di servizio" (art. 7, par. a), Punto 2, Accordo cit.), ma anche, e principalmente, in relazione alla possibilità di ricorrervi nell'ipotesi di sostituzione di dipendenti assenti per ferie, malattia, maternità, aspettativa (art. 7, par. a), Punto 1, Accordo cit.), neppure in questo caso era stato adempiuto l'inderogabile obbligo formale di indicare con precisione il nome del lavoratore sostituito e la specifica causa di sostituzione. Le predette censure devono essere esaminate unitariamente, in quanto esse sono fondate, in diritto, sui medesimi presupposti, e cioè sulla considerazione che i contratti a tempo determinato di cui si è detto erano stati stipulati per la sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto di lavoro, e sul presupposto della asserita necessità di indicare espressamente, nel contratto medesimo, il nome del lavoratore sostituito e la causa specifica della sostituzione. Tale indicazione, ad avviso dei ricorrenti, sarebbe prescritta dalla disposizione contenuta nell'art. 1, lett. b) L. n. 230/1962 la quale stabilisce che è consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto allorché l'assunzione abbia luogo per sostituire lavoratori assensi con diritto alla conservazione del posto di lavoro, ma sempre che nel contratto di lavoro a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione. Nessun rilievo in senso contrario, sempre a parere dei ricorrenti, potrebbe invece attribuirsi alla diversa disposizione contenuta nell'art. 23 L. n. 56/1987, la quale consente alla autonomia collettiva l'individuazione di altre ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro. Tale ultima disposizione legittimerebbe infatti i contratti collettivi soltanto alla individuazione di ipotesi aggiuntive di legittima apposizione del termine rispetto a quelle previste nell'art. 1, lett. b), L. n. 230/1952, ma alla norma collettiva non sarebbe consentito di derogare ai requisiti formali richiesti dalla stessa legge. Di conseguenza, tenuto conto che l'art. 7, par. a) dell'Accordo Nazionale dell'11 aprile 1995 recepisce la delega contenuta nell'articolo 23 L. n. 56/1987, individuando, tra le ipotesi aggiuntive di legittima apposizione del termine anche quella delle assunzioni effettuate per sostituire lavoratori in ferie, malattia, maternità, aspettativa (Punto 1), dovrebbe concludersi che è bensì consentito in tali ipotesi la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato (in aggiunta a quelle delle assunzioni effettuate per sostituire lavoratori in malattia, infortunio, gravidanza o puerperio, servizio militare, tradizionalmente fatte rientrare nell'art. 1, lett. b) l. n. 230/1962), ma che è pur sempre necessaria, anche in tali fattispecie, l'indicazione, in contratto, del nome del lavoratore sostituito e della causa della sostituzione (e ciò a prescindere dall'interpretazione della norma collettiva in questione, la quale, nell'ipotesi in cui le si riconoscesse una portata derogatoria degli obblighi formali prescritti dalla l. n. 230/1962 dovrebbe essa stessa essere ritenuta nulla per contrarietà ad una norma imperativa di legge). Le censure in questione sono infondate. Poiché la fattispecie in esame si colloca temporalmente in un periodo anteriore all'entrata in vigore del D. Lgs. 6 settembre 2001 (che ha profondamente innovato la disciplina del contratto di lavoro a termine, abrogando le precedenti disposizioni di legge in materia, art. 11, comma 1), non vi è dubbio che alla stessa sono ancora applicabili la L. 18 aprile 1962 n. 230 e l' art. 23, L. 28 febbraio 1987, n. 56. La L. 18 aprile 1962, n. 230, pur partendo dalla generale premessa che il contratto di lavoro debba reputarsi a tempo indeterminato (art. 1, 1° comma), enuclea cinque ipotesi particolari in cui è eccezionalmente consentita l'apposizione del termine (art. 1, 2° comma). L' art. 23, comma 1, l. 28 febbraio 1987, n. 56, stabilisce che l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro, oltre che nelle eccezionali ipotesi previste dall'art. 1 della legge n. 230/1962, è consentita nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. La norma in parola pertanto delega l'autonomia collettiva ad individuare altre ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro in aggiunta a quelle già contemplate dall'art. 1, 2° comma, l. n. 230/1962. Nel settore dei trasporti la delega contenuta nell'art. 23 cit., è stata attuata con la stipulazione dell'Accordo Nazionale 11 aprile 1995 (debitamente prodotto dalle parti), cui hanno aderito i sindacati maggiormente rappresentativi sul piano nazionale. L'art. 7, par. a), di tale accordo prevede infatti che la stipulazione dei contratti di lavoro a tempo determinato è consentita, oltre che nei casi tradizionali già individuati dalla legislazione in materia (ed in particolare dalla l. n. 230/1962), nel caso di concomitanti assenze per ferie, malattia, maternità, aspettativa (Punto 1), nonché nel caso di esecuzione di lavori predeterminati nel tempo, a carattere temporaneo, che non sia possibile eseguire in base ai normali programmi di lavoro (Punto 2). Con riguardo al primo ordine di ipotesi, il C.C.N.L. in parola non prescrive tuttavia l'obbligo di indicare specificamente nel contratto il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione, né tale prescrizione è contenuta nella norma di legge delegante. Occorre allora chiedersi se l' art. 1, lett. b) l. n. 230/1962 possa essere applicato in via analogica, nella parte in cui prescrive tale obbligo, alle ipotesi di sostituzione diverse da quelle già in esso ricomprese, ed individuate dalla disciplina collettiva a ciò delegata dall'art. 23, comma 1, l. n. 56/1987. La possibilità di ricorrere al procedimento analogico deve peraltro ritenersi preclusa, sia in ragione della natura della norma che ne forma oggetto, sia in ragione della diversità tra la fattispecie da essa disciplinata e le fattispecie alle quali dovrebbe essere analogicamente estesa. Sotto il primo profilo, va rilevato che l'obbligo di indicare il lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione non costituisce espressione di un principio generale prescritto in materia di contratto a termine, ma costituisce un obbligo specifico, previsto esclusivamente con riguardo ad una delle cinque diverse ipotesi in cui è consentita la conclusione di contratti di lavoro a tempo determinato. L'esigenza di fornire la predetta indicazione, in altre parole, deve essere soddisfatta esclusivamente nelle ipotesi ricomprese nell'art. 1, lett. b) l. n. 230/1962 (malattia, infortunio, gravidanza o puerperio, servizio militare), mentre nessuna indicazione in tal senso è richiesta nelle residue ipotesi di legittima assunzione a termine, quand'anche essa si traduca nella sostituzione di un altro lavoratore. Può dunque affermarsi che si tratta di una norma particolare, come pare insuscettibile di applicazione analogica. Sotto il secondo profilo, anche a voler concedere che la norma in parola sia suscettibile di applicazione analogica, va osservato che non sussiste alcuna analogia tra le fattispecie per le quali essa è dettata e le fattispecie alle quali la sua operatività dovrebbe essere analogicamente estesa secondo i ricorrenti. Tutte le ipotesi ricomprese nell'art. 1, lett. b) l. n. 230/1960 costituiscono, infatti, per consolidato orientamento giurisprudenziale, ipotesi eccezionali, che si riconducono a vicende anormali del rapporto di lavoro. Solo per fronteggiare tali vicende si giustifica il ricorso ad uno strumento, quale il contratto a termine, al quale le parti non potrebbero altrimenti ricorrere. Questa considerazione è alla base del consolidato orientamento giurisprudenziale che esclude dalle ipotesi in esame quella della sostituzione di un lavoratore assente per ferie, atteso che in questo caso si tratta di un'assenza dovuta ad una vicenda non eccezionale, ma normale nel rapporto di lavoro, a cui il datore di lavoro può far fronte con altri strumenti, quali il lavoro straordinario o l'attuazione di turni di lavoro (cfr. sul punto, ad es., Cass. 21 dicembre 1990, n. 12118). Deve concludersi che sussista analogia tra le fattispecie riconducibili all'art. 1, lett. b) l. n. 230/1962 e le fattispecie individuate dal C.C.N.L. dell'11 aprile 1995. Questa analogia, in particolare, non sussiste, né con riguardo alle fattispecie individuate dal Punto 2 del par. a) dell'art. 7 del C.C.N.L. in esame (nelle quali manca addirittura il presupposto della sostituzione), né con riguardo alle fattispecie individuate nel precedente Punto 1 (le quali, pur prevedendo casi di sostituzione, fanno riferimento a vicende normali del rapporto di lavoro, includendo in esse anche l'ipotesi delle ferie, ontologicamente diversa, per quanto si è detto, dalle vicende contemplate nella legge del 1962). Si aggiunga, ancora, che il ricorso al procedimento analogico non sarebbe possibile neppure sul piano dell'interpretazione logico-sistematica. Il fondamento della norma che richiede l'indicazione del lavoratore sostituito e della causa della sua sostituzione risiede infatti nell'esigenza di evitare abusi dello strumento del contratto a termine, garantendo il controllo sulla sussistenza del collegamento causale tra l'assenza del lavoratore in forza e l'assunzione del nuovo lavoratore a termine. Tale controllo non può però essere richiesto nelle ipotesi in cui si verifichino delle assenze in massa di una larga parte dei dipendenti in forza, e tali assenze debbano essere fronteggiate immediatamente, in ragione delle specifiche esigenze del settore produttivo in cui opera l'impresa. In queste ipotesi, infatti, da un lato, sarebbe contrario a buona fede pretendere che per ognuno dei diversi contratti a termine stipulati fosse indicato il nome del sostituto e la causa specifica della sostituzione, e dall'altro il ricorso allo strumento del contratto a tempo determinato deve necessariamente essere attuato con maggiore snellezza. Sotto tale ultimo profilo deve dunque ritenersi che il C.C.N.L. del 1995, individuando ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro, abbia inteso (legittimamente, in attuazione di una delega conferita dalla legge) soddisfare le esigenze specifiche di un settore, come quello degli autoservizi in concessione, nel quale le eventuali assenze per qualsiasi causa, di una rilevante entità dei lavoratori in forza, o la sopravvenienza di punte eccezionali di attività non fronteggiabili con i normali programmi di lavoro, potrebbero cagionare rilevanti disagi alla collettività. La soluzione, volta ad escludere che nelle ipotesi aggiuntive di contratto a termine individuate dall'autonomia collettiva debbano essere adempiuti gli obblighi formali imposti dall'art. 1, lett. b) l. n. 230/1962 per le tradizionali ipotesi di sostituzione di un lavoratore con diritto alla conservazione del posto, trova riscontro, infine, nella giurisprudenza di legittimità. La Suprema Corte di Cassazione, infatti, ha ripetutamente affermato che, ai sensi dell'art. 23, l. n. 56/1987, la contrattazione collettiva è libera di individuare nuove ipotesi di legittima apposizione del termine al rapporto di lavoro, le quali possono essere diverse e più ampie rispetto a quelle già previste dalla legge (Cass. 3 agosto 1998, n. 7615 e Cass. 29 marzo 2000, n. 3843; da ultimo, Cass. 23 marzo 2002, n. 4199). In tali ipotesi, attesa la loro novità e la maggiore ampiezza, deve pertanto ritenersi che non trovino applicazione gli obblighi formali previsti dalla l. n. 230/1962 per le tradizionali fattispecie di sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro, sebbene anche tali ipotesi si inseriscano nel sistema dettato dalla predetta legge e rimangano soggette alle disposizioni generali da essa stabilite per ogni tipo di contratto a termine, quali la necessitò della forma scritta (art. 1, 3° comma, l. cit.), la possibilità di proroga per un tempo non superiore a quello iniziale e per non più di una volta (art. 2, 1° comma, l. cit.), la posizione in capo al datore di lavoro dell'onere della prova relativa all'obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano sia l'apposizione del termine sia l'eventuale proroga (art. 2, l. cit.; cfr., sul punto, Cass. 29 marzo 2000, n. 3843 cit.) e il trattamento sanzionatorio per l'ipotesi in cui l'apposizione del termine risulti illegittima (cfr., ancora sul punto, Cass. 29 marzo 2000, n. 3843 cit.). Applicando tali osservazioni di carattere generale al caso di specie, deve concludersi che sono infondate le censure mosse dai ricorrenti. Da un lato, infatti, tenuto conto che i contratti a termine sono stati stipulati facendo espresso riferimento alle ipotesi contemplate nell'art. 7, par. a), Punto 1, C.C.N.L. 11 aprile 1995, e cioè, di volta in volta, in ragione delle concomitanti assenza per ferie, malattia, maternità, aspettativa dei dipendenti in forza, deve ritenersi che nei contratti stessi non era necessario indicare il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione (né può ritenersi nulla, per contrarietà alla norma imperativa di cui all'art. 1, lett. b), l. n. 230/1962 la disposizione collettiva che omette di prescriver tali indicazioni). Dall'altro lato, non è controverso (ed è anzi provato documentalmente) che i contratti medesimi sono stati conclusi con forma scritta, e che solo taluni di essi sono stati oggetto di proroga, peraltro per non più di una volta, e per un tempo non superiore a quello iniziale. Quanto alla prova dell'effettiva sussistenza delle condizioni che giustificavano sia l'apposizione del termine sia l'eventuale proroga, essa è stata adeguatamente fornita dalla società convenuta all'esito non soltanto della produzione della copiosa documentazione versata in atti, ma anche dall'escussione dei testimoni, i quali hanno riferito che l'A. s.p.a. era nata in seguito alla fusione tra l'A. M. di Urbino e quella di Pesaro, e che, in seguito a questa fusione si era posto il problema dello smaltimento delle ferie arretrate dei dipendenti. Tale problema -hanno precisato i testi- aveva reso necessario il ricorso, previo accordo con i sindacati, alla stipula di diversi contratti di lavoro a termine (ai sensi del C.C.N.L. del 1995), i quali avevano consentito di provvedere alla sostituzione di una rilevante parte di dipendenti in forza, assenti per il godimento delle ferie (cfr. sia la dichiarazione del teste A. B., dipendente della società convenuta sino al novembre 2001, in qualità di Dirigente degli Affari, sia quelle della teste G. P., Responsabile della Segreteria Affari Generali e Personale). 3. Passando ora all'analisi delle ulteriori censure mosse dai ricorrenti, va anzitutto esaminata quella sollevata da R. G. e L. P. (i quali, con un autonomo motivo di impugnativa, deducono l'illegittimità del termine apposto al primo contratto da loro stipulato con decorrenza dal 12 aprile 2000 all'11 giugno 2000), nonché da V. S. (il quale deduce, con il medesimo motivo, l'illegittimità del termine apposto all'unico contratto a termine da lui stipulato sotto un diverso profilo). Premesso, infatti, che tali rapporti erano stati instaurati con espresso richiamo all'art. 7, par. a), dell'Accordo Nazionale dell'11 aprile 1995, nella parte (Punto 2) in cui consente assunzioni a tempo determinato "per punte di più intensa attività derivanti dall'effettuazione di servizi che non sia possibile eseguire in base al normale organico ed ai normali programmi di servizio", i ricorrenti sostengono che sarebbe stato necessario, ai fini della legittimità del termine, indicare specificamente quale fosse la c. d. punta di più intensa attività. Anche questa censura si appalesa infondata, in quanto, alla luce delle osservazioni che precedono, deve ritenersi che non vi fosse alcun obbligo per il datore di lavoro di fornire la predetta indicazione, fermo restando, in capo alla società, l'onere di dimostrare, in giudizio, l'effettiva sussistenza delle ragioni poste alla base dell'apposizione del termine e dell'eventuale proroga. Anche sotto tale aspetto, l'onere probatorio è stato peraltro debitamente assolto in quanto i testi escussi hanno riferito che alcuni autobus della società convenuta erano utilizzati non già per viaggi di linea, ma per gite turistiche, e veniva noleggiati, dotati di conducente, a gruppi turistici privati sulla base di accordi di volta in volta conclusi. Per lo svolgimento di queste gite -hanno aggiunto i testi- era possibile utilizzare, alla stregua di un accordo sindacale, solo i lavoratori che avessero già maturato un'esperienza di almeno due anni. Di conseguenza, gli autisti da assegnare ai servizi turistici dovevano essere individuati necessariamente tra i dipendenti già in forza con contratto a tempo indeterminato, i quali dovevano essere sostituiti, per il servizio di linea, con lavoratori a termine assunti ai sensi del C.C.N.L. del 1995 (cfr. nuovamente sia le dichiarazioni del teste B., sia quella della teste P.). 4. Del pari infondate, infine, sono le ultime censure mosse dai ricorrenti, con le quali viene dedotta l'illegittimità sostanziale dei termini apposti ai contratti da loro stipulati sul presupposto, da una lato, della mancanza di una causa giustificativa dell'apposizione medesima, e dall'altro lato, del comportamento fraudolento della società convenuta, desumibile dalla circostanza che essa, successivamente alla scadenza dei contratti, aveva preferito rivolgersi alla intermediazione di una agenzia di lavoro interinale, onde evitare di instaurare direttamente ulteriori rapporti. La prima censura va respinta in base alle risultanze istruttorie sopra esaminate le quali hanno evidenziato la sussistenza in concreto delle cause che avevano giustificato l'assunzione a termine, così come richiamate nei singoli contratti, ed in sintonia con le previsioni del C.C.N.L. del 1995. La seconda censura è invece manifestamente infondata in quanto la stipulazione di un contratto di agenzia di lavoro interinale, autorizzata alla fornitura di lavoro temporaneo, non costituisce circostanza sufficiente per affermare il comportamento fraudolento di un soggetto rimasto estraneo al contratto medesimo, in mancanza della prova (che avrebbe dovuto essere fornita dai ricorrenti) che esso contratto si inserisca in una combinazione negoziale volta a conseguire un risultato vietato dall'ordinamento (arg. ex art. 1344 c.c.). Deve pertanto concludersi nel senso della piena legittimità dei termini apposti ai diversi contratti stipulati dai ricorrenti con conseguente necessità di rigettare le domande formulate nei ricorsi introduttivi. 5. Non vi è luogo a provvedere sulla domanda riconvenzionale proposta dalla convenuta nei confronti di R.G., L. P. e V. S. in quanto la stessa è stata formulata solo in via subordinata, e cioè in riferimento all'ipotesi di accoglimento delle domande principali. 6. Attesa la natura della controversia sussistono giusti motivi perché le spese del giudizio siano integralmente compensate tra le parti. P.Q.M. Il Giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, così provvede: 1. Rigetta le domande formulate da C. G., C. A., R. G., G. C., L. P. e V. S. nei confronti della A. s.p.a.; 2) compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio.

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